Il debito pubblico - Zanichelli online per la scuola

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CAPITOLO 15
Il debito pubblico
Domande di ripasso
1. La dimensione del debito pubblico dei paesi sviluppati, in rapporto alla dimensione totale
dell’economia, è molto variabile: a un estremo si hanno paesi con un rapporto debito/PIL
molto contenuto, come il Lussemburgo (6%) e l’Irlanda (28%); all’estremo opposto si trovano paesi come Italia (106%), Grecia (108%) e Giappone (158%), che hanno un rapporto debito/PIL molto elevato. Il rapporto debito/PIL dei paesi dell’Europa occidentale è
mediamente del 50%.
2. Le misurazioni del disavanzo di bilancio pubblico sono indicatori imperfetti della politica
fiscale, per almeno quattro ragioni. La prima è che non sono corrette per gli effetti
dell’inflazione: il deficit misurato dovrebbe essere uguale alla variazione del debito pubblico reale, non alla variazione del debito nominale. La seconda è che tali misurazioni non
tengono conto delle variazioni delle poste patrimoniali attive: per misurare il livello effettivo
di indebitamento dello Stato, si dovrebbe sottrarre al debito pubblico il valore delle poste
attive, mentre il deficit andrebbe calcolato come la differenza tra la variazione del debito e
la variazione dell’attivo. La terza è che tali misurazioni omettono completamente alcune
passività, come gli impegni corrispondenti alla corresponsione delle pensioni future. La
quarta è che non sono corrette per gli effetti del ciclo economico.
3. Il risparmio pubblico è pari alla differenza tra le entrate e le uscite dello Stato: un taglio
delle imposte finanziato con l’indebitamento riduce il risparmio pubblico dello stesso ammontare del taglio delle imposte. Il taglio delle imposte fa anche aumentare il reddito disponibile: secondo l’interpretazione tradizionale, dato che la propensione marginale al consumo ha un valore compreso tra 0 e 1, il consumo e il risparmio privato aumentano, anche
se in misura inferiore al taglio delle imposte. Il risparmio nazionale è pari alla somma del risparmio pubblico e del risparmio privato; dato che il risparmio pubblico diminuisce più di
quanto aumenti il risparmio privato, il risparmio nazionale diminuisce.
4. Secondo l’interpretazione ricardiana del debito pubblico, un taglio delle imposte finanziato
con indebitamento non stimola il consumo, perché non ha alcun effetto sul reddito permanente: i consumatori previdenti capiscono che l’attuale aumento del debito pubblico
comporterà un aumento delle imposte in futuro. Dato che il taglio delle imposte non fa
aumentare il consumo, i nuclei familiari risparmiano integralmente il maggior reddito disponibile derivante dal taglio delle imposte. L’aumento del risparmio privato compensa esattamente la diminuzione del risparmio pubblico, quindi il taglio delle imposte non ha effetti sul risparmio nazionale.
5. La vostra opinione sul debito pubblico dipende dall’interpretazione che date del comportamento del consumatore. Se siete fautori dell’interpretazione tradizionale, allora ritenete
che un taglio delle imposte finanziato con il debito stimoli la spesa per consumi e abbatta il
risparmio nazionale. Potreste esserne convinti per diverse ragioni: in primo luogo, i consumatori potrebbero essere miopi e irrazionali, per cui pensano che il loro reddito permanente sia
aumentato, quando invece non lo è. In secondo luogo, i consumatori potrebbero essere soggetti a un vincolo di indebitamento, per cui sono in grado di consumare solo il proprio reddito corrente. In terzo luogo, i consumatori potrebbero pensare che l’onere fiscale implicito ricada sulle generazioni future; inoltre, potrebbero non avere a cuore il benessere economico
dei propri figli al punto da lasciar loro un’eredità sufficiente a coprire tale onere.
Se invece preferite l’interpretazione ricardiana, ritenete che le obiezioni sopra esposte
non siano rilevanti. In particolare, ritenete che i consumatori sappiano prevedere che
l’indebitamento pubblico di oggi implica maggiori imposte domani, che graveranno su loro
stessi o sui loro figli. Per questa ragione, i consumatori ritengono che l’aumento di reddito
disponibile sia transitorio e decidono di risparmiare interamente il maggior reddito di cui
dispongono, per compensare il futuro onere fiscale.
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6. Un deficit pubblico può rappresentare una buona scelta di politica economica perché
permette di stabilizzare il prodotto aggregato e l’occupazione in un sistema economico; perché permette una più omogenea distribuzione del carico fiscale nel tempo; e perché permette di distribuire più equamente tra diverse generazioni il costo di progetti di investimento a lungo termine.
7. Il livello del debito pubblico può incoraggiare il governo a creare moneta, perché è calcolato in termini nominali: all’aumentare del livello dei prezzi il valore reale del debito pubblico
diminuisce, quindi un indebitamento elevato può indurre il governo a stampare moneta
per far aumentare il livello dei prezzi e ridurre il valore reale del debito pubblico.
8. Affinché il debito si stabilizzi a un livello prefissato d rispetto al PIL, il disavanzo totale deve
essere uguale a (g ⫹ ␲)d, dove g rappresenta il tasso di crescita dell’economia e ␲
l’inflazione. Per riscrivere questa condizione in termini di disavanzo primario, dobbiamo
rammentare che il disavanzo totale è uguale alla somma del disavanzo primario e della spesa per interessi sul debito. In altre parole, dobbiamo sottrarre gli interessi sul debito – calcolati in percentuale del PIL – da (g ⫹ ␲)d, ottenendo (g ⫹ ␲ – i )d. Ma dato che (␲ – i )
⫽ –r, sappiamo che per la sostenibilità del debito è necessario mantenere un disavanzo
primario minore o uguale a (g – r)d.
Problemi e applicazioni pratiche
1. Il disavanzo pubblico è definito come la differenza tra le entrate dello Stato e la spesa pubblica. Vendendo le imprese di proprietà pubblica, lo Stato italiano ha aumentato le sue entrate e, conseguentemente, ha ridotto il disavanzo. La riduzione del disavanzo ha permesso
all’Italia di indebitarsi di meno, e quindi il debito pubblico (lordo) misurato dell’Italia è diminuito.
Se l’Italia adottasse la contabilità patrimoniale, il debito pubblico netto sarebbe definito
come la differenza tra le attività patrimoniali dello Stato (tra le quali sono da includere le
imprese di proprietà pubblica) e le passività (tra le quali la più rilevante è sicuramente il
debito pubblico). Privatizzando le imprese pubbliche, lo Stato ridurrebbe il proprio attivo
in misura corrispondente al valore delle aziende privatizzate, e ridurrebbe le passività in misura pari al prezzo incassato. Ipotizzando che lo Stato italiano ottenga un prezzo equo per le
imprese pubbliche che cede a privati, l’ammontare della riduzione delle attività sarebbe
corrispondente a quello della riduzione delle passività, quindi il debito pubblico rimarrebbe
inalterato.
2. Ecco una possibile lettera:
Illustrissimo signor ministro,
nella mia precedente lettera avevo ipotizzato che una riduzione delle imposte finanziata
mediante l’indebitamento pubblico avrebbe stimolato il consumo. Numerosi economisti
adottano questa ipotesi perché sembra logico pensare che se i consumatori dispongono di
maggiore reddito allora spendono anche di più. Il risultato di questo aumento del consumo
è una riduzione del risparmio nazionale.
Gli economisti ricardiani sostengono che questa ipotesi in apparenza logica sia in realtà
sbagliata. È vero che una riduzione delle imposte finanziata mediante l’indebitamento
pubblico aumenta il reddito disponibile corrente; ma è altrettanto vero che il governo, per
ripagare il prestito e gli interessi accumulati, sarebbe costretto poi ad alzare le imposte in futuro. Il risultato di questa politica è quindi un aumento transitorio del reddito, aumento che
successivamente verrebbe annullato. Se i consumatori percepiscono questa possibilità, allora
capiscono anche che il loro reddito permanente non è mutato. La riduzione delle imposte
non avrebbe alcun effetto sul consumo e le famiglie risparmierebbero tutto il maggiore reddito disponibile per finanziare le maggiori imposte future. A causa della mancanza di effetti
sul consumo, anche gli effetti sul risparmio sarebbero nulli.
Se il risparmio nazionale non cambia, allora, come diceva ieri la mia collega, il disavanzo di
bilancio non subirà le conseguenze che ho elencato. In particolare, la produzione,
l’occupazione, il debito estero e i tassi di interesse resterebbero invariati, sia nel breve sia nel
lungo periodo, e la riduzione delle imposte non avrebbe effetti sul benessere sociale.
Ma, per molte ragioni, le argomentazioni ricardiane potrebbero non essere corrette. Primo, i consumatori non sono necessariamente razionali e previdenti: essi potrebbero non
comprendere che il vantaggio fiscale odierno comporta un aumento delle imposte in futuro.
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Secondo, alcune persone potrebbero non avere facile accesso al credito: la riduzione delle
imposte consentirebbe loro di ottenere un prestito che altrimenti non potrebbero ricevere.
Terzo, i consumatori potrebbero supporre che il futuro aumento delle imposte ricadrà su
generazioni future dei cui consumi non si curano.
Il suo comitato, pertanto, deve prevedere come i consumatori reagiranno a questa riduzione delle imposte finanziata mediante l’indebitamento pubblico. In particolare, essi consumeranno di più o no?
Sempre al vostro servizio
Economista della Commissione Bilancio
3. (a) Supponiamo che valga l’ipotesi del ciclo di vita presentato nel capitolo 15 e che gli individui vogliano mantenere il consumo il più costante possibile. In questo caso l’effetto
di una variazione temporanea del reddito sul consumo sarà distribuito sulla vita residua
dell’individuo. Ipotizziamo anche per semplicità che il tasso di interesse sia zero.
Consideriamo un semplice esempio. Sia T il valore di un’imposta una tantum e temporanea sugli individui giovani e sia B il valore di un versamento una tantum effettuato
a vantaggio degli anziani, con B ⫽ T. Se una persona anziana ha ancora 10 anni di vita,
il versamento una tantum aumenta il consumo corrente di B/10. Se un lavoratore ha
ancora 30 anni di vita, l’aumento delle imposte riduce il consumo corrente di T/30. La
variazione del consumo aggregato è data da:
⌬C ⫽ (B/10) – (T/30) ⫽ B/15
Il trasferimento di ricchezza dai giovani agli anziani determina un aumento netto del
consumo e, quindi, una diminuzione del risparmio. Infatti l’aumento del consumo degli
anziani è maggiore della riduzione del consumo di quello dei giovani: gli anziani hanno
di fronte a sé meno anni di vita e quindi una propensione marginale al consumo maggiore.
(b) La risposta alla parte (a) dipende dall’esistenza di un legame intergenerazionale. Se tale
legame è altruistico, non è detto che gli anziani percepiscano un miglioramento della
loro condizione in virtù dei benefici ricevuti dalla previdenza sociale: infatti i provvedimenti attuati non hanno effetti sul reddito permanente di una famiglia, in quanto si
limitano a trasferire risorse da una generazione della famiglia all’altra. Se gli anziani non
vogliono sfruttare questa opportunità di consumare a spese dei figli, possono cercare di
contrastare l’effetto dell’aumento delle imposte lasciando ai figli un’eredità. Questo
comportamento mitiga in parte l’effetto di una variazione fiscale sul consumo e sul risparmio.
4. Il disavanzo di bilancio aggiustato per il ciclo economico è il disavanzo di bilancio corretto
per gli effetti del ciclo economico. In altre parole, è il deficit di bilancio che si avrebbe se la
disoccupazione fosse al suo tasso naturale. Un vincolo che imponga di mantenere in pareggio il bilancio aggiustato per il ciclo economico potrebbe superare, almeno parzialmente, le
prime due obiezioni a una regola di bilancio in pareggio sollevate nel capitolo. In primo luogo, una regola di questo tipo consente al governo di adottare una politica fiscale anticiclica
per stabilizzare l’economia: in altre parole, il governo può sostenere un disavanzo durante
una recessione, quando le entrate fiscali automaticamente si riducono e la spesa pubblica
automaticamente cresce. Questi stabilizzatori automatici influenzano il disavanzo, ma non
il deficit di bilancio aggiustato per il ciclo economico. In secondo luogo, non è necessario
aumentare le imposte nei periodi di recessione o abbatterle nelle fasi di espansione economica.
D’altro canto, però, questa regola non permette di superare completamente le due obiezioni sollevate. Innanzitutto, il governo può sostenere solo un deficit di dimensioni limitate,
che potrebbero rivelarsi insufficienti. Inoltre, mantenendo in pareggio il bilancio aggiustato
per il ciclo economico, il governo non è in grado di ripartire uniformemente le aliquote fiscali negli anni caratterizzati da una spesa particolarmente elevata o particolarmente ridotta, come negli anni di guerra o di pace. (Si potrebbe tener conto di questo fatto ammettendo una deroga alla regola del bilancio in pareggio in circostanze particolari, come in caso
di guerra.) Infine, questa regola di politica economica non consente al governo di superare
la terza obiezione sollevata nel capitolo 15: il governo non può trasferire l’onere della spesa
da una generazione all’altra quando ciò è necessario.
Infine, un grave problema di tale regola è dato dall’impossibilità di osservare direttamente
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il bilancio pubblico aggiustato per il ciclo economico. In altre parole, occorre stimare quanto dista l’economia da un’ipotetica condizione di piena occupazione; quindi dobbiamo stimare a quanto ammonterebbero la spesa e le imposte se fossimo in condizioni di pieno impiego. Nessuna di queste stime può essere effettuata con certezza.
5. Per rispondere a questa domanda, gli studenti italiani potranno consultare i più importanti
documenti prodotti dal Ministero dell’economia e delle finanze, come la Relazione previsionale e programmatica (http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/dfp.rpp.asp), oppure il
Documento di programmazione economica e finanziaria 2009-2013 (http://www.tesoro.it/
documenti/open.asp?idd⫽19226).
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