MAFFI HBO and liver transplantation

OSSIGENOTERAPIA IPERBARICA E TRAPIANTO DI FEGATO
Dr. Lidio Maffi, Dr. Alessandro Ricchiuti, Prof. Mauro Salizzoni
La trombosi di arteria epatica (HAT) dopo trapianto di fegato (LT)
consiste in una
completa interruzione
del flusso arterioso
al
graft
epatico;
causa
quasi
sempre
un
danno
irreversibile
dell’organo (talora parenchimale, più spesso biliare) ed è una delle
cause principali di perdita d’organo e di mortalità post-LT.
Le incidenze riportate in letteratura variano tra l’1.6 %
e l’8.9 % e
risulta più frequente nelle casistiche che includono riceventi pediatrici e in
cui si utilizza le tecniche di trapianto con fegato parziale (split-liver, donatore
vivente, riduzione di volume).
In caso
di HAT
si ha la necessità
di ritrapianto
in più del 50%
dei casi, in funzione
della tempestività della diagnosi e della possibilità di
correzione chirurgica.
Esistono poi tutta una serie di situazioni caratterizzate da un insufficiente
afflusso ematico arterioso
(IAFL) al graft che risultano difficili da identificare, diagnosticare,
categorizzare; l’insufficienza arteriosa
intraepatica
è causata
da
stenosi
anatomiche
o
funzionali
anastomotiche o
extranastomotiche; l’ipoafflusso arterioso può anche determinarsi in caso di
graft voluminoso con compressione estrinseca
delle zone periferiche
o
per incremento delle resistenze intraepatiche (come ad esempio nel rigetto).
Nell’esperienza del Centro Trapianti di Torino che consta in 2520 LTs eseguiti
tra il 1990 ed il mese di Ottobre 2013, l’incidenza globale di HAT è risultata
del 4.1 % (4.9% nei graft interi e 12.9% nei graft parziale; 5% nei
riceventi adulti e 15% nei riceventi pediatrici).
Nel 73% dei casi le HAT si sono presentate entro i primi 30 giorni.
Solo nel 41% dei casi era indicato un tentativo chirurgico a scopo di
rivascolarizzazione e, questi,
sono stati coronati da successo terapeutico solo nel 47% dei
casi; nel 48,6 % dei casi è stato necessario il ritrapianto e 26% è
risultata la mortalità per HAT dopo LT.
La terapia conservativa standard consiste nella riduzione o sospensione degli
immunosoppressori,
nell’utilizzo di imponenti antibioticoterapie ad ampio spettro, nella
scoagulazione (LMWH; 50-100
u/kg
e/o nella antiaggregazione (ASA;3-6 mg/kg), nel drenaggio
transepatico percutaneo della via
biliare (DTBEI)
e/o nel drenaggio
percutaneo
intralesionale; il
più delle volte è necessario il ricovero in unità intensive per la cura dello
shock settico (SI o RIA). Nel
caso
di
pazienti
non
sottoponibili
a
ritrapianto o a rivascolarizzazione per cause tecniche,
anatomiche o sistemiche, l’esito è pressochè sempre infausto con perdita del
graft e del paziente a
causa delle complicanze settiche. L’OTI determina l’incremento della tensione
d’ossigeno a livello
del sangue portale e l’incremento della tensione d’ossigeno a livello del circolo
ematico arterioso
epatico in caso di riduzione dello stesso come nelle occlusioni parziali
dell’arteria epatica mediante
una maggiore disponibilità di ossigeno: la Pa O2 a livello del microcircolo può
raggiungere valori
maggiori a 800 mmHg; ciò determina incremento del gradiente di ossigeno e
maggiore penetrazione
negli epatociti e nell’epitelio biliare; è per altro noto che l’incremento della
disponibilità di ossigeno
ai tessuti porta ad una riduzione dell’edema e della vasocostrizione.
L’OTI determina inoltre uno stimolo importante sul midollo osseo con
incremento di produzione di
cellule
staminali,
oltrechè
rappresenta
uno
stimolo
alla
angiogenesi/vasculogenesi con più rapida neovascolarizzione arteriosa
epatica tramite formazioni di circoli collaterali arteriosi (HIF-1 -VEGF;
vasculogenic stem cells).
Con il razionale di proteggere i graft dai danni post-ischemici in
questa situazione, a partire dal 2007, sono stati trattati presso questo
Centro inizialmente pazienti affetti da complicanze da HAT o da ipoaflusso
arterioso post-LT, non elegibili a rivascolarizzazione o a ritrapianto.
25 pazienti trapiantati di fegato sono stati sottoposti a sedute di OTI; di questi,
18 hanno completato il protocollo standard a 2,5 ATA per 20 sessioni
consecutive di 90 minuti ciascuna; i criteri di esclusione erano claustrofobia,
stati febbrili acuti, nevrosi /psicosi, otosinusopatia, epilessia, pneumopatie
acute in atto. L’età mediana era di 49 anni (range: 9 mesi-64 anni); 3 pazienti
erano in età pediatrica. 10 pazienti si presentavano con un quadro di
interruzione completa del flusso arterioso intraepatico, mentre 7 presentavano
un flusso severamente compromesso; tra i primi, 4 pazienti sono deceduti, 2
dei quali per cause correlate all’ischemia epatica, con una mediana di
sopravvivenza dopo il trattamento rispettivamente di 658 e 200 giorni. Nel
secondo gruppo l’exitus si è verificato un solo caso, per cause non correlate
all’insufficienza arteriosa. I 12 pazienti sopravvissuti sono in buone condizioni
generali con buona funzione dell’organo trapiantato.
In conclusione l’OTI si è dimostrata una terapia sicura ed efficace nel
controllare e ridurre la gravità
delle complicanze di HAT dopo LT e nel prevenire le conseguenze di ischemia
parziale (relativa) in caso di IAFL. I meccanismi d’azione supposti tramite cui
si ottiene questa protezione del graft sono l’aumentata disponibilità di
ossigeno al tessuto ischemico e lo stimolo alla neovascolarizzazione
arteriosa epatica. I problemi aperti sono tuttora il timing dell’applicazione
dell’OTI in caso di HAT dopo LT: dalle esperienze preliminari parrebbe che
tanto più efficace risulta il trattamento quanto
più precocemente viene
applicato rispetto all’instaurarsi dell’HAT.
Risulta inoltre ancora da comprendere la reale estendibilità dell’indicazione
all’OTI in altri campi
del trapianto di fegato; la sua applicazione in caso di riduzione
del flusso arterioso (IAFL) o di colestasi funzionale
sembrerebbe
avere un ruolo importante
nel migliorare il decorso in tali situazioni,
così come l’utilizzo dell’OTI come profilassi dei danni da ischemia-riperfusione
(IPRI)
in termini di pre-condizionamento del graft o pre e postcondizionamento del paziente.
Il case report oggetto di questo intervento conferma quanto l’utilizzo di
sessioni di OTI possa migliorare l’outcome per Pazienti con complicanze postOLT