COMITATO DI DIREZIONE SERGIO BARTOLE GIORGIO CIAN SEBASTIANO CICCARELLO GIORGIO CONETTI GUIDO CORSO LUIGI COSTATO GIOVANNI DE CRISTOFARO GIOVANNANGELO DE FRANCESCO MARIA VITA GIORGI GIOVANNI DEDE CRISTOFARO GIOVANNI GABRIELLI MARIA VITA DE GIORGI FAUSTO GIUNTA GIOVANNI GABRIELLI GIORGIO MARASÀ FAUSTO GIUNTA GIORGIO MARASÀ ANTONIO MASI PIETRO MASI FRANCESCO PALAZZO ANDREA PUGIOTTO ANTONIO SERRA GIORGIO SPANGHER FERRUCCIO TOMMASEO FRANCESCO VIGANÒ ENZO VULLO ALESSIO ZACCARIA coordinatore e direttore responsabile Alessio Zaccaria redazione Paolo Veronesi Francesco Oliviero Riccardo Villani PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2010 Wolters Kluwer Italia Srl A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro. Editore: Wolters Kluwer Italia Srl - Centro Direzionale Milanofiori Strada 1, Pal. F6 - 20090 Assago Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 1480 del 18 ottobre 1995 Direttore Responsabile: Alessio Zaccaria Composizione: Bertoncello Artigrafiche - Cittadella (PD) Stampa: Grafiche TPM s.r.l. - Via Vigonovese 52/A - 35127 Padova Stampato in Italia - Printed in Italy INDICE DEL FASCICOLO 3/2010 ATTUALITÀ E SAGGI Gaetano Petrelli, Tassatività delle ipotesi di trascrizione e vincoli a parcheggio . . . . . . . . . . . . 243 Giuseppe Colacino, Le forme negoziali nel nuovo diritto dei contratti: le c.d. forme di protezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 Arianna Fusaro, Denigrazione del prodotto e discredito dell’imprenditore: ipotesi rilevanti ex art. 2043 c.c. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261 LEZIONI Guerino Fares, La responsabilità civile della pubblica amministrazione: linee sistematiche . . 271 TEMI Concorso per uditore giudiziario - Prova scritta di diritto civile di Alessandra Gaspari . . . . . 277 Esame per l’iscrizione agli albi degli avvocati - Parere motivato su quesito proposto in materia di diritto penale di Francesco Viganò . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 282 Concorso per notaio - Prova teorico-pratica riguardante un atto tra vivi di diritto civile di Maria Francesca Scognamiglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 287 I Temi del prossimo numero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 300 QUESTIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302 NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI a cura di Giovanni De Cristofaro e Dario Micheletti A) Cassazione civile, Sezioni unite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B) Cassazione penale, Sezioni unite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . C) Cassazione civile, Sezioni semplici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D) Cassazione penale, Sezioni semplici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E) Giurisprudenza di merito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305 314 318 333 341 RASSEGNE Marika Rioda, Il danno esistenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . V 343 Indice Studium Iuris, 3/2010 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE a cura di Paolo Veronesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 350 GIURISPRUDENZA COMUNITARIA a cura di Giulio Carpaneto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 352 NOVITÀ LEGISLATIVE a cura di Simona Droghetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 354 INDICI DELLE QUESTIONI E DELLE NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI . . . . . . . . . . . . . . 359 VI Attualità e saggi TASSATIVITÀ DELLE IPOTESI DI TRASCRIZIONE E VINCOLI A PARCHEGGIO di Gaetano Petrelli Sommario: 1. La sentenza della Corte Cost. 4 dicembre 2009, n. 318. – 2. La trascrizione tra « tassatività » e « tipicità ». Rilievi di ordine generale. – 3. Il superamento della tassatività dei casi di trascrizione nella ratio decidendi di C. Cost. n. 318/2009, e nella più recente giurisprudenza. – 4. I vincoli a parcheggio: pubblicità dichiarativa o pubblicità notizia? – 5. Trascrizione e legislazione regionale. 1. La sentenza della Corte Cost. 4 dicembre 2009, n. 318 Il superamento del « dogma » della tassatività delle fattispecie trascrivibili costituisce il leit motiv della recente sentenza n. 318/2009 della Corte costituzionale, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge regionale ligure n. 16 del 2008, i quali prevedono la trascrizione di determinati « vincoli di destinazione ». Più precisamente, la prima disposizione (art. 19, comma 2) esonera dalla corresponsione del contributo di costruzione il rilascio del titolo abilitativo edilizio per l’edificazione di parcheggi pertinenziali ad unità immobiliari preesistenti, a condizione che venga formalizzato e trascritto apposito atto di asservimento a garanzia del vincolo di pertinenzialità, « impegnativo per il richiedente, per i suoi successori o aventi causa a qualsiasi titolo ». La seconda (art. 73, comma 3) consente alle amministrazioni comunali di prevedere, nel regolamento edilizio, l’obbligo di subordinare il rilascio del titolo abilitativo al preventivo asservimento, regolarmente trascritto nei registri immobiliari, dei terreni alle nuove costruzioni, ai fini della determinazione degli indici volumetrici ed altri parametri edilizi rilevanti. La Consulta è stata quindi chiamata a giudicare 1 Cfr., per una rassegna di pronunce della Corte Costituzionale in materia di trascrizione, Troiano - Zaccaria, La trascrizione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in I rapporti patrimoniali nella giurisprudenza costituzionale, a cura di Tamponi e Gabrielli, Napoli 2006, p. 191. la possibile violazione del « limite » dell’ordinamento civile, ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost., da parte della Regione, che con propria legge aveva introdotto – secondo il ricorrente – « ipotesi di trascrizione nei registri immobiliari non previste dalla legislazione statale, in violazione della competenza esclusiva di detta legislazione » (altro rilievo, attinente alla riserva statale in materia tributaria, non interessa in questa sede). La Corte ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità, sulla base di diverse argomentazioni; nella motivazione della sentenza – che arricchisce il panorama, invero non particolarmente ricco, delle pronunce della Consulta sul tema1 – si rinvengono, peraltro, alcune interessanti affermazioni di principio relative all’istituto della trascrizione immobiliare, meritevoli di approfondimento. In primo luogo, la Corte costituzionale ha negato che i vincoli d’uso, nascenti dai suddetti atti di asservimento, siano esclusi dall’elenco codicistico degli atti trascrivibili: più precisamente, ha affermato che il dettato testuale dell’art. 2645 c.c. «non contiene alcun elenco, ma adotta una formulazione aperta, riferendosi ad « ogni altro atto o provvedimento », destinato a produrre gli effetti indicati »; detta disposizione, quindi, « comporta il superamento del principio, largamente accolto sotto il vigore del precedente codice civile, del carattere tassativo dell’elenco degli atti da trascrivere. In base alla citata disposizione questo carattere è venuto meno, non potendosi dubitare che, nell’ordinamento attuale, possano essere trascritti anche atti non espressamente contemplati dalla legge, purché producano gli stessi effetti degli atti previsti in modo esplicito ». 243 Tassatività delle ipotesi di trascrizione e vincoli a parcheggio A questo punto, la Corte evidenzia come il vincolo gravante sulle aree a parcheggio sia stato qualificato dalla giurisprudenza di legittimità come «diritto reale d’uso, di natura pubblicistica », ed afferma espressamente che « il detto vincolo di destinazione, così qualificato, è senz’altro assimilabile, quanto agli effetti che ne derivano, al « diritto di uso sopra beni immobili », il cui atto costitutivo o modificativo è soggetto a trascrizione, in quanto rientrante nel catalogo degli atti contemplati dall’art. 2643 c.c. Pertanto, anche l’atto di asservimento che costituisce quel vincolo va trascritto, a sensi dell’art. 2645 c.c. ». Conseguentemente, ad avviso della Consulta – che richiama sul punto un suo precedente2, favorevole alla trascrivibilità di vincoli del genere sulla base della legislazione regionale – « alla stregua delle considerazioni che precedono, le norme regionali in questione non hanno introdotto ipotesi di trascrizione non previste dalla normazione statale, ma si collocano appunto nel quadro di detta legislazione, sicché la denunziata violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile [art. 117, comma 2, lettera l), Cost. ] deve essere esclusa ». Si tratta, a questo punto, di vedere se effettivamente la Corte costituzionale abbia recepito, nella sentenza richiamata, orientamenti dottrinali e giurisprudenziali consolidati; e quale sia – al di là delle « declamazioni » ufficiali – l’effettiva ratio decidendi, riguardo all’àmbito della trascrizione immobiliare ed ai suoi effetti da un lato, ed alla competenza legislativa regionale in materia dall’altro. 2. La trascrizione tra « tassatività » e « tipicità ». Rilievi di ordine generale È affermazione diffusa, in dottrina e giurisprudenza, quella secondo la quale le fattispecie trascrivibili costituirebbero un numerus clausus, tassativamente individuato dagli artt. 2643 ss. c.c., sulla base della presunta « eccezionalità » della trascrizione rispetto ad alcuni princìpi fondamentali che governano la circolazione giuridica: ossia i princìpi propri degli acquisti a titolo derivativo (nemo plus iuris transferre potest quam ipse habeat; resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis), il principio consensualistico, la libertà delle forme, la relatività degli effetti del contratto, il numero chiuso dei diritti reali. Eccezionalità a cui conseguirebbe non solo il divieto di estensione analogica delle relative previsioni, ma anche la necessità di interpretazione restrittiva delle stesse. Affermazioni, queste, che sono peraltro « declamate » più che approfonditamente motivate; e che sono comunque Studium Iuris, 3/2010 smentite dal « diritto vivente »: non solo le concrete rationes decidendi delle sentenze, ma anche le opere dottrinali dedicate all’istituto della trascrizione, nonché la prassi amministrativa, dimostrano come la trascrizione sia in realtà molto spesso ammessa – spesso con effetti di pubblicità dichiarativa, e quindi di soluzione dei conflitti circolatori – al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge3. Chi scrive ha avuto modo, di recente, di rivisitare la problematica, previo esame dell’evoluzione storica delle disposizioni che regolano l’àmbito della pubblicità immobiliare, constatando nel contempo l’ampio raggio di azione di quest’ultima nel diritto comparato. I limiti propri del presente commento costringono a rinviare a quella sede per l’approfondimento di tale analisi4; è sufficiente, qui, rilevare come – a partire dalla prima legge ipotecaria francese del 1798 (loi hypotecaire du 11 brumaire, an VII), fino ad arrivare al vigente codice civile, ed alla legislazione speciale ad esso successiva, letti alla luce della Costituzione repubblicana e del diritto comunitario – i princìpi regolatori della circolazione giuridica abbiano subìto una vera e propria « rivoluzione »: dalla tutela quasi incondizionata dei diritti di proprietà e della sacralità del consenso contrattuale si è passati ad una protezione oltremodo estesa dei traffici giuridici e dell’affidamento dei terzi, e questo già nel codice civile del 1942, tributario sul punto anche di alcune soluzioni ricavate dal Grundbuchordnung austriaco: si pensi, solo per fare un esempio, alla portata dirompente dell’istituto della c.d. pubblicità sanante, oltre al progressivo ampliamento del novero delle fattispecie trascrivibili. L’evoluzione normativa e la nuova « complessità » del sistema delle fonti hanno letteralmente « trasformato » la pubblicità immobiliare, la quale oggi assolve – oltre al compito di tutelare gli interessi privati concretamente coinvolti nei traffici giuridici – quello di salvaguardare l’interesse generale alla sicurezza di detti traffici, oltre a soddisfare specifici e rilevanti interessi pubblici5. I princìpi degli acquisti derivativi e il con2 C. Cost. 28 marzo 2003, n. 94, in F. it. 2003, I, c. 1308. 3 Cfr., per l’analisi in dettaglio dei formanti dottrinale e giurisprudenziale in materia, Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, Napoli 1999, p. 73 ss. 4 Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, cit., p. 31 ss., 93 ss., 270 ss., 381 ss. 5 Petrelli, Pubblicità legale e trascrizione immobiliare tra interessi privati e interessi pubblici, in Rass. d. civ. 2009, p. 689 ss. Sulla complessità del sistema delle fonti di disciplina della trascrizione immobiliare, cfr. Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, cit., p. 263 ss. 244 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi sensualismo – che costituiscono certamente ancor oggi il cardine del sistema dei trasferimenti immobiliari per quanto attiene ai rapporti inter partes – nei conflitti circolatori hanno ceduto il passo ad altri, più consoni princìpi, maggiormente coerenti con l’esigenza di bilanciare adeguatamente gli interessi delle parti con quelli dei terzi; nel vigente ordinamento italiano, il riferimento alle regole di diritto sostanziale – in particolare alla priorità della data degli atti – è divenuto quindi criterio solo residuale ed eccezionale di soluzione dei conflitti circolatori, i quali sono, oggi, « normalmente » risolti a mezzo della trascrizione. Il cui contributo alla sicurezza dei traffici è perciò determinante, senza che sia trascurato l’interesse dei contraenti, alla cui cura è preordinato il controllo preventivo di identità, capacità, legittimazione e legalità cui è obbligato il notaio, incaricato di formare il titolo autentico ai fini della trascrizione (art. 2657 c.c.)6. Per quanto specificamente attiene all’àmbito degli atti trascrivibili, il codice civile del 1942 ha dettato sul punto una disposizione, l’art. 2645 c.c., la cui carica innovativa non è stata fino ad oggi colta appieno dagli interpreti: questo articolo non si limita – come spesso si continua a sostenere – ad eliminare il catalogo tassativo degli atti trascrivibili, lasciando permanere la « tassatività degli effetti », mediante relatio al precedente art. 2643; esso dispone invece, in modo innovativo, che « devono » essere trascritti gli atti che, in relazione a beni immobili o « diritti immobiliari », producano « taluno degli effetti dei contratti menzionati » nell’art. 2643, facendo unicamente salvo il caso in cui « dalla legge risulti che la trascrizione non è richiesta o è richiesta a effetti diversi ». La disposizione – letta anche alla luce delle corrispondenti previsioni rinvenibili nel diritto comparato, le quali nella quasi totalità adottano formule « elastiche » e « generali », in luogo di elencazioni tassative – dichiara in realtà trascrivibili, salva espressa disposizione di legge contraria, tutti gli atti che producano, in relazione a « diritti immobiliari », « taluno degli effetti » 6 Petrelli, L’autenticità del titolo della trascrizione nell’evoluzione storica e nel diritto comparato, in R. d. civ. 2007, I, p. 585 ss. 7 Per una compiuta dimostrazione dell’assunto, e quindi per l’approfondimento del significato della categoria « diritti immobiliari », v. Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, cit., p. 234 ss. 8 Ulteriore conferma testuale di quanto affermato nel testo è fornita dal disposto dell’art. 17, comma 4, della legge n. 52 del 1985, che consente di inserire nella nota di trascrizione « patti di natura reale », dovendosi intendere con tale espressione quelli che abbiano, per loro natura, idoneità ad incidere sulla sfera giuridica dei terzi, in quanto ad essi opponibili. (traslativi, costitutivi, modificativi, estintivi, preclusivi) individuati nell’art. 2643. Pertanto, i termini di riferimento dell’art. 2645 non sono semplicemente due (« atti » ed « effetti »), bensì tre (« atti », « diritti immobiliari », ed « effetti relativi a detti diritti immobiliari »). In altri termini, una cosa è il « mutamento giuridico », altra e diversa cosa è il « diritto », che costituisce oggetto del mutamento stesso. Scontato e pacifico il fatto che non vi sia più tassatività riguardo agli atti, l’impiego di una « categoria generale » quale quella dei « diritti immobiliari » – da intendersi come diritti « inerenti » ai beni immobili, in quanto tali dotati di « diritto di seguito » e quindi « opponibili ai terzi »7 – fa sì che l’interprete non sia più vincolato al « catalogo tassativo » dei diritti reali tradizionali, espresso dall’art. 2643, ma che al contrario debba ritenersi oggi trascrivibile qualsiasi « diritto immobiliare », ancorché non « nominato », purché ammesso dal diritto sostanziale e, in base ad esso, dotato del carattere della « opponibilità »8. Se il legislatore avesse voluto mantenere intatto l’àmbito tassativo dei diritti indicati dall’art. 2643, si sarebbe limitato ai « diritti menzionati nell’articolo 2643» (come, ad esempio, ha fatto nel primo inciso dell’art. 2652, comma 1, c.c.). D’altronde, quando il legislatore ha voluto richiamare soltanto i « diritti reali tipici » specificamente indicati nell’art. 2643 (in particolare, ai nn. 1, 2 e 4) lo ha fatto espressamente (si vedano, ad esempio, l’art. 2643, nn. 3, 5, 13, 14, e l’art. 2648, comma 1, c.c.); così come, quando ha voluto riferirsi ai soli « diritti reali immobiliari » (v. l’art. 2643, n. 6, c.c.), o ai « diritti reali di godimento » (v. l’art. 2653, n. 1, c.c.), lo ha fatto espressamente. L’impiego di una « categoria aperta » consente, invece, di adattare in modo elastico l’àmbito di operatività della trascrizione ai mutamenti del diritto sostanziale. Il pensiero corre, a titolo di mero esempio, a fattispecie quali la multiproprietà, il diritto di sopraelevazione, la volumetria edificabile, le obbligazioni propter rem ammesse dalla legge; e, non ultimi, i diritti reali d’uso sui parcheggi di cui all’oggetto della sentenza in commento. Rientrano nel novero dei « diritti immobiliari », e sono quindi soggetti a trascrizione, anche i diritti personali di godimento, laddove muniti di diritto di seguito (sulla base di espressa previsione legislativa, o di interpretazione sistematica: si pensi al caso del leasing immobiliare). Per contro, non possono in alcun modo ritenersi trascrivibili fattispecie da cui originano situazioni giuridiche meramente obbligatorie, la cui efficacia è cioè confinata ai rapporti inter partes: esempi tipici, pur presenti nella casistica giurisprudenziale, sono il divieto convenzionale di 245 Tassatività delle ipotesi di trascrizione e vincoli a parcheggio alienazione, il patto di prelazione, in genere le « mere » obbligazioni tra le parti contraenti. Se si guarda, poi, al « mutamento giuridico » che ha ad oggetto i suddetti diritti, il riferimento a «taluno degli effetti » contemplati dall’art. 2643 consente di ritenere trascrivibili, a norma dell’art. 2645 c.c., sia le fattispecie produttive di effetti solo « parzialmente » riconducibili a quelli elencati dall’art. 2643 (ad es., un negozio di accertamento che – pur caratterizzato da effetto « preclusivo », identico a quello della transazione – non contenga le « reciproche concessioni » 9); sia quelle produttive di effetti « prodromici » o « precari », e ciò nonostante opponibili ai terzi, sulla base di disposizioni sostanziali come quella contenuta nell’art. 1357 c.c. (si pensi, oltre alle fattispecie espressamente contemplate dei negozi condizionati, ai negozi su beni futuri, o alla vendita con patto di riservato dominio o con patto di riscatto; in genere, a tutti gli atti da cui originano « aspettative reali » o « diritti risolubili ») 10. D’altra parte, nello stabilire che la trascrizione deve essere eseguita agli effetti dell’art. 2644, salvo che « dalla legge risulti che la trascrizione non è richiesta o è richiesta a effetti diversi », l’art. 2645 pone innanzitutto una « presunzione di trascrivibilità » (che opera quindi di regola, in assenza di specifiche disposizioni di legge da cui risulti che « la trascrizione non è richiesta »), dall’altro una «presunzione di dichiaratività » della medesima pubblicità (gli effetti sono, cioé, quelli dell’art. 2644 c.c., salvo che da una speciale disposizione di legge risulti che la trascrizione è richiesta « a effetti diversi »). È superfluo insistere sulla portata innovativa di questa disciplina, che da un lato generalizza l’impiego della trascrizione quando dalla legge (ma, ovviamente, anche dall’interpretazione sistematica) non risulti diversamente; dall’altro fa della trascrizione lo strumento ordinario di risoluzione dei conflitti circolatori. La verità è, quindi, che il legislatore del 1942, cogliendo in modo lungimirante i fermenti evolutivi già all’epoca presenti – e riguardanti non solo la materia della pubblicità immobiliare, ma i più ampi settori normativi della proprietà e dei diritti reali – come pure gli obiettivi cui tendono i princìpi della circolazione giuridica, ha affiancato alla previsione dell’art. 2643 c.c. – da valutarsi, oggi, alla stregua di una « sineddoche »11 – una disposizione di carattere più comprensivo, qual è quella dell’art. 2645, che fa impiego di « clausole generali » anziché di « elenchi tassativi ». Un utilizzo, quindi, di categorie generali che consente di rendere il sistema della pubblicità immobiliare « elastico » ed idoneo a rendere conoscibili, e quindi opponibili, ai terzi Studium Iuris, 3/2010 anche fattispecie « nuove », in dipendenza dell’evoluzione – legislativa, giurisprudenziale, dogmatica – del diritto sostanziale. Cosicché, per fare un solo esempio, se nell’ordinamento viene in un certo momento introdotto il diritto di multiproprietà, non vi è bisogno di modificare l’art. 2643 c.c., poiché sussiste una disposizione « elastica » come l’art. 2645 che consente – fermo restando il principio di tipicità delle fattispecie trascrivibili – di pubblicizzare anche il « diritto nuovo ». Fermo restando – si è detto – il principio di tipicità: poiché – come avviene del resto in diritto comparato – la negazione della tassatività implica unicamente l’esclusione della logica dell’eccezionalità, e quindi della « rigidità » degli elenchi12, non già il superamento della regola che impone un « filtro » alla trascrivibilità, selezionando l’àmbito delle fattispecie trascrivibili rispetto a quelle che non lo sono (cfr. l’art. 2671 c.c., che istituisce l’obbligo a carico del notaio limitatamente agli atti « soggetti a trascrizione »; e l’art. 2674-bis c.c., che istituisce il corrispondente controllo da parte del conservatore). Questo « filtro » deve essere rinvenuto pur sempre nel sistema normativo: la trascrizione, cioé, presuppone in ogni caso una norma giuridica (individuabile anche in via interpretativa) che la ammetta o la richieda (e non può quindi essere in nessun caso consentita ad libitum del richiedente). L’analisi delle disposizioni in materia – in primis, ma non solo, l’art. 2645 c.c. – consente d’altra parte di individuare, in linea di principio e salva necessità di rigorosa verifica, caso per caso, sul piano del diritto positivo, nel profilo della opponibilità ai terzi (in senso lato) il criterio scriminante tra le fattispecie trascrivibili e quelle escluse dalla pubblicità. Criterio che quindi esclude rigorosamente dalla trascrizione qualunque fattispecie che produca effetti 9 Sull’efficacia preclusiva « sostanziale », rispettivamente, del negozio di accertamento e del contratto di transazione, cfr. Falzea, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano 1965, p. 503 ss., 508 ss. 10 Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, cit., p. 210 ss. 11 Sul concetto di sineddoche (che esprime il fenomeno della dissociazione tra formule, o enunciati, da un lato, e regole operazionali dall’altro, che si verifica quando le prime non menzionano l’intero contenuto delle seconde), cfr. Monateri, La sineddoche, Milano 1984; Id., voce Sineddoche, in Dig. disc. priv. (sez. civ.), XVIII, Torino, 1998, p. 524. 12 Sulla distinzione tra tassatività e tipicità, individuata nella circostanza che a monte della tassatività si colloca l’eccezionalità della previsione, che, di contro, è assente nel caso della tipicità, cfr. con chiarezza Scano, Brevi considerazioni su fondamento e portata del principio di tipicità delle iscrizioni nel registro delle imprese, in R. d. comm. 2004, II, p. 310. 246 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi unicamente inter partes, poiché una trascrizione del genere più che inutile sarebbe dannosa, ingenerando nei terzi la falsa convinzione dell’esistenza di un ostacolo alla circolazione giuridica che in realtà non esiste; facendo loro credere, ad esempio, che il divieto di alienazione ex art. 1379, che sia eventualmente trascritto, impedisca la successiva rivendita con effetti nei confronti del terzo subacquirente. Laddove è evidente che un pregiudizio del genere non potrebbe nascere, all’opposto, dalla trascrizione di una obbligazione propter rem, sul presupposto, beninteso, che detta obbligazione sia ammessa dalle norme sostanziali: si pensi agli obblighi posti dalla legge a carico del proprietario del fondo servente; o a quelli imposti dal regolamento di condominio a carico dei condomini ed opponibili ex lege anche ai loro aventi causa (art. 1107, comma 2, c.c.); o, ancora, al vincolo nascente dalla servitù concessa dal comproprietario, anch’esso opponibile agli aventi causa (art. 1059, comma 2, c.c.). In queste ultime ipotesi, i terzi sarebbero semmai danneggiati da una ipotetica opponibilità nei loro confronti di un vincolo non trascritto, e quindi da essi non legalmente conoscibile. Quanto sopra conduce a conseguenze pratiche di notevole momento. Quello della « tassatività », unitamente al connesso « argomento » della eccezionalità della trascrizione, non può più essere impiegato come « comodo » espediente al fine di sottrarsi all’onere, spesso gravoso ma non per ciò meno doveroso, dell’interpretazione delle disposizioni in materia di trascrizione immobiliare: queste ultime contengono « norme giuridiche » non dissimili da quelle presenti in ogni altro ramo dell’ordinamento giuridico; e, qui come altrove, è indispensabile l’interpretazione sistematica, assiologica, costituzionalmente orientata, al fine di risolvere le criticità derivanti dall’inesatto o incompleto tenore delle previsioni legislative. L’art. 2645 c.c. assurge, pertanto, al ruolo di principio generale della materia; alla luce di esso e delle altre disposizioni di legge rilevanti (cfr., ad es., l’art. 813 c.c., o l’art. 111 c.p.c.), oltre che dei surrichiamati canoni ermeneutici, occorre decidere anche la questione della trascrivibilità di altre fattispecie, ad effetti diversi da quelli « tipici » ex art. 2644 c.c. Si pensi, solo per esemplificare, alla questione della trascrivibilità delle domande giudiziali non espressa- 13 Cfr. sul punto Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, cit., p. 173 ss., 309 ss. 14 Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, cit., p. 287 ss. mente previste dagli artt. 2652-2653 c.c., dei vincoli « atipici » (di indivisibilità, di indisponibilità, di destinazione), delle convenzioni matrimoniali « atipiche », di alcuni acquisti a causa di morte non espressamente previsti (es., i casi di acquisto di eredità senza accettazione); nonché alle trascrizioni con effetto di pubblicità notizia, ed alla pubblicità accessoria, al di fuori dei casi contemplati13. Con riferimento a queste ulteriori fattispecie, in assenza di una disposizione di tenore corrispondente a quello dell’art. 2645 c.c., l’interprete deve fare impiego – misurato e rigoroso, al fine di salvaguardare la certezza del diritto, che costituisce necessità prioritaria in un àmbito qual è quello pubblicitario – di tutti gli strumenti ermeneutici a sua disposizione, non escluso quello analogico14. Del resto, la declamazione della tassatività finora in auge non ha impedito a dottrina e giurisprudenza di fare, nei casi concreti, ampio uso dell’intero strumentario ermeneutico, sia pure a volte « camuffando » tale impiego, e giungendo al medesimo risultato in via indiretta (ad esempio, inquadrando la multiproprietà in uno dei diritti reali « nominati », o qualificando il diritto di sopraelevazione in condominio come diritto di superficie). 3. Il superamento della tassatività dei casi di trascrizione nella ratio decidendi di C. Cost. n. 318/2009, e nella più recente giurisprudenza È possibile, a questo punto, verificare con maggior cognizione di causa quale sia il reale contenuto decisorio della sentenza n. 318/2009 della Corte Costituzionale. Assolutamente corretta e condivisibile, innanzitutto, l’affermazione secondo la quale l’art. 2645 c.c. « non contiene alcun elenco, ma adotta una formulazione aperta, riferendosi ad « ogni altro atto o provvedimento », destinato a produrre gli effetti indicati », e che detta disposizione comporta « il superamento del principio . . . del carattere tassativo dell’elenco degli atti da trascrivere ». Con la precisazione, alla luce di quanto suesposto, che la « formulazione aperta » non riguarda solo gli atti, ma anche l’àmbito dei « diritti immobiliari », e financo, entro certi limiti, degli « effetti dei contratti » elencati dall’art. 2643 (sono, anzi, questi ultimi due gli aspetti veramente qualificanti l’innovativo contenuto normativo della disposizione). La Corte ha dichiarato poi trascrivibile, ai sensi dell’art. 2645 c.c., l’atto costitutivo di un « diritto reale d’uso » di natura pubblicistica sui parcheggi, quale desumibile dalla legislazione speciale in ma- 247 Tassatività delle ipotesi di trascrizione e vincoli a parcheggio teria (in particolare, l’art. 41-sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, e l’art. 9 della l. 24 marzo 1989, n. 122); ciò argomentando dalla circostanza che l’art. 2643, n. 4, c.c., prevede la trascrizione dei contratti che costituiscono « il diritto di uso sopra beni immobili »; ed affermando expressis verbis che « il detto vincolo di destinazione, così qualificato, è senz’altro assimilabile, quanto agli effetti che ne derivano, al « diritto di uso sopra beni immobili », il cui atto costitutivo o modificativo è soggetto a trascrizione, in quanto rientrante nel catalogo degli atti contemplati dall’art. 2643 c.c. ». Il punto merita, invero, una riflessione più approfondita. Il diritto di uso sopra beni immobili, a cui si riferisce l’art. 2643, n. 4, c.c., è quello disciplinato dall’art. 1021 c.c., il quale implica la facoltà per il relativo titolare di servirsi del bene « per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia », secondo le previsioni dettate dal successivo art. 1023; è un diritto incedibile (art. 1024 c.c.); sono ad esso applicabili le norme relative al diritto di usufrutto, in quanto compatibili (art. 1026 c.c.)15. Nessun dubbio che il diritto reale d’uso sui parcheggi non abbia nulla a che fare con il diritto d’uso codicistico, e che diversi ne siano contenuti e disciplina (si pensi, a tacer d’altro, al profilo della cedibilità) 16. Di ciò sembra consapevole la Corte costituzionale, nel momento in cui dichiara detto diritto soltanto « assimilabile » a quello codicistico; così aderendo all’indirizzo giurisprudenziale maggioritario (che non a caso ammette, tra gli altri esempi, la trascrivibilità delle obbligazioni propter rem e dei vincoli nascenti dai regolamenti di condominio, proprio facendo leva sulla sufficienza di tale « assimilabilità »)17. Indirizzo, questo, fino ad oggi peraltro contrastato dalla dottrina prevalente, secondo la quale invece gli effetti cui fa cenno l’art. 2645 devono essere « identici », e non solamente « simili » a quelli contemplati dall’art. 264318. In realtà, la reale giustificazione positiva della decisione va rinvenuta – come già detto – nell’ampio riferimento ai « diritti immobiliari », contenuto nel suddetto art. 2645. La sentenza che qui si commenta si inserisce, quindi, nel più recente filone giurisprudenziale che – soprattutto nell’ultimo decennio – ha espressamente valorizzato il ruolo dell’interpretazione, sistematica, assiologica ed adeguatrice, e persino analogica, al fine di ammettere alla trascrizione fattispecie non espressamente contemplate dalla legge. Sempre la Corte Costituzionale, nel 2005, aveva ritenuto ricavabile « per via interpretativa » una regula iuris, da essa giudicata « immanente al sistema », che imponeva la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione della casa di abitazione al convi- Studium Iuris, 3/2010 vente affidatario del figlio naturale, affermando espressamente che il diritto ad ottenere tale trascrizione « non necessita di un’autonoma previsione, dal momento che risponde alla stessa ratio di tutela del minore »19. Nel 2002, la stessa Corte Costituzionale aveva avuto modo di affermare espressamente il dovere del giudice di procedere ad interpretazione adeguatrice delle disposizioni di legge in materia di trascrizione immobiliare20. E già nel 1995 la Consulta aveva chiarito – sempre in materia di trascrizione – come, sebbene vada « riconosciuto che la certezza del diritto costituisce senza dubbio un valore fondamentale dell’ordinamento da realizzare nella massima misura possibile e che, in materia di pubblicità, la certezza è ovviamente lo scopo stesso del sistema. Purtuttavia non ogni difetto o confusione legislativa si risolve in irrazionalità tale da determinare un vizio di incostituzionalità, tanto più che gli eventuali difetti riscontrabili in numerose disposizioni normative sono suscettibili di soluzioni che restano affidate agli interpreti »21. Le Sezioni unite della Corte di Cassazione, da parte loro, hanno di recente dichiarato trascrivibile la domanda giudiziale diretta a far valere la violazione di un limite legale della proprietà, ritenendo prioritaria la tutela del « terzo che abbia acquistato facendo affidamento, in buona fede, sulla conformità a diritto » della situazione di fatto, e adottando l’« interpretazione estensiva, o logica per similitudine, secondo il principio ubi eadem ratio ibi eadem dispositio, laddove il caso previsto e quello non previsto presentino caratteri comuni »; la Corte ha così ritenuto che la trascrizione si imponga, nella fattispecie suddetta, in quanto attuativa degli inderogabili doveri di solidarietà imposti dall’art. 2 Cost. e del relativo dovere di au- 15 Sulle caratteristiche del diritto reale d’uso, ex art. 1021 c.c., v. di recente Cass. 26 febbraio 2008, n. 5034, in Nuova g. civ. comm. 2008, I, p. 1272. 16 Cfr. sul punto, da ultimo, Musolino, Il diritto di uso delle aree a parcheggio: una fattispecie di uso forgiata dalla giurisprudenza, in R. not. 2009, p. 1206. 17 In giurisprudenza, v. tra le altre Cass. 21 luglio 1949, n. 1917, in F. it. 1949, I, c. 1050; Cass. 26 giugno 1952, n. 1896, in Mass. F. it. 1952, p. 453; Cass. 6 giugno 1968, n. 1711, in Giust. civ. 1969, I, p. 734; Cass. 22 luglio 1969, n. 2764, in Giust. civ. 1970, I, p. 922; Cass. 11 novembre 1969, n. 3664, in F. it. 1970, I, p. 477, ed in Giust. civ. 1970, I, p. 431; Cass. 22 novembre 1969, n. 3806, in Giust. civ. 1970, I, p. 439. 18 Cfr. per tutti Gazzoni, La trascrizione immobiliare, I, in Il Codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, p. 595 ss. 19 C. Cost. 21 ottobre 2005, n. 394, in Giust. civ. 2006, I, p. 1131. 20 Cfr. C. Cost. 15 marzo 2002, n. 57, in F. it. 2003, I, c. 1669. 21 C. Cost. 6 aprile 1995, n. 111, in Giust. civ. 1995, I, p. 1420. 248 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi toresponsabilità, reputato indipendente « da espresse previsioni normative »22. Dell’interpretazione adeguatrice la Suprema Corte aveva, del resto, già fatto applicazione – sempre in materia di pubblicità legale – allorché si era trattato di dichiarare inopponibile al terzo acquirente di buona fede ed a titolo oneroso la ricostituzione del regime di comunione legale del proprio dante causa, a seguito di riconciliazione non annotata nei registri di stato civile23, sulla base del rilievo che « una diversa interpretazione non sarebbe invero compatibile con i precetti costituzionali di tutela della buona fede dei contraenti e della correttezza del traffico giuridico (art. 2, 41 Cost.) ». Un orientamento, quindi, che può dirsi ormai definito se non pienamente consolidato, e che si colloca in un panorama giurisprudenziale caratterizzato dal progressivo ampliamento, per via interpretativa, dell’àmbito di applicazione della trascrizione e della sua efficacia ai fini della risoluzione dei conflitti circolatori24. 22 Cass. civ., sez. un., 12 giugno 2006, n. 13523, in G. it. 2007, p. 937. 23 Cass. 5 dicembre 2003, n. 18619, in Corr. giur. 2004, p. 471. 24 Cfr., di recente, Cass. civ., sez. un., 1° ottobre 2009, n. 21045, che ha affermato la valenza decisiva del principio di priorità della pubblicità immobiliare, ai fini della soluzione del conflitto tra ipoteca e privilegio del promissario acquirente, a cui favore è trascritto il contratto preliminare; nonché Cass. civ., sez. un., 28 ottobre 2009, n. 22755, che ha sancito l’inopponibilità al terzo avente causa in buona fede da un professionista – in difetto di trascrizione di domanda giudiziale di accertamento della comunione legale – della appartenenza alla comunione del bene immobile non effettivamente destinato alla professione anche se tale dichiarato nell’atto di acquisto, nel conflitto con il coniuge in comunione legale del professionista suddetto. 25 Sull’effetto « risolutivo » cui si accenna nel testo, v. di recente Gabrielli, Sul modo di operare della pubblicità a norma dell’art. 2644 c.c., in R. not. 2009, p. 355. 26 Riguardo al vincolo a parcheggio previsto dall’art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765, hanno ritenuto non necessaria la trascrizione ai fini dell’opponibilità ai terzi, App. Napoli 14 febbraio 1997, in G. it. 1998, p. 1171; App. Napoli 18 febbraio 1997, in Giust. civ. 1997, I, p. 1089; Cass. 14 novembre 2000, n. 14731, in G. it. 2001, p. 686, ed in R. not. 2001, p. 704; Cass. 6 settembre 2007, n. 18691, in Nuova g. civ. comm. 2008, I, p. 400. Contra, per la necessità di trascrizione, App. Palermo 4 agosto 1980, in Rep. F. it. 1981, voce Servitù, n. 18; Cass. 5 marzo 2007, n. 5028, ivi 2007, voce Trascrizione, n. 63. Per la trascrivibilità, ex art. 2645 c.c., del vincolo di destinazione a parcheggio pattuito in una convenzione con il Comune, Trib. Firenze 15 settembre 1990, in G. it. 1993, I, 2, c. 373. In dottrina, cfr. per tutti Fusaro, Gli atti di impegno in materia edilizia e la loro trascrivibilità, in Nuova g. civ. comm. 1992, I, p. 922; Id., La pubblicità del vincolo di destinazione a parcheggio, in G. it. 1993, I, 2, c. 373; Id., Vincoli temporanei di destinazione e pubblicità immobiliare, in Contratto e impr. 1993, p. 815. 4. I vincoli a parcheggio: pubblicità dichiarativa o pubblicità notizia? Una riflessione apposita va sviluppata a proposito della trascrivibilità dei vincoli a parcheggio, e della valenza attribuibile a tale trascrizione. La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ha infatti ritenuto che detti vincoli siano trascrivibili ai sensi dell’art. 2645 c.c., senza peraltro sviluppare ulteriormente il ragionamento (probabilmente perché irrilevante, ai fini della decisione della questione di costituzionalità). L’affermazione è, tuttavia, densa di conseguenze. Essa implica, innanzitutto, che la trascrizione sia obbligatoria ai sensi dell’art. 2671 c.c.: sussiste, cioé, l’obbligo a carico del notaio – incaricato di formalizzare l’atto pubblico o la scrittura privata costitutivi del vincolo, a norma dell’art. 2657 c.c. – di curare che la relativa trascrizione sia eseguita nel più breve tempo possibile. In secondo luogo, la trascrizione ex art. 2645 c.c. è da eseguirsi agli effetti dell’art. 2644 c.c., ed ha quindi la funzione di dirimere i conflitti tra più acquirenti da un medesimo autore; con la conseguenza che se Tizio costituisce un diritto reale d’uso a parcheggio a favore di Caio, e successivamente vende lo stesso immobile a Sempronio, il quale trascrive prioritariamente, Sempronio prevarrà su Caio, con conseguente « risoluzione » dell’acquisto del diritto reale d’uso25. Un effetto, questo, radicalmente in contrasto con l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità e di merito, la quale ha fino ad oggi ritenuto il suddetto diritto d’uso opponibile tout court ai terzi a prescindere dalla relativa trascrizione, con prevalenza quindi rispetto all’acquirente della proprietà del parcheggio, ancorché trascrivente in via prioritaria: ciò – in assenza di specifiche previsioni sul punto nella legislazione statale – sulla base della configurazione del corrispondente vincolo alla stregua di « limite legale della proprietà »26. In terzo luogo, l’inquadramento della trascrizione de qua nell’art. 2645 c.c. comporta l’applicazione della regola di continuità (art. 2650 c.c.): con la conseguenza che il subacquirente del diritto reale d’uso sul parcheggio, che trascriva il proprio acquisto, rischia di soccombere – nel conflitto con altro avente causa dal proprio dante causa mediato – nella misura in cui non sia trascritto a favore del proprio dante causa il precedente atto di acquisto del medesimo diritto d’uso. Una serie, quindi, di rilevanti implicazioni, sulle quali la Corte costituzionale non sembra avere adeguatamente riflettuto, e che esigono un approccio più ampio alla questione, il quale – consi- 249 Tassatività delle ipotesi di trascrizione e vincoli a parcheggio derati i limiti delle presenti note – può essere qui soltanto accennato. Occorre, innanzitutto, delimitare i confini della pubblicità dichiarativa rispetto al fenomeno della pubblicità notizia: ferma la presunzione di dichiaratività, come sopra evidenziata, in alcuni casi la compresenza di interessi pubblici – o comunque poziori nella gerarchia degli interessi tutelati dalla legge, anche sulla base dei princìpi costituzionali – fa sì che debba essere assicurata loro protezione a prescindere dalla pubblicità, garantendo ad essi prevalenza su quelli meramente privati, e financo sull’interesse generale alla sicurezza della circolazione giuridica. È quanto avviene, ad esempio, per gli usi civici, o per l’usucapione, o ancora per i privilegi immobiliari. In questi casi l’ordinamento può o prescindere del tutto dalla pubblicità (è il caso di alcuni privilegi, e degli usi civici), ovvero prevedere la trascrizione ma con effetto puramente « notiziale », senza cioé che la omessa o tardiva esecuzione di essa possa in alcun modo pregiudicare la prevalenza del diritto poziore. In altri casi, la trascrizione è sostituita da una diversa forma di pubblicità, o pubblicazione: si pensi ai vincoli di piano regolatore, efficaci senz’altro ed erga omnes per effetto della loro pubblicazione in qualità di atti normativi. I c.d. limiti legali della proprietà trovano proprio in detta pubblicazione la ragion d’essere della loro opponibilità a prescindere dalla trascrizione: la loro conoscibilità, infatti, sussiste in quanto essi derivano direttamente ed automaticamente dall’atto normativo (legge, regolamento) che li prevede27. Si tratta, allora, di valutare, caso per caso, quale sia il bilanciamento degli interessi che emerge dal sistema. Bilanciamento la cui logica è, d’altra parte, mutevole nel tempo, cosicché, ad esempio, i vincoli culturali sui beni immobili in una prima fase (anteriormente al 1939) producevano i loro effetti in conseguenza della mera notifica, e non ne era prevista la trascrizione; in una seconda fase, a partire dal 1939, è stata prevista la trascrizione dei vincoli, ma – secondo l’interpretazione prevalente – con effetto di pubblicità notizia; oggi, soprattutto dopo l’emanazione del Codice dei beni culturali, l’interpretazione assolutamente prevalente è per la natura di pubblicità dichiarativa della relativa trascrizione, che significa inopponibilità del vincolo culturale non trascritto al terzo subacquirente, nonostante l’esistenza di un rilevante interesse pubblico (quello alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali), probabilmente di rilievo ancor superiore rispetto all’interesse che sta alla base della creazione dei vincoli a parcheggio28. Proprio in relazione ai vincoli a parcheggio, si è Studium Iuris, 3/2010 d’altra parte assistito di recente ad una significativa evoluzione normativa: l’art. 12 della l. 28 novembre 2005, n. 246, ha aggiunto un comma all’art. 41sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, disponendo che « gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse ». L’esigenza pubblicistica di riservare una determinata percentuale di parcheggi, debitamente vincolati a tal fine, a beneficio dei condomini, sembra aver ceduto quindi il passo alla tutela dell’autonomia privata e della agilità della circolazione giuridica. E ciò non può non avere un impatto anche sui diritti reali d’uso anteriormente costituiti, qualunque sia la soluzione che si intenda fornire alla vexata quaestio del regime transitorio dei suddetti parcheggi 29. Inoltre, la valutazione in oggetto non può non influire sul regime degli altri vincoli a parcheggio, sia quelli nascenti dalla legge n. 122 del 1989 (la cui violazione comporta nullità dell’atto di trasferimento separato del parcheggio rispetto all’unità immobiliare di cui è pertinenza), sia – a maggior ragione – quelli previsti dalla legislazione statale o regionale ai fini del conseguimento di obiettivi urbanistici di tipo « minore » (spesso – come nel caso deciso dalla Consulta – il vincolo è previsto a titolo di « onere » e non di « obbligo », al fine di ottenere la riduzione o eliminazione del contributo di costruzione; in quanto trattasi di onere, pare evidente che l’interesse pubblico alla sua realizzazione è certamente minore rispetto alle fattispecie in cui si ha un obbligo sanzionato). A ben vedere, allora, dal sistema normativo vigente emerge essenzialmente un rilevante interesse pubblico alla « effettiva destinazione » a parcheggio delle aree, nei casi previsti, ma non un interesse al- 27 Cfr., tra le altre, Cass. 14 dicembre 1993, n. 12298, in R. giur. amb. 1994, p. 879. 28 A tal proposito, si è di recente affermato, proprio in relazione al vincolo culturale, che l’efficacia dichiarativa della trascrizione « è più congruente con la nostra sensibilità giuridica, che a seguito della Costituzione, dei Trattati europei e della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, dà più dignità alla persona di fronte al potere »; ciò in quanto l’efficacia dichiarativa della pubblicità legale assicura una tutela reale e non meramente risarcitoria al privato, e quindi le soluzioni che conducono alla prima « sono sicuramente più rispettose dei diritti dei singoli » (Di Giandomenico, Natura ed effetti della denuncia e della prelazione dei beni culturali immobili, in G. it. 2008, p. 2091 ss.). 29 Cfr. da ultimo Luminoso, Ancora sulla commerciabilità dei parcheggi di cui alla c.d. legge Ponte: si profila un nuovo orientamento restrittivo della giurisprudenza?, in R. not. 2009, p. 1121. 250 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi trettanto rilevante alla pertinenzialità del parcheggio realizzato rispetto a specifiche unità immobiliari (posto che il fine pubblico, consistente nella possibilità di usufruire del maggior numero possibile di parcheggi, appare adeguatamente soddisfatto anche se il parcheggio viene utilizzato da un soggetto diverso dai condomini o dai residenti). Fanno, in parte, eccezione a quanto detto i parcheggi disciplinati dall’art. 9 della legge n. 122 del 1989, riguardo ai quali per un verso l’interesse pubblico alla destinazione dei parcheggi a pertinenza di singole unità immobiliari appare più « forte » (essendo tale da determinare addirittura la possibilità di edificazione in deroga agli strumenti urbanistici); per altro verso, dalla legge emerge la diretta incidenza di tale interesse sulla circolazione giuridica (posto che « i parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli »). Anche se la sola previsione di nullità non è forse sufficiente a fondare la prevalenza dell’interesse pubblico alla pertinenzialità sull’interesse (generale) alla sicurezza della circolazione giuridica: ciò può in qualche modo argomentarsi dalla disciplina del vincolo di indivisibilità di cui all’art. 2 della l. 3 giugno 1940, n. 1078, la cui violazione determina nullità, non opponibile però ai terzi, per testuale previsione di legge, in assenza della trascrizione del vincolo. Disposizione, quest’ultima, che sembra espressione di una generale linea di tendenza, certamente non venuta meno nel corso del tempo, e che potrebbe, probabilmente, fondare per analogia una corrispondente soluzione nell’àmbito che qui ci occupa. Tirando le fila dell’ormai lungo discorso, se è vero che il sistema della trascrizione immobiliare è impostato su una presunzione di trascrivibilità, e sulla collegata presunzione di dichiaratività della trascrizione; se è vero, altresì, che la recente evoluzione normativa evidenzia la prevalenza degli interessi collegati alla circolazione giuridica, rispetto ad altri interessi pur aventi natura pubblicistica (quali quelli connessi ai vincoli culturali o ai vincoli di destinazione a parcheggio); se è vero, infine, che esiste una differenza fondamentale tra i vincoli a parcheggio (di per sé non legalmente conoscibili) ed i veri e propri « limiti legali della proprietà », scaturenti « automaticamente » da fonti normative e la cui esistenza non dipende dal compimento di un atto giuridico di natura privatistica (quale l’« atto di asservimento » di cui si discute, conoscibile solo in quanto trascritto); se tutto ciò è vero, emergono rilevanti spunti inter- pretativi idonei ad indirizzare la soluzione della questione generale della trascrivibilità dei vincoli a parcheggio, nella direzione espressa dalla Corte Costituzionale. Deve, cioé, probabilmente ritenersi che – in linea di massima, e salvi i residui dubbi relativi ai c.d. parcheggi Tognoli, ex legge n. 122 del 1989 – i negozi giuridici costitutivi di vincoli a parcheggio siano soggetti a trascrizione, e che conseguentemente i suddetti vincoli siano inopponibili ai terzi, ed in particolare agli aventi causa dal medesimo autore, in mancanza di tempestiva trascrizione. Conclusione, questa, che deve ritenersi valida per i vincoli a parcheggio in qualunque tempo realizzati e/o alienati. Esistono, ovviamente, diverse categorie di vincoli a parcheggio. Alcuni di questi integrano dei veri e propri diritti reali d’uso, come tali certamente trascrivibili ai sensi dell’art. 2645 c.c. In altre ipotesi si è in presenza del solo « lato passivo » del vincolo, mentre non sembra sorgere, dal lato attivo, un corrispondente « diritto reale » in capo ad un soggetto determinato (si pensi ai c.d. vincoli a parcheggio ad uso pubblico). Si tratta di verificare, caso per caso, la natura della situazione giuridica nascente dall’atto, e quindi valutare se ricorrano i presupposti per l’applicazione diretta dell’art. 2645, ovvero per l’interpretazione estensiva o analogica di tale disposizione, o dell’art. 2645-ter c.c., o ancora delle norme (eventualmente anche contenute in leggi regionali) che prevedono vincoli « reali » di destinazione. Proprio l’esame di C. Cost. n. 318/2009 evidenzia un caso analogo: la seconda disposizione legislativa impugnata, ossia l’art. 73, comma 3, della legge ligure n. 16 del 2008, non ha infatti ad oggetto un « diritto reale d’uso », bensì unicamente un « vincolo di asservimento » del terreno pertinenziale alla costruzione ai fini del computo della volumetria edificabile. La Corte non sembra essersi avveduta di ciò, tant’è vero che la motivazione della sentenza è incentrata unicamente sulla categoria del « diritto reale d’uso », e sull’applicazione (diretta) dell’art. 2645 c.c. (il richiamo, da parte della regione ricorrente, dell’art. 2645-ter c.c. non ha dato luogo ad alcuna precisazione, né adesiva né in dissenso, da parte della Corte). 5. Trascrizione e legislazione regionale Per chiudere, un rapidissimo cenno alla problematica dei rapporti fra trascrizione e legislazione regionale. La Corte costituzionale, nella sentenza qui commentata, ha escluso l’illegittimità delle norme regionali che prevedono la tra- 251 Tassatività delle ipotesi di trascrizione e vincoli a parcheggio scrizione dei vincoli a parcheggio, e dei relativi effetti, sulla base dell’argomentazione che tali norme si collocherebbero « nel quadro » della legislazione statale, e per tale ragione esse non violerebbero l’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. Una motivazione, questa, non solo molto più succinta di quella contenuta in altra precedente pronuncia della stessa Corte (la n. 94 del 2003), ma soprattutto non realmente pertinente al rilevante problema del c.d. limite del diritto privato alla legislazione regionale, per ciò che specificamente riguarda l’istituto della trascrizione immobiliare. Come già evidenziato in altra occasione30, la legittimità costituzionale delle disposizioni regionali in materia di trascrizione trova il proprio fondamento, e nel contempo i propri limiti, nella « strumentalità » dell’istituto privatistico rispetto a determinati fini pubblici (in materia di edilizia e urbanistica, agricoltura, turismo, ecc.) la cui attuazione è istituzionalmente affidata alle regioni. Cosicché sono certamente legittime – ed il dato appare ormai acquisito in dottrina e giurisprudenza, oltre che nella prassi amministrativa 31 – le previsioni regionali che, al fine di garantire l’attuazione dei suddetti fini pubblici, richiedono la trascrizione (a titolo di onere o di obbligo, a seconda dei casi) di Studium Iuris, 3/2010 atti – come quelli che costituiscono vincoli di destinazione a fini edilizi – « inseriti » in procedimenti amministrativi regionali. Nel caso affrontato dalla Corte, non sembrano quindi esservi dubbi sul fatto che – a prescindere da qualsiasi interpretazione delle norme statali – la previsione regionale avrebbe dovuto essere giudicata costituzionalmente legittima. Piuttosto, è finora mancato – e va auspicato – un vero approfondimento sugli altri profili di disciplina della trascrizione « regionale », diversi da quello attinente alla identificazione di « nuove » fattispecie trascrivibili; segnatamente, per quanto riguarda i limiti in cui la disciplina territoriale può dettare in materia di trascrizione disposizioni divergenti da quelle nazionali, in particolare i presupposti della trascrizione, il relativo procedimento ed i titoli, nonché, last but not least, gli effetti della pubblicità 32. 30 Petrelli, Trascrizione immobiliare e legislazione regionale, in R. not. 2009, p. 741 ss. 31 Cfr. la Circ. Min. Fin. 4 maggio 1998, n. 116/T. 32 Su tutti gli aspetti indicati nel testo, cfr. Petrelli, Trascrizione immobiliare e legislazione regionale, cit., p. 741 ss., 765 ss. (ed ivi, a p. 758 ss., anche una ricognizione della problematica generale riguardante il c.d. diritto privato regionale). 252 LE FORME NEGOZIALI NEL NUOVO DIRITTO DEI CONTRATTI: LE C.D. FORME DI PROTEZIONE* di Giuseppe Colacino Sommario: 1. La legislazione comunitaria ed il nuovo paradigma formale: le c.d. forme di protezione. – 2. Contratti bancari ed oneri di forma del professionista: il problema delle “forme amministrative”. – 3. Inosservanza del precetto di forma e nullità (virtuale) del contratto. L’ipotesi del contratto di viaggio (art. 85 cod. del consumo). – 4. Prescrizioni di forma e ‘procedimento’ negoziale. Il problema della violazione degli obblighi di informazione tra regole di validità e regole di responsabilità 1. La legislazione comunitaria ed il nuovo paradigma formale: le c.d. forme di protezione In anni recenti, il moltiplicarsi delle previsioni di forma in seno all’ordinamento, ha sovente indotto buona parte della dottrina a parlare di un “ritorno” al formalismo tradizionale, imperante in epoca anteriore alle codificazioni e (apparentemente) lontano dalle moderne esigenze dei traffici. Il fenomeno si è imposto all’attenzione degli interpreti innanzitutto con la legislazione speciale, che ha imposto l’osservanza del requisito di forma con riguardo, essenzialmente, ai negozi unilaterali * Dello stesso autore (e sui medesimi problemi) v. anche, in questa Rivista 2009, fasc. 7-8, p. 762 e fasc. 10, p. 1051. 1 Cfr. N. Irti, Idola libertatis, cit., p. 35 ss. 2 « Il neoformalismo », osserva incisivamente Irti, « non si limita a trascendere la genesi psicologica dell’atto, ma lo risolve e identifica in un modulo esteriore: lo “assetto degli interessi” qui è tutt’uno con la forma, con il significato racchiuso negli schemi espressivi e notificativi. La “lettera raccomandata” – sorta di paradigma dell’odierno formalismo – spegne, nell’astratta regolarità dello schema, ogni residuo di psicologismo, e vi annulla e scioglie l’individualità del volere » (N. Irti, op. ult. cit., p. 40). 3 In ambiente economico si è invero sottolineato come l’assenza (o la carenza) di un circuito informativo a basso costo (cioè facilmente accessibile da parte dell’utente finale di beni e/o servizi) conduca inevitabilmente alla progressiva frammentazione del mercato e quindi, in definitiva, al c.d. market failure. Per un approfondimento, sul punto, v. A. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività, in Tratt. dir. priv. europeo, a cura di N. Lipari, 2a ed., III, Padova 2003, p. 18 ss. e p. 37 ss. modificativi o estintivi di determinati rapporti di durata (contratti di locazione, contratti agrari, lavoro subordinato, etc.), in un’ottica di composizione dei conflitti tra diverse categorie sociali (ad es.: locatori ed inquilini)1, vieppiù perseguita attraverso il medium del modulo scritto, oggettivo e impersonale2. È indubbio, tuttavia, come l’impulso più rilevante alla “riscoperta” delle forme negoziali sia venuto dalla legislazione di matrice comunitaria che ha introdotto nell’ordinamento interno una serie ampia e articolata di normative, tutte accomunate dall’obiettivo di rafforzare la tutela del consumatore (rectius, del contraente debole) di fronte al prepotere dell’impresa. L’analisi economica ha da tempo evidenziato come la costruzione di un mercato concorrenziale ed efficiente nell’allocazione delle risorse postuli il superamento delle cc.dd. asimmetrie informative, ovvero di quel deficit di conoscenze e competenze che, determinando l’opacità della negoziazione, impedisce al contraente debole (di compiere scelte oculate e quindi) di premiare le offerte più vantaggiose e competitive3. La indiscussa centralità della problematica informativa nelle odierne dinamiche del mercato, ha indotto il legislatore comunitario ad introdurre delle regole nuove nel diritto contrattuale tese, soprattutto, a riequilibrare la posizione delle parti ed a salvaguardare l’effettiva libertà ed integrità del volere del contraente più debole. Si tratta di regole che attuano una conformazione del diritto dei contratti che tiene conto del concreto status socio- 253 Forme negoziali di protezione Studium Iuris, 3/2010 economico dei contraenti e che supera, in tal modo, il dogma liberal borghese dell’astratta eguaglianza delle parti di fronte all’operazione negoziale. Dette regole vengono ad incidere su profili diversi della sistematica contrattuale. Risalta, in particolare, il ruolo che assume la clausola generale di buona fede quale paradigma della condotta del professionista in tutte le fasi della negoziazione e quale fonte (mediata) dei diversi obblighi di informazione posti a suo carico dalla normativa. Altrettanto rilevante può considerarsi, anche per i notevoli risvolti dommatici, la previsione di svariate forme di nullità di protezione soggette, per una più efficace tutela delle ragioni del contraente debole, ad una disciplina in larga misura derogante allo statuto tradizionale4. Ma soprattutto, per quel che qui interessa, assume rilievo l’ampio ricorso allo strumento della forma per garantire al consumatore quel flusso (minimo) di informazioni senza il quale verrebbe senz’altro meno la possibilità di una autodeterminazione consapevole e di una contrattazione (tendenzialmente) equilibrata. Viene così imposta l’osservanza della forma scritta (a pena di nullità) per la conclusione del contratto, prevedendosi altresì l’obbligo di consegnare una copia di esso al cliente/consumatore al fine di consentirgli di accertare, in primis, la rispondenza del regolamento a quanto precedentemente promesso dal professionista e, in secondo luogo, di verificare più agevolmente (nella fase di attuazione del rapporto) la conformità delle prestazioni eseguite agli impegni presi. È importante tuttavia evidenziare come, nella logica comunitaria, la forma tenda ad assumere un ruolo ed una funzione decisamente più ampie rispetto alla visione tradizionale: il precetto di forma, invero, non investe soltanto l’atto ma si estende anche alla dichiarazione prenegoziale5 e, più in generale, all’attività di negoziazione complessivamente considerata6. L’esigenza di una informazione corretta puntuale ed adeguata, copre infatti tutto l’arco della vicenda contrattuale includendo anche la fase che precede (e quella che segue) la conclusione del contratto: di talchè si comprende la ragione della tendenziale formalizzazione dell’intera sequenza negoziale7. Al riguardo si pensi, ad es., nelle vendite porta a porta e nei contratti a distanza, all’obbligo di informare per iscritto il consumatore della possibilità di esercitare il diritto di recesso entro un certo lasso di tempo; ovvero all’esercizio (sempre in forma scritta) del c.d. ius variandi delle condizioni contrattuali da parte dell’istituto di credito (nel corso dell’esecuzione del rapporto); o, ancora, all’obbligo posto a carico del venditore di un pacchetto turistico o di un immobile in multiproprietà di formalizzare in un apposito documento informativo (da consegnare al cliente prima della conclusione del contratto) tutte le informazioni rilevanti in ordine all’operazione in itinere. Ma è evidente che la finalità informativa del contraente debole non potrebbe essere realmente perseguita laddove il legislatore non collegasse al precetto della forma scritta l’obbligo (a carico, sempre, del professionista) di osservare un certo contenuto del contratto, ovvero di veicolare al 4 Com’è noto, il tema delle nullità di protezione è da tempo al centro di un ampio dibattito dottrinale. È indubbio, tuttavia, come nell’attuale quadro normativo (che si arricchisce, tra l’altro, della recente previsione dell’art. 36, d. legisl. 6 settembre 2005, n. 206, c.d. Codice del Consumo, dove è contenuto un espresso richiamo a codeste forme di nullità), sia ben difficile configurare la nullità come una categoria unitaria, dovendosi piuttosto prendere atto della diffusione nel sistema di species diverse di nullità, soggette a regole differenziate in ragione delle (diverse) tipologie di interessi protetti. Al riguardo, sembra allora condivisibile l’opinione secondo la quale la nullità potrebbe essere intesa « come una struttura normativa articolata attorno ad una costante e ad una molteplicità di variabili ». La costante, secondo tale dottrina, potrebbe essere individuata (in sintonia con l’insegnamento tradizionale) nell’inidoneità dell’atto alla produzione degli effetti giuridici tipici cui lo stesso è preordinato; « Le variabili, invece, potrebbero essere considerate, volta a volta, i soggetti legittimati a farla valere, la prescrittibilità o meno dell’azione, i meccanismi di recupero o di conservazione ecc. e rappresentare i veicoli per l’introduzione, nel nostro ordinamento, di nuovi interessi tutelati, di nuove funzioni da svolgere e di nuovi obiettivi da realizzare » (Così P.M. Putti, L’invalidità del contratto, in Tratt. dir. priv. europeo, a cura di N. Lipari, 2a ed., III, Padova 2003, p. 611 ss. 5 Vale a dire alla proposta di contratto rivolta dal professionista al consumatore, nonché alle diverse ipotesi di offerta ed invito ad offrire che spesso sono inserite nella comunicazione pubblicitaria: cfr. S.T. Masucci, La forma del contratto, in Tratt. dir. priv. europeo, a cura di N. Lipari, 2 ed., III, Padova 2003, p. 236. 6 Sul punto v., diffusamente, A. Jannarelli, op. cit., p. 72 ss. 7 A tal proposito, va comunque rammentato come il legislatore consideri ormai l’informazione alla stregua di un diritto “fondamentale” del consumatore (oggetto, cioè, di una tutela effettiva in tutte le fasi in cui si articola il rapporto di “consumo”): v., infatti, quanto previsto dall’art. 2 del Codice del Consumo (che al riguardo riprende il contenuto dell’art. 2 della legge n. 281 del 1998, recante “Disciplina dei diritti degli utenti e dei consumatori”) e, soprattutto, dell’art. 5, comma 3, dove si fa espresso riferimento al profilo dell’adeguatezza, della chiarezza e comprensibilità dell’informazione (fornita dal professionista) in relazione alla tecnica di comunicazione impiegata « tenuto anche conto delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore ». 254 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi consumatore una “griglia” di informazioni predeterminata in sede normativa in quanto reputata essenziale per garantire gli standards di protezione prescelti8. In quest’ordine di idee, la forma non appare dissociabile da un determinato contenuto che dev’essere necessariamente rivestito della forma scritta a pena di nullità9: la forma diviene così formacontenuto, acquista cioè un profilo di significazione ulteriore rispetto all’inquadramento tradizionale. La forma, infine, non può non coordinarsi con il principio di trasparenza: le informazioni veicolate attraverso il testo contrattuale possono riequilibrare la posizione delle parti soltanto se rese (oltre che per iscritto) in forma chiara ed intelligibile, e siano per questo realmente fruibili dal consumatore di “normale” diligenza10. La forma si colora, quindi, di un altro profilo funzionale divenendo, in tal modo, forma-trasparenza. Le considerazioni svolte, lasciano ben intendere come, nell’attuale panorama normativo, il tema della forma abbia assunto una peculiare complessità. Si è visto infatti come la funzione del precetto di forma non sia riducibile, come in passato, al (solo) 8 A ben vedere, la suddetta “griglia” di informazioni svolge una funzione del tutto analoga a quella della etichettatura del prodotto, consentendo al cliente/consumatore di valutare appieno l’effettiva qualità e convenienza del contenuto del contratto. Al riguardo si è osservato, invero, che la c.d. etichetta « permette al consumatore di avere dati puntuali in ordine alla composizione del prodotto, al peso della materia prima impiegata, alla presenza di additivi, ovvero al contenuto calorico, etc. Salvo il rigoroso rispetto di soglie minime richieste per la tutela della salute, la diversità dei dati contenuti sulle etichette di ciascun prodotto permette al soggetto interessato di effettuare una scelta razionale, comparando prezzi e qualità dei singoli prodotti. Ebbene, in misura analoga, il formalismo negoziale costituisce lo strumento attraverso il quale si mira a dare trasparenza alla qualità del contratto. Esso permette di realizzare il “confezionamento” del singolo contratto, assicurando che il testo stesso dell’atto di autonomia privata contenga un’uniforme griglia di clausole alle quali poi l’autonomia privata è libera di fornire risposte diverse dalle quali potrà ricavarsi in misura trasparente la corretta valutazione dei diversi assetti negoziali in questione » (A. Jannarelli, op. cit., p. 50-51). 9 Cfr., ex multis, F. Di Marzio, Riflessioni sulla forma nel nuovo diritto dei contratti, cit., p. 420-421. 10 La trasparenza costituisce, dunque, un corollario indispensabile dell’onere di forma e segna un limite alla scelta (da parte del professionista) dei metodi espressivi: in tal senso, S.T. Masucci, op. ult. cit., p. 199. Per una più attenta disamina dei (diversi) significati del lemma “trasparenza”, si rinvia a G. Alpa, La “trasparenza” del contratto nei settori bancario, finanziario e assicurativo, in Econ. dir. terz. 1992, p. 660. 11 Per un esame organico del suddetto T.U., v. F. Capriglione (a cura di), Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova 2001. profilo della responsabilizzazione del consenso ed a quello della certezza e della pubblicità dell’atto negoziale in vista della tutela dei terzi e della sicurezza dei traffici: queste finalità, certo ancora presenti, convivono con le esigenze, più sopra evidenziate, della protezione del contraente debole, di una più equilibrata gestione del rapporto e, oltre, di una più efficiente strutturazione del mercato. Tutto ciò conduce, inevitabilmente, ad una più ampia articolazione del paradigma formale in rapporto al complessivo manifestarsi della vicenda contrattuale. Il dilatarsi, in particolare, del precetto formale oltre i confini della fattispecie apre le porte all’applicazione di rimedi diversi dalla nullità e, per questa via, prospetta il tendenziale superamento della tradizionale (ed esaustiva) dicotomia tra forma ad substantiam e forma ad probationem. 2. Contratti bancari ed oneri di forma del professionista: il problema delle “forme amministrative” Come già rilevato, le finalità di informazione e di protezione del contraente debole trovano (il più importante) riscontro nelle previsioni normative che, a livello comunitario (e di legislazione derivata), impongono, nei diversi settori disciplinati, il vestimentum della forma scritta per la conclusione del contratto. Al riguardo, valore paradigmatico assume senz’altro la normativa in materia di contratti bancari (d. legisl. n. 385 del 1993, c.d. Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia)11 che, all’art. 117, impone il requisito della forma scritta per i contratti stipulati tra gli istituti di credito e la clientela (in senso analogo dispone l’art. 124 del medesimo T.U. per le operazioni di credito al consumo, la cui disciplina è oggi integralmente recepita dal d. legisl. n. 206 del 2005, c.d. “Codice del Consumo”). La finalità informativa trova poi ulteriore presidio nella previsione nell’obbligo di consegna (da parte del professionista) di copia del contratto al cliente e, per altro verso, nella norma (art. 117, comma 6) che sancisce la nullità delle (eventuali) clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi d’interesse e di ogni altro prezzo o condizione praticati, con ciò precludendo qualunque meccanismo di determinazione ab esterno (ovvero per relationem) del contenuto del contratto: prassi, quest’ultima, fortemente seguita in passato dalle banche ed evidentemente in contrasto con l’intento perseguito dal legislatore di fare del contratto il luogo in cui concentrare tutte le informazioni rilevanti ai fini 255 Forme negoziali di protezione Studium Iuris, 3/2010 della conclusione dell’operazione12. L’eventuale inosservanza del precetto di forma è espressamente sanzionata con la nullità dell’atto (art. 127), che potrà essere fatta valere esclusivamente dal cliente, in deroga al regime tradizionale della nullità. Viene quindi in rilievo un’ipotesi di nullità di protezione13, in cui la peculiare finalità di tutela del contraente debole, determina una diversa conformazione della disciplina: oltre al profilo della legittimazione relativa, risalta la rilevabilità d’ufficio della causa di nullità, che si ammette soltanto nella misura in cui possa giovare al cliente/consumatore (escludendola, invece, quando possa in qualche modo pregiudicarne le ragioni); infine, il profilo della c.d. nullità parziale necessaria, ovvero della (necessaria) conservazione in vita del contratto (pur colpito da nullità in qualche sua clausola) in deroga al disposto del primo comma dell’art. 1419 c.c. (semprechè, beninteso, non ricorra nel caso concreto un’ipotesi di sostituzione automatica delle clausole nulle ex artt. 1339-1419, comma 2, c.c.). Si tratta, a ben vedere, di un complesso di regole che consente di rendere compatibile l’istituto della nullità con le esigenze di protezione di una delle parti, nel quadro di una rivisitazione dogmatica del concetto di ordine pubblico non più direttamente legato alla tutela di interessi generali ma, piuttosto, di interessi di gruppi sociali connotati da una strutturale debolezza nella negoziazione14. Ciò rilevato, è importante nondimeno osservare come il rigore formale imposto (con riguardo alla stipulazione del contratto) dalla normativa del T.U., sia mitigato (ed in qualche misura contraddetto) dalla disposizione di cui al secondo comma dell’art. 117, ove si prevede che il CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) possa disporre « per motivate ragioni tecniche » che « particolari contratti possano essere stipulati in altra forma », ovvero in forma diversa da quella scritta. Sulla base di codesta previsione, il CICR, in tempi recenti (delibera 4 marzo 2003), ha poi statuito che « la Banca d’Italia può individuare forme diverse da quella scritta per le operazioni e i servizi effettuati sulla base di contratti redatti per iscritto, nonché per le operazioni e i servizi, oggetto di pubblicità ai sensi della presente delibera, che hanno carattere occasionale ovvero comportano oneri di importo contenuto per il cliente ». Da ultimo, la Banca d’Italia, conformemente alla predetta delibera, ha stabilito (nelle cc.dd. “Istruzioni di Vigilanza”) che l’osservanza della forma scritta non deve reputarsi obbligatoria « per le operazioni e i servizi effettuati in esecu- zione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto ». Tali provvedimenti sono adottati dall’autorità amministrativa in una logica di delegificazione del settore e rispondono certamente ad un’esigenza di snellimento e di semplificazione dei traffici e delle procedure bancarie (anche nell’interesse della clientela), prevedendo, come si è visto, una deroga alla previsione della forma scritta per quelle “operazioni” che si inseriscono in rapporti già disciplinati, più a monte, da un contratto stipulato in forma scritta. Occorre per altro rilevare come nel formante giurisprudenziale sia emerso, in sintonia con le determinazioni degli organi amministrativi, un orientamento favorevole all’alleggerimento degli oneri formali della contrattazione bancaria. Esemplificativa di tale indirizzo, può considerarsi una recente pronuncia della Suprema Corte15 nella quale, i giudici, dopo avere riconosciuto la legittimità delle disposizioni emanate dal CICR e dall’Autorità di Vigilanza (qualificate come « atti a contenuto ed efficacia normativi »)16, hanno affermato la piena validità di un contratto di apertura di credito concluso (informalmente) tra l’istituto di credito ed un cliente, argomentando dalla “normale” inerenza di detto contratto ad un rapporto di conto corrente già esistente (tra le parti) e “regolarmente” stipulato per iscritto. Naturalmente, non è dato sapere se tale orientamento potrà (o meno), in futuro, consolidarsi: pare tuttavia evi- 12 Sul problema dell’impiego nella contrattazione bancaria delle cc.dd. clausole di interessi uso piazza v., ampiamente, A.M. Carriero, Commento all’art. 117, in Commentario al T.U. Bancario, cit., p. 910 ss. 13 Cfr., fra gli altri, R. Quadri, Le c.d. “nullità protettive”, in Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, vol. I, a cura di F. Bocchini, Torino, 2003, p. 436; P.M. Putti, La nullità parziale, Napoli, 2002, p. 308. 14 Sulla (inevitabile) evoluzione della nozione di ordine pubblico, alla luce dei nuovi scenari socio-economici e dell’incidenza dei principi costituzionali e comunitari, v. G. Passagnoli, Nullità speciali, Milano 1995, pp. 123 ss. Più recentemente, v. pure quanto rilevato da R. Ferro, Nuove forme di nullità, Piacenza 2002, p. 115 ss. 15 Cass. 9 luglio 2005, n. 14470, in Contratti 2006, 6, p. 555 ss., con nota di F. Dardes, Il principio della forma scritta nella stipulazione dei contratti bancari e le ipotesi di deroga. In senso analogo, v. pure Cass. 8 gennaio 2003, n. 58, in G. it. 2003, p. 734 e Cass. 23 settembre 1991, n. 2915, in G. it. 1993, I, 1, p. 676. 16 Si tratterebbe, più precisamente, di disposizioni che « integrano il precetto legislativo, e nei limiti consentiti dalla legge stessa, vi derogano, con la conseguenza che hanno natura di atti normativi, sia pure non di rango primario e debbono pertanto essere conosciute d’ufficio dal giudice, secondo il principio iuris novit curia» (Cass. 9 luglio 2005, n. 14470, cit., p. 557). 256 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi dente come, alla luce di quanto osservato, si profili il rischio (nel settore bancario) di un progressivo indebolimento delle finalità di informazione e di protezione del contraente debole17, e come ciò ponga all’interprete il serio problema di un più attento coordinamento delle disposizioni esaminate con i principi ispiratori della normativa18. 3. Inosservanza del precetto di forma e nullità (virtuale) del contratto. L’ipotesi del contratto di viaggio (art. 85 cod. del consumo) Oltre che per i contratti bancari (e di intermediazione finanziaria) la stipulazione per iscritto è prevista anche per altre tipologie contrattuali, ampiamente diffuse nel mercato comunitario, come la multiproprietà, la vendita di pacchetti turistici e la subfornitura. Con riguardo a quest’ultima figura, va sottolineato il peculiare rilievo assunto nella politica comunitaria dalla legge n. 192/1998 (c.d. legge sulla “subfornitura nelle attività produttive”)19: con essa, infatti, il legislatore ha inteso estendere il paradigma di protezione (anche) ai rapporti tra le imprese, tutte le volte in cui la (strutturale) disparità di forza tra 17 Cfr. F. Dardes, op. cit., p. 562. Cfr., sul punto, R. Amagliani, op. cit., p. 111 ss. L’a., in particolare, muovendo da una lettura sistematica degli artt. 117 T.U. Bancario e 23, d. legisl. n. 58/1998 (in materia di intermediazione finanziaria), evidenzia come « la esplicita deviazione dalla (prescrizione della) forma scritta, attraverso la stipulazione del contratto in altra forma che non tuteli in modo equivalente il cliente, può giustificarsi esclusivamente allorquando la posizione e la natura del contraente rendono ammissibile un parziale allentamento della (più) rigorosa tutela che certamente sta alla base della imposizione della redazione per iscritto dovendosi altrimenti reputare inibita all’organo amministrativo … l’adozione di forme che apprestano minori garanzie al cliente ». 19 Per una compiuta analisi del testo normativo, v., tra gli altri, V. Cuffaro (a cura di), La subfornitura nelle attività produttive, Napoli 1998; G. De Nova (a cura di), La subfornitura, Milano 1998. 20 Per un’ampia disamina del decreto de quo si rinvia a V. Roppo (a cura di), Commentario, Viaggi, vacanze e circuiti tutto compreso (d.lgs. 17 marzo 1995 n. 111), in Nuove l. civ. comm. 1997. 21 Cfr. M.E. La Torre, Il contratto di viaggio “tutto compreso”, in Giust. civ. 1996, II, p. 31. Secondo l’a., precisamente, « sembra da escludere che l’onere di forma sia disposto ad essentiam, cioè a pena di nullità dell’atto (v. art. 1325 n. 4 e art. 1350 c.c.) non essendo tale sanzione prevista espressamente e non potendosi essa desumere dal tenore della norma. Si tratta quindi di una forma prescritta ad probationem, necessaria cioè a dimostrare l’esistenza del contratto; ed è proprio per consentire al consumatore di poterne dare all’occorrenza la prova, che a lui deve essere rilasciata una copia del contratto stipulato, sottoscritto o timbrato dall’organizzatore ». 18 le parti prospetti il rischio di una contrattazione squilibrata e quindi, in ottica più generale, (il rischio) di una disfunzione del mercato. Si comprende, allora, come le regole di tutela del contraente debole (che tratteggiano il nuovo diritto dei contratti) e, segnatamente, il (neo) formalismo, vengano a perdere l’originaria (ed esclusiva) vocazione consumeristica per assumere, invece, una valenza più generale, quale antidoto alle diverse forme di abuso (contrattuale) che possono alterare il corretto dispiegarsi delle dinamiche concorrenziali. Anche per il contratto di subfornitura, quindi, viene imposto il requisito della forma scritta, a garanzia di una maggiore trasparenza dell’operazione e di una più integra e consapevole determinazione volitiva da parte dell’impresa c.d. satellite. L’inosservanza del precetto di forma è espressamente sanzionata con la nullità (art. 3). Si tratta di una previsione che, come già rilevato, trova ampio riscontro nelle normative di settore, e che risolve in chiave testuale lo spinoso problema della sorte del contratto concluso senza la forma prescritta. C’è da chiedersi, tuttavia, quali conseguenze possa produrre il difetto di forma quando non sia rinvenibile, nel dettato normativo, una precisa indicazione al riguardo. Il problema si pone, in particolare, per i cc.dd. contratti di viaggio: l’art. 85 del Codice del Consumo (che, come noto, riproduce il contenuto dell’art. 6 del d. legisl. n. 111 del 199520, attuativo della Direttiva n. 90/314 CEE, concernente i “viaggi, le vacanze ed i circuiti tutto compreso”) prevede, invero, che il contratto di vendita di pacchetti turistici debba essere stipulato per iscritto, in termini chiari e precisi, ma nulla dispone per l’ipotesi in cui detto precetto non dovesse essere osservato. In effetti, le opinioni sul punto appaiono tutt’altro che univoche anche perché, come ovvio, subiscono l’influenza delle più generali concezioni esistenti sul tema della forma. È evidente, infatti, come, muovendo dal tradizionale assunto della libertà delle forme (ovvero, dal principio di tassatività delle forme legali), l’assenza di una testuale comminatoria di nullità (come nell’ipotesi di cui all’art. 85 Cod. Consumo), induca l’interprete a concludere per la validità del contratto (pur redatto in via informale). In diversa prospettiva, si è invece sostenuto (argomentando sempre dalla mancanza, nella disposizione, di una esplicita indicazione di nullità) come la forma prevista dalla norma suddetta (art. 85), debba in realtà intendersi come forma ad probationem, necessaria cioè a dimostrare l’esistenza del contratto21. Questa tesi, tuttavia, non sembra 257 Forme negoziali di protezione Studium Iuris, 3/2010 potersi condividere in quanto se, come correttamente evidenziato, la c.d. forma ad probationem indica la forma della prova e non quella dell’atto22, è ragionevole supporre che, quando la norma richieda la forma (non come requisito dell’atto ma bensì) ai fini della prova, ciò debba essere esplicitamente affermato dal legislatore23: conclusione, quest’ultima, che sembra trovare ampia conferma nel dato sistematico. Al di là di codesti rilievi, va detto però come entrambe le opinioni richiamate non convincano perché sembrano privare il contraente debole (nella specie: l’acquirente del pacchetto turistico) di una efficace tutela di fronte all’inosservanza, da parte del professionista, degli oneri di forma prescritti dalla legge: e ciò appare decisamente in contrasto con le finalità di informazione e di protezione perseguite dalla normativa. Senz’altro più persuasiva (e coerente con le suddette finalità) parrebbe allora una ricostruzione propensa a ravvisare, nella fattispecie considerata, (e pur in assenza di una esplicita previsione in tal senso) un’ipotesi di nullità. Si tratterebbe, precisamente, di un’ipotesi di nullità virtuale ex art. 1418, comma 1, c.c., discendente dalla violazione della disposizione di cui all’art. 85 Cod. Consumo, considerata quale norma imperativa in quanto preordinata alla tutela del contraente debole (e della correttezza del mercato) ovvero di un interesse avente rilievo di ordine pubblico (c.d. ordine pubblico di protezione). Essendo, infine, quella descritta un’ipotesi di nullità di protezione, ad essa dovrebbe estendersi (in via analogica) la disciplina peculiare (più sopra evidenziata) di dette forme di nullità (in punto di legittimazione ad agire, di rilevabilità d’ufficio e di necessaria conservazione del contratto). 4. Prescrizioni di forma e ‘procedimento’ negoziale. Il problema della violazione degli obblighi di informazione tra regole di validità e regole di responsabilità Il “ritorno” al formalismo, più volte evocato nel presente studio quale metafora dell’evoluzione tutt’ora in atto dell’ordinamento (su impulso della legislazione comunitaria), assume, come già evidenziato, un significato del tutto particolare in quanto, diversamente dalla tradizione, non investe soltanto l’atto ma tende a coinvolgere l’intero “procedimento” negoziale. Ciò, del resto, è pienamente coerente con la ratio del neo-formalismo che è quella di riequilibrare la posizione delle parti del contratto attraverso il (tendenziale) superamento di quelle asimmetrie informative24 che connotano ampi settori della odierna contrattazione di massa. Il conseguimento di tali obiettivi postula, tuttavia, che l’informazione non abbia un carattere circoscritto ed episodico ma sia piuttosto in grado di “illuminare” e di rendere trasparenti tutte le fasi della sequenza negoziale: si spiega così il gran numero di prescrizioni formali disseminate nella normativa che ‘puntellano’ lo svolgimento della vicenda contrattuale, soprattutto sotto il profilo degli obblighi di informazione che debbono essere assolti (il più delle volte) per iscritto da parte del professionista sia durante le trattative (ad es., l’informativa sul c.d. ius poenitendi nelle vendite negoziate fuori dai locali commerciali, ovvero le informazioni che debbono essere fornite dal tour operator all’utente prima della conclusione del contratto di viaggio), sia durante l’esecuzione del rapporto (ad es., l’informazione al cliente bancario circa il mutamento del tasso d’interesse e/o delle altre condizioni rilevanti del contratto). Si tratta, per altro, di aspetti già esaminati su cui non occorre sostare. L’attenzione deve ora invece focalizzarsi su un diverso (ma connesso) profilo, quello cioè delle conseguenze ricollegabili alla eventuale inosservanza delle suddette prescrizioni formali. Il problema, è bene dirlo subito, non si pone (o si pone in termini senz’altro più sfumati) quando il legislatore, in previsione della violazione del precetto, abbia già (espressamente) individuato la sanzione da applicare. È il caso, ad es., della omessa (o intempestiva) informazione, nelle vendite porta a porta o nei contratti a distanza, sul contenuto e sui termini del diritto di recesso, in cui il legislatore prevede, quale sanzione a carico del professionista, un ampliamento del c.d. spatium deliberandi (cioè dell’intervallo temporale entro cui il cliente può esercitare la facoltà di ripensamento, che passa, infatti, dagli iniziali 10 giorni al più lungo termine di due mesi). Ma, quid iuris, nell’ipotesi in cui la norma nulla 22 Cfr. R. Sacco, Il contratto, cit., p. 577. In tal senso è senz’altro orientata la giurisprudenza: al riguardo v., ad es., Cass. 30 dicembre 1999, n. 943, in Giust. civ. 2000, I, p. 320; Cass. 14 giugno 1995, n. 6713, in Giust civ. 1996, I, p. 803; Cass. 11 luglio 1989, n. 3266, in F. it. 1989, I, c. 2744. 24 Sul tema, recentemente, M. De Poli, Asimmetrie informative, Padova 2002. 258 23 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi disponga in ordine alle conseguenze (sanzionatorie) della sua violazione? Il problema, negli ultimi anni, si è posto, in special modo, con riguardo agli (svariati) obblighi di informazione che il legislatore (con il d. legisl. n. 58 del 1998) e la CONSOB (con il Regolamento attuativo n. 11522/1998) hanno posto a carico del professionista nel settore dei rapporti di intermediazione finanziaria. In tale settore, l’informazione assume un ruolo ancora più pregnante a causa della delicatezza degli interessi coinvolti, che sono quelli (molto spesso) dei piccoli risparmiatori i quali, privi di adeguate cognizioni tecniche, affidano i loro risparmi alla gestione di operatori qualificati25. Questi ultimi dovrebbero «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati » [art. 21, comma 1, lett. a), d. legisl. n. 58 del 1998], indicando tutti i profili di rischio delle operazioni da concludere. È evidente, allora, la peculiare rilevanza che assumono, nel predetto settore, gli obblighi di informazione, dal cui puntuale e completo adempimento (durante l’intera vicenda negoziale), viene a dipendere la formazione, in capo al contraente debole, di un consenso integro e consapevole. Non poche volte, tuttavia, accade che detti obblighi, nella concreta dinamica dei rapporti, vengano sostanzialmente (in tutto o in parte) elusi. Si è così determinato, in tempi recenti, e in occasione 25 Naturalmente, occorre tenere presente che gli investimenti (in titoli) finanziari sono pur sempre operazioni connotate da una fisiologica (ed ineliminabile) componente di rischio. È allora opportuno puntualizzare che, attraverso lo strumento informativo, non si mira tanto a neutralizzare detta componente aleatoria quanto, piuttosto, si vuole che « il risparmiatore sopporti il rischio inerente al proprio investimento in quanto tale, non anche i rischi connessi ad un difetto di conoscenza circa il contenuto del titolo negoziale e le circostanze che possono incidere sulla sua consistenza e la stessa esistenza »: così V. Scalisi, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, in R. d. civ. 1994, II, p. 180. 26 Cfr, fra le altre, Trib. Trani 31 gennaio 2006, in Contratti, 2006, 7, p. 686 ss., con nota di V. Sangiovanni, La responsabilità dell’intermediario nel caso Cirio e la recente legge per la tutela del risparmio; Trib. Palermo 17 gennaio 2005, in G. it. 2005, I, p. 2096; Trib. Mantova 1° dicembre 2004, in Danno e resp. 2005, p. 614; Trib. Mantova 18 marzo 2004, I, in G. it. 2004, p. 2125. 27 C.M. Negro, Regole di condotta degli intermediari finanziari: gli obblighi d’informazione, in G. comm. 2005, II, p. 499. 28 Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, in Contratti 2006, 5, p. 446, con nota di F. Poliani, La responsabilità precontrattuale della banca per violazione dell’obbligo di informazione. 29 Cfr., tra gli altri, V. Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond e tango bond), in Danno e resp. 2005, p. 624; A. Di Majo, Prodotti finanziari e tutela del risparmiatore, in Corr. giur. 2005, p. 1285; C. Miriello, La strenua difesa dell’investitore: scandali finanziari e pretese nullità virtuali dei soprattutto di note vicende di (gravi) crack societari e finanziari, un notevole contenzioso tra gli istituti di credito ed i clienti/risparmiatori, finalizzato (da parte di questi ultimi) al recupero delle somme investite e (successivamente) andate perdute. È ben noto, per altro, come su tale questione (e, in particolare, sulla individuazione dei rimedi esperibili dalle parti lese) si siano creati diversi orientamenti. Una parte della giurisprudenza di merito26, muovendo dall’intento di assicurare la più ampia tutela al cliente/risparmiatore, ha sostenuto con decisione la tesi della nullità del contratto (di compravendita di titoli) quale conseguenza della violazione, da parte dell’intermediario finanziario, di norme imperative (essenzialmente l’art. 21, d. legisl. n. 58 del 1998), dettate dal legislatore (oltre che per l’immediata salvaguardia delle ragioni del contraente debole anche, in via mediata) per preservare l’interesse (generale), tipicamente di ordine pubblico, ad una corretta gestione del risparmio e ad un efficiente funzionamento del mercato (finanziario). Dunque, una nullità virtuale ex primo comma art. 1418 c.c. Siffatto indirizzo, ancorché apprezzabile negli intendimenti di fondo, ha però destato, in dottrina (e nella stessa giurisprudenza), più d’una perplessità. Si è invero evidenziato come la regola della nullità virtuale non possa trovare (indifferentemente) applicazione tutte le volte in cui vi sia violazione di una norma imperativa c.d. imperfetta (cioè priva di sanzione), ma soltanto quando la violazione attenga « al contenuto dell’atto ed al suo momento genetico »27, ovvero incida “su elementi intrinseci della fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto”28. Al di fuori di dette ipotesi, quando la violazione della norma imperativa si concreti invece nell’inosservanza di una regola di condotta, non dovrebbe porsi un problema di nullità (virtuale) del contratto, ma soltanto un problema di responsabilità (contrattuale o precontrattuale, a seconda della fase in cui sia avvenuta la violazione della regola di condotta, ovvero dell’obbligo di informazione). Più in generale, in linea con l’insegnamento tradizionale, si è osservato come il criticato orientamento giurisprudenziale condurrebbe, inevitabilmente, ad una “pericolosa” commistione tra le regole di validità (dalla cui violazione discende la nullità o l’annullabilità del contratto) e le regole di comportamento (alla cui violazione si collegano, invece, profili di responsabilità)29. Ecco perché, in tale ordine di idee, si ritiene senz’altro più ragione- 259 Forme negoziali di protezione Studium Iuris, 3/2010 vole prospettare, nelle ipotesi considerate, un giudizio di responsabilità a carico del professionista/intermediario che abbia violato le regole (di condotta) preordinate a garantire al cliente tutte le informazioni necessarie ad una più consapevole valutazione dell’operazione30. Da ultimo, tale indirizzo ricostruttivo sembra ricevere l’autorevole avallo della Suprema Corte la quale, in una recente pronuncia, ha stigmatizzato il ricorso al rimedio invalidatorio della nullità (virtuale) ed ha invece accolto la tesi della responsabilità (dell’intermediario)31. contratti di vendita di titoli obbligazionari, in Contratto e impr. 2005, p. 497. 30 In realtà, si potrebbe anche ipotizzare, in detti casi, il (diverso) rimedio dell’annullabilità del contratto per vizio del consenso (dolo o errore), atteso che l’omessa (o carente) informazione può senz’altro alterare il processo di formazione della volontà dell’investitore: in dottrina, per un’apertura in tal senso, v. M. Rossetti, Rassegna di merito, in Contratti 2004, p. 717 ss. Va detto, però, come tale ricostruzione possa rendere più difficoltosa, sotto il profilo dell’onere probatorio, la posizione del risparmiatore. Si spiega, per tanto, la scarsa diffusione del suddetto rimedio nella prassi giurisprudenziale. 31 Cfr. Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, cit., ove, precisamente, si afferma la natura precontrattuale della responsabilità dell’istituto di credito. 260 DENIGRAZIONE DEL PRODOTTO E DISCREDITO DELL’IMPRENDITORE: IPOTESI RILEVANTI EX ART. 2043 C.C. di Arianna Fusaro Sommario: 1. Informazioni inesatte sul conto di un’impresa o di un prodotto: ipotesi estranee all’àmbito di applicazione degli artt. 2598 ss. c.c. – 2. La « reputazione economica » tra diritto della personalità e interesse patrimoniale. – 3. Informazioni inesatte e danno alla « reputazione » d’impresa: la responsabilità. – 4. « Reputazione » del prodotto e denigrazione tramite Warentest. 1. Informazioni inesatte sul conto di un’impresa o di un prodotto: ipotesi estranee all’àmbito di applicazione degli artt. 2598 ss. c.c. La letteratura di stampo economico ha dedicato negli ultimi decenni un’attenzione sempre crescente alla c.d. corporate reputation ed in particolare alle metodologie che ne consentono una valutazione in termini di maggiore o minore valore per l’impresa. Si tratta naturalmente di un « bene » a carattere in prevalenza immateriale – dunque non facilmente quantificabile –, e che pure assume un ruolo fondamentale nella vita dell’impresa perché in grado di offrire maggiore vantaggio competitivo. Una buona reputazione può in effetti essere determinante per influenzare la scelta del consumatore, oltre che rappresentare un potenziale per l’organizzazione della vita dell’impresa (si pensi alla maggiore facilità di ottenere finanziamenti, all’accrescimento delle possibilità di acquisire 1 In questo senso, le stesse forme della comunicazione possono divenire strumenti di sanzione « sociale », di per sé maggiormente efficaci rispetto ad altri tipi di sanzione, come quelle legali. Nel caso di un illecito, ad esempio, il risarcimento del danno può risultare di per sé poco efficace sia sul piano della sanzione che su quello della deterrenza, ed in particolare in quei sistemi dove non esistono categorie come quelle dei punitive damages; ma la trasmissione dell’informazione attraverso i mezzi di comunicazione può rappresentare di fatto una forma di sanzione di maggior impatto per l’impresa che se ne sia resa responsabile (V. Zeno - Zencovich, Comunicazione, reputazione, sanzione, in Dir. inf. e informatica 2007, p. 263 ss.) partners aziendali o alla capacità di attrarre personale qualificato e motivato). Ma se la reputazione di una impresa generalmente si costruisce nel lungo periodo, attraverso un processo lento ed in base ad una comunicazione continua ma non eccessivamente invadente, è tuttavia facilmente dimostrabile come sia invece piuttosto semplice per un’impresa perdere la propria buona reputazione. La diffusione di notizie screditanti, per esempio un evento negativo attribuito al testimonial di un’impresa (è il caso di uno sportivo che assuma sostanze vietate), oppure un difetto riscontrato in un prodotto, o ancora notizie sulla cattiva gestione, su dati relativi ad inquinamento ambientale, ecc., possono condurre facilmente – e con effetti talvolta davvero eclatanti – ad una diminuzione anche significativa della reputazione di un’impresa. E questo non solo per le conseguenze immediate che l’informazione, quando sia di contenuto screditante o denigratorio, può produrre – e cioè un effetto di sviamento nei confronti di potenziali clienti –, ma altresì per le conseguenze « a catena » che finiscono col prodursi nel lungo periodo, attraverso quel processo silenzioso che, se ha una grande rilevanza nella costruzione della reputazione di una impresa, non di meno è capace di espandere e moltiplicare gli effetti dirompenti di una informazione negativa1. Nel nostro ordinamento l’imprenditore è tutelato rispetto alla denigrazione (notizia che investe il prodotto) e al discredito (notizia che pregiudica la stima di cui gode l’imprenditore) ex artt. 2598 ss. c.c. e cioè quando si configurino come atti di con- 261 Denigrazione del prodotto e discredito dell’imprenditore Studium Iuris, 3/2010 correnza sleale. L’operare di tali disposizioni richiede che si combinino due circostanze, una di carattere oggettivo e l’altra di tipo soggettivo. Sotto il primo profilo, deve trattarsi della diffusione di notizie e apprezzamenti screditanti per i prodotti o l’attività di un concorrente; dal punto di vista soggettivo, invece, la « diffusione di notizie e apprezzamenti » relativi al prodotto o all’attività dell’imprenditore deve provenire da un soggetto che si trovi in rapporto di concorrenza (diretta o quantomeno indiretta o potenziale) con l’imprenditore cui si riferisce l’informazione2. L’informazione inesatta o non veritiera (ed in taluni casi la notizia vera, ma riportata in modo non obiettivo) che importi la denigrazione o il discredito può però in molti casi provenire da soggetti completamente estranei alla dinamica concorrenziale. Le ipotesi sono molteplici. La circolazione di informazioni inesatte può essere attribuita ad organi di informazione, a singoli consumatori, ad associazioni di consumatori, alle banche, a distributori dell’imprenditore ed in genere ad ogni soggetto che, al di fuori di un rapporto di tipo concorrenziale con l’imprenditore, comunichi ad altri notizie false sul conto di un’impresa o di un prodotto. Anche in tali casi, la diffusione dell’informazione può avere conseguenze di maggiore o minore portata sulla reputazione. La notizia che appare su tutti i giornali di un dissesto finanziario di una nota impresa, ha evidentemente un pubblico più vasto rispetto alla notizia che un distributore comunica ad un singolo potenziale consumatore. Inoltre, l’informazione può essere presentata sotto forma di notizia, e basarsi quindi su circostanze ben determinate; altre volte le informazioni su un prodotto o un’impresa sono formulate tramite warentest, cioè prove comparative sui prodotti. Talvolta si potrà ricorrere ad esperti del settore, che formulano giudizi su determinati prodotti in base alla loro competenza professionale; in tali casi, la lesione della reputazione ed il potenziale effetto sviatorio del consumatore può potenzialmente assumere una dimensione più consistente. La notizia diffusa da un imprenditore sul conto del prodotto di un imprenditore concorrente e la medesima notizia diffusa su tutti i giornali da un’associazione di consumatori si presentano dunque come fattispecie non affini. Mentre alla prima fattispecie è applicabile la disciplina sulla concorrenza sleale, che vieta ogni atto contrario ai principi di correttezza professionale tra imprenditori concorrenti, allorché la denigrazione o il discredito provengano da un soggetto non concor- rente con l’imprenditore danneggiato, sorgono particolari difficoltà, soprattutto quando si debba stabilire se – ed a quale titolo – l’agente possa essere ritenuto responsabile nei confronti dell’imprenditore danneggiato. Il problema – che è stato affrontato dalla giurisprudenza con riferimento ai casi di protesto illegittimo3, illecita o erronea segnalazione di una posizione in sofferenza alla Centrale Rischi della Banca d’Italia4, false notizie diffuse da distributori dell’imprenditore o da agenzie di informazioni5, servizi giornalistici anche in forma di Warentest6–, si inquadra nell’ampia tematica della c.d. responsabilità per la circolazione di informazioni economiche inesatte7, ma si caratterizza con riferimento al soggetto danneggiato, che è colui su cui verte l’informazione, ma soprattutto riguardo all’interesse leso, che può radicarsi in questa specifica ipotesi in un interesse di natura patrimoniale, ma anche in un diritto attinente alla sfera della personalità. Nel caso di informazioni che abbiano ad oggetto un imprenditore, un’impresa o il prodotto di una data impresa, per esempio, vengono in rilievo interessi non necessariamente riconducibili alla 2 La giurisprudenza ritiene infatti che possano integrare il profilo della concorrenza sleale anche atti posti in essere da imprenditori concorrenti ma a livelli economici diversi (produttori, distributori, rivenditori); ammette altresì che tali regole siano applicabili nell’ipotesi in cui l’atto sia compiuto per interposta persona o attraverso un soggetto, il quale, pur non essendo un diretto concorrente dell’imprenditore colpito dall’atto di concorrenza sleale, agisca nell’interesse di un suo diretto concorrente (ex multis: Cass. 15 marzo 1960, n. 515, in Giust. civ. 1960, I, p. 459; Cass. 10 luglio 1978, n. 3446, in G. ann. d. ind. 1978, n. 1007; Cass. 16 aprile 1983, n. 2634, in G. ann. d. ind. 1983, p. 53; più di recente Cass. 11 aprile 2001, n. 5375, in Danno e resp. 2002, p. 288, con nota di S. Ronco, La concorrenza sleale dell’extraneus). 3 Tra le più recenti Cass. 5 novembre 1998, n. 11103, in G. it. 1999, p. 770; in Danno e resp. 1999, p. 340; in Corr. giur. 1999, p. 998; Cass. 23 marzo 1996, n. 2576, in Banca, borsa, tit. cred. 1997, p. 382; Cass. 30 marzo 2005, n. 6732, in Danno e resp. 2006, p. 286. 4 Tra le molte pronunce si segnala di recente Cass. civ., sez. un., 4 giugno 2007, n. 12929, in Nuova g. civ. comm. 2008, p. 1 ss. e in Danno e resp. 2007, p. 12316 ss. 5 App. Milano 11 dicembre 1973 e Cass. 11 ottobre 1978, entrambe pubblicate in Resp. civ. e prev. 1979, p. 747 ss. 6 V. infra, par. 4. 7 Quando si parla di responsabilità da informazioni economiche inesatte generalmente si intende far riferimento ad un duplice ordine di casi: le ipotesi in cui l’informazione economica falsa o inesatta sia fonte di responsabilità (contrattuale o extracontrattuale) nei confronti del soggetto che la riceve, quando questi modifichi il suo comportamento in base all’informazione ricevuta; e le ipotesi in cui l’informazione falsa o inesatta cagioni un danno nella sfera giuridica del soggetto su cui verte l’informazione. 262 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi sfera patrimoniale. La diffusione di informazioni inesatte sul conto di un imprenditore può influire sulla sua buona reputazione, interesse riconducibile al settore dei diritti della personalità. Ma si parla anche, a questo proposito, di lesione alla c.d. « reputazione economica » o, con terminologia maggiormente utilizzata dagli economisti, di lesione alla « reputazione d’impresa », la cui attinenza alla sfera dei diritti della personalità presenta profili di incertezza. 2. La « reputazione economica » tra diritto della personalità e interesse patrimoniale Con l’espressione « reputazione economica » si intende generalmente far riferimento alla « reputazione che riguarda l’attività economica, e cioè l’attività di produzione o commercio di beni o servizi e più precisamente la considerazione o rappresentazione che il pubblico ha della capacità del soggetto di conseguire risultati positivi soprattutto in termini di bontà dei prodotti o dei servizi e di guadagno (profitto) »8. Tuttavia, vi è chi – parzialmente richiamandosi ai concetti di denigrazione e discredito – ha inteso tracciare una linea di demarcazione tra due distinti aspetti di cui sarebbe caratterizzata la reputazione economica, attraverso la distinzione tra la reputazione dell’imprenditore (diritto della personalità) e la « reputazione » del prodotto (interesse patrimoniale). Dal primo punto di vista, per reputazione economica si intenderebbe far riferimento 8 P. Auteri, La tutela della reputazione economica, in L’informazione e i diritti della persona, a cura di G. Alpa, M. Bessone, L. Boneschi, G. Caiazza, Napoli 1983, p. 94. 9 A. Giuliani, La tutela aquiliana della reputazione economica, in Contr. e impr. 1985, p. 80; in termini analoghi, l’autore ripropone la suddetta distinzione anche in La concorrenza sleale, nella Giur. Bigiavi, La responsabilità civile, vol. III, Torino 1987, p. 349 s.; in Vendita per corrispondenza e lesione della reputazione economica del produttore, in Dir. inf. e informatica 1987, p. 1035; in Illecito concorrenziale, illecito aquiliano ed ingiustizia del danno, in Rass. d. civ. 1983, p. 830 ss., in part. p. 834 s. 10 A. Giuliani, La tutela aquiliana della reputazione economica, cit., p. 80. 11 A. Giuliani, op. loc. ult. citt. 12 Le difficoltà della distinzione vengono evidenziate proprio nella common law, ove, pur se sul piano dei principi si tende ad operare la scissione tra due distinte ipotesi di torts, l’injurious falsehood e la defamation, sul piano pratico non mancano le difficoltà di mantenere distinti i due torts: « the difficulty in the distinction between the personal aspersion and the commercial disparagement lies in the fact that many statements effectuate both harms. It might be possibile to imply some accusation of personal inefficiency or incompetence, at least, in nearly every imputation directed against a business or its product » (Prosser and Keeton, The Law of Torts, cit., 965). all’interesse dell’imprenditore « a che non vengano diffusi riferimenti personali negativi, anche se veritieri, attinenti alle proprie qualità imprenditoriali, che è espressione del diritto assoluto alla tutela dell’onore, spettante all’imprenditore così come a ogni altro soggetto »9; dall’altro lato, starebbe invece l’interesse dell’imprenditore « a che non vengano screditati o comunque sviliti i propri prodotti, pur se in assenza di riferimenti personali negativi, che è espressione della generale libertà di iniziativa economica privata, considerata sotto il particolare angolo visuale dell’interesse patrimoniale a non veder diminuito il proprio volume di affari e di guadagni a causa di altri soggetti, imprenditori o non »10. La distinzione si fonderebbe sulla scissione tra due diversi interessi, l’uno riferito soggettivamente alle qualità dell’imprenditore, l’altro riferito ai prodotti messi in commercio dall’imprenditore. Si dovrebbe parlare nel primo caso di reputazione economica/diritto della personalità, nel secondo di reputazione economica/aspettativa di guadagno11. L’esigenza di tenere distinto il diritto della personalità dall’interesse a carattere patrimoniale, quando si parla di « reputazione » d’impresa, appare sicuramente condivisibile, oltre che in buona misura di immediata evidenza, e si giustifica nell’esigenza di evitare che la soluzione all’interrogativo circa la protezione di interessi fortemente caratterizzati in senso patrimoniale possa ricevere una facile soluzione attraverso il ricorso allo schema del diritto della personalità, diritto che occupa nel sistema una posizione di assoluto privilegio. E tuttavia, il confine tra i due interessi è spesso difficile da delineare, e probabilmente non può essere tracciato unicamente sulla base della distinzione tra denigrazione del prodotto da un lato e discredito dell’imprenditore dall’altro. Utili indicazioni in questo senso vengono dalla comparazione con l’esperienza di common law, ove si ricorre a due differenti figure di torts – il tort di injurious falsehood (slander of title, slander of goods, product disparagement ) per il caso di informazioni false o inesatte relative ai beni, ai prodotti, all’attività, quando non comportano la denigrazione personale dell’imprenditore, la defamation per l’ipotesi in cui venga colpita la figura dell’imprenditore – ma in cui la casistica giurisprudenziale e la dottrina hanno messo in luce limiti e possibili sovrapposizioni tra le due figure. Ma la distinzione tra reputazione economica (diritto della personalità) e reputazione economica (aspettativa di guadagno), è tutt’altro che facile da tracciare12. Per prima cosa, la reputazione del- 263 Denigrazione del prodotto e discredito dell’imprenditore Studium Iuris, 3/2010 l’imprenditore non coincide necessariamente ed integralmente con la reputazione economica/diritto della personalità. Non sempre infatti quando si parla di reputazione dell’imprenditore si intende far riferimento ad un suo diritto della personalità (di contenuto coincidente con la reputazione della persona fisica). Spesso, anzi quando si considera l’interesse dell’imprenditore alla sua aspettativa di guadagno, non si può dire che esista alcuna differenza tra la tutela della reputazione di un prodotto o di una attività e la tutela della reputazione di un imprenditore. La distinzione si coglie evidente quando l’impresa sia esercitata in forma collettiva e non in forma individuale. Vi sono infatti imprese di grande dimensione aventi struttura societaria e caratterizzate dalla frammentarietà delle partecipazioni azionarie, per le quali è difficilmente sostenibile che l’informazione potenzialmente idonea a colpire la reputazione dell’impresa sia lesiva di un diritto della personalità. E ciò per due ordini di ragioni. Da un lato, è difficile ipotizzare che un diritto della personalità possa essere ascritto ad una società di grandi dimensioni, ove la partecipazione azionaria rappresenta soltanto una piccola quota del tutto, in quanto difficilmente compatibile con il contenuto stesso dei diritti della personalità, ma anche con la speciale natura del soggetto collettivo in questione13. Il procedimento di ascrizione del diritto alla società, infatti, ne comporta una radicale modifica nel contenuto: nel passaggio attraverso le regole organizzative interne14, il diritto della personalità finisce col modificarsi fino ad assumere, in realtà complesse, caratteristiche completamente difformi da quello che ne costituiva il contenuto originario (ed essenziale)15. Dall’altro, è evidente che ciò che si intenderebbe tutelare non coincide affatto con un diritto alla reputazione di contenuto analogo a quello di cui può essere titolare la persona fisica, data la sostanziale diversità tra la reputazione di una persona fisica e la reputazione di una impresa quando riferita esclusivamente ad interessi economici. Una tale coincidenza potrebbe al limite ipotizzarsi quando l’impresa possa in qualche modo identificarsi con una persona fisica, rappresentata dall’azionista principale, dal fondatore dell’impresa, dall’amministratore, ove la reputazione sarebbe quella di cui egli gode nel pubblico per le sue qualità nel settore delle strategie imprenditoriali e commerciali. Oppure, quando l’impresa sia di piccole dimensioni e il procedimento di ascrizione del diritto all’impresa, pur attraverso il filtro delle regole organizzative interne, faccia conservare al diritto alla reputazione il suo « nucleo essenzia- le »16. Talvolta potrà dirsi lesa l’identità commerciale dell’impresa, che per certi versi assume un contenuto analogo a quello dell’identità personale. Ma, più di frequente, nessuna di queste ipotesi potrà formularsi, giacché nessun interesse assimilabile ad un diritto della personalità potrà in tali casi venire in considerazione. Basti pensare all’ipotesi in cui il discredito investa direttamente l’impresa, ma questa sia nota presso il pubblico con un nome di fantasia17, che funge da schermo tra le informazioni screditanti e la persona dell’imprenditore (individuale o collettivo). D’altro canto, il contenuto della reputazione economica quale aspettativa di guadagno non è delineabile esclusivamente attraverso il riferimento ad elementi attinenti l’attività dell’impresa o i suoi prodotti piuttosto che la persona dell’imprenditore. Anche taluni attacchi alla « reputazione » del prodotto possono ripercuotersi sulla persona dell’imprenditore finendo per costituire le- 13 Per stabilire se un diritto sia imputabile ad una persona giuridica occorre infatti valutare se l’interesse « possa riferirsi ad una pluralità di soggetti, considerati uti universi » (P. Zatti, Persona giuridica in Tratt. Iudica-Zatti, Glossario, Milano 1994, p. 337), se si tratti cioè di un diritto suscettibile « di assumere quello speciale contenuto – di subire, cioè quella modificazione rispetto al suo contenuto originario – che la disciplina riassunta nella nozione di persona giuridica comporta » (F. Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica, in R. d. civ. 1965, I, p. 591). Sostenere l’esistenza di un diritto in capo alla persona giuridica, infatti, « significa riferirsi all’operare delle valutazioni di comportamento che si determinano in dipendenza di una fattispecie concreta tra cui si connette la tipica situazione menzionata, secondo le norme generali e secondo le regole e i fatti di organizzazione individuabili entro l’ordinamento della persona giuridica » (P. Zatti, Persona giuridica e soggettività, Padova 1975, p. 305). 14 La funzione della normativa interna o di organizzazione, ossia delle regole che permettono per esempio di stabilire quali individui possono esercitare il diritto e assumere i poteri che ne derivano, « non si esaurisce nel trasportare di peso – per così dire – le predicazioni riferite alla persona giuridica in capo ad una persona fisica, ma investe anche queste predicazioni medesime, il cui contenuto viene analizzato e frammentato per poter essere poi distribuito fra i singoli individui » (F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, in Studi in onore di Ascarelli, Padova 1989, p. 68 s.). 15 Ci sia consentito rinviare a questo proposito, anche per più puntuali indicazioni bibliografiche, al nostro I diritti della personalità dei soggetti collettivi, Padova 2002. Sul modo ed il risultato dell’ascrizione di diritti della personalità in capo a soggetti collettivi A. Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), in R. d. civ. 2002, p. 851 ss. 16 Arianna Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, Padova 2002, p. 63 ss. 17 G. Ghidini, Informazione economica e controllo sociale: il problema del Warentest, in Pol. d. 1973, p. 631, e in nota a Trib. Milano 28 settembre 1972, in Gr. ann. d. ind. 1972, p. 1218. 264 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi sione di un suo diritto della personalità. Specie ove implicitamente si imputi all’imprenditore un comportamento doloso. Così, se si dice che « il vino x è sofisticato »18 oppure che l’acqua minerale di una nota azienda contiene sostanze nocive per la salute19, ciò può comportare anche un « attacco, riflesso ma innegabile, all’« onore commerciale » della persona »20. Vanno di conseguenza distinte le ipotesi di denigrazione del prodotto tout court dalle ipotesi di denigrazione dei prodotti che comportano anche il discredito della persona fisica dell’imprenditore. La distinzione, dunque, presenta profili di marcata incertezza21. Tuttavia, essa appare presuppo- 18 G. Ghidini, Informazione economica e controllo sociale: il problema del Warentest, cit., p. 631. L’esempio è ripreso da A. Giuliani, La tutela aquiliana della reputazione economica, cit., p. 81; Id., Vendita per corrispondenza e lesione della reputazione economica del produttore, cit., p. 1036, il quale sottolinea come non sia possibile tracciare un netto confine tra reputazione dell’imprenditore e reputazione del prodotto. 19 R. Kidner, Defaming a Company by Disparaging its Products, in Journal of Business Law 1992, p. 570. 20 G. Ghidini, Informazione economica e controllo sociale: il problema del Warentest, cit., p. 631. 21 Evidenzia P. Auteri, La tutela della reputazione economica, cit., p. 94: « da un lato (…) vi sono tipi di attività economica che sono espressione più diretta della persona, come le attività artistiche e le professioni intellettuali, nelle quali la reputazione personale può più facilmente riflettersi su quella economica e viceversa; da un altro lato, vi sono dei fatti che (per l’importanza che essi hanno nella considerazione sociale, in generale o in rapporto a determinate attività), pur riguardando la sfera personale, si riflettono sulla reputazione economica o, viceversa e più frequentemente, che, pur riguardando la sfera economica, si riflettono sulla reputazione personale ». 22 Interessante opzione interpretativa sostenuta in passato (R. Nicolò, Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile, in R. d. comm. 1956, I, p. 177 ss.), ma alla quale non è estranea nemmeno la dottrina più recente (C. Scognamiglio, Tutela del patrimonio e responsabilità extracontrattuale, Roma 1994, p. 233; Id., Prospettive europee della responsabilità civile e discipline del mercato, in Europa e d. priv. 2000, in part. p. 349 ss.; N. Muccioli, Osservazioni in tema di danno meramente patrimoniale, in Nuova g. civ. comm. 2008, p. 443. Pur non approfondendo l’argomento, si chiede come mai il diritto d’impresa « in tutto il ribollire di diritti funzionali all’ampliamento dell’area del danno risarcibile non sia stato ancora fatto affiorare » nel nostro sistema, a contrario di quanto è avvenuto in Germania ove è stato adottato per superare la rigida tipicità che connota il sistema della responsabilità civile C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano 2006, p. 445, nt. 6. 23 Diritto coniato dalla giurisprudenza al fine di includere sotto l’egida delle posizioni protette eterogenei interessi a carattere patrimoniale altrimenti privi di tutela (prima pronuncia in questo senso la nota Cass. 4 maggio 1982, n. 2765, in F. it. 1982, I, c. 2864; in Giust. civ. 1982, I, p. 1745, con nota di A. Di Majo; ibidem, p. 3103 (s. m.), con nota di A. De Cupis; in Resp. civ. e prev. 1982, p. 602). sto indispensabile di ogni valutazione in ordine alla eventuale responsabilità di un soggetto, che non si trovi in rapporto di concorrenza con l’imprenditore danneggiato, e che abbia fornito o diffuso una informazione inesatta. Il profilo patrimoniale della reputazione economica, infatti, deve essere sottoposto a quel giudizio di inclusione o esclusione entro la clausola di ingiustizia del danno che costituisce imprescindibile valutazione della sussistenza di una responsabilità da informazioni inesatte ex art. 2043. 3. Informazioni inesatte e danno alla « reputazione » d’impresa: la responsabilità La distinzione tra la sfera patrimoniale alla reputazione d’impresa e il diritto della personalità è operazione necessaria ove si voglia stabilire se la circolazione di informazioni economiche inesatte possa essere fonte di responsabilità ex art. 2043, in ragione della necessità di individuare la sussistenza di un « danno ingiusto », ove non si voglia desumere tale elemento dal rapporto di specialità che lega l’illecito concorrenziale all’illecito civile. I problemi maggiori si pongono evidentemente con riferimento all’aspetto patrimoniale della reputazione d’impresa, mentre minori incertezze si registrano nel settore dei diritti della personalità e dunque rispetto alla lesione della reputazione dell’imprenditore. Riguardo al contenuto patrimoniale della reputazione d’impresa occorre cioè indagare se ed in quali limiti l’interesse dell’imprenditore all’aspettativa di guadagno possa ricadere nell’àmbito di applicazione dell’art. 2043. Tra le possibili soluzioni ad un tale interrogativo, la meno plausibile sembra essere quella dell’individuazione di un vero e proprio diritto soggettivo dell’imprenditore, qualificabile come « diritto d’impresa »22 o « diritto all’integrità del patrimonio »23, che pure è stata ipotizzata da una parte della dottrina e della giurisprudenza e merita attenta considerazione. Tali tesi sembrano destinate ad essere definitivamente superate da una lettura della clausola di ingiustizia del danno che ne privilegi la dimensione per così dire « dinamica », quale criterio che tenga conto degli interessi in conflitto, piuttosto che la dimensione « statica », costruita intorno alla protezione di diritti soggettivi, talvolta addirittura delineati al di fuori di una cornice normativa non facilmente individuabile. La rilevanza ex art. 2043 dell’interesse patrimoniale alla reputazione d’impresa deve dunque essere condotta a partire da una attenta valutazione degli indici normativi presenti nell’ordinamento attraver- 265 Denigrazione del prodotto e discredito dell’imprenditore Studium Iuris, 3/2010 so i quali condurre la comparazione degli interessi in conflitto. I principali riferimenti normativi dell’interesse patrimoniale alla reputazione d’impresa vanno rinvenuti nell’art. 41 Cost., pur con i limiti derivanti dall’impiego della norma costituzionale ai fini dell’individuazione di un interesse protetto ex art. 2043; nell’art. 2598 c.c. che, a prescindere da una applicazione diretta od analogica nel settore degli illeciti tra non concorrenti, è certamente indice della rilevanza dell’interesse riconosciuto all’imprenditore alla reputazione dell’impresa; e ancora – anche in maniera soltanto indiretta – nelle norme che tutelano i segni distintivi dell’impresa e negli artt. 15 e 24 del Codice in materia di protezione dei dati personali con riferimento alla circolazione dei dati economici. Tali norme consentono di ritenere che l’interesse patrimoniale alla reputazione d’impresa è interesse tutelato nel nostro ordinamento, anche se in modo sostanzialmente « debole ». Per quanto riguarda il risultato della comparazione tra l’interesse patrimoniale alla reputazione d’impresa e l’interesse di colui che ha trasmesso l’informazione, la complessità della valutazione e l’incidenza inevitabile di elementi propri alla singola fattispecie sconsiglia di puntare ad una soluzione univoca, valevole per ogni ipotesi di diffusione di informazioni economiche inesatte lesive della reputazione d’impresa/aspettativa di guadagno; è piuttosto necessario procedere distinguendo le varie ipotesi a seconda del soggetto che ha fornito l’informazione inesatta (la banca, il giornalista, l’associazione di consumatori, il consumatore, etc.), ed all’uso cui la stessa è destinata. Per alcune di queste ipotesi, infatti, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità da status professionale, mentre per altre, ai fini dell’imputazione di una responsabilità ex art. 2043, potrebbe rendersi necessario un comportamento doloso, come nel caso dell’informazione fornita da consumatori. In tal modo verrebbero ad assumere rilevanza elementi come la qualità di colui che ha fornito l’informazione o la particolare riprovazione del suo comportamento. Sull’esito della comparazione, infine, sono destinate ad incidere considerazioni di ordine generale attinenti all’esigenza di favorire o scoraggiare determinati tipi di attività. Da questo punto di vista, va rilevato che se assume rilevanza l’interesse dell’imprenditore allo svolgimento regolare dell’attività economica ed alla realizzazione di un profitto, importanza sempre crescente è venuta ad assumere nella legislazione comunitaria e nazionale la figura del consumatore (si pensi soltanto alla normativa sulla pubblicità comparativa, ma anche al- la disciplina antitrust). Un elemento in grado di influire sull’esito della comparazione degli interessi potrebbe essere in questo senso l’esigenza di favorire la circolazione delle informazioni economiche – ed entro certi limiti anche di sopportare il rischio della circolazione di informazioni economiche inesatte – al fine di una maggiore facilità per il consumatore ad accedere alle stesse. 4. « Reputazione » del prodotto e denigrazione tramite warentest Il tema della lesione dell’interesse dell’impresa alla aspettativa di guadagni futuri, in particolare sotto l’aspetto delle modificazioni in negativo dell’« immagine » del prodotto in ragione di informazioni inesatte, è approfondito – oltre che nelle numerose sentenze cui si è fatto cenno – in poche ma interessanti decisioni concernenti i c.d. Warentest, le quali possono costituire sintetica esemplificazione delle problematiche che affiorano all’attenzione dell’interprete che si accosti a tali argomenti. Con l’espressione Warentest si indicano quelle prove effettuate da soggetti estranei alla dinamica concorrenziale – e cioè in genere da riviste specializzate, associazioni dei consumatori, organi di stampa, istituti di ricerca – sulle caratteristiche qualitative, merceologiche o di funzionalità, di un singolo prodotto o di una serie di prodotti tra di loro fungibili, i cui risultati vengono poi sintetizzati in un giudizio complessivo, talvolta sotto forma di tabelle o prospetti di sintesi24. Qualora il test riguardi prodotti tra di loro fungibili, cioè prodotti distinti per marca ma appartenenti al medesimo settore merceologico, i risultati delle prove si sostanziano in un giudizio comparativo che propone una graduatoria qualitativa sui prodotti25. È evidente come il Warentest costituisca stru- 24 Per una prima ed esaustiva definizione del warentest cfr. già E. Bonasi Benucci, Liceità del Warentest, in R. d. comm. 1963, p. 473; ma v. anche V. Roppo, Il « Warentest » in Germania. Orientamenti tradizionali e tendenze innovative, in G. comm. 1978, I, p. 83 ss. 25 Lo strumento del warentest ha avuto notevole diffusione soprattutto in Germania, ove nel 1964, dopo lunga discussione, il governo federale ha creato una apposita fondazione (la Stiftung Warentest) avente lo scopo di offrire al consumatore informazioni sulla qualità e la funzionalità dei prodotti, anche attraverso indagini su beni e servizi comparabili tra di loro (cfr. E. Roppo, Il « Warentest » in Germania, cit. e v. per le attività odierne della Stiftung Warentest, che esercita in Germania notevole influenza sulle scelte del consumatore, il sito www.stiftungwarentest.de). 266 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi mento in grado di esercitare una notevole influenza sulle scelte del consumatore, specie qualora provenga da un organismo che assume una certa veste di imparzialità ed indipendenza26, e che l’impresa può essere fortemente danneggiata dall’esito negativo di una prova condotta sul prodotto che mette in commercio. Il danno all’« immagine » del prodotto è destinato poi ad amplificarsi considerevolmente quando, oltre ad un risultato negativo ottenuto nella comparazione tra prodotti omogenei, il Warentest smascheri difetti del prodotto che altrimenti sarebbero destinati a rimanere sconosciuti al consumatore. La diffusione dei risultati di un Warentest effettuato da un soggetto indipendente diventa infine lo strumento utilizzato da operatori economici per reclamizzare propri prodotti a scapito di quello dei concorrenti, anche mediante forme di pubblicità comparativa27. La prima pronuncia in cui compiutamente viene affrontato il problema della liceità del warentest riguardava i risultati di una prova comparativa condotta dalla rivista mensile Quattroruote in cui si ponevano a confronto alcuni tipi di antifurto sulla base di determinati indici: il prezzo, il principio costruttivo, il modo di funzionamento, il tempo necessario per neutralizzare l’antifurto e l’organo sul quale agire per operarne la neutralizzazione28. L’impresa produttrice di uno di tali antifurti, che assumeva di essere stata danneggiata dai risultati ottenuti, aveva tuttavia dimostrato che la ri- 26 In Germania accade di frequente che le imprese pubblicizzino i loro prodotti attraverso il riferimento all’esito positivo ottenuto dalle prove della fondazione Stiftung Warentest (cfr. la nota immediatamente precedente). 27 Cfr. B. Guidetti, Il Warentest nella pubblicità comparativa, in R. d. ind. 1998, p. 440 ss. 28 Trib. Milano 28 settembre 1972, in G. ann. d. ind. 1972, p. 174 ss., con nota non firmata di G. Ghidini. 29 Trib. Milano 28 settembre 1972, cit. 30 Trib. Milano 28 settembre 1972, cit. 31 La pretesa risarcitoria dell’impresa si basava sul danno risentito per la rottura di importanti trattative in corso con altra società, la quale, in seguito alla pubblicazione del warentest nella rivista Quattroruote, si era rifiutata di concludere il contratto. Il Tribunale dunque finisce col ricondurre la fattispecie ad una ipotesi di lesione aquiliana del credito, e dunque entro l’àmbito della problematica segnata dagli importanti sviluppi che la giurisprudenza della Cassazione stava maturando sul tema in quel periodo, mentre non approfondisce il diverso tema della lesione di « beni » dell’impresa da parte di soggetti estranei alla dinamica concorrenziale. La Corte d’appello, poi, finirà col respingere sul piano sostanziale la pretesa risarcitoria dell’attrice per la mancanza di un nesso di causalità tra la pubblicazione del warentest e la rottura delle trattative in corso con la società (App. Milano 16 ottobre, 1973, in G. ann. d. ind. 1973, p. 1192 ss.). 32 Trib. Roma 23 luglio 1984, in F. it. 1984, I, p. 1963 ss. vista si era avvalsa di un confronto operato sulla base di alcuni dati erronei. Al di là della questione sostanziale, l’elemento di interesse della pronuncia è dato dal fatto che il Tribunale qualifica l’interesse leso come un interesse alla « reputazione del prodotto », che va distinta – ad avviso del Tribunale – dal diritto alla reputazione della persona, e la cui tutela non rientra nella sfera di applicazione delle norme sull’ingiuria e la diffamazione: « deve essere fermamente respinta l’opinione che pretende di ricostruire un diritto soggettivo alla reputazione dei prodotti sulla base delle fattispecie penalistiche della ingiuria e della diffamazione: queste norme infatti tutelano l’onore e la reputazione delle persone e non delle cose »29. Aggiunge poi il Tribunale con riferimento al rapporto che lega la reputazione del prodotto alla reputazione dell’impresa: « né d’altra parte si può dire che il discredito dei prodotti è destinato a trasmettersi in capo al produttore perché tra gli uni e gli altri si interpone il marchio di fabbrica: segno distintivo questo che consente ai consumatori di identificare il prodotto senza risalire al produttore in quanto tale ed a quest’ultimo di evitare che l’apprezzamento negativo del pubblico dei consumatori, formatosi in relazione ad un prodotto, si trasferisca sugli altri provenienti dallo stesso nucleo produttivo »30. Attraverso tali rilievi, il Tribunale ammette il risarcimento del danno nei confronti della impresa non in virtù di un astratto « diritto soggettivo degli imprenditori alla reputazione dei loro prodotti », che anzi esplicitamente nega, ma sulla base della considerazione per cui il comportamento del giornalista non è supportato da idonea causa di giustificazione 31. L’assetto degli interessi in conflitto, e cioè da un lato l’interesse dell’imprenditore a mantenere quantomeno inalterata (se non ad espandere) la propria capacità di guadagno e dall’altro il diritto del giornalista e degli organi di informazione in genere alla libera manifestazione del pensiero, gioca un ruolo fondamentale nei casi relativi alla pubblicazione di Warentest. Ed è proprio in questo àmbito che per la prima volta vengono ad enunciarsi principi differenti da quelli comunemente applicati quando la comparazione degli interessi contrastanti si giochi tra diritti della personalità e libera manifestazione del pensiero. In quest’ottica si pone una pronuncia interessante, pur se non recente, del Tribunale di Roma, investita del caso originato da un warentest condotto da un professionista su alcune pile elettriche ed i cui risultati erano stati esposti nel corso della trasmissione televisiva « Di tasca nostra »32. La pronuncia, che ha ricevuto at- 267 Denigrazione del prodotto e discredito dell’imprenditore Studium Iuris, 3/2010 tenzione solamente occasionale da parte della dottrina, pare interessante sotto vari profili, ma in primis per la valutazione che opera intorno all’accertamento dell’ingiustizia del danno nel caso di lesione della « reputazione dei prodotti commerciali » versus il diritto alla manifestazione del pensiero33. Il Tribunale ritiene infatti che laddove non sia accertata la lesione della reputazione commerciale di persone o di enti muniti di soggettività giuridica, non possano essere utilizzati i criteri che limitano il diritto di cronaca e di critica, che sono diretti « a contemperare la libertà di manifestazione del pensiero con la pari dignità sociale delle persone »34. Piuttosto – continua il Tribunale – altri valori sono destinati a venire in gioco, e principalmente il diritto di iniziativa economica garantito all’art. 41 Cost., il cui contenuto non è destinato ad essere riferito esclusivamente alla persona dell’imprenditore, « né ha carattere fondamentale e inviolabile »35. La relazione stretta che lega il diritto di manifestazione del pensiero alla esigenza di informare adeguatamente il consumatore, influenzerebbe poi il giudizio di comparazione tra questi interessi, con la conseguenza che il diritto di cronaca e di critica è destinato a cedere quando l’informazione in materia economica si svolga « con metodo scientifico » ovvero si basi sulla « serietà scientifica dell’esperto » a cui si rivolge il giornalista, mentre limitato rilievo è destinato ad avere il criterio della inoppugnabilità dei risultati. In realtà, la giurisprudenza, nel valutare il grado di diligenza richiesto al giornalista che trasmette informazioni sul conto di prodotti, non si è attestata su un indirizzo unitario. Significative sotto questo profilo sono alcune pronunce, piuttosto note, aventi ad oggetto la diffusione dei risultati di un warentest condotto su alcuni prodotti surgelati, che avevano evidenziato la presenza in tali prodotti di un antibiotico, la tetraciclina, sostanza vietata e dannosa per l’organismo36. La divulgazione dei risultati raggiunti con le prove, avvenuta ancora una volta nel corso della trasmissione televisiva “Di tasca nostra”, aveva suscitato notevole allarme presso il pubblico dei consumatori ed era stata seguita da un clamoroso provvedimento di sequestro di tali prodotti da parte del Pretore di Modena. La vicenda si era poi conclusa con l’intervento del Ministro della Sanità e dell’Istituto Superiore della Sanità che avevano definitivamente smentito la presenza della tetraciclina nei prodotti analizzati37. Il fatto, che aveva cagionato un deciso calo delle vendite dei prodotti surgelati, aveva prodotto a sua volta una serie di richieste risarcitorie, non soltanto da parte delle aziende « investite » direttamente dalle notizie denigratorie, ma anche di produttori e distributori di prodotti surgelati in genere. In questi ultimi casi, l’attenzione dei Giudici si è concentrata principalmente sul problema della sussistenza di un nesso eziologico tra il fatto ed il danno lamentato da soggetti non richiamati direttamente nel corso della trasmissione televisiva, escludendo la responsabilità sulla base della considerazione per cui « il discredito di un prodotto, specificamente individuato, non può che restare limitato al prodotto stesso, in quanto il marchio di fabbrica (o di commercio), i segni distintivi individuati fanno sì che il consumatore possa identificare il prodotto, evitando che un apprezzamento negativo si trasmetta ad altri prodotti dello stesso genere o ad altra merce dello stesso produttore »38. È con riferimento alle richieste formulate dalle imprese danneggiate nel corso della trasmissione televisiva, invece, che la giurisprudenza affronta il problema dei limiti alla libera manifestazione del pensiero e della diligenza richiesta al giornalista che diffonde notizie denigratorie o screditanti su di un prodotto o su una impresa. La soluzione offerta dalla giurisprudenza ed in particolare dalla Suprema Corte, investita della questione, suscita 33 Trib. Roma 23 luglio 1984, cit. 34 Trib. Roma 23 luglio 1984, cit. 35 Trib. Roma 23 luglio 1984, cit. 36 Trib. Roma 22 giugno 1982, in Giust. civ. 1983, I, p. 636 ss., con nota di C. Verardi, Trasmissione di notizie inesatte e nesso di causalità del danno; Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147, in F. it. 1992, I, p. 2127, con nota di R. Simone e ivi 1993, I, p. 3359 (solo massima), con nota di V. Roppo, Diffamazione per « mass media » e responsabilità civile dell’editore; in Corr. giur. 1992, p. 774 ss., con nota di V. Zeno-Zencovich, La « maggior responsabilità » dell’emittente televisiva per le « prove di consumo»; in Dir. inf. e informatica 1992, p. 784 ss., con nota di G. Gallo, Diffusione di prove di consumo e responsabilità dell’emittente televisiva. 37 In realtà l’antibiotico, aggiunto nelle fasi iniziali di conservazione e lavorazione del pesce, aveva perso al momento dell’immissione del prodotto sul mercato il suo potere antibatterico e di conseguenza la potenziale dannosità per la salute dell’uomo. La inesattezza dell’informazione fornita nel corso della trasmissione era stata determinata dall’impiego del metodo chimico, utilizzato dall’esperto chiamato in trasmissione, anziché del più valido metodo biologico. I risultati del test chimico effettuati sul prodotto, che in effetti avevano provato la presenza di antibiotico residuati dall’iniziale trattamento del pesce, erano stati poi interpretati in maniera errata dall’esperto, che aveva lasciato intendere che l’antibiotico fosse stato aggiunto al prodotto surgelato in una fase successiva della lavorazione e che era pericoloso per la salute. Cosa ampiamente smentita dall’impiego del metodo biologico sul prodotto messo in commercio, con sui si era dimostrata che la sostanza antibiotico non era più attiva e quindi dannosa. 38 Trib. Roma 22 giugno 1982, cit. 268 Studium Iuris, 3/2010 Attualità e saggi per la verità non poche perplessità e la dottrina ne ha ampiamente criticato l’approccio39. La Cassazione dapprima ritiene di richiamare i precedenti in tema di limiti al diritto alla libera manifestazione del pensiero, e cioè i criteri della utilità sociale della notizia e della verità oggettiva ovvero anche solo putativa della notizia, per poi invece imputare al giornalista televisivo una responsabilità professionale di grado più elevato rispetto al giornalista di carta stampata, in ragione del « maggior impatto che sul pubblico la trasmissione televisiva può esplicare, ed in effetti esplica, per la sua caratteristica di mezzo che aggredisce, per così dire, i telespettatori nella loro sfera privata domestica, con un’immediatezza ed una forza di suggestione che non sono certo di altri mezzi di comunicazione »40. Al giornalista televisivo, dunque, è richiesta una maggiore prudenza, che deve « estrinsecarsi nell’accertare (o nel tentare di accertare) con ogni mezzo a sua disposizione l’assoluta verità dell’informazione che si intende trasmettere quando – a priori – si apprezza in modo certo in essa una valenza lesiva dei diritti dei terzi ai quali la notizia si riferisce »41. Tradotta poi l’affermazione circa la maggiore responsabilità del giornalista televisivo sul piano dei criteri applicabili relativamente alle inchieste televisive su prodotti alimentari, la Suprema Corte finisce con l’adottare criteri estremamente rigorosi. Al giornalista televisivo non basterebbe rivolgersi ad un esperto « veramente all’al- 39 V. infra. 40 Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147, cit. 41 Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147, cit. 42 Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147, cit. 43 Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147, cit. In realtà, è stato giusta- mente evidenziato in dottrina che la scelta di un « esperto veramente all’altezza del compito affidatogli » non avrebbe comunque esonerato da responsabilità il mezzo di diffusione, che, nell’ipotesi in cui per esempio tale esperto fosse stato negligente, avrebbe risposto dell’illecito in via solidale con l’esperto, salva la ripartizione del debito secondo le rispettive colpe ex art. 2055 cod. civ. (V. Zeno - Zencovich, La « maggior responsabilità » dell’emittente televisiva per le « prove di consumo », cit., p. 782). 44 Trib. Milano 28 settembre 1972, cit. 45 Trib. Roma 23 luglio 1984, cit. 46 In ogni caso, una tale affermazione di principio pare del tutto ingiustificata, perché occorre probabilmente « distinguere fra messaggio e messaggio, fra forma di espressione e forma di espressione, sicché l’asserita superiorità della televisione se può essere vera per talune forme comunicazionali, può non esserlo per altre » (V. Zeno - Zencovich, La « maggior responsabilità » dell’emittente televisiva per le « prove di consumo », cit., p. 781). 47 In Dir. informazione e informatica, 1998, p. 282, con nota di P. Resta, Circolazione delle informazioni e responsabilità civile: il caso del warentest. tezza del compito affidatogli e di assoluta garanzia – per la sua autorità nel settore scientifico nel quale opera – di operare in base a criteri e metodi sicuramente attendibili »42. Ma, in presenza di risultati che comportano conseguenze negative sulla commerciabilità di un prodotto, il giornalista avrebbe l’obbligo di « cautelarsi, prima di divulgare quel risultato, con controlli, riscontri ed accertamenti intesi a verificare il risultato stesso: solo in tal caso il giornalista che avrà divulgato un’informazione obiettivamente falsa, sia pure risultata tale a posteriori, potrà dire di aver agito in totale buona fede nella soggettiva convinzione di aver divulgato un’informazione assolutamente vera »43. Come si vede, si tratta di una soluzione diametralmente opposta a quella adottata dal Tribunale di Milano nel caso relativo alle prove comparative sugli antifurti44 e dal Tribunale di Roma con riferimento al caso del Warentest condotto sulle pile elettriche45. Laddove le Corti di merito stemperavano il rigore del criterio della verità della notizia quando sia in gioco non un valore della persona, ma la « reputazione » di un prodotto, la Cassazione, con soluzione piuttosto rigorosa, richiede invece al giornalista di adoperare ogni mezzo per accertare l’assoluta verità dell’informazione. Se sia effettivamente ipotizzabile una maggiore influenza del mezzo televisivo rispetto alla carta stampata, è questione che ha una forte connotazione pre-giuridica46. Tuttavia, l’imputazione di una responsabilità aggravata in capo al giornalista appare ingiustificato ove si ponga mente a due ulteriori profili. Innanzitutto, laddove gli interessi lesi siano la « commerciabilità » o il « consumo » dei prodotti, appare poco convincente operare sic et simpliciter con i criteri solitamente adottati a presidio di diritti della persona quali l’onore e la reputazione. In secondo luogo, e da un punto di vista più generale, un aggravio di responsabilità in capo al giornalista comporterebbe inevitabili ricadute negative sull’utilizzo e la diffusione di warentest, strumento invece assai importante nella circolazione delle informazioni a carattere economico e, di conseguenza, nella protezione del consumatore e nell’equilibrio complessivo del mercato. Sempre nella tematica relativa ai limiti di liceità del Warentest si colloca una interessante pronuncia resa dal Tribunale di Roma in data 18 giugno 199747, relativa alla pubblicazione in una rivista mensile, con relativa illustrazione dei risultati, dell’esito di test comparativi effettuati su alcuni oli di oliva. Nell’articolo si evidenziava come i test condotti avevano rilevato la presenza nel 50% degli oli analizzati di una quantità rilevante di acido elai- 269 Denigrazione del prodotto e discredito dell’imprenditore Studium Iuris, 3/2010 dinico. Si affermava che gli studiosi del settore avevano dimostrato come la presenza di acido elaidinico in misura superiore allo 0,1-0,3 debba essere considerata non accettabile, e debba far presumere l’aggiunta di olio di semi all’olio di oliva. Alla notizia, che era stata poi ulteriormente ribadita nel corso della trasmissione televisiva « Mi manda Lubrano », aveva reagito in via giudiziale la società titolare di uno dei marchi citati48 chiedendo dapprima un provvedimento d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., peraltro respinto, ed in seguito il risarcimento dei danni subiti per lesione dei diritti all’onore e alla reputazione dalle « persone fisiche responsabili » della società. L’interesse leso viene individuato nel « diritto dell’imprenditore a svolgere liberamente e senza turbative la propria attività economica, che trova fondamento nell’art. 41 della Costituzione »49. La critica che investe un prodotto « attraverso notazioni sulla sua qualità ovvero sul rapporto qualitàprezzo »50, afferma il Tribunale, riguarda infatti « l’attività economica e non la persona dell’imprenditore »51. Nel caso specifico, un ulteriore passo interessante della motivazione è dato dall’affermazione contenuta nel successivo capoverso: « quando l’informazione tende ad evidenziare fatti che, se veri, implicano un comportamento dell’imprenditore, come la frode sulla qualità del prodotto, che assume certamente connotati dolosi, la denigrazione del prodotto si risolve anche nell’offesa alla reputazione dell’imprenditore medesimo, sia esso persona fisica ovvero giuridica »52. La denigrazione del prodotto, dunque, quando sia tale da comportare l’imputazione all’imprenditore di un comportamento doloso, vale certamente a trascendere la portata denigratoria del prodotto per investire la persona dell’imprenditore nei suoi diritti all’onore e alla reputazione. L’affermazione appare condivisibile: vari elementi sono in grado di provocare l’interazione tra la sfera della « reputazione » del prodotto o dell’impresa (senza alcuna componente di natura personale) con quella della « reputazione » dell’imprenditore. Ed uno di questi elementi è certamente la denigrazione del prodotto che involga l’attribuzione di un comportamento fraudolento dell’imprenditore53. Fatte queste doverose premesse circa la portata denigratoria di notizie riferite ai prodotti, va poi evidenziato come la sentenza del Tribunale di Roma offra ulteriori motivi di interesse nello svolgimento della questione relativa all’operare del requisito della « verità » quale esimente della responsabilità del giornalista. Sul punto, infatti, viene evidenziato come la verità della notizia non possa che essere riferita « all’esposizione dei metodi di accertamento ed ai risultati degli stessi »; che l’esigenza di prudenza e diligenza richiede al giornalista che « sia accuratamente verificata la competenza degli esperti che sottopongono i prodotti ad esami, e la serietà scientifica degli esami effettuati »; che non si può invece pretendere che vengano svolti « ulteriori accertamenti successivi, volti alla verifica dei risultati cui gli esperti sono pervenuti »; infine, che va ammesso un certo grado di « opinabilità » dei test54. Sotto questo profilo, è evidente la distanza che separa la pronuncia del Tribunale di Roma dalla soluzione adottata dalla Supr. Corte nel caso del pesce surgelato. Ma è altresì evidente come ogni risposta formulata in ordine alla diligenza richiesta nel giornalista o all’esatto contenuto da attribuire al requisito della verità, non può prescindere da considerazioni anche di ordine generale sulle funzioni che la circolazione delle informazioni a carattere economico svolge nel mercato. 48 A tale olio di oliva era stata attribuita la presenza di una quantità di acido elaidinico nella misura di 1,46%. 49 Trib. Roma 18 giugno 1997, cit. 50 Trib. Roma 18 giugno 1997, cit. 51 Trib. Roma 18 giugno 1997, cit. 52 Trib. Roma 18 giugno 1997, cit. La soluzione con cui il Tribunale di Roma attribuisce rilievo all’implicita accusa di comportamenti dolosi da parte dell’imprenditore richiama alla mente la casistica dei sistemi di common law. In questi sistemi, infatti, la denigrazione di un prodotto, che può rientrare, ove ne ricorrano i presupposti, nel tort di injurious falsehood, ricade in alcuni casi nell’àmbito della defamation. Si tratta per l’appunto di quei casi in cui nella denigrazione del prodotto si possa scorgere l’implicita accusa nei confronti dell’imprenditore di disonestà, inefficienza ed incapacità. Così, per esempio, sostenere in maniera inesatta che l’acqua di una determinata azienda contiene sostanze nocive per la salute (R. Kidner, Defaming a Company by Disparaging its Products, in Journal of Business Law 1992, p. 576) oppure pubblicare la falsa notizia che un determinato prodotto ha cagionato la morte di una persona [Larsen v. Brooklyn Daily Eagle, 165 Ap. Div. 4, 150 N.Y. Sup. 464 (2d Dep’t 1914); per la soluzione opposta Summit Hotel Company v. National Broadcasting Company, 1939, 336 Pa. 182, 8 A.2d 302; in dottrina Prosser and Keeton, The Law of Torts, West Publishing Co., St. Paul, Minn., V ed., 1984, p. 965; B. Hibschman, Defamation or disparagement?, in Minnesota Law Review 1940, vol. 24, p. 633 s. ]. 53 Va peraltro detto che la lesione all’onore o alla reputazione dell’imprenditore o dell’impresa dovevano essere effettivamente dimostrate, mentre è priva di fondamento l’idea per cui la notizia avente portata diffamatoria è idonea a ledere l’onore e la reputazione delle persone fisiche responsabili della società, quasi come se la società si risolvesse interamente nelle persone fisiche che ne sono responsabili. 54 Tutte le parti tra virgolette sono tratte da Trib. Roma 18 giugno 1997, cit. In ultima istanza non fu in effetti provato che la notizia potesse essere considerata falsa o inesatta. 270 Lezioni Diritto amministrativo LA RESPONSABILITÀ CIVILE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: LINEE SISTEMATICHE di Guerino Fares I capisaldi del tema della responsabilità della pubblica amministrazione possono sinteticamente riassumersi come segue. Punto di partenza è una situazione, comune anche ad altri ordinamenti, in cui la giurisprudenza è estremamente riluttante a riconoscere una responsabilità dell’amministrazione pubblica. Dunque, punto di partenza è la irresponsabilità dell’amministrazione. Al riguardo si segnala un famoso caso nella giurisprudenza francese dei primi del novecento: una ragazzina che, investita da una vettura municipale, subisce un danno e il giudice, chiamato ad applicare la normativa sulla responsabilità civile, ne esclude l’applicabilità alla pubblica amministrazione, per aver questa agito nell’esercizio di un pubblico servizio. Benché l’orientamento giurisprudenziale sarebbe in seguito mutato, l’arrêt Blanco è considerato una sorta di nascita del diritto amministrativo francese come un diritto diverso dal diritto civile: la prestazione del servizio pubblico non può esporre l’amministrazione allo stesso tipo di responsabilità alla quale sono sottoposti i soggetti di diritto comune. Questa breve premessa aiuta a comprendere perché l’attuale riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione, sia nello svolgimento di attività materiale, sia nell’esercizio di poteri di autonomia privata, sia nel compimento di fatti illeciti, sia la risultante di una lunga evoluzione che parte da una condizione della dottrina e della giurisprudenza nella quale si nega la responsabilità dell’amministrazione, sicché questo percorso potrebbe essere così descritto: dalla irresponsabilità alla responsabilità. Cruciale è sicuramente il profilo della responsabilità dell’amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo. Qui, dopo oltre un secolo di pacifica esclusione della risarcibilità del danno na- scente da lesione di posizioni giuridiche diverse dai diritti soggettivi, si è assistito ad un cambio di rotta grazie alla sentenza n. 500/1999 delle sezioni unite della Corte di cassazione, nella quale per la prima volta si riconosce che l’amministrazione può essere chiamata a rispondere, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche nei casi in cui con la sua azione, esercizio di funzione pubblica, leda un interesse legittimo del privato. Si tornerà più avanti sull’argomento. Ma l’amministrazione, prima di essere Stato, ministero, comune o regione, è una persona giuridica, ossia un soggetto di diritto che come tale utilizza gli strumenti del diritto comune, e fondamentalmente del codice civile. Se, infatti, fino alla svolta del 1999 si è sempre esclusa una responsabilità dell’amministrazione per esercizio illegittimo di potestà amministrative, tendenzialmente si è sempre ammessa la responsabilità dell’amministrazione: o quando agisce con un’attività materiale che sia riconducibile all’illecito di cui all’art. 2043 c.c.; o quando pone in essere un’attività pericolosa disciplinata da un’apposita norma del codice civile; o quando, pur restando inerte, il danno è cagionato da una sua cosa (il ponte che crolla, l’insidia che deriva dalla presenza di buche sul manto stradale, il pregiudizio derivante da emissioni inquinanti prodotte da una centrale elettrica pubblica, ecc.), sicché viene in questione una forma di responsabilità che inerisce strettamente alla proprietà del bene. Nel tempo, si è dunque delineato un doppio percorso giurisprudenziale: per un verso, una costante negazione della responsabilità nel caso di lesione di interessi legittimi; per altro verso, una costante affermazione della responsabilità allorché la p.a. agisca come soggetto privato e, soprattutto, quando pone in essere un’attività materiale 271 Responsabilità civile della pubblica amministrazione Studium Iuris, 3/2010 che non costituisce esercizio di poteri amministrativi. Tuttavia, anche il secondo postulato, al di là della proclamata sottoposizione al medesimo statuto normativo dei soggetti pubblici e privati, incontra dei temperamenti, nella misura in cui la giurisprudenza, spesso anche sulla base di dati normativi, tende, se non a disconoscere la responsabilità dell’amministrazione, quanto meno a circoscriverla, introducendo limiti e deroghe al regime di diritto comune. Classico è l’esempio dell’arricchimento senza causa, azione che il codice prevede a beneficio di un soggetto quando vi sia stato un indebito spostamento di ricchezza non sorretto da un titolo contrattuale ma che non presuppone un comportamento illecito: un bene o un servizio può, invero, transitare da una sfera giuridica ad un’altra per effetto di un contratto o di un fatto illecito (civile o penale) o al di fuori di una delle predette fonti generatrice. Ebbene, da svariati decenni la giurisprudenza è per l’ammissibilità dell’esercizio dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione, ma tuttavia esige un requisito che non è richiesto dal codice al soggetto privato ai fini dell’accoglimento della sua domanda quando questa sia proposta contro un altro privato: il riconoscimento dell’utilitas di cui l’amministrazione stessa è beneficiaria, che può essere anche tacito o per fatti concludenti (si pensi al caso del progetto sottoposto dall’amministrazione agli organi competenti per ottenere il finanziamento dell’opera in esso prevista). L’ipotesi tipica è quella del professionista che viene incaricato da un’amministrazione di rendere una prestazione (ad es. di opera intellettuale) priva di un fondamento contrattuale (perché, ad es., il disciplinare costituente il contratto d’opera non viene sottoscritto dall’organo competente). Il prestatore si troverà, in casi simili, sfornito di un titolo per la controprestazione, e potrà allora esperire l’azione ex art. 2041 c.c. la quale non riconosce l’intero corrispettivo della prestazione ma la minor somma tra il depauperamento e l’arricchimento. Un altro esempio di tendenziale limitazione della responsabilità della pubblica amministrazione è quello della deroga parziale ai principi generali in tema di responsabilità contrattuale, che viene in rilievo quando, ad es., il privato proceda alla spedizione postale di un pacco a all’acquisto di un titolo di trasporto. Se l’amministrazione delle ferrovie, per una disattenzione degli addetti, smarrisce il bagaglio, o se il plico raccomandato non viene recapitato dall’amministrazione postale, o se comunque, nell’eseguire un’obbligazione nascente da contratto, il soggetto pubblico incorre in un inadempimento, in base ai principi dovrebbe risponderne alla stregua di un qualunque soggetto privato. Le normative speciali prevedevano, però, consistenti limitazioni (in ordine all’importo da risarcire, o al tipo di prestazione che dà vita alla responsabilità), sulla legittimità delle quali è intervenuta a più riprese la Corte costituzionale che, pur riconoscendo un margine di derogabilità al regime ordinario in ragione della complessità organizzativa del servizio, esclude l’ammissibilità di ipotesi di totale esonero da responsabilità, pena la nullità delle clausole ancorché sottoscritte dal soggetto privato, ed esclude al tempo stesso la possibilità di apportare deroghe esorbitanti, secondo un criterio di ragionevolezza, alle regole fondamentali in tema di responsabilità. L’amministrazione, che – chiamata a rifondere un certo danno – si trincerava dietro norme, regolamentari o più spesso legislative, volte a ridurre o a minimizzare, standardizzandola, la sua responsabilità, viene da un certo momento in poi riconosciuta responsabile nell’erogazione del pubblico servizio a titolo di responsabilità contrattuale: costituirà una grande ed inedita conquista l’affermazione che il cittadino, nel richiedere la spedizione del collo o l’invio di una raccomandata, stipula un contratto con l’amministrazione che vincola quest’ultima così come qualunque altra parte di un rapporto contrattuale. In altre parole, l’idea che la prestazione del pubblico servizio legittimi un differente regime giuridico della responsabilità viene cancellata. Si comincia, per prima, ad affermare la responsabilità della pubblica amministrazione laddove essa agisca per lo più attraverso un’attività materiale: somministrazione di sangue, omessa manutenzione di una strada pubblica, omessa vigilanza sul comportamento degli allievi, ecc. Le norme del codice civile che disciplinano queste fattispecie vengono precocemente, dai primi decenni del XX secolo, applicate alla pubblica amministrazione ancorché tale applicazione presenti sempre dei profili di specificità. Sebbene, infatti, la responsabilità dell’amministrazione nello svolgimento delle attività privatistiche o nel compimento di attività materiale sia stata sempre riconosciuta in via tendenziale, detto riconoscimento non è stato disgiunto da una serie di temperamenti che si risolvono tutti in una riduzione della responsabilità della p.a.: sicché, neppure in questi casi si può parlare di piena omolo- 272 Studium Iuris, 3/2010 Lezioni gazione tra il regime della responsabilità del soggetto privato e il regime della responsabilità del soggetto pubblico. Il codice civile prevede, peraltro, numerosi criteri di imputazione della responsabilità extracontrattuale. Il primo fra tutti è quello dell’illecito di cui all’art. 2043, secondo il cui schema la responsabilità è una stretta conseguenza dell’illecito (della pubblica amministrazione, come di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento), che genera il diritto al risarcimento. Come anticipato, la predetta norma è stata evolutivamente interpretata, in tempi recenti, in modo da includere nel suo àmbito applicativo anche la lesione dell’interesse legittimo. È, poi, prevista la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei lavoratori subordinati e dei commessi, laddove l’imputazione non origina da una azione od omissione ma dalla relazione giuridica che lega il responsabile all’autore del danno e che fa sì che l’illecito del secondo rifluisca nella responsabilità c.d. da posizione del padrone o committente. La norma trova applicazione anche ai rapporti di cui è parte la pubblica amministrazione, allorché il danno sia prodotto a un terzo non da un suo agente all’interno del rapporto organico (ad es. da una delibera consiliare o da un provvedimento ministeriale recante un indebito diniego ad un’impresa di sovvenzioni accordate dalla legge) ma da un soggetto che organo non è (si pensi all’operatore ecologico conducente dell’automezzo per i trasporto dei rifiuti). C’è, ancora, la responsabilità dei precettori per i danni cagionati dagli allievi, che vengono imputati all’amministrazione scolastica. E c’è la responsabilità derivante dalla proprietà di cose (ad es., crollo di edifici) o per i danni provocati dalla circolazione di autoveicoli, che gravano sull’amministrazione di appartenenza. In linea generale, tutte queste forme di responsabilità, fondate su criteri di imputazione diversi dall’illecito, sono state estese alle pubbliche amministrazioni sia pure a seguito di una lunga e laboriosa vicenda giurisprudenziale. Ed è un’estensione che tuttora conosce le sue sfumature, nel senso che anche in questi ambiti, come nel caso della responsabilità contrattuale o della responsabilità inerente all’arricchimento senza causa, pur affermandosi l’omologazione della pubblica amministrazione ai soggetti privati, si rinvengono sempre delle differenze più o meno spiccate. Il problema del pieno assoggettamento della p.a. al diritto comune trascende, peraltro, la materia della responsabilità, come conferma l’esempio classico relativo all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di conclusione di un contratto (art. 2932 c.c.): per lungo tempo, la giurisprudenza ha escluso l’esperibilità dell’azione nei confronti dell’amministrazione, sul presupposto che il giudice altrimenti si sostituirebbe in modo indebito all’amministrazione stessa. Benché infatti l’art. 4, l. abol. cont. inibisca, più che la sostituzione del giudice alla manifestazione doverosa di una volontà della p.a. (l’assenso alla stipula del contratto definitivo), la revoca o modifica dell’atto in via giudiziale, il divieto è stato interpretato in misura estensiva dalla giurisprudenza oltre il suo tenore letterale, fino a colpire l’adozione di determinazioni sostitutive. Una svolta è stata, successivamente, determinata da una rimeditazione del problema: si è riflettuto sul riferimento imprescindibile operato dell’art. 4 all’esercizio di una potestà amministrativa, nel senso che il giudice non può revocare o modificare un atto esistente o sostituire un atto inesistente, mentre nel caso in cui la p.a. rifiuti di addivenire alla stipula di un contratto definitivo di compravendita essa omette non già l’adozione di un atto amministrativo ma l’espressione di un consenso, ossia di un atto tipico del diritto privato, esulante dall’area coperta dall’art. 4, che perciò stabilisce a carico del giudice dei limiti operanti solo nei confronti dell’amministrazione-autorità e non dell’amministrazione-soggetto di diritto comune: e poiché l’art. 2932 presuppone che l’amministrazione abbia contrattato, per es. stipulando un preliminare, come soggetto di diritto comune, nessuna preclusione può derivare alla applicazione nei confronti della p.a. della norma anzidetta. A questo punto si pone l’altro grande problema, sopra accennato, che per decenni ha rappresentato una specie di blocco insormontabile. I danni più frequenti e diffusi l’amministrazione li produce non perché omette la manutenzione di una strada o non assicura il recapito di una corrispondenza o perché la struttura sanitaria provoca un intervento terapeuticamente sbagliato, ma in occasione e in conseguenza dell’esercizio dei suoi poteri autoritativi, ossia li pone in essere non a mezzo di atti materiali ma a mezzo di quegli specifici atti giuridici che sono i provvedimenti amministrativi (il rilascio ma soprattutto il diniego di una autorizzazione o di una concessione o di una sovvenzione, ovvero il ritardo nell’adozione di un provvedimento che doveva essere emesso prima). In tutti questi casi si parla di danni da lesione di interessi legittimi: una tematica assai dibattuta nel corso del secolo precedente, la cui fine si è dovuto attendere perché venisse ammessa in via di princi- 273 Responsabilità civile della pubblica amministrazione Studium Iuris, 3/2010 pio la risarcibilità. Si apre qui un nuovo, delicato capitolo, in cui le peculiarità del regime amministrativistico rispetto al regime civilistico balzano con tutta evidenza. Innanzitutto, la novità è costituita dal fatto che la situazione giuridica incisa non è più un diritto soggettivo, come si riteneva pacificamente in precedenza, ma un interesse legittimo. Di qui, il rinvigorimento, dovuto alla sentenza n. 500/1999, della distinzione fra interessi pretensivi (alla acquisizione di un bene o di un’utilità materiale) e oppositivi (cioè ad opporsi alla menomazione di un bene già ricompreso nel patrimonio dell’interessato): se il pregiudizio arrecato a questi ultimi è di per sé risarcibile, non altrettanto è a dirsi per la lesione dei primi, ai quali si richiede, perché possano dare titolo al risarcimento, che presentino una consistenza tale da lasciar presumere che sarebbero stati soddisfatti dall’atto dell’amministrazione se questa avesse agito legittimamente. Subentra, di conseguenza, la distinzione fra attività discrezionale e vincolata, per dedursene che il risarcimento spetta con sicurezza solo nel secondo caso. Altro profilo problematico è quello del danno da ritardo. L’amministrazione il più delle volte nuoce al privato semplicemente a causa del ritardo. Si pensi all’autorizzazione all’esercizio del commercio prevista un tempo dalla l. n. 426 del 1971: gli investimenti occorsi per l’acquisto dei locali o dei capitali occorrenti (interessi da pagare alla banca, mancata utilizzazione del capitale investito nel locale, ecc.) restano infruttuosi in caso di ritardato rilascio dell’atto abilitativo, sicché sorge il presupposto per la liquidazione di un danno che si quantifica secondo modalità tali da comportare l’assorbimento della complessa tematica nell’ipotesi più generale della lesione degli interessi pretensivi. Altro punto di criticità concerne il nesso di causale. È proprio vero che sia stato il provvedimento a produrre il danno o no? Si apre qui il discorso relativo alle alternative causali e a tutta la problematica sul nesso di causalità che, elaborata soprattutto nel diritto penale, risulta pertinente ai nostri fini. Scottante è, altrettanto, il ventaglio di quesiti che si agitano intorno al danno. Qual è il danno risarcibile? Il codice civile stabilisce dei parametri con riferimento alla responsabilità contrattuale, che sono poi richiamati (dall’art. 2056) anche a proposito della responsabilità extracontrattuale. Il parametro è costituito dalla distinzione tra danno emergente (provocato immediatamente dal fatto illecito) e il lucro cessante (il mancato guadagno causato dal provvedimento o dall’omessa adozio- ne di esso). Quando sono dovuti entrambi e quando il primo soltanto? Si è formata, al riguardo, una copiosissima casistica giurisprudenziale. E ancora: quali sono i danni risarcibili ulteriori rispetto a questi strettamente patrimoniali? Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa, cui la cognizione in materia è stata trasferita con la legge n. 205 del 2000, deve fare i conti con un enorme sviluppo della giurisprudenza civile, spintasi oltre i parametri codicistici nel riconoscere il danno biologico, il danno esistenziale, il danno curriculare, ecc. . . .: in altre parole, una serie di componenti di danno che evidenziano o profili patrimoniali ignorati dal codice o profili non tangibili sul piano patrimoniale. In definitiva, l’esame della giurisprudenza sulla responsabilità della pubblica amministrazione per un verso consente un ripasso della tematica generale della responsabilità civile, la cui conoscenza implica e presuppone, e per altro verso ci segnala tutto ciò che è peculiare alla pubblica amministrazione. Vi è da aggiungere che tali peculiarità vengono esaltate dal fatto della giurisdizione, ossia dal fatto che una materia che pareva dovesse essere inglobata nella tradizionale competenza del giudice ordinario sulla responsabilità civile, per effetto della normativa anticipata dal d. legisl. n. 80 del 1998 e poi generalizzata con la legge n. 205 del 2000 è stata trasferita al giudice amministrativo, che per circa un secolo ha conosciuto sostanzialmente un solo tipo di azione (l’azione costitutiva di annullamento), salve alcune marginali sortite nell’azione di condanna all’interno della giurisdizione esclusiva. Con la risarcibilità degli interessi legittimi, il giudice amministrativo si è trovato a doversi confrontare con un’azione che non era avvezzo a maneggiare, e la sua riluttanza a riconoscere il risarcimento si spiega non soltanto con la tendenza c.d. rigettistica ma anche sulla scorta della scarsa dimestichezza con uno strumento concettuale ed operativo tradizionalmente utilizzato dal giudice civile. Ricapitolando. Mentre il discorso sulla responsabilità della pubblica amministrazione quale soggetto di diritto privato, o quale soggetto che pone in essere un’attività materiale, si considera oggi in larga misura assestato, grazie alla tendenza in atto da decenni alla equiparazione, sia pure con alcune persistenti peculiarità, è tutt’ora aperto il discorso sull’amministrazione che risponde nell’esercizio di poteri autoritativi; ed è anzi un discorso aggravato e complicato dal fatto che, mentre l’affermazione della risarcibilità della lesione di interessi legittimi è provenuta dal giudice ordinario, gli svolgimenti dei principi affermati in materia dalla Cas- 274 Studium Iuris, 3/2010 Lezioni sazione sono stati affidati al giudice amministrativo per effetto della coincidenza tra la svolta compiuta dalla giurisprudenza della Suprema Corte (che afferma la risarcibilità del danno derivante da lesione di interessi legittimi sul presupposto che sia il giudice ordinario a conoscerne) e l’intervento legislativo volto a riservare al giudice amministrativo la cognizione sul contenzioso risarcitorio. Il fatto che la gestione e lo sviluppo dei principi siano stati rimessi a un giudice diverso da quello che li aveva elaborati ha comportato conseguenze significative in termini di incertezze afferenti, fra l’altro: al riscontro dell’elemento soggettivo; alla quantificazione del danno risarcibile, alla luce dei criteri dettati dal codice civile che li enuncia principalmente a proposito della responsabilità contrattuale, per poi estenderli a quella aquiliana, il che porta a domandarsi se le due voci del danno emergente e del lucro cessante siano entrambi riconoscibili a favore del soggetto privato che agisca nei confronti della pubblica amministrazione; al riparto dell’onere probatorio; ai mezzi istruttori necessari all’accertamento del danno; ai criteri di liquidazione, compreso quello convenzionale o negoziale previsto dall’art. 35, d. legisl. n. 80 del 1998 che ha avuto peraltro fin qui scarsa attuazione; alla stessa individuazione del tipo (extracontrattuale o contrattuale) di responsabilità che si aziona nei confronti dell’amministrazione. Natura della responsabilità, trattamento della colpevolezza, onere della prova del danno, nesso di causalità, quantum del risarcimento: tutte elaborazioni, specifiche al diritto amministrativo, di temi il cui impianto fondamentale è contenuto nel codice civile. Sebbene, come evidenziato, l’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice amministrativo segua un percorso avviato da meno di un decennio, sicché occorrerà attendere ancora del tempo prima di conoscere l’epilogo della vicenda, è comunque significativo, allo stato, il contrasto tra l’assimilazione della responsabilità dell’amministrazione al paradigma civilistico e la segnalazione di profili specifici che emergono nell’elaborazione giurisprudenziale. In questa tensione, emerge un certo istinto di protezione della p.a. dalle reazioni dei privati che rivendicano il risarcimento del danno. Si comprende, così, il ripudio della tesi della responsabilità da contatto, il cui consolidamento avrebbe comportato sul piano probatorio un aggravamento della responsabilità dell’amministrazione. E si spiegano così anche gli atteggiamenti della giurisprudenza amministrativa circa il rigore nell’ac- certamento della colpevolezza, contro la tendenza generale del nostro ordinamento a sfumare il peso dell’elemento soggettivo nella sistematica della responsabilità civile, accentuando la centralità del danno prodotto; o circa i limiti alla risarcibilità del danno da ritardo; o circa i distinguo – operati sempre al fine di contenere la pretesa risarcitoria – fra interessi legittimi pretensivi ed oppositivi. Enorme è il problema della risarcibilità dei danni ingiustamente provocati dai soggetti pubblici, non solo sul piano teorico ma anche su quello delle applicazioni pratiche, benché tuttora il processo amministrativo resti strutturalmente costruito sull’azione costitutiva e le sentenze di condanna della p.a. al risarcimento siano, anche statisticamente, ancora troppo marginali. A chiusura del sistema vi è la responsabilità del funzionario. Mentre il terzo che sia stato danneggiato dalla pubblica amministrazione anche in suo interesse legittimo si rivolge con l’azione di danni al giudice amministrativo (oggi, e al giudice ordinario un tempo) contro la stessa p.a., nell’ipotesi che l’amministrazione, o per effetto di un danno cagionatole direttamente dal dipendente (che, ad es., sia incorso in una concussione o si sia appropriato indebitamente di somme della p.a. commettendo peculato) o per essere stata esposta al giudizio di responsabilità risarcitoria avendo il dipendente cagionato un danno a terzi, vorrà far valere le sue ragioni contro il dipendente, utilizzerà la forma e le modalità specifiche che sono proprie del giudizio davanti alla Corte dei conti, ove titolare dell’azione è non l’amministrazione ma la procura regionale della Corte dei conti, che è una sorta di sostituto processuale della p.a. ed agisce per conto di essa per il recupero delle somme che sono fuoriuscite dalla sfera patrimoniale pubblica a titolo di danno erariale. Si tratta di uno schema storico, vantando il giudizio di responsabilità amministrativa una tradizione antichissima nel nostro ordinamento, sicché la Costituzione repubblicana ha sostanzialmente confermato la struttura e la posizione della Corte dei conti nello stabilire, all’art. 103, che la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge (comma 2), ossia nelle controversie in cui venga in gioco comunque il denaro pubblico. Le più rilevanti tipologie di giudizio sono i giudizi di conto, la cui rilevanza è tutto sommato recessiva, e i giudizi di responsabilità amministrativa, che invece hanno una gittata sempre crescente, favorita anche dalla graduale dilatazione delle dimensioni della Corte che, da organo esclu- 275 Responsabilità civile della pubblica amministrazione Studium Iuris, 3/2010 sivamente centrale, è divenuta a partire dal 1994 una struttura con articolazione periferica, per cui alla procura generale si sono affiancate le varie procure regionali ciascuna delle quali è abilitata a promuovere l’azione di responsabilità, davanti alle corrispondenti Corti dislocate su base territoriale, verso i funzionari e dipendenti pubblici, secondo una variegata casistica: si pensi al conferimento di consulenze non dovute, o all’affidamento di un appalto eludendo la normativa di contabilità pubblica, o alla corresponsione di emolumenti non spettanti al beneficiario, o alla omessa riscossione di alcuni tributi, o al mancato adeguamento delle tariffe di determinati servizi pubblici locali fonte di danni per l’erario comunale, etc. Se, dunque, l’azione di risarcimento dei danni arrecati dalla condotta di un pubblico dipendente viene abitualmente promossa dal terzo danneg- giato nei confronti dell’amministrazione, resta salva la possibilità per quest’ultima di rifarsi sull’agente attraverso il giudizio contabile, sede nella quale agirà non direttamente lo stesso ente pubblico ma il procuratore presso la Corte dei conti per una ragione agevolmente comprensibile: poiché i danni alle amministrazioni vengono provocati non solo dai funzionari ed impiegati ma anche dagli amministratori, vi è il rischio che l’ente (ad es., una giunta comunale), identificandosi con i suoi amministratori, si astenga dall’agire contro di essi (ad es., gli assessori del comune stesso). Di qui, la riserva alla parte pubblica, cioè alle procure incardinate presso le sezioni regionali della Corte dei conti, del monopolio dell’azione di responsabilità amministrativa: un’azione officiosa a tutela di interessi pubblici, che ricalca grosso modo l’azione esercitata dalle procure della Repubblica presso i tribunali penali. 276 Temi Concorso per uditore giudiziario Prova scritta di diritto civile di Alessandra Gaspari Prescrizioni formali e sanzioni tra certezza dei rapporti giuridici e trasparenza delle contrattazioni. * * * Per comprendere appieno l’attuale modo di atteggiarsi della relazione “forme-sanzioni per la loro inosservanza”, occorre preliminarmente soffermarsi sulla nozione di forma, con particolare riguardo alle finalità che animano le prescrizioni in materia, in ispecie quelle più di recente introdotte. Annoverata dall’art 1325 c.c. tra i requisiti del contratto, ma non definita a livello legislativo, la forma è stata variamente delineata, in dipendenza delle diverse concezioni elaborate in materia di teoria del negozio giuridico. Precisamente, nell’ottica che tende a dare il maggiore risalto possibile all’elemento volontaristico, la forma è stata intesa come il mezzo attraverso il quale la volontà del soggetto si manifesta all’esterno, mentre secondo coloro che seguono la tesi c.d. precettiva la forma andrebbe identificata con il negozio stesso, visto nella sua dimensione oggettiva e sociale. Dalla lettura dell’art 1325 c.c., anziché una definizione di forma, è possibile piuttosto dedurre la possibilità di distinguere tra forma generale e forma speciale, a seconda che il difetto di forma comporti, rispettivamente, l’inesistenza o la nullità del negozio. Secondo la prevalente dottrina, il nostro sistema sarebbe governato dal principio della libertà delle forme, la cui esistenza potrebbe desumersi dal combinato disposto di cui agli artt. 1325, n 4, e 1350 c.c., letti tenendo conto del principio di autonomia privata ex art 1322 c.c. e di quello di libera iniziativa economica di cui all’art 41 Cost.: richiesta solo per gli atti specialmente indicati dalla legge, la forma sarebbe dunque di regola libera e demandata alla determinazione delle parti, per cui alle prescrizioni formali ad substantiam dovrebbe riconosciuta natura eccezionale, con la conseguenza di doversene escludere la possibilità di estensione analogica e, secondo alcuni, anche d’interpretazione estensiva. 277 Uditore giudiziario - Diritto penale Studium Iuris, 3/2010 Meglio conciliabile con l’evoluzione legislativa in cui si è concretizzato il c.d. neoformalismo di matrice comunitaria appare, peraltro, l’opzione interpretativa che disconosce la configurabilità, nel nostro ordinamento, del predetto principio, rivolgendo alla tesi tradizionale critiche tanto dal punto di vista filosofico quanto da quello pratico così come dal punto di vista teorico – giuridico. E, in effetti, l’idea che un principio di libertà delle forme sia necessariamente da ammettere e garantire in quanto necessario riflesso di un’autonomia privata che tendenzialmente dovrebbe risultare senza confini non appare convincente, solo che si consideri come gli oneri formali spesso non rappresentino un limite per l’autonomia provata, bensì un mezzo di tutela del contraente debole a fronte delle eventuali sorprese e dei possibili abusi del più forte. Né, al di là della mancanza di una norma espressa in proposito, l’esistenza del principio di libertà delle forme può, a ben guardare, trarsi implicitamente dall’art. 1325 c.c., il quale si limita a prevedere che la forma costituisce un requisito del contratto quando ciò risulta da un’altra norma di legge, o dall’art 1350 c.c., che prevede appunto l’obbligo di redigere per iscritto taluni atti ivi specificamente indicati. Una significativa prova della validità di questa tesi è data dal fatto che persino gli autori e la giurisprudenza che ammettono l’esistenza del principio della libertà delle forme finiscono poi per contraddirsi nel momento in cui riconoscono l’esistenza di oneri formali con riguardo a fattispecie non prese espressamente in considerazione dal legislatore, a ciò indotti dalla necessità di colmare le lacune conseguenti al fatto dell’essere stata adottata, in materia, una tecnica di normazione di tipo casistico. Molteplici sono le funzioni assolte dalla forma: tra quelle tradizionali possono essere annoverate la funzione di salvaguardia della regolare e responsabile formazione del consenso attraverso il richiamo dell’attenzione dell’autore dell’atto sulla portata giuridica e sulle conseguenze economiche dello stesso, quella di certezza e di stabilità dei rapporti giuridici, quella di pubblicità e/o quella di prova, quella di recupero della serietà della determinazione negoziale a fronte di un deficit causale dell’atto; e a queste funzioni si sono poi aggiunte quelle introdotte dalla normativa comunitaria, a tutela della trasparenza nelle contrattazioni, dell’equilibrio contrattuale e della posizione del c.d. contraente debole, nonché del principio del libero mercato e del regime di libera concorrenza. Di particolare rilievo appare specialmente il nuovo ruolo di protezione assegnato alla forma, poiché non solo induce a revocare in dubbio la perdurante sussistenza in materia del c.d. principio della libertà delle forme, ma addirittura sembra modificare gli stessi connotati dell’istituto. Più in particolare, da un rapido excursus dell’ampia ed articolata serie di normative, in parte confluite nel codice del consumo, ispirate al c.d. neoformalismo di protezione, emerge che la forma ha assunto un àmbito più ampio e maggiormente penetrante, da un lato, perché, diversamente da quanto accadeva in passato, tende ora ad investire non soltanto l’atto espressivo 278 Studium Iuris, 3/2010 Temi della volontà delle parti, ma l’intero procedimento che ad esso conduce, dalle dichiarazioni prenegoziali all’attività di negoziazione complessivamente intesa, e, dall’altro, perché si presenta pure nella veste di forma – contenuto, laddove, oltre alla forma scritta, viene richiesto un determinato contenuto minimo, e di forma – trasparenza, nei casi in cui viene preteso che le informazioni rese in un testo scritto lo siano in forma chiara ed intelligibile per un soggetto di normale diligenza. A siffatta nuova, ampia strutturazione ed articolazione del paradigma formale, è stata accompagnata l’introduzione di rimedi e/o sanzioni diversi da quello tradizionale della nullità, più consoni alle nuove finalità avute presenti dal legislatore. Se, in effetti, la dicotomica distinzione tra forma ad substantiam e forma ad probationem – la prima, ove non rispettata, foriera di nullità, la seconda di specifici effetti di natura processuale – risultava idonea a soddisfare le esigenze di responsabilizzazione del consenso, di certezza e pubblicità dell’atto negoziale, nonché di sicurezza dei traffici, inadeguata si presentava a fronte delle nuove esigenze di tutela dell’equilibrio contrattuale, del contraente debole e dell’efficiente assetto dei mercati. Per soddisfare anche queste esigenze, dovevano essere introdotte nuove sanzioni. Ciò che non è stato peraltro fatto in modo unitario ed organico, bensì di volta in volta, nelle singole normative, secondo un approccio casistico, con tutte le inevitabili conseguenze. Non rimane, perciò, altro che cercare, mediante un’essenziale disamina del codice del consumo e delle principali normative settoriali, di enucleare tratti caratteristici e comuni delle nuove sanzioni, al fine di delineare un quadro sanzionatorio dei precetti di forma per quanto possibile coordinato. Iniziando con il Codice del consumo, occorre allora rilevare che si trovano ivi previste sanzioni amministrative pecuniarie per il caso di violazione di specifici obblighi informativi ex artt. 12 e 17 (in materia di commercio di prodotti privi di determinate indicazioni o del prezzo), ulteriori sanzioni, disposte ex art. 27, con riguardo alle pratiche commerciali scorrette, nonché la sanzione della nullità relativa c.d. di protezione, negli artt. 33-35, a proposito delle clausole abusive. Le conseguenze civilistiche connesse alla trasgressione del formale obbligo del clare loqui nella formulazione delle clausole contrattuali non si trovano invece con completezza colà indicate. Infatti, il rimedio dell’interpretatio contra proferentem della clausola non chiara e/o incomprensibile risulta adeguato ed applicabile laddove unica e favorevole al consumatore sia la possibile interpretazione della clausola medesima, ma non a fattispecie in cui siano possibili o un’unica interpretazione o più interpretazioni tutte sfavorevoli al consumatore. In relazione a questi ultimi casi, la dottrina ha prospettato varie soluzioni, quali quella consistente nel riconoscere una responsabilità precontrattuale del professionista ex art. 1337 c.c., quella consistente nell’ammettere l’annullabilità del contratto per vizio del consenso, sempre che ricorrano i requisiti della riconoscibilità e dell’essenzialità del vizio, quella consistente nell’eliminazione delle 279 Uditore giudiziario - Diritto penale Studium Iuris, 3/2010 clausole non chiare dal contenuto del contratto, nonché, infine, quella consistente nella qualificazione delle stesse come abusive, con conseguente applicabilità della sanzione della nullità c.d. di protezione ex art. 33 e ss. cod. cons. Nelle normative settoriali, poi, non si rinvengono soluzioni omogenee. All’inosservanza della forma scritta consegue, a volte, la tradizionale nullità, come previsto nella disciplina del contratto di multiproprietà e del contratto di subfornitura, in altre occasioni, la c.d. nullità di protezione, come previsto con riguardo ai contratti bancari, o la nullità parziale o limitata al solo contratto quadro, come previsto in materia di contratti finanziari, in altre occasioni ancora la mera responsabilità precontrattuale o il riconoscimento di più ampie facoltà negoziali, quali il prolungamento del periodo per l’esercizio del diritto di recesso, come previsto, ad esempio, in tema di contratti negoziati fuori dai locali commerciali, o, ancora, una sanzione amministrativa od anche, sia pure in rari casi, penale. Conclusivamente, può pertanto affermarsi che, allo stato attuale, a fronte dei difetti di forma, si rinviene una grande varietà di sanzioni: accanto a quelle tradizionali dell’inesistenza (quando il difetto di forma impedisca di ravvisare, nella fattispecie, il contratto che le parti desideravano concludere), della nullità ex art. 1418, comma 2, c.c. (lì dove non sia stata adottata la forma ad substantiam dell’atto pubblico o della scrittura privata ex artt. 1325 e 1350 c.c.) e dell’annullabilità (quale si rinviene in materia di testamento e di contratti differenziali di borsa), si sono aggiunte la c.d. nullità di protezione – che si contraddistingue per i peculiari caratteri della legittimazione riservata al contraente debole, della rilevabilità d’ufficio c.d. unidirezionale, della temporanea produzione degli effetti, della possibilità di convalida, della natura costitutiva della sentenza che la dichiari –, nonché tutte le altre specifiche sanzioni, aventi anche natura amministrativa e penale, tassativamente espresse e disseminate nelle varie normative. A completamento del quadro sin qui delineato, vanno poi ricordate le soluzioni adottate dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riguardo ai casi in cui, per la violazione di determinate prescrizioni formali poste a tutela del consumatore, non è stata prevista un’esplicita norma sanzionatoria. Al fine di reperire le soluzioni più appropriate ai diversi casi, si è ritenuto opportuno richiamarsi alla triplice distinzione tra norme che stabiliscono una determinata forma per il contratto, norme che richiedono trasparenza e completezza del suo contenuto e norme che fissano obblighi d’informativa precontrattuale. Per quanto concerne la prima tipologia di norme (e dunque con riguardo a casi di mancanza della forma prescritta), nel confronto con lo strumento tradizionale della nullità, azionabile da chiunque, è apparso più confacente il rimedio della nullità c.d. di protezione, il cui paradigma generale è stato ravvisato nell’art 36 del codice del consumo, e dunque il rimedio di una nul- 280 Studium Iuris, 3/2010 Temi lità invocabile unicamente dal contraente debole e rilevabile d’ufficio da parte del giudice soltanto se si risolva a vantaggio di tale contraente. Anche con riguardo alla violazione di prescrizioni inerenti la trasparenza e completezza del contenuto del contratto, è sembrata più confacente la nullità c.d. di protezione, invocabile, peraltro, in modo assoluto, quando il vizio riguardi elementi essenziali del contratto, come ad esempio l’oggetto, e in modo, invece, relativo lì dove si tratti di clausole svantaggiose, non chiare e non intelligibili. Particolarmente acceso è stato il dibattito relativo alle conseguenze ricollegabili all’inosservanza di obblighi d’informativa precontrattuale, dibattito sviluppatosi negli ultimi anni con riguardo particolarmente al settore dei rapporti d’intermediazione finanziaria, e sul quale hanno preso posizione anche le Sezioni Unite della Cassazione Civile, con le sentenze n. 19024/2005 e n. 26724/2007: il precedente orientamento giurisprudenziale propenso ad ammettere anche in questo caso il ricorso alla nullità c.d. di protezione, in considerazione della pericolosa commistione tra regole di validità e regole di comportamento che si è ravvisata alla sua base, è stato abbandonato in favore della tesi, più moderata, favorevole all’esperibilità del solo rimedio risarcitorio ex artt. 1337 e 1338 c.c. 281 Esame per l’iscrizione agli albi degli avvocati Parere motivato su quesito proposto in materia di diritto penale di Francesco Viganò Verso le sei di sera, Ahmed B., di nazionalità marocchina, forza la serratura di una Lancia Dedra parcheggiata lungo la pubblica via, e riesce a metterla in moto. Una pattuglia di due poliziotti che si trova nelle immediate vicinanze, avvertita da un passante, interviene e intima l’alt ad Ahmed. Questi dapprima dà segno di volersi fermare all’alt e finge di aprire la portiera; quindi riparte improvvisamente a tutta velocità, tanto da costringere un poliziotto ad un balzo laterale per evitare di essere travolto. Inizia così un rocambolesco inseguimento, per sfuggire al quale Ahmed si immette contromano nella tangenziale cittadina, tallonato a breve distanza dai poliziotti a bordo della loro ‘volante’. Dopo circa tre chilometri, quando ormai le pattuglie inseguitrici hanno desistito per non mettere ulteriormente a repentaglio la vita degli altri automobilisti, la folle corsa del conduttore – che era riuscito sino a quel momento ad evitare all’ultimo istante la collisione con una quantità di autovetture – termina con un violentissimo scontro frontale con una Ford Focus, la quale viene a sua volta sbalzata contro una Volkswagen Golf. Nell’incidente riportano lesioni lo stesso Ahmed, i conducenti delle altre due autovetture coinvolte (Marco e Giovanni) ed una passeggera della Ford Focus (Claudia); mentre il piccolo Andrea, di appena cinque anni, che si trovava sul sedile posteriore della Ford Focus, trova purtroppo la morte nell’incidente. Tutti i feriti vengono quindi trasportati in ospedale. Ad Ahmed vengono riscontrate fratture multiple; dalle analisi effettuate emerge altresì la recente assunzione da parte di costui di bevande alcooliche, in quantità pari a circa un litro di birra. A tutti gli altri conducenti vengono riscontrate fratture giudicate guaribili in un tempo superiore ai quaranta giorni; nessuno peraltro appare in pericolo di vita. * * 282 * Studium Iuris, 3/2010 Temi In base all’esame della condotta descritta dalla traccia risultano prospettabili a carico di Ahmed una pluralità di ipotesi di reato. In primo luogo, Ahmed ha realizzato gli estremi del delitto di rapina impropria di cui all’art. 628, comma 2, c.p. Tale peculiare figura di reato si caratterizza, sul piano strutturale, per la presenza di due elementi: la sottrazione di un bene mobile altrui, e cioè l’uscita del bene dalla sfera di controllo di colui che la detiene; la realizzazione – immediatamente dopo aver sottratto il bene – di una condotta di violenza o minaccia finalizzata ad assicurare a sé o a terzi il possesso del bene sottratto o, alternativamente, a conseguire l’impunità. Nel caso in esame, Ahmed ha sottratto l’autovettura ed immediatamente dopo, colto in flagranza da alcuni agenti di polizia, ha esercitato violenza nei confronti di questi ultimi al fine di evitare l’arresto, e di conseguire così l’impunità. In effetti Ahmed, scoperto dagli agenti di polizia, non solo non si è fermato all’alt intimatogli, ma ha diretto l’autovettura contro un poliziotto, realizzando così una condotta violenta, secondo quando insegnato dalla costante giurisprudenza che considera integrato l’estremo della violenza nell’ipotesi in cui il soggetto diriga un autoveicolo contro una persona o comunque manovri intenzionalmente l’autoveicolo stesso in modo da esporre tale persona al rischio di un incidente (cfr. Cass. pen., sez. VI, 8 aprile – 28 luglio 2003, n. 31716). In secondo luogo, con la medesima azione costitutiva del delitto di rapina impropria, l’agente ha posto in essere un fatto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.). Tale norma incriminatrice richiede a) che il soggetto attivo realizzi una condotta violenta o minacciosa contro un pubblico ufficiale (o ad un incaricato di pubblico servizio) b) contestualmente al compimento, da parte di tali soggetti, di un atto del loro ufficio. Nel caso di specie, la condotta violenta compiuta da Ahmed (dirigere l’autoveicolo contro i poliziotti) è funzionale ad impedire ai pubblici ufficiali di compiere l’atto del loro ufficio consistente nel legittimo arresto in flagranza di Ahmed (art. 380 c.p.p.). Il reato deve considerarsi aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p. (c.d. nesso teleologico), essendo stato commesso dall’agente al fine di procurarsi l’impunità per il precedente delitto di rapina impropria. Emerge poi dalla traccia che Ahmed, sempre al fine di sottrarsi alla cattura, ha proseguito nella fuga, imboccando – contromano e sotto l’effetto di sostanze alcoliche – una strada a scorrimento veloce, e dopo alcuni chilometri, ha violentemente impattato contro un’automobile che procedeva in senso contrario la quale, a sua volta, ha travolto una seconda vettura; a seguito dello scontro, tutti gli occupanti delle auto coinvolte hanno riportato lesioni, mentre un bambino è deceduto. Rispetto a tale tragico episodio potrebbe anzitutto essere ipotizzata una responsabilità di Ahmed per il delitto di omicidio volontario consumato (art. 575 c.p.) del bimbo, aggravato dal nesso teleologico (art. 576, comma 1, n. 1 in riferimento all’art. 61, n. 2, c.p.) per es- 283 Avvocati - Parere di diritto penale Studium Iuris, 3/2010 sere stato il fatto commesso dall’agente al fine di procurarsi l’impunità per i precedenti delitti di rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale. Questa prospettiva presuppone la presenza, in capo all’agente, della volontà di cagionare la morte della vittima. In assenza peraltro di elementi che facciano pensare ad una intenzionalità rispetto alla causazione della morte e delle lesioni (lo scopo perseguito da Ahmed era, con tutta evidenza, quello di sottrarsi all’arresto), si tratta di vagliare se l’evento fosse stato quanto meno da lui previsto in termini di certezza (dolo diretto) o, più verosimilmente di possibilità, accompagnata – in quest’ultimo caso – da una accettazione del relativo rischio, nella quale si sostanzia secondo la giurisprudenza il coefficiente volitivo del dolo eventuale (nel senso che ricorre la figura del dolo eventuale quando l’agente preveda il verificarsi dell’evento come un’ipotesi concretamente possibile e, ciononostante, prosegua nell’azione intrapresa, mentre si deve ritenere sussistente la meno grave ipotesi della colpa cosciente ove l’evento sia previsto quale conseguenza della propria condotta in termini di mera eventualità astratta, cfr. da ultimo Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2009, n. 13083, Bovac). Nel tentativo di dare un contenuto più preciso alle formule utilizzate dalla giurisprudenza per tracciare la cruciale linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa con previsione, si afferma spesso – in dottrina – che nel dolo eventuale l’agente deve avere risolto il conflitto interiore tra agire e non agire nel modo pressappoco seguente: dopo aver messo idealmente a confronto l’obiettivo perseguito attraverso l’azione con il verificarsi dell’evento dannoso come conseguenza di quest’ultima, l’agente decide di porre comunque in essere l’azione, deliberatamente optando per il possibile sacrificio del bene giuridico in gioco (che rappresenta, dunque, il prezzo che l’agente è disposto a pagare pur di raggiungere il proprio scopo). Nel caso concreto all’esame, la sussistenza di un dolo eventuale in capo all’agente potrebbe essere sostenuta dalla pubblica accusa sulla base di una pluralità di argomenti. Anzitutto, è agevole affermare che l’agente aveva certamente previsto l’eventualità di cagionare con la propria condotta una collisione frontale con gli altri autoveicoli che transitavano sulla carreggiata in senso opposto; e che, date le concrete circostanze (a cominciare dall’elevata velocità di tutti i veicoli coinvolti), aveva certamente previsto anche l’eventualità che da una simile collisione potessero scaturire eventi mortali. Anche a voler concedere, infatti, che l’agente abbia inizialmente impegnato per errore la carreggiata riservata ai veicoli provenienti in senso opposto (ad es. non rendendosi conto del cartello di divieto posto all’inizio della rampa di accesso), egli non può non aver percepito l’estrema pericolosità della situazione non appena impegnata la carreggiata, in un’ora di intenso traffico, durante i tre chilometri nei quali egli proseguì la propria corsa, anche dopo che l’autovettura della polizia aveva desistito dall’inseguimento. Quanto all’estremo dell’accettazione del rischio (o più esattamente, dell’accettazione dell’eventuale verificazione dell’evento), la pubblica accusa potrebbe sostenere che l’agente, 284 Studium Iuris, 3/2010 Temi consapevole del rischio di cagionare con la propria condotta la morte di terzi, abbia messo in conto quella prospettiva come possibile prezzo che egli era disposto a pagare, pur di conseguire lo scopo di assicurarsi all’impunità, sfuggendo all’arresto. Ciò potrebbe essere dimostrato, in particolare, facendo leva sulla circostanza che egli non abbia arrestato la marcia nella corsia d’emergenza appena resosi conto dell’enorme pericolosità della situazione per continuare magari a piedi la fuga, e abbia all’opposto deciso di proseguire alla guida del veicolo per circa tre chilometri, per di più avendo bevuto una quantità di alcool tale da compromettere in maniera significativa le proprie capacità di controllo della guida. In chiave difensiva potrebbe, invece, porsi in dubbio la sussistenza di una risoluzione, da parte di Ahmed, ad agire “a qualunque costo” – persino a costo di cagionare un evento letale come quello in concreto verificatosi. Per poter affermare con sicurezza che egli abbia effettivamente messo in conto la morte degli automobilisti che, al momento del fatto, percorrevano la carreggiata autostradale da lui imboccata contromano, bisognerebbe infatti dimostrare che egli abbia previsto e considerato come possibile prezzo dell’impunità la morte o le lesioni degli stessi in conseguenza di una collisione frontale tra la propria autovettura e un’altra autovettura che impegnava la carreggiata nel senso di marcia corretto. Il che però significherebbe sostenere che Ahmed abbia messo in conto non soltanto la morte o le lesioni altrui, ma addirittura la propria morte, o la verificazione di gravi eventi lesivi sulla propria persona in conseguenza di una collisione frontale in un simile contesto: che, cioè, abbia pensato “meglio morto che in galera”. Per quanto un simile calcolo non possa essere escluso con sicurezza in capo ad Ahmed, è almeno altrettanto verosimile l’ipotesi opposta: che, cioè, egli abbia orientato la propria condotta di guida – pur in un contesto estremamente carico di rischi – allo scopo di evitare le collisioni con i veicoli provenienti in senso opposto, confidando nella propria capacità di guida e nella prontezza dei propri riflessi – atteggiamento, questo, riconducibile alla colpa con previsione (art. 61, n. 3, c.p.) più che al dolo eventuale. Conclusione, questa, che potrebbe essere addirittura corroborata dalla circostanza dell’assunzione di sostanze alcoliche poco prima del fatto, il cui effetto potrebbe essere stato quello di alterare la normale percezione dei pericoli da parte dell’assuntore, inducendolo a sottovalutare tali pericoli e/o a sopravvalutare le proprie capacità di gestione degli stessi. In presenza, allora, di un dubbio circa il reale contenuto dei processi psichici di Ahmed al momento del fatto, una rigorosa applicazione della regola di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p – a tenore del quale la pronuncia di condanna presuppone la prova di tutti i requisiti costitutivi del reato al di là di ogni ragionevole dubbio – dovrebbe condurre il giudice ad escludere la responsabilità per il delitto di omicidio doloso, e a derubricare l’eventuale imputazione formulata in tal senso dalla pubblica accusa in quella, meno grave, di omicidio colposo (art. 589 c.p.) – nessun dubbio sussistendo, ovviamente, sulla natura macroscopicamente imprudente della 285 Avvocati - Parere di diritto penale Studium Iuris, 3/2010 condotta consistente nell’impegnare contromano una carreggiata a scorrimento veloce –, con le aggravanti di avere commesso il fatto con violazione delle norme in tema di circolazione stradale ed in stato di ebbrezza (art. 589, comma 2 o, se del caso, comma 3 c.p.) e con l’ulteriore aggravante dell’avere agito nonostante la previsione dell’evento (art. 61, comma 3, c.p.). Per ciò che concerne infine le lesioni provocate agli altri occupanti delle vetture coinvolte nel sinistro, sembra anzitutto da escludere la possibilità che a carico di Ahmed venga formulata un’accusa di altrettanti tentati omicidi (artt. 56, 575 c.p.), dal momento che – a prescindere dalla questione di fatto se possano o meno ravvisarsi gli estremi di un dolo eventuale di omicidio in capo all’agente – la giurisprudenza largamente prevalente considera il tentativo incompatibile con il dolo eventuale (Cass. pen., sez. I, 18 gennaio 2006, n. 5849, Taddei). Secondo questa impostazione, il requisito della direzione non equivoca degli atti, richiesto dall’art. 56 c.p. ai fini della sussistenza della fattispecie tentata implica una condotta sorretta, sul piano soggettivo, dal dolo intenzionale o, al più, diretto: con esclusione dunque del dolo eventuale – l’unica forma di dolo che ragionevolmente potrebbe essere ravvisata in capo ad Ahmed. Resta dunque la possibilità che i fatti vengano qualificati dalla pubblica accusa come altrettante lesione dolose, da qualificarsi come gravi, stante la durata di oltre quaranta giorni delle malattie provocate (artt. 582, 583 comma 1, n. 1, c.p.). L’accertamento del dolo di lesioni incontrerebbe tuttavia le medesime difficoltà già evidenziate in relazione al dolo di omicidio, con riguardo alla causazione della morte del bambino: la pubblica accusa potrebbe invero sostenere, anche in questo caso, che Ahmed abbia agito rappresentandosi ed accettando la possibilità di cagionare lesioni anche gravi ad altri automobilisti; ma la difesa potrebbe replicare che, almeno altrettanto verosimilmente, il soggetto abbia invece confidato nelle proprie capacità di evitare collisioni frontali con altre automobili, se non altro per evitare di esporre anche se stesso ai gravissimi rischi inscindibilmente correlati alla prospettiva di uno scontro frontale. Anche in questo caso, dunque, potrebbe apparire più appropriata – alla luce dello standard probatorio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” – la derubricazione dell’eventuale imputazione di lesioni dolose gravi in quella di lesioni colpose gravi, anche qui con le aggravanti della violazione delle norme in tema di circolazione stradale e in stato di ebbrezza (art. 590, comma 2 e 3, c.p.) nonché della previsione dell’evento (art. 61, n. 3, c.p.); e la pena dovrebbe comunque essere calcolata unitariamente, ai sensi dell’art. 589, comma 4, c.p., assieme a quella per l’omicidio colposo a danno del piccolo Andrea. 286 Concorso per notaio Prova teorico-pratica riguardante un atto di diritto civile di Maria Francesca Scognamiglio La società Petrolinas s.p.a. dispone di varie concessioni amministrative per la distribuzione di carburanti su aree che la stessa detiene in proprietà o conduce a titolo di locazione. La stessa ha acquistato un suolo in località Vico Equense, Via della Selva n. 1, ove può svolgere, appunto, l’attività di distribuzione al pubblico di carburanti e la vendita di prodotti derivati dal petrolio e similari. Ha preso in affitto infranovennale altro suolo in Sorrento alla Via del Gobbo n. 1, zona per la quale dispone di concessione analoga alla precedente. Su entrambe le zone di terreno essa ha installato gli impianti di distribuzione del carburante e locali prefabbricati idonei alla vendita di prodotti di varia natura ed alla somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, attività per le quali ha conseguito i necessari permessi amministrativi. Dopo varie trattative la società vorrebbe : - concedere a Tizio, imprenditore individuale non iscritto al registro imprese di Napoli, ma di Milano, il complesso dei beni ed il suolo di Vico Equense per dieci anni, prevedendosi espressamente che Tizio debba gestire il complesso dei beni con rischio in proprio e che il corrispettivo debba essere dato dal pagamento da esso Tizio all’impresa Alfa s.r.l. fornitrice degli impianti di che trattasi, e perciò creditrice di complessivi euro 600.000,00. Debito, ovviamente, al momento a carico della Petrolinas. Inoltre si vuole che Tizio eserciti la distribuzione acquistando carburanti esclusivamente dalla Petrolinas e che tutti i prodotti da vendere debbano essere dalla stessa acquistati per quantitativi non inferiori ad un milione di euro l’anno. Tizio è d’accordo; - concedere a Caio e Tizia, coniugati in regime di comunione legale dei beni, il complesso dei beni in Sorrento precisandosi in tal caso che nessun corrispettivo è richiesto per il godimento concesso salvo l’obbligo di acquistare carburanti e tutti gli altri prodotti dalla Petrolinas per quantitativi non inferiori a due milioni di euro l’anno. I coniugi sono d’accordo, vorrebbero, tuttavia, che Tizia non avesse alcuna responsabilità esterna. 287 Notaio - Diritto civile Studium Iuris, 3/2010 Il candidato, assunte le vesti del notaio Romolo Romani di Roma, dopo aver precisato in ordine alla responsabilità per i debiti nel caso di cessione di azienda, nel caso di affitto di azienda e nel caso di comodato d’azienda rediga gli atti richiesti in unico documento nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge * * * PARTE TEORICA L’art. 2560 c.c., tra le norme relative all’azienda ed alla sua circolazione, è forse quella che ha dato maggiori spunti di riflessione. La norma stabilisce che quando viene ceduta un’azienda l’alienante non è liberato dai debiti inerenti l’esercizio della stessa, sorti anteriormente al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Se detti debiti risultano dai libri contabili obbligatori, ne risponde anche l’acquirente. Lo scopo (e ratio) della norma viene generalmente individuato nell’esigenza di tutelare il terzo creditore quando il suo originario debitore trasferisce l’azienda. Con la cessione dell’azienda il debitore perde una componente importante, se non talvolta principale o addirittura unica, del suo patrimonio; patrimonio con il quale deve rispondere ai sensi dell’art. 2740 c.c., nei confronti del creditore, dell’adempimento delle sue obbligazioni. La nuova posizione del creditore è certamente meno tutelata rispetto alla situazione quo ante, in quanto a fronte di un’entità patrimoniale non occultabile e di valore rilevante, subentra nel patrimonio del cedente una somma di denaro. I creditori vedono la garanzia offerta dal “bene azienda” diminuire a seguito della monetizzazione della stessa. La norma richiama il dettato dell’art. 1273 c.c. che disciplina l’accollo ed in virtù del quale il debitore originario, se il creditore non dichiara espressamente di liberarlo, rimane obbligato in solido con il nuovo debitore. È necessario determinare a quali debiti si applichi l’art. 2560 c.c. A differenza di quanto previsto dall’art. 2558 c.c., che prevede il subentro dell’acquirente nei contratti stipulati dal cedente ai fini dell’esercizio dell’azienda, l’articolo in esame si applica ogni qualvolta alla posizione debitoria non si contrappone alcuna altra posizione in rapporto di sinallagmaticità. Pertanto i debiti cui si riferisce l’art. 2560 c.c. sono: 1) i debiti puri, cioè quelli aventi fonte extracontrattuale; 2) i debiti nascenti da contratti non a prestazioni corrispettive, ma con prestazione a carico di una sola delle parti (art. 1333 c.c.); 3) i debiti scaturenti da contratti bilaterali qualora il terzo contraente abbia già eseguito la propria prestazione. 288 Studium Iuris, 3/2010 Temi Quando invece si tratta di contratti a prestazioni corrispettive, non ancora eseguite da nessuna delle due parti si applica l’art. 2558 c.c. e pertanto l’alienante è liberato automaticamente al momento della cessione dell’azienda, in quanto l’acquirente subentra nelle posizioni contrattuali. Una disciplina speciale è prevista per i debiti nei confronti dei soggetti che hanno prestato la propria opera all’interno dell’azienda. L’art. 2112 c.c, al secondo comma, stabilisce che « il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento ». Solo il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dai debiti derivanti dal rapporto di lavoro. Il legislatore ha voluto rafforzare la tutela del “lavoratore-creditore” aggiungendo un nuovo soggetto obbligato al fianco di quello originario. Nei rapporti interni sarà responsabile solo l’alienante dell’azienda. Se quindi l’acquirente dovesse rispondere dei debiti di lavoro avrà nei confronti del suo dante causa il diritto di regresso. Non vale invece il contrario: l’alienante non avrà diritto di regresso nei confronti del cessionario d’azienda. Nell’àmbito, invece, della disciplina generale dei debiti aziendali, è necessario, affinchè l’alienante sia responsabile per gli stessi, che si tratti di debiti anteriori al trasferimento dell’azienda. Non è invece necessario che siano anche debiti già scaduti. Di tali passività il soggetto cedente non risponde quando le parti abbiano pattuito, e i creditori abbiano consentito, la sua liberazione. È discusso se il consenso suddetto debba essere generico (cioè riferito alla cessione d’azienda nel suo complesso) oppure specifico (riferito alla liberazione dell’alienante dai debiti aziendali “anteriori”). Nonostante autorevoli voci contrarie, la dottrina dominante ritiene che sia necessario, da parte dei creditori, il consenso specifico alla liberazione. Può altresì ritenersi che se solo alcuni creditori prestano il suddetto consenso, solo nei confronti dei crediti da questi ultimi vantati si avrà liberazione. Se non vi è tale liberazione, e qualora risultino dai libri contabili obbligatori, l’alienante e l’acquirente risponderanno entrambi dei debiti aziendali anteriori al trasferimento, e lo faranno solidalmente in virtù del principio espresso dall’art. 1294 c.c. per cui, quando nulla è detto dalla legge o dal titolo, i condebitori sono tenuti in solido. In questo caso però la solidarietà è sui generis perché l’acquirente ha una responsabilità senza debito. Ai fini di tale solidarietà è necessario che i debiti siano iscritti nei libri contabili obbligatori e non è sufficiente, come ha avuto modo di ribadire più volte la giurisprudenza, che gli stessi siano conosciuti dall’acquirente, né che tali debiti siano stati inseriti in libri contabili facoltativi. La Cassazione, a tal riguardo, ha più volte affermato che l’iscrizione nei libri contabili obbligatori è elemento costitutivo di tale responsabilità solidale; solo in quest’ipotesi le passività dell’azienda non possono ritenersi ignote al relativo acquirente. Altra conseguenza di quanto detto è che detta norma va applicata solo alle aziende commerciali non piccole. 289 Notaio - Diritto civile Studium Iuris, 3/2010 La responsabilità che il comma 2 dell’art. 2560 c.c. addossa all’acquirente si configura come accollo del debito ex lege. A tal fine è irrilevante che l’acquirente voglia esercitare o meno l’azienda, ed altresì non sarà possibile per le parti derogare a tale responsabilità. La norma oggetto di questa breve disanima vuole tutelare l’interesse dei creditori: questi ultimi sono soggetti terzi rispetto all’atto di trasferimento. Agli stessi non è riconosciuto, come invece avviene in altre ipotesi di modifica nella titolarità dell’azienda, altro diritto se non quello di non vedere diminuito il patrimonio di chi è debitore nei loro confronti. Gli unici soggetti a poter derogare all’accollo cumulativo ex lege (acconsentendo alla liberazione dell’acquirente) sono i creditori, in quanto unici a poter disporre del diritto a tutela del proprio interesse. Pertanto, con il consenso dei creditori, è possibile derogare sia alla previsione del primo comma dell’art. 2560 c.c. (responsabilità dell’alienante per i debiti anteriori al trasferimento), sia quella del secondo comma (responsabilità dell’acquirente per i debiti anteriori al trasferimento risultanti dalle scritture contabili obbligatorie). Tutto quanto detto finora vale nei rapporti esterni. La norma nulla dice relativamente al peso dei debiti nei rapporti interni fra alienante ed acquirente. Il problema relativo ai rapporti interni è diversamente risolto alla luce dell’idea che si ha della discussa natura giuridica dell’azienda. La dottrina, come anche la giurisprudenza, è divisa sul punto. Una parte della dottrina inquadra l’azienda nella sfera delle universitas iuris, pertanto della stessa fanno parte non solo i beni che la compongono ma anche tutte le situazioni giuridiche attive e passive riferibili alla stessa. In particolare, seconda alcuni, le passività potrebbero essere qualificate come oggetto di obligationes propter rem che, come tali, seguono l’azienda in tutte le sue vicende circolatorie. Altra parte della dottrina, invece, inquadra l’azienda tra le universalità di fatto; a sostegno di questa seconda impostazione, secondo alcuni, vi sarebbe anche il fatto che, secondo i principi del nostro ordinamento, non può presumersi la successione nel debito, cosa che avverrebbe qualora la si qualificasse come universalità di diritto. Pertanto i debiti, nei rapporti interni, non si trasferiscono automaticamente all’acquirente dell’azienda, ma restano in capo all’alienante. Per potersi avere il passaggio delle passività in capo all’acquirente anche nei rapporti interni sarà necessario un patto espresso fra le parti. Anche per gli effetti dei trasferimenti mortis causa sui debiti aziendali le conseguenze cambiano a seconda dell’idea che si ha della natura giuridica dell’azienda. Se il testatore non ha disposto in modo espresso dei debiti aziendali si pone il problema se questi seguano l’azienda eventualmente oggetto di legato o se invece restino a carico degli eredi. Se si accoglie la tesi che l’azienda sia una universitas facti, e quindi non comprensiva dei 290 Studium Iuris, 3/2010 Temi crediti e debiti alla stessa imputabili, bisognerà escludere che nei rapporti interni i debiti passino a carico del legatario nel silenzio del testatore. Qualora, invece, si consideri l’azienda quale universitas iuris si deve concludere che al legatario l’azienda si trasferisca anche con tutti i debiti. Il legatario sarà sì responsabile, ma sempre nel rispetto delle norme successorie ed in particolare dell’art. 671 c.c. a norma del quale « il legatario è tenuto all’adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto entro i limiti del valore della cosa legata ». Discorso diverso deve essere fatto per altre ipotesi di trasferimento d’azienda ad altro titolo; quanto detto fin qui, infatti, non vale per le ipotesi di usufrutto, affitto e comodato d’azienda. Né l’art. 2561 c.c relativo all’usufrutto, né l’art. 2562 c.c., che nel disciplinare l’affitto d’azienda fa rinvio al primo (« le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche nel caso di affitto d’azienda » ), contengono una disciplina relativa ai debiti. L’art. 2560 c.c. che, in quanto norma di carattere eccezionale, è insuscettibile di applicazione analogica, non prevede altre ipotesi al di fuori della cessione d’azienda, conseguentemente allo stesso non saranno soggetti gli altri casi di godimento d’azienda in virtù di usufrutto, affitto e comodato. Deve distinguersi l’ipotesi dei debiti di lavoro in quanto ai sensi del quinto comma dell’art. 2112 c.c. si applicherà la disciplina dettata dallo stesso per le cessioni anche ai casi di usufrutto ed affitto, in quanto per trasferimento deve intendersi qualsiasi mutamento nella titolarità di una attività economica organizzata in azienda. In conclusione, alla luce delle lacune legislative relativamente alla disciplina dei debiti aziendali, appare opportuno, ai fini applicativi, disciplinare pattiziamente il regime di responsabilità interna per gli stessi. * * * MOTIVAZIONE Gli atti predisposti in svolgimento della traccia in oggetto sono due. Il primo è un contratto di affitto d’azienda stipulato dalla società con Tizio, mentre il secondo è un contratto di comodato con Caio. Dalla traccia si poteva evincere che i rami dell’azienda sono due, ciascuno dei quali esercitato su un suolo diverso: uno in Vico Equense e l’altro in Sorrento. Per ramo d’azienda deve intendersi « parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento ». È in questi termini che si esprime l’art. 2112 al comma 6; l’articolo disciplina i diritti dei lavoratori in occasione del trasferimento d’azienda e nell’estendere la disciplina anche al caso di cessione del solo ramo d’azienda ne fornisce una definizione. 291 Notaio - Diritto civile Studium Iuris, 3/2010 Il fatto che uno dei due suoli non sia di proprietà della società titolare dell’azienda non è rilevante in quanto affinché un bene possa dirsi aziendale ciò che rileva non è la proprietà ma la disponibilità dello stesso. Nell’àmbito del contratto d’affitto si inseriscono anche altre due vicende. In primo luogo la società concedente, essendo debitrice nei confronti di un’altra società, vuole che il corrispettivo venga dall’affittuario versato nei confronti della società creditrice. Il debito è dovuto in virtù della fornitura degli impianti per la distribuzione del carburante. A tal fine è stata inserita nel congegno contrattuale anche una delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 1269 c.c. In secondo luogo l’affittuario stipula con la società concedente un contratto di somministrazione prevedendo altresì l’esclusiva a favore della società somministrante, obbligandosi ai sensi dell’art. 1567 c.c. a non ricevere da terzi prestazioni della stessa natura. Il secondo contratto stipulato è invece un comodato in quanto nella traccia si faceva riferimento alla concessione del godimento del ramo d’azienda senza un corrispettivo. L’istituto disciplinato dagli artt. 1803 ss. c.c. risponde perfettamente alla fattispecie delineata. È necessario però verificare la possibilità che l’azienda sia oggetto di un contratto di comodato. Tra i contratti che hanno ad oggetto l’azienda non vi è riferimento specifico al comodato. La norma pare ricomprendere tuttavia tutte le forme di realizzazione degli interessi relativi al godimento dell’azienda. È necessario però usare molta prudenza nell’applicare analogicamente le norme sul trasferimento d’azienda e coordinarle con quelle relative al contratto di comodato. Anche in questo secondo contratto è stato stipulato un contratto di somministrazione con clausola di esclusiva. Relativamente alla clausola di esclusiva, parte della dottrina la configura come un elemento accessorio del contratto di somministrazione; altri autori affermano che si tratta di un negozio autonomo, caratterizzato da un elemento causale autonomo che consiste nell’attribuire una posizione di privilegio ad uno o entrambi i contraenti. Si è comunque ritenuto opportuno non far assumere alla signora Tizia la qualità di comodataria, posto che dalla traccia emerge la volontà delle parti, ritenuta preminente, di non esporre la medesima alla responsabilità derivante da tale qualifica. Infine, il fatto che l’affittuario di azienda sia iscritto al registro delle Imprese di Milano anziché di Napoli, ove è situata l’azienda, non pone alcun problema per la redazione dell’atto. * * 292 * Studium Iuris, 3/2010 Temi Repertorio n. Raccolta n. CONTRATTO DI AFFITTO E COMODATO DI RAMI DI AZIENDA E CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE REPUBBLICA ITALIANA L’anno . . ., il giorno …del mese di . . .(in lettere per disteso) in Roma, presso il mio studio alla via . . . n. Innanzi a me Dottor Romolo Romani, notaio residente in Roma, iscritto al ruolo dei Distretti Notarili Riuniti di Roma Velletri e Civitavecchia, si sono costituiti i signori: 1) …. (nome e cognome, luogo e data di nascita) nella qualità di amministratore unico …. e legale rappresentante della società “PETROLINAS spa”, costituita in Italia con sede in . . . alla Via . . . n. . . ., dove domicilia per la carica, capitale sociale euro . . ., iscritta nel Registro delle Imprese di ….con il seguente numero e codice fiscale. . . e R.E.A. n. . ., autorizzato al presente atto in forza di … 2) TIZIO, … (nome e cognome, luogo e data di nascita, domicilio, codice fiscale) iscritto nel Registro delle Imprese di Milano con il detto codice fiscale; 3 ) CAIO …(nome e cognome luogo e data di nascita, domicilio, codice fiscale); Dell’identità personale e dei poteri di tutti i costituiti, cittadini italiani, io Notaio sono certo. PREMESSA 1) La società “PETROLINAS spa” è titolare di due rami aziendali per la distribuzione del petrolio ed attività accessorie. 2) l’attività aziendale è articolata in due rami così organizzati: 2.a. il primo ramo, come risulta dall’inventario che si allega al presente atto sotto la lettera “A” è costituito da: il diritto di piena ed esclusiva proprietà del suolo sito in località Vico Equense alla Via Selva n.1 confinante con . . . con …e con … di metri quadrati 293 Notaio - Diritto civile Studium Iuris, 3/2010 …., riportato presso l’Agenzia del Territorio del Comune di …, Catasto Terreni, sez …foglio …part ….sub ….in ditta …z.c …. .qualità …classe ….h.c …h.a ….R.D …R.A …; licenza rilasciata dal Comune di …. in data …n …per la distribuzione al pubblico di carburanti e la vendita di prodotti derivati dal petrolio e similari; ….(indicazione degli altri elementi facenti parte dell’azienda quali macchinari, autorizzazioni ed avviamento); 2.b. il secondo ramo d’azienda, come risulta dall’allegato inventario, è costituito da: contratto di locazione del suolo sito in Sorrento alla Via del Gobbo n. 1 confinante con . . .con …e con … di metri quadrati …., riportato presso l’Agenzia del Territorio del Comune di …, Catasto Terreni, sez …foglio …part. ….sub. ….in ditta … z.c …. . qualità … classe …. h.c …h.a …. R.D … R.A …; licenza rilasciata dal Comune di …. in data … n. … per la distribuzione al pubblico di carburanti e la vendita di prodotti derivati dal petrolio e similari; ….(indicazione degli altri elementi facenti parte dell’azienda quali prefabbricati, macchinari, autorizzazioni ed avviamento); 3) è intenzione della “Petrolinas s.p.a.” di concedere in affitto il ramo d’azienda sub 2.a e, a tal fine, si è costituito Tizio, e di concedere in comodato il ramo d’azienda sub 2.b e a tal fine si è costituito Caio. 4) la società “Petrolinas s.p.a.” è debitrice verso la società “Alfa s.r.l.” per euro 600.000,00 (seicentomila) in virtù di un contratto di fornitura di impianti ….(specificazione del rapporto e del contratto concluso). Tutto ciò premesso e dichiarato quale parte integrante e sostanziale del presente atto, i comparenti, nelle rispettive qualità,convengono quanto segue. 294 Studium Iuris, 3/2010 Temi PARTE I – AFFITTO DI RAMO AZIENDA Art. 1) Consenso ed oggetto La società “PETROLINAS spa”, come rappresentata, concede in affitto a Tizio, che accetta, il ramo dell’azienda individuata in premessa sub 2.a., corrente in Comune di Vico Equense alla Via della Selva n. 1, in virtù delle licenze ed autorizzazioni ivi menzionate. Gli effetti del presente atto decorrono a beneficio e carico della parte affittuaria da oggi. Art. 2) Durata La durata del presente contratto di affitto è fissata in anni …. . a partire dal … e quindi fino al …. Art. 3) Canone Le parti hanno concordato quale corrispettivo un canone annuo di euro …. . da corrispondersi in dodici rate mensili di euro ….ciascuna, anticipate. Art. 4) Delegazione di pagamento La “Petrolinas s.p.a.” delega Tizio a corrispondere il suddetto canone mensile alla società Alfa s.r.l., sua creditrice, fino al raggiungimento di complessivi euro 600.000,00 (seicentomila) obbligandosi personalmente verso il creditore. Tizio, presente, accetta ai sensi e per gli effetti del comma 2 dell’art.1269 c.c. . Art. 5) Obblighi dell’affittuario Ai sensi e per gli effetti dell’art. 1615 c.c. l’affittuario ha l’obbligo di curare la gestione del ramo dell’azienda in conformità della destinazione economica e dell’interesse della produzione. Art. 6) Obblighi del conduttore Il conduttore si obbliga: a) ad esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue e a gestirla 295 Notaio - Diritto civile Studium Iuris, 3/2010 senza modificarne l’attuale destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte, sotto pena del risarcimento dei danni e della risoluzione del contratto; b) ad usare i beni affittati con la diligenza del buon padre di famiglia e a restituirli alla scadenza della locazione nello stato di normale efficienza in cui riconosce di averli ricevuti, fatto salvo il normale deperimento conseguente all’uso. I beni che per qualsiasi ragione saranno distrutti o resi inutilizzabili dovranno essere sostituiti a spese dell’affittuario; c) a tutelare l’immagine e l’avviamento commerciale del ramo dell’azienda; d) a gestire personalmente ed in proprio il ramo dell’azienda affittata; e) a non subaffittare il ramo dell’’azienda o cedere in qualsivoglia modo il presente contratto, pena la risoluzione dello stesso ed il risarcimento danni. Sono a carico del conduttore le spese di manutenzione e riparazione dei beni affittati, compresa la manutenzione ordinaria dell’immobile. È fatto, altresì, obbligo al conduttore, di assicurare il patrimonio aziendale (compreso l’immobile), a proprie spese, contro i rischi di incendio, furto e responsabilità civile verso terzi, presso una compagnia di assicurazione prescelta dal locatore. Art. 7) Crediti e debiti …. .(pattuizioni delle parti relativamente ai crediti ed eventuale accollo dei debiti pregressi al presente contratto da parte di Tizio). Art. 8) Contratto di somministrazione Tizio si obbliga, ai fini dell’esercizio dell’attività oggetto del presente ramo d’azienda, ad acquistare carburanti esclusivamente dalla “Petrolinas s.p.a.” per tutta la durata del contratto di affitto e che tutti i prodotti da vendere debbano essere dalla stessa acquistati per quantitativi non inferiori ad euro 296 Studium Iuris, 3/2010 Temi 1.000.000,00 (un milione) ogni anno, secondo il capitolato generale della somministrazione che si allega al presente atto sub “ ….”. ….(eventuale previsione di una clausola penale per il caso di inadempimento). CAPO II – COMODATO DI RAMO D’AZIENDA Art. 9) Consenso ed oggetto La società “Petrolinas s.p.a.” a mezzo del sopradescritto legale rappresentante, consegna al Signor Caio, che accetta, il ramo d’azienda sub 2.b affinchè se ne serva per l’esercizio dell’attività aziendale che gestirà da solo. Art. 10) Durata Il contratto di comodato è stipulato per la durata di anni . . . . dalla data odierna e quindi fino al. . . . Art. 11) Obblighi e facoltà del comodatario Il comodatario è tenuto a custodire e conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dalla natura della cosa. La differenza tra le consistenze di inventario all’inizio ed al termine del comodato sarà regolata in denaro, a norma dell’articolo 2561 c.c., sulla base dei valori correnti al termine del comodato medesimo. Il rischio del perimento delle immobilizzazioni e delle scorte aziendali è a carico del comodatario. Art. 12) Consegna Il comodatario viene da oggi immesso nella disponibilità di quanto in oggetto con tutti gli accessori, le accessioni, e così come detenuto dal comodante. Art. 13) Stima …(eventuale stima ai sensi dell’art. 1806 c.c.). Art. 14) Crediti e debiti 297 Notaio - Diritto civile Studium Iuris, 3/2010 …. .(pattuizioni delle parti relativamente ai crediti ed eventuale accollo dei debiti pregressi al presente contratto). Art. 15) Contratti aziendali La parte comodataria subentra inoltre, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2558 del codice civile, nei contratti stipulati per l’esercizio del ramo dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale, per tutta la durata del comodato; pertanto detti contratti ritorneranno automaticamente al comodante, al termine del contratto. Inoltre, il comodante subentrerà, al termine del contratto, nei contratti stipulati dal comodatario per l’esercizio dell’azienda in oggetto che non abbiano carattere personale. Art. 16) Contratto di somministrazione Caio si obbliga, ai fini dell’esercizio dell’attività oggetto del presente ramo d’azienda, ad acquistare carburanti esclusivamente dalla “Petrolinas s.p.a.” per tutta la durata del contratto di affitto e che tutti i prodotti da vendere debbano essere dalla stessa acquistati per quantitavi non inferiori ad euro 2.000.000,00 (due milioni) ogni anno, secondo il capitolato generale della somministrazione che si allega al presente atto sub “ ….”. Art. 17) Condizione risolutiva Le parti di comune accordo prevedono che il contratto di comodato di cui al presente atto è sottoposto alla condizione risolutiva del mancato adempimento del contratto di somministrazione di cui all’art. 16 del presente atto. CAPO III: DISPOSIZIONI COMUNI Art. 18) Voltura delle licenze ed autorizzazioni La società “Petrolinas s.p.a.” presta sin d’ora il consenso per la voltura a favore di Tizio e di Caio di tutte le licenze, autorizzazioni e concessioni necessarie per l’esercizio dei rami d’azienda. 298 Studium Iuris, 3/2010 Temi Art. 19) Divieto di concorrenza La “Petrolinas s.p.a.”si impegna ad astenersi, per il periodo di durata dei contratti stipulati nel presente atto, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela. S’intende che per il contratto di comodato tale divieto non potrà avere durata superiore ai cinque anni. Art. 20) …. (dichiarazioni delle parti ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2659 c.c.) Art. 21) Spese Le spese del presente atto sono a carico delle parti come per legge. E richiesto io Notaio ho ricevuto il presente atto che consta di fogli . . . per facciate . . . fin qui. Del presente atto, scritto di mio pugno, ho dato lettura, unitamente agli allegati, ai comparenti che lo dichiarano conforme alle loro volontà, lo approvano e sottoscrivono con me Notaio come per legge, alle ore . . . e minuti . . . … (sottoscrizione legale rappresentante della PETROLINAS spa) … (sottoscrizione di Tizio) … (sottoscrizione di Caio) Romolo Romani Impronta del sigillo 299 I TEMI DEL PROSSIMO NUMERO Concorso per uditore giudiziario - Prova scritta di diritto civile Premessi cenni generali sull’amministrazione di sostegno, tratti il candidato dei confini applicativi di questo e degli altri istituti posti a protezione degli incapaci maggiorenni. [Letture consigliate] Nell’ambito della già vastissima letteratura in argomento, avendosi riguardo alle trattazioni di carattere generale, possono essere segnalati, fra gli altri, principalmente: Bonilini - Chizzini, L’amministrazione di sostegno2, Padova 2007, passim; Tescaro, voce Amministrazione di sostegno, in Dig. disc. priv. – sez. civ., Agg. 2007, p. 5 ss.; Delle Monache, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova g. civ. comm. 2004, II, p. 29 ss.; Napoli, L’amministrazione di sostegno, in Tratt. Alpa-Patti, III, Padova 2009, passim. Esame per l’iscrizione agli albi degli avvocati - Parere motivato su quesito proposto in materia di diritto civile L’atto costitutivo della Fondazione Alfa, con sede in Milano, prevede che i componenti dell’organo amministrativo siano nominati (in numero variabile da un minimo di sette a un massimo di tredici) su designazione del Sindaco pro tempore della città di Milano, del Ministro pro tempore della Sanità e del Presidente pro tempore dell’Associazione Omega, con sede in Torino. La durata della carica di consigliere di amministrazione è fissata dallo statuto in anni 3. Trascorso il termine triennale di durata del consiglio di amministrazione, i soggetti cui l’atto di fondazione riserva la nomina dell’organo amministrativo, nonostante ripetuti tentativi, non trovano l’accordo per la rinnovazione del consiglio di amministrazione. Nulla disponendo lo statuto della Fondazione in proposito, trascorsi alcuni mesi dallo spirare del termine di cessazione dalla carica dell’organo amministrativo, i membri cessati si rivolgono all’avv. Filano, cui richiedono: a) se, scaduto il triennio, i consiglieri di amministrazione e il presidente si intendano prorogati fino alla nomina dei nuovi designati, e – in caso positivo – se essi possano operare con pieni poteri; b) se l’eventuale regime di proroga abbia una durata massima; c) quali conseguenze porti con sé la persistente mancanza della designazione dei nuovi consiglieri e del nuovo presidente; d) con quali modalità debba avvenire la designazione dei nuovi componenti l’organo amministrativo e del presidente. [Letture consigliate] In generale, sulle persone giuridiche: De Giorgi, Le persone giuridiche, in Tratt. Rescigno, II, Torino 1999, p. 277 ss.; Ead., Le organizzazioni collettive, in Manuale Lipari Rescigno, Milano 2009, p. 335 ss.; Galgano, Persone giuridiche, in Comm. Scialoja Branca, Bologna-Roma 2006, passim; Basile, Le persone giuridiche, in Tratt. Iudica Zatti, Milano 2003, passim. Al fine di approfondire il tema che costituisce oggetto del parere si leggano, inoltre, Galgano, voce Fondazione, I) Diritto civile, in Enc. giur, XIV, Roma 1989, passim; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1957, p. 27 ss.; G.F. Campobasso, Diritto commerciale 2. Diritto delle società, Torino 2006; Bonelli, Gli amministratori di spa dopo la riforma, Milano 2004, p. 100 ss.; Franzoni, Della società per azioni. Dell’amministrazione e del controllo. 1, Disposizioni generali, degli amministratori: art. 2380-2396, in Comm. Scialoja Branca, Bologna-Roma 2008, passim; Angelillis, sub art. 2385, in Amministratori, in Comm. società Marchetti-Bianchi-Ghezzi-Notari, Milano 2005; 300 Studium Iuris, 3/2010 I temi del prossimo numero Buttaro, In tema di prorogatio e di sostituzione degli amministratori, in R. d comm. 1983, 1, p. 466 ss.; Quatraro, Sostituzione degli amministratori prima della scadenza del consiglio e loro durata, nota a Trib. Milano 22 maggio 1986, in D. fall. 1986, II, p. 616 ss.; Schisa, Revoca di amministratore dimissionario di s.r.l.; sospensione della delibera di nomina del nuovo amministratore; azione sociale di responsabilità, in D. e giur. 1994, p. 402 ss.; Capozzi, I controlli amministrativi sulle persone giuridiche private, Napoli 1991, passim; De Giorgi, sub art. 25, in Comm. Cian-Trabucchi, Padova 2009, p. 118; A. Venditti, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli 1955, passim; Alessi, Sistema istituzionale del diritto amministrativo italiano, Milano 1974, p. 99. In giurisprudenza, v. App. Milano 27 marzo 1970, in F. pad. 1971, p. 245 ss.; Cass. civ., sez. un., 9 maggio 1972, n. 1404; Cass. I I dicembre 1979, n. 6454, in F. it. 1979, 1, c. 2828; Cass. civ., 4 giugno 2003, n. 8912, in D&G 2003, 26, p. 98 ss.; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Le società 1997, 1389 ss.; Cass. 9 marzo 1976, n. 798; Trib. Milano 20 maggio 1985, in Le società 1985, p. 1190 ss.; Trib. Cassino 11 ottobre 1991, in Le società 1992, p. 677 ss.; Cons. St., sez. I, parere 13 novembre 1968, n. 2173, in Racc. Consiglio di Stato 1969, p. 1487 ss. Concorso per notaio - Prova teorico-pratica riguardante un atto tra vivi di diritto civile Tizio, imprenditore, e Caia, casalinga, sono coniugi in regime di separazione dei beni per scelta effettuata all’atto del matrimonio avvenuto nel 1990. Essi hanno costituito nel 2000 un fondo patrimoniale destinando a far fronte ai bisogni della famiglia tutti i beni immobili di loro proprietà e precisamente: a) la casa di abitazione di proprietà esclusiva del marito; b) un appartamento in località di villeggiatura di proprietà della sola moglie. Ciascuno dei coniugi si riservava espressamente in atto la proprietà dei beni. La costituzione del fondo patrimoniale, però, ha gravemente compromesso i rapporti tra Tizio e la “Banca Alfa s.p.a.”, relativi alla concessione di credito di questa a beneficio della attività imprenditoriale di lui, determinando la richiesta da parte dell’istituto di credito di soppressione di ogni vincolo sui beni costituiti in fondo patrimoniale, pena l’immediato pagamento di ogni somma dovuta alla banca. I coniugi si rivolgono al Notaio Romolo Romani, al quale precisano quanto segue: a) Tizio non è in grado di far fronte al pagamento richiesto dalla banca; b) i beni costituiti in fondo patrimoniale, con l’azienda di Tizio, costituiscono in sostanza l’intero patrimonio dei coniugi; c) l’unica fonte di sostentamento per la famiglia è costituita dall’attività imprenditoriale di Tizio; d) i coniugi hanno un figlio nato nel 1993. Il candidato, assunte le vesti del Notaio Pietro Padovani di Padova, individuata la soluzione che meglio può soddisfare le esigenze delle parti, riceva l’atto notarile finale. In parte teorica tratti delle problematiche coinvolte nel caso in esame. 301 Questioni 24 DONAZIONE MANUALE DIR. CIV. Se sia ammissibile la donazione manuale dei diritti di sfruttamento su brevetti. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 63 cod. propr. ind. (d. legisl. 10 febbraio 2005, n. 30) e 2589 c.c., i diritti di sfruttamento economico su brevetti per invenzioni industriali, per modelli di utilità o per modelli e disegni ornamentali sono liberamente « alienabili e trasmissibili ». In carenza di un espresso divieto, la dottrina unanime (Greco-Vercellone, p. 267; Di Cataldo, p. 137; Mangini, p. 105) ritiene che i predetti diritti possano anche costituire oggetto del contratto di donazione, con la sola precisazione (Guglielmetti, p. 229) che al donatario si trasferiranno pure gli obblighi che ad essi ineriscono (è il caso, ad esempio, della tassa annuale di brevetto), i quali però non intaccano affatto la natura liberale dell’attribuzione. È, invece, dubbio se alla fattispecie de qua possa o meno applicarsi la disciplina prevista dall’art. 783 c.c. il quale, laddove la donazione abbia ad oggetto beni mobili di modico valore, prevede che la stessa sia « valida anche se manca l’atto pubblico, purché vi sia stata la tradizione ». La questione, che potrebbe ritenersi di scarso interesse data l’infrequenza della modicità del valore dei diritti di sfruttamento economico su brevetti, è tale soltanto in apparenza giacché, da un canto, l’art. 783, comma 2, c.c. avverte come la modicità debba « essere valutata anche in rapporto alle condizioni economiche del donante » e, d’altro canto, qualora si propenda per la qualificazione del brevetto quale bene mobile registrato, essa si inscrive nel più generale problema inerente la praticabilità della traditio donativa con riferimento a tale categoria di beni. A quest’ultimo proposito sembra doversi disattendere l’autorevole opinione di chi esclude l’ammissibilità della donazione manuale di beni mobili registrati sulla base dell’indimostrato assunto secondo cui tali beni « non possono considerarsi cose di modico valore, quale che sia la condizione economica del donante » (Giannattasio, p. 260; Delle Monache, p. 772; contra, Biondi, p. 882), il quale contrasta con la necessità di valutare in concreto, e non per categorie astratte, il valore del bene donato (sul punto, correttamente, Trib. Roma, sez. XII, 24 marzo 2004, in www.dejure.giuffre.it, che dichiara nulla la donazione manuale di un autoveicolo non già sulla base dell’appartenenza del bene al genus dei beni mobili registrati, bensì in considerazione dell’ingente valore del medesimo). Secondo taluno, però, anche qualora il diritto di sfruttamento sul brevetto avesse valore modico, non potrebbe applicarsi l’art. 783 c.c. in quanto, a seguito della mera traditio, la fattispecie donativa sarebbe imperfetta, non potendosi procedere alla trascrizione dell’acquisto presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi (Greco-Vercellone, p. 267) in carenza di un titolo traslativo del diritto avente la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata (come richiesto dall’art. 138 cod. propr. ind.). Anche tale opinione pare, peraltro, debba essere disattesa, giacché essa confonde la produzione dell’effetto traslativo con l’opponibilità del trasferimento del diritto ai terzi. Infatti, conformemente a quanto accade per ogni contratto reale ad effetti reali, il risultato traslativo si produce al momento in cui avviene la traditio del bene, mentre l’onere della trascrizione dell’acquisto non gioca, in parte qua, alcun ruolo (Biondi, p. 882). Essa, infatti, deve essere curata dall’avente causa soltanto ai fini dell’opponibilità del proprio acquisto nei confronti di terzi aventi causa che acquistino dal medesimo autore un diritto incompatibile (art. 139 cod. propr. ind.). Al fine di rendere opponibile ai terzi il proprio acquisto, il donatario potrà poi, probabilmente, avvalersi della previsione dell’art. 138, lett. h), cod. propr. ind., il quale consente la trascrizione delle sentenze che dichiarano l’esistenza, fra gli altri, « degli atti fra vivi [ . . . ] che trasferiscono in tutto o in parte diritti su titoli di proprietà industriale ». Infatti, qualora di ritenga che nel novero delle sentenze trascrivibili in forza del citato articolo rientrino anche quelle dichiarative dell’intervenuto acquisto per effetto di atti carenti della forma richiesta per la trascrizione (quale è la donazione manuale), il donatario potrà proporre domanda giudiziale di accertamento dell’intervenuto acquisto. Piuttosto, la soluzione negativa del quesito in epigrafe si impone per l’assorbente ragione che la donazione manuale di cui all’art. 783 c.c. presuppone quale oggetto un’entità suscettibile di tradizione e che tale carattere difetta certamente nelle entità immateriali (Biondi, p. 883; Palazzo, p. 255). Il diritto di brevetto, infatti, non possiede un substrato corporeo, sicché non può essere oggetto di quella materiale consegna la quale costituisce l’essenza della traditio. Né pare possa ammettersi in pro- 302 Studium Iuris, 3/2010 Questioni posito una consegna simbolica mediante la c.d. traditio instrumentorum, consistente nella consegna del documento comprovante la proprietà della cosa, giacché il diritto di brevetto non può ritenersi incorporato nel documento rilasciato al titolare della privativa dall’Ufficio italiano brevetti e marchi. Ne consegue che la donazione dei diritti di sfruttamento su brevetti deve indefettibilmente essere compiuta per atto pubblico con la presenza di due testimoni, ai sensi del combinato disposto degli artt. 782 c.c. e 48 l.not., anche nell’ipotesi – sicuramente infrequente – in cui tali diritti abbiano modico valore, giacché i medesimi non sono suscettibili di trasmissione attraverso le modalità di cui all’art. 783 c.c. [Nota bibliografica] Greco -Vercellone, Le invenzioni e i modelli industriali, in Tratt. Vassalli, Torino 1968; Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello, in Comm. Schlesinger, Milano 1988; Mangini, Delle invenzioni industriali, dei modelli di utilità e dei disegni ornamentali, in Comm. Scialoja Branca, Bologna-Roma 1987; Guglielmetti, Le invenzioni e i modelli industriali, in Tratt. Rescigno, XVIII, Torino 1984; Giannattasio, Divisione, donazione, in Comm. UTET, Torino 1980; Delle Monache, sub art. 783, in Comm. Cian Trabucchi, Padova 2009, p. 771 s.; Biondi, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, Torino 1961; Palazzo, sub art. 783, in Comm. Schlesinger, Milano 2000. [Francesco Oliviero] 25 PROC. PEN. PATTEGGIAMENTO Se sia ammessa la costituzione di parte civile nell’udienza fissata a seguito di presentazione, nel corso delle indagini preliminari, della richiesta di applicazione della pena, con conseguente potere del giudice di provvedere sulle spese della relativa costituzione. Sulla questione prospettata si registrano due contrastanti orientamenti nell’ambito della giurisprudenza di legittimità. Un primo indirizzo ritiene che non sia consentita la costituzione di parte civile nell’udienza fissata a norma dell’art. 447 c.p.p. ai fini della decisione sulla richiesta di patteggiamento, perché la costituzione predetta può avvenire solo per l’udienza preliminare o, al più tardi, in limine al dibattimento (art. 79, comma 1, c.p.p.). A conferma della soluzione si sottolinea, da un lato, che l’art. 447 c.p.p. non contempla l’avviso alla persona offesa di detta udienza e, dall’altro, che le aspettative della parte civile non potrebbero mai essere pregiudicate in un contesto in cui il thema decidendum riguarda solo l’accoglibilità della richiesta di pena patteggiata e, comunque, in un ambito i cui esiti non interferiscono con le ragioni del danneggiato, le quali potranno essere coltivate in sede civile, ex artt. 444, comma 2, ultimo periodo, 651, 652 c.p.p., o nel prosieguo dello stesso procedimento laddove la richiesta di applicazione della pena venga rigettata (sul punto v., Cass. pen., sez. V, 22 aprile 2005, n. 19925; Cass. pen., sez. V, 5 aprile 2004, n. 22681; Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 2004, n. 5872; Cass. pen., sez. V, 17 ottobre 2002, n. 3564; Cass. pen., sez. V, 11 gennaio 2002, n. 7802). Il contrapposto orientamento sottolinea, invece, che anche nel contesto delineato dall’art. 447 c.p.p. si verifica una forma di esercizio dell’azione penale e, dunque, data la generale previsione dell’art. 444, comma 2, c.p.p., sarebbe arbitrario discriminare, quanto alle spese sostenute dalla parte civile, l’udienza fissata a norma di tale disposizione rispetto all’udienza preliminare. In quest’ottica, essendo escluso che la lettera dell’art. 79, comma 1, c.p.p. individui un termine ante quem la costituzione non sia consentita, si ritiene che la costituzione di parte civile possa avvenire anche prima dell’udienza preliminare; si sottolinea, pertanto, come la parte civile, a fronte di una richiesta di applicazione di pena abbia interesse ad interloquire su ogni aspetto affidato alla valutazione giudiziale dal quale possa derivare un pregiudizio al diritto al risarcimento del danno, sia pure da far valere in altra sede (Cass. pen., sez. V, 28 maggio 2008, n. 37671; Cass. pen., sez. III, 26 marzo 2008, n. 19188; Cass. pen., sez. II, 24 gennaio 2008, n. 8047; Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2007, n. 20600; Cass. pen., sez. II, 28 settembre 2006, n. 41263; Cass. pen., sez. V, 7 maggio 2004, n. 27980; Cass. pen., sez. II, 22 febbraio 1999, n. 890). Sul contrasto sono intervenute le Sezioni Unite. Il Supremo Collegio ha innanzitutto escluso che l’espressione « per l’udienza preliminare » (art. 79, comma 1, c.p.p.) legittimi la costituzione di parte civile nella udienza fissata nel corso delle indagini ex art. 447 c.p.p. Sul punto, infatti, rilevano le indicazioni contenute nella Relazione al Progetto preliminare del codice, dalle quali si ricava che l’introduzione dell’inciso è stata preordinata solo allo scopo di sottolineare che il danneggiato non debba necessariamente attendere l’inizio di tale udienza per costituirsi parte civile, essendo comunque tale costituzione finalizzata alla partecipazione all’udienza preliminare. Ad avviso della S.C., pertanto, non si tratta di una espressione che autorizza a ritenere che la costituzione possa avvenire in una udienza di altra natura, a questa precedente. Per la risoluzione della questione, comunque, secondo le Sezioni Unite quello che più conta osservare è che nella speciale udienza fissata ex art. 447 c.p.p., il danneggiato dal reato, conoscendo in partenza l’oggetto del giudizio, ristretto alla decisione circa l’accoglibilità della richiesta di applicazione di pena, non ha ragioni giuridiche per costituirsi parte civile. Tale assunto è confermato dalla circostanza per cui l’art. 447 c.p.p., a differenza di quanto previsto dall’art. 419, comma 1, c.p.p. per l’udienza preliminare, non contempla la formalità dell’avviso di udienza alla persona offesa dal reato. Inoltre, anche se si riconoscesse la possibilità del danneggiato di costituirsi parte civile, trattandosi di un’udienza in cui la stessa presenza delle parti necessarie è meramente eventuale, dovrebbe concludersi che la relativa domanda potrebbe non essere nemmeno conoscibile dall’imputato, e cioè dal soggetto nei cui confronti essa unicamente si rivolge. Date queste premesse le Sezioni Unite hanno affermato che non è ammessa la costituzione di parte civile 303 Questioni Studium Iuris, 3/2010 nell’udienza ex art. 447 c.p.p. e che, pertanto, è illegittima la condanna dell’imputato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato dal reato la cui costituzione sia stata ammessa dal giudice, nonostante tale divieto. Questa conclusione, considerata l’identità di ratio, vale anche per le ipotesi in cui l’udienza per l’applicazione della pena sia fissata, ex art. 464 c.p.p., con l’opposizione al decreto penale di condanna o, ex artt. 446, comma 1, ultimo periodo, e 458, comma 1, c.p.p., a seguito della notifica del decreto di giudizio immediato. [Nota bibliografica] La decisione alla quale si fa riferimento è Cass. pen., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 47803. In generale sul tema v., Aprile - Catullo, Guida ai procedimenti speciali, Torino 2007; Biesuz - Buffone - Gemignani - Ravera, Processo penale: i procedimenti speciali, Milano 2007; Maniscalco, Il patteggiamento, Torino 2006; Storelli, I riti alternativi nel processo penale, Milano 2007. [Katia La Regina] 26 PROC. PEN. CONSULENTE TECNICO Se il consulente tecnico dell’imputato possa assistere all’esame del testimone. La questione prospettata nasce dalla formulazione dell’art. 501, comma 1, c.p.p. Il rinvio operato, per l’esame dei consulenti tecnici, alle norme relative all’esame dei testimoni potrebbe suffragare una linea interpretativa volta alla equiparazione delle due categorie di soggetti e, dunque, una opzione ermeneutica funzionale a rendere operante anche nei confronti dei consulenti tecnici la disposizione che impedisce ai testimoni di « assistere agli esami degli altri » (art. 149 disp. att. c.p.p.). La giurisprudenza più recente, tuttavia, esclude la possibilità di confinare il ruolo del consulente a quello di mero testimone, valorizzando la sussistenza di casi in cui l’effettività dell’esercizio del diritto di difesa e rappresentanza dell’imputato presuppongono che il difensore sia affiancato da un esperto; può accadere, infatti che l’esame del teste – per ragioni connesse all’età o alla peculiarità della materia da trattare – implichi un bagaglio di nozioni che il difensore non è detto che possieda. Si propone, dunque, una interpretazione estensiva dell’art. 233 c.p.p.: attribuendo a ciascuna parte il potere di nomina di propri consulenti tecnici, questa norma implicitamente autorizza la parte anche a farsi assistere dai medesimi soggetti, i quali, pertanto, potranno partecipare all’assunzione della testimonianza in qualità di ausiliari del difensore. È, tuttavia, da quest’ultima definizione che sembrano discendere le principali conseguenze in punto di qualificazione della nullità derivante dalla mancata autorizzazione al consulente ad assistere all’escussione. Sebbene, infatti, le premesse del ragionamento prospettato inducano a ritenere certamente configurata una lesione del diritto di difesa, viene esclusa la possibilità di ravvisare una nullità assoluta ed insanabile. Se si considera che quest’ultima può verificarsi solo nei casi in cui l’interessato sia del tutto privo di difensore, ne deriva che la mancata assistenza del consulente tecnico non comporta una radicale negazione del diritto difensivo, ma soltanto una sorta di attenuazione dello stesso. La nullità che ne deriva, pertanto, può essere qualificata in termini di nullità di ordine generale a regime intermedio, con le conseguenze che ne derivano sul piano della deducibilità. [Nota bibliografica] La sentenza considerata è Cass. pen., sez. III, 16 settembre 2009, n. 35702. Non si rinvengono precedenti negli esatti termini. In generale, sull’applicabilità dell’art. 149 disp. att. c.p.p. ai periti e ai consulenti tecnici v. Trib. Milano 9 marzo 2004, X, in F. amb. 2004, p. 358; Trib. Milano 18 maggio 1999, X, ivi 1999, p. 323. Sul tema, in dottrina v. Bazzani, Il consulente estromesso: tra obblighi di verità e diritto di difesa, in R. it. d. proc. pen. 2005, p. 1271; Cesaris, Consulenti tecnici, periti e testimoni: nuovi equivoci e vecchi sospetti, in F. amb. 1999, p. 323. 304 [Katia La Regina] Novità giurisprudenziali a cura di Giovanni De Cristofaro e Dario Micheletti A) Cassazione civile, Sezioni unite In primo piano 16 ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DELL’OBBLIGO DI CONCLUDERE UN CONTRATTO Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2009, n. 23825 [Obbligazioni e contratti – Esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto – Preliminare di compravendita immobiliare – Produzione dei documenti attestanti la regolarità urbanistica dell’immobile ovvero effettuazione della dichiarazione di cui all’art. 40, legge n. 47 del 1985 – Inadempienza del promittente alienante – Conseguenze – Produzione documentale ovvero effettuazione della dichiarazione da parte del promissario acquirente – Ammissibilità – Fondamento] [Obbligazioni e contratti – Esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto – Dichiarazione sostitutiva di atto notorio ex art. 40, legge n. 47 del 1985 – Condizione dell’azione – Configurabilità – Conseguenze – Mancanza della dichiarazione – Rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio – Sussistenza – Allegazione e produzione del documento anche nel corso del giudizio di appello e sino al momento della decisione – Configurabilità – Sussistenza] La questione – (1) Se, nell’àmbito del giudizio di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita immobiliare ai sensi dell’art. 2932 c.c., la dichiarazione sostitutiva prevista dall’art. 40, l. 28 febbraio 1985, n. 47 debba essere resa necessariamente dal promittente alienante oppure anche dal promissario acquirente. (2) Se, ai fini dell’emanazione della sentenza ex art. 2932 c.c., la sussistenza della dichiarazione inerente la regolarità urbanistica dell’immobile, prevista dall’art. 40, legge n. 47 del 1985, costituisca un presupposto della domanda – così che la sua produzione in grado d’appello deve ritenersi un novum vietato – ovvero una condizione dell’azione. Massima – (1) In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, nel caso in cui il promittente alienante, resosi inadempiente, si rifiuti di produrre i documenti attestanti la regolarità urbanistica dell’immobile ovvero di rendere la dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui all’art. 40, l. 28 febbraio 1985 n. 47, deve essere consentito al promissario acquirente di provvedere a tale produzione o di rendere detta dichiarazione al fine di ottenere la sentenza ex art. 2932 c.c., dovendo prevalere la tutela di quest’ultimo a fronte di un inesistente concreto interesse pubblico di lotta all’abusivismo, sussistendo di fatto la regolarità urbanistica dell’immobile oggetto del preliminare di compravendita. (2) In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, la sussistenza della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, di cui all’art. 40, l. 28 febbraio 1985 n. 47, rilasciata dal proprietario o da altro avente titolo, attestante l’inizio dell’opera in data anteriore al 2 settembre 1967, non costituisce un presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite. Ne consegue che la carenza del relativo documento è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, con l’ulteriore conseguenza che sia l’allegazione che la documentazione della sua esistenza si sottraggono alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti e possono quindi avvenire anche nel corso del giudizio di appello, purché prima della relativa decisione. Il caso – Tizio conveniva in giudizio Caia e Sempronia, quali eredi di Mevia, esponendo che in data 18 gennaio 1992 aveva stipulato con quest’ultima un contratto preliminare in virtù del quale la medesima si era impegnata a vendergli un immobile sito in Aci Castello per il corrispettivo di lire 400.000.000, così ripartiti: 100 milioni al momento della stipulazione del preliminare, a titolo di acconto prezzo e di caparra confirmatoria, 100 milioni da pa- 305 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 garsi mediante restituzione di effetti cambiari rilasciati a favore di esso Tizio da Caia e Mevia, 40 milioni da corrispondersi dopo un mese dal preliminare, 60 milioni alla stipula del definitivo e 100 milioni mediante compensazione con il credito vantato dall’attore a titolo di corrispettivo di un contratto di appalto riguardante la sistemazione di altro immobile di proprietà di Mevia. Tizio deduceva di aver ritualmente adempiuto alle proprie obbligazioni mentre la controparte si era resa inadempiente alla propria promessa di vendita, locando l’immobile a terzi invece di trasmettere all’attore il possesso del medesimo, nonché dichiarando la libertà da pesi e vincoli del medesimo, quando esso risultava gravato di un sequestro conservativo per la somma di 100.000.000 di lire. Deduceva, inoltre, che la controparte aveva ritardato con la propria condotta l’esecuzione dei lavori appaltati con riguardo all’altro immobile di sua proprietà, con ciò impedendogli la tempestiva consegna dell’opera. In forza di ciò, l’attore chiedeva il trasferimento in proprio favore della proprietà dell’immobile promessogli in vendita da Mevia, ai sensi dell’art. 2932 c.c., con disposizione di immissione nel possesso del bene e condanna delle convenute, tra l’altro, alla restituzione dei frutti percepiti. Le convenute, costituitesi, chiedevano il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, la pronuncia di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento di Tizio. A fronte del rigetto delle domande di entrambe le parti da parte del tribunale adito, Tizio spiegava gravame innanzi alla Corte d’appello di Catania, la quale – rigettate le contrarie istanze delle appellate – lo accoglieva parzialmente, disponendo il trasferimento ex art. 2932 c.c. dell’immobile oggetto del preliminare. Secondo i giudici di secondo grado, infatti, il rigetto della domanda attorea in primo grado era conseguito alla mancata produzione della documentazione attestante la regolarità urbanistica della costruzione, in ottemperanza al disposto dell’art. 40, legge n. 47 del 1985, applicabile anche ai trasferimenti ex art. 2932 c.c.: poiché Tizio, nel giudizio di appello, aveva prodotto una dichiarazione sostitutiva da lui sottoscritta attestante l’avvenuta costruzione dell’immobile anteriormente al primo settembre 1967, l’ostacolo giuridico che aveva giustificato il rigetto della domanda in primo grado doveva considerarsi rimosso, senza che tale produzione potesse qualificarsi come introduzione di nova vietati, trattandosi di prove documentali. Ad opinione della Corte d’appello, il rifiuto di Tizio di proseguire nell’esecuzione del contratto di appalto, il cui corrispettivo avrebbe dovuto compensarsi con parte del prezzo dovuto per la vendita dell’immobile de quo, doveva ritenersi riconducibile al rimedio apprestato dall’art. 1482 c.c., il quale legittima la sospensione del pagamento del prezzo allorché la cosa venduta risulti gravata da garanzie reali o vincoli derivanti da pignoramento o sequestro, non dichiarati dal venditore e dal compratore ignorati. Ne conseguiva, perciò, il diritto dell’appellante di ottenere il trasferimento ex art. 2932 c.c. della proprietà dell’immobile promessogli in vendita, con l’obbligo di completare i lavori d’appalto e di pagare il residuo prezzo di lire 60 milioni nel termine di tre mesi dalla data di eliminazione della trascrizione pregiudizievole sul fabbricato in questione ad opera delle convenute, nel termine di sessanta giorni dalla data di comunicazione della sentenza. Il gravame di Tizio era, invece, ritenuto infondato con riferimento alla censura mossa contro il punto della sentenza impugnata che non aveva disposto il rilascio dell’immobile in favore dell’attore, giacché tale disposizione doveva ritenersi incompatibile con l’avvenuto rigetto della domanda principale, e aveva negato la condanna delle convenute alla restituzione dei frutti percepiti, ritenendo non provata la dedotta concessione in locazione a terzi dell’immobile. Avverso tale sentenza, Caia e Sempronia propongono ricorso per cassazione, con ricorso affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso e ricorso incidentale Tizio. Rilevata una questione di particolare importanza, la seconda sezione civile della S.C. trasmette gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle sezioni unite. Sintesi della motivazione – 1. L’affermazione della natura di condizione dell’azione ex art. 2932 c.c. e non di presupposto della domanda della dichiarazione inerente la regolarità urbanistica dell’immobile. – 2. Inapplicabilità al contratto preliminare della dichiarazione integrativa di conferma ex art. 40, comma 3, legge n. 47 del 1985. – 3. Possibilità per il promissario acquirente di produrre i documenti comprovanti la regolarità urbanistica dell’immobile o di rendere la prevista dichiarazione circa la data di costruzione dell’immobile al fine di ottenere la sentenza ex art. 2932 c.c. – 4. Analisi dei rimedi apprestati dall’ordinamento a tutela del promissario acquirente di immobile gravato da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli e richiami giurisprudenziali in tema di termine essenziale, collegamento negoziale ed interrogatorio libero. 1. L’affermazione della natura di condizione dell’azione ex art. 2932 c.c. e non di presupposto della domanda della dichiarazione inerente la regolarità urbanistica dell’immobile Riuniti i ricorsi, le sez. un. dichiarano infondato il primo motivo di gravame con il quale Caia e Sempronia hanno censurato la sentenza di merito laddove ha ritenuto che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio, presentata da Tizio in ordine alla regolarità urbanistica del bene promessogli in vendita, potesse consentire un valido trasferimento. 306 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali Ad avviso delle ricorrenti principali, infatti, la dichiarazione giurata prodotta nel giudizio di appello, in quanto proveniente da soggetto diverso dal proprietario o altro avente titolo, sarebbe stata erroneamente considerata idonea a rimuovere l’impedimento alla trasmissione del bene immobile di cui è causa, senza contare che Tizio nell’atto di appello avrebbe fatto riferimento non alla ritenuta dichiarazione sostitutiva (di cui all’art. 40, comma 2, secondo periodo, legge n. 47 del 1985), ma al diverso e inconferente istituto della conferma successiva dell’atto nullo (di cui all’art. 40, comma 3), certamente incompatibile con il giudizio ex art. 2932 c.c. Inoltre, la dichiarazione de qua, non attenendo alla sfera “probatoria” del giudizio, bensì costituendo un requisito essenziale dell’atto di trasferimento e quindi della sentenza ex art. 2932 c.c., non avrebbe potuto essere prodotta per la prima volta in grado d’appello, in quanto, integrando un presupposto esterno necessario per la validità dell’atto, determina una inammissibile domanda nuova in appello, rispetto a quella proposta in primo grado senza tale documento e quindi diversa. Le sez. un. ritengono che tali deduzioni siano prive di pregio, in quanto l’atto di appello di Tizio evidenzia come questi non si sia limitato a chiedere la riforma della impugnata sentenza del tribunale facendo riferimento solo alla conferma successiva unilaterale dell’atto nullo ai sensi dell’art. 40, comma 3, legge n. 47 del 1985 (non applicabile al giudizio promosso ex art. 2932 c.c.), ma espressamente abbia dichiarato anche di produrre la documentazione relativa alla realizzazione dell’immobile oggetto di compravendita in data anteriore al primo settembre 1967, in tal modo rimuovendo l’impedimento che, secondo la sentenza impugnata avrebbe impedito il trasferimento. La Corte di appello correttamente ha preso in esame la detta richiesta come formulata dall’appellante e l’ha ritenuta fondata, in tal modo pronunciando su una domanda ritualmente proposta senza andare oltre i limiti di essa e senza quindi violare il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Parimenti destituita di fondamento dalla S.C. è la tesi delle ricorrenti secondo cui la dichiarazione ai sensi dell’art. 40, comma 2, legge n. 47 del 1985 costituirebbe un requisito essenziale dell’atto di trasferimento e quindi della sentenza ex art. 2932 c.c., sicché la sua produzione tardiva in appello non varrebbe a determinare una nuova prova (documentale) ma, integrando un presupposto necessario esterno per la validità dell’atto, tutt’al contrario determinerebbe una domanda nuova rispetto a quella formulata in primo grado. Al riguardo le sez. un. osservano che – come puntualmente segnalato da Tizio nel controricorso – la sussistenza della dichiarazione in parola non costituisce affatto un presupposto della domanda, bensì una condizione non della domanda ma dell’azione (che ben può intervenire, in quanto requisito di fondatezza della domanda, in corso di causa) per cui è necessario soltanto che il documento – da poter produrre anche in secondo grado – sia stato acquisito al momento della decisione della lite. La carenza di detto documento è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, con la conseguenza che sia l’allegazione, che la documentazione della sua esistenza, si sottraggono alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti e possono avvenire anche nel corso del giudizio d’appello (purché prima della relativa decisione). 2. Inapplicabilità al contratto preliminare della dichiarazione integrativa di conferma ex art. 40, comma 3, legge n. 47 del 1985 Con la prima parte del motivo del ricorso principale Caia e Sempronia, inoltre, pongono la questione – ritenuta di particolare importanza dalla seconda sezione civile della S.C. – se, nell’àmbito del giudizio di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di immobile ex art. 2932 c.c., la prova della sussistenza della regolarità urbanistica del bene, richiesta dalla legge n. 47 del 1985, con riferimento all’ipotesi di costruzione iniziata anteriormente al primo settembre 1967 possa essere fornita anche dal promissario acquirente oltre che dal promettente venditore. A tale quesito le sez. un. ritengono vada fornita risposta positiva. Richiamato il quadro normativo di riferimento – costituito dagli artt. 40 e 17, legge n. 47 del 1985 (oggi, art. 46, d.p.r. n. 380 del 2001) – si osserva che la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che la pronunzia della sentenza di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto sia condizionata all’osservanza delle prescrizioni della legge n. 47 del 1985, il cui art. 40, comma 3 – in forza del quale è consentito ad una delle parti di confermare l’atto carente integrandolo con i documenti mancanti o con la dichiarazione omessa e con effetto sanante del vizio del negozio – non si applica nell’ipotesi di contratto preliminare, producendo il medesimo effetti solo obbligatori e non traslativi. 3. Possibilità per il promissario acquirente di produrre i documenti comprovanti la regolarità urbanistica dell’immobile o di rendere la prevista dichiarazione circa la data di costruzione dell’immobile al fine di ottenere la sentenza ex art. 2932 c.c. Del pari pacifico deve, peraltro, ritenersi il principio giurisprudenziale secondo cui il contratto preliminare privo dei riferimenti circa la regolarità urbanistica dell’immobile o della dichiarazione di avvenuta costruzione in data anteriore al primo settembre 1967 non è nullo, bensì è soltanto affetto da inettitudine a costituire il ti- 307 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 tolo per ottenere una pronuncia costitutiva di trasferimento ex art. 2932 c.c., in quanto l’autorità giudiziaria non può realizzare un effetto precluso alle parti, producendo il trasferimento del diritto di proprietà su un bene che non rispetta la normativa in materia di edificazione dei suoli. La sentenza di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto, avendo funzione sostitutiva dell’atto negoziale dovuto, non può realizzare un effetto maggiore o diverso da quello che tale atto avrebbe potuto produrre o un effetto che eluda la legge. Viceversa, qualora le condizioni richieste dalla legge n. 47 del 1985 per il trasferimento di diritti reali su beni immobili sussistano, la pronuncia ex art. 2932 c.c. diviene possibile. Occorre però sia individuare il soggetto sul quale incombe l’onere di provare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge in relazione alla necessaria produzione della documentazione occorrente a dimostrare la regolarità urbanistica dell’immobile, sia stabilire se, per gli immobili costruiti anteriormente al primo settembre 1967, la relativa dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà prevista dalla legge possa essere resa anche dal promissario acquirente oltre che dal promettente alienante. Nella giurisprudenza di legittimità non è stata espressamente e specificamente esaminata la questione se la prova di detti presupposti possa essere data in giudizio anche dal promissario acquirente nell’ipotesi di non collaborazione da parte del promettente venditore. Per la soluzione della questione è opportuno sottolineare che le dichiarazioni dei contraenti sul regime urbanistico dell’immobile oggetto del contratto si connettono ad una possibile illiceità del contratto e conseguente nullità del negozio, la quale sanzione è posta a tutela dell’acquirente inconsapevole dell’irregolarità urbanistica dell’immobile. La funzione delle dichiarazioni in parola è anche “informativa” ed è volta, altresì, a contenere il fenomeno dell’abusivismo edilizio. Se la finalità delle richieste formalità è certamente di tipo preventivo, non si può, d’altro canto, ammettere che l’applicazione rigorosa del rimedio invalidatorio conduca ad applicarlo anche laddove non si faccia affatto questione della protezione di un soggetto che contratta con chi costruisce abusivamente, giacché l’immobile oggetto del contratto risulta urbanisticamente regolare e ciò che è carente è soltanto la dichiarazione di regolarità da parte dell’alienante. La legge stessa, peraltro, ammette che « se la mancata indicazione in atto degli estremi non sia dipesa dalla insussistenza della concessione ai tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, essi possono essere confermati anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga la menzione omessa » (art. 17, legge n. 47 del 1985). Ne consegue che non può ritenersi coerente e rispondente alla finalità della legge impedire al promissario acquirente – a fronte di un inesistente concreto interesse pubblico di lotta all’abusivismo sussistendo di fatto la regolarità urbanistica dell’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita – la possibilità di ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso fornendo in giudizio la prova della detta regolarità urbanistica nell’ipotesi in cui il promettente alienante, resosi inadempiente, si rifiuti di produrre i documenti e di rendere la dichiarazione di cui all’art. 40 della citata legge n. 47 del 1985. Secondo le sez. un., perciò, nel caso in cui manchi la collaborazione da parte del promettente venditore, così come è consentito a una delle parti di un contratto definitivo di confermare l’atto carente integrandolo con i documenti mancanti o con la dichiarazione omessa, deve del pari ritenersi consentito al promissario acquirente di produrre i documenti comprovanti la regolarità urbanistica dell’immobile o rendere la prevista dichiarazione circa la data di costruzione dell’immobile al fine di ottenere la sentenza ex art. 2932 c.c., che il giudice potrà emettere dopo aver acquisito i detti documenti o la detta dichiarazione proveniente da una qualsiasi delle parti. I documenti relativi alla regolarità urbanistica o la dichiarazione inerente la data della costruzione possono, pertanto, essere prodotti in giudizio dal promissario acquirente, così consentendo l’emissione della pronuncia ex art. 2932 e la produzione dei medesimi effetti che le parti avrebbero potuto conseguire con la conclusione del contratto definitivo. Peraltro, le sez. un. segnalano che la giurisprudenza di legittimità – oltre ad avere più volte affermato la possibilità di produrre nel giudizio ex art. 2932 c.c. gli estremi della concessione edilizia, qualora la relativa dichiarazione non sia contenuta nel preliminare (Cass. n. 13225/2008; Cass. n. 6162/2006; Cass. n. 59/2002; Cass. n. 1199/1997) – ha avuto altresì modo di chiarire (a volte implicitamente, come nella citata Cass. n. 1199/1997) che successivamente alla stipulazione del preliminare può intervenire « dichiarazione del promissario acquirente ai sensi dell’art. 40, comma 3, legge n. 47 del 1985» con conseguente possibilità di emettere la sentenza produttiva degli effetti del contratto non concluso (Cass. n. 14489/2005). Inoltre, Cass. n. 9647/2006 ha precisato che la dichiarazione sostitutiva di notorietà è imposta dalla legge « la quale in materia non prevede alternativa alcuna ». Peraltro, la S.C. sottolinea come diversa questione sia quella relativa alla valutazione da parte del giudice dei documenti prodotti e della dichiarazione del promissario acquirente, nonché della veridicità del contenuto dei detti documenti e della detta dichiarazione con riferimento alla regolarità urbanistica dell’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita stipulato dalle parti. Tale questione non rileva, però, nel caso di specie, non risultando mai posta in discussione dalle parti e dai giudici del merito la sussistenza della detta veridicità. In considerazione di ciò, le sez. un. rigettano il primo motivo del ricorso principale. Con il secondo motivo Caia e Sempronia sostengono che la Corte territoriale abbia errato nel disporre il trasferi- 308 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali mento coattivo del bene in questione per l’ulteriore ragione che le parti, nel preliminare, avevano espressamente previsto che il trasferimento della proprietà dell’immobile – libero da pesi e vincoli – avrebbe dovuto avvenire solo a seguito dell’ultimazione dei lavori di appalto sull’altro immobile di proprietà di Mevia, sicché l’inadempimento del preliminare medesimo avrebbe dovuto essere imputato a Tizio, il quale – ben a conoscenza del sequestro gravante sull’immobile – non avrebbe potuto sospendere l’esecuzione dei lavori, invocando la tutela dell’art. 1482 c.c. Proprio l’inadempimento di Tizio – il quale ha rifiutato di completare le opere commessegli in appalto – sarebbe stato ostativo della realizzazione del programma contrattuale, sicché la mancata liberazione dell’immobile dalle garanzie che lo gravavano non costituirebbe affatto inadempimento delle ricorrenti principali, giacché l’obbligo di liberazione avrebbe dovuto sorgere soltanto al momento dell’ultimazione delle opere di appalto. Ne conseguirebbe l’illegittimità dell’invocazione dell’art. 1482 c.c. da parte di Tizio, il quale avrebbe prima dovuto completare le opere e solo dopo avrebbe potuto pretendere la conclusione del contratto definitivo di vendita, con contestuale liberazione dell’immobile dalle garanzie pregiudizievoli. Con il terzo motivo del ricorso principale Caia e Sempronia denunciano violazione degli artt. 1385, 1453 e 1457 c.c., nonché vizi di motivazione, deducendo che la Corte di appello, riconosciuto l’inadempimento colpevole del promissario acquirente alle obbligazioni derivanti dal contratto preliminare, per il mancato completamento delle opere appaltate nel termine essenziale convenuto, avrebbe dovuto pronunciare la risoluzione del contratto preliminare per colpa del promissario acquirente. Infatti, la Corte territoriale, non ritenendo sussistente nel caso di specie alcun termine essenziale, avrebbe erroneamente valutato che esso doveva ritenersi implicitamente esistente in forza dell’evidente collegamento negoziale fra promessa di vendita e appalto. Con il quarto motivo, inoltre, le ricorrenti principali denunciano violazione degli artt. 2727 ss. c.c., nonché vizi di motivazione, lamentando l’errore commesso dalla corte di appello nel non aver ravvisato, nelle dichiarazioni rese da Filano in sede di interrogatorio libero, una prova idonea a dimostrare la conoscenza del sequestro sull’immobile di cui è causa da parte Tizio. Le sez. un. esaminano congiuntamente tali censure, ritenendole infondate, in quanto le stesse si risolvono essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonché nella pretesa – del pari inammissibile – di contrastare il risultato dell’attività svolta dalla Corte territoriale nell’esercizio dei compiti alla stessa istituzionalmente affidati e del suo potere discrezionale di apprezzamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, con particolare riferimento alla interpretazione del contratto e delle sue clausole, all’indagine sul carattere essenziale o meno di un termine per l’adempimento, alla valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, alla sussistenza delle condizioni richieste per l’applicazione della norme di cui all’art. 1482 c.c., pacificamente invocabile anche in caso di contratto preliminare, al collegamento tra due negozi giuridici, alla valutazione della congruenza ed attendibilità delle dichiarazioni rese dalla parte nell’interrogatorio libero. 4. Analisi dei rimedi apprestati dall’ordinamento a tutela del promissario acquirente di immobile gravato da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli e richiami giurisprudenziali in tema di termine essenziale, collegamento negoziale ed interrogatorio libero In proposito sono richiamati e ribaditi alcuni principi costantemente affermati nella giurisprudenza di legittimità: – il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum”, deve procedere a una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parli e sugli interessi delle stesse. Tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. n. 43/2007); – in tema di contratto preliminare di vendita, la sopravvenienza o la mancata cancellazione da parte del venditore di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli sull’immobile non osta a che il promissario acquirente possa chiedere l’esecuzione specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c., ma consente a questi, ove di tale facoltà intenda avvalersi, di sospendere il pagamento e/o di non effettuare la formale offerta del prezzo, potendo, invece, chiedere al giudice che con la sentenza sostitutiva del contratto non concluso siano fissate condizioni e modalità di versamento idoneo ad assicurare l’acquisto del bene libero da vicoli e tali da garantirlo da eventuale evizione (Cass. n. 19135/2004); – in tema di contratto preliminare, l’esistenza di un vincolo reale sul bene oggetto del futuro trasferimento, non dichiarata dal promittente alienante e non conosciuta dal promissario acquirente (ovvero relativa ad un credito di importo maggiore di quello rispettivamente dichiarato e conosciuto), legittima il promissario acquirente, il quale intenda comunque dare esecuzione al contratto ed abbia, all’uopo, proposto domanda di esecuzione in forma specifica, ad astenersi dal pagamento del prezzo ancora dovuto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1482 e 2932 c.c., anche indipendentemente dall’esistenza di una clausola del preliminare che lo autorizzi in tal senso, e ciò tanto nella ipotesi di garanzia preesistente al preliminare, quanto in quella di garanzie sorte nel tempo intercorrente tra la data del compromesso e quella prevista per la stipula del contratto definitivo (Cass. n. 11709/1997); 309 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 – il termine per l’adempimento può essere ritenuto essenziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1457 c.c., solo allorché, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo (Cass. n. 25549/2007; Cass. n. 5797/2005; Cass. n. 5589/2002, secondo cui l’espressione “entro e non oltre” costituisce mera locuzione di stile, di per sé non indicativa della improrogabilità del termine cui è riferita); – la sussistenza di un collegamento negoziale tra due negozi giuridici si desume dalla volontà delle parti, le quali possono anche concordare che uno soltanto dei contratti sia dipendente dall’altro, se il regolamento di interessi che l’uno è volto a disciplinare non dipende da quello dell’altro; inoltre, l’interpretazione di tale volontà negoziale costituisce quaestio facti insindacabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici e da violazione delle norme ermeneutiche di cui agli artt. 1362 ss. c.c. (Cass. n. 24792/2008); – le dichiarazioni rese dalla parte nell’interrogatorio libero, pur non essendo un mezzo di prova, possono essere fonte, anche unica, del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza ed attendibilità (Cass. n. 7002/2000). Alla luce dei principi di diritto appena riportati, le sez. un. ritengono corretta la sentenza impugnata, la quale si sottrae a tutte le censure contenute nei tre motivi di ricorso esaminati. La Corte d’appello ha ritenuto insussistente un termine essenziale per il completamento dei lavori appaltati dal promissario acquirente, in quanto non espressamente pattuito dalle parti e non desumibile dalla natura e dall’oggetto del contratto; mancante la liberazione dell’immobile oggetto della promessa di vendita dal vincolo del sequestro su di esso gravante; sussistente un residuo prezzo non pagato di lire 60.000.000; giustificabile il rifiuto di Tizio di proseguire i lavori appaltati ex art. 1482 c.c., in ragione dei vincoli gravanti sul bene non dichiarati dalla promettente alienante e da lui non colpevolmente ignorati; inidonea a escludere il ricorso alla tutela preventiva apprestata dagli artt. 1482 e 1460, la clausola contrattuale relativa alla libertà dell’immobile da vincoli ed oneri al momento della stipula del contratto definitivo, in quanto prevista a favore del compratore. Tali conclusioni sono state raggiunte dalla Corte territoriale attraverso argomentazioni ritenute dalla S.C. complete ed appaganti, in quanto improntate a retti criteri logici e giuridici, nonché frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa riportate nella decisione impugnate e del contenuto del contratto preliminare e del contestuale contratto di appalto stipulati dalle parti. Alle dette valutazioni le ricorrenti hanno contrapposto le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione. Ulteriore ragione di inammissibilità del motivo inerente l’asserita errata interpretazione del contratto e delle relative clausole deve, inoltre, essere ravvisato – secondo le sez. un. – nel fatto che le ricorrenti principali neppure hanno rispettato l’onere sulle stesse incombenti di specificare i canoni ermeneutici ritenuti violati, con la precisazione delle considerazioni del giudice del merito che se ne siano discostate. Pertanto la S.C. ritiene insussistenti le dedotte violazioni di legge e gli asseriti vizi di motivazione denunciati con i motivi di ricorso esposti. Passando all’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale spiegato da Tizio, secondo il quale la Corte d’appello avrebbe errato nel rigettare la richiesta di condanna di Caia e Sempronia al rilascio dell’immobile ed al pagamento dei frutti dalla data del contratto preliminare che prevedeva l’immediato rilascio del possesso del bene in favore di esso promissario acquirente, le sez. un. rilevano che il contratto preliminare prevedeva espressamente che “il possesso del bene da trasferire” sarebbe stato dato al momento della conclusione del contratto definitivo di compravendita. Non risultando dalla lettura della sentenza impugnata – né essendo stato espressamente dedotto dal ricorrente incidentale – che Tizio abbia intimato alla controparte la consegna dell’immobile o che abbia rivolto per iscritto tale richiesta o si sia concretamente attivato per ottenere il possesso immediato dell’immobile fornendo al riguardo la propria cooperazione al fine di rendere possibile l’immissione nel possesso ovvero che la controparte medesima – malgrado l’attiva e leale cooperazione del creditore idonea a consentire ad esse debitrici il puntuale adempimento della loro obbligazione – si siano rifiutate di consegnare il bene al promissario acquirente sottraendosi ad eseguire l’obbligazione assunta nei tempi e nei modi pattuiti, è ritenuta evidente la correttezza della decisione della corte di appello di rigetto – per difetto di inadempimento colpevole – dell’istanza avanzata da Tizio sul punto. In forza di ciò, compensate le spese del giudizio di cassazione in ragione della natura della controversia e delle questioni trattate, oltre che della reciproca soccombenza, le sez. un. rigettano entrambi i ricorsi. [Francesco Oliviero] 310 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali Le schede 17 ASCOLTO DEL MINORE Cass. civ., sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238 [Famiglia – Separazione – Minore – Affidamento – Audizione – Obbligatorietà – Limiti – Omessa audizione – Conseguenze] Massima – (1) È necessaria l’audizione del minore del cui affidamento deve disporsi, salvo che tale ascolto possa essere in contrasto con i suoi interessi fondamentali. Si deve motivare l’eventuale assenza di discernimento dei minori che possa giustificarne l’omesso ascolto. (2) Il mancato ascolto del minore costituisce violazione dei principi del contraddittorio e del giusto processo Fatto – Il Tribunale, con decreto del 17 aprile 2007, si era dichiarato incompetente sulle istanze di modifica delle condizioni della separazione presentate da Tizia in rapporto al diritto di visita del padre ai due figli e sulla richiesta formulata da Tizio di affidamento esclusivo a sè di entrambi i minori. La Corte d’appello, accogliendo il reclamo proposto da Tizio sulla competenza del primo giudice, da questo denegata in favore del Tribunale per i Minorenni, aveva affidato i due minori al padre, senza disporre la loro audizione chiesta, con le conclusioni, dal P.G. Avverso il provvedimento della Corte d’appello ha proposto ricorso per cassazione Tizia, affermando che il giudice di secondo grado aveva erroneamente omesso di ascoltare i due minori, uno dei quali aveva compiuto dodici anni, mentre l’altro, pur avendo solo dieci anni, era dotato di capacità di discernimento. Motivi della decisione – I minori sono portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori in sede di affidamento o di disciplina del diritto di visita del genitore non affidatario e, per tale profilo, devono essere qualificati parti in senso sostanziale. Costituisce, quindi, violazione del principio del contraddittorio e del giusto processo il mancato ascolto. L’audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardino e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta, comunque, obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sopranazionale e dalla giurisprudenza della Suprema Corte. La citata Convenzione di Strasburgo prevede, infatti, che ogni decisione relativa ai minori indichi le fonti di informazioni da cui il Giudice ha tratto le conclusioni che giustificano il provvedimento adottato anche in forma di decreto, nel quale deve tenersi conto dell’opi- nione espressa dai minori, previa informazione a costoro delle istanze dei genitori nei loro riguardi e consultandoli personalmente sulle eventuali statuizioni da emettere, salvo che l’ascolto o l’audizione siano dannosi per gli interessi superiori dei minori stessi. [Precedenti] Sulla qualificazione del minore come “parte” del procedimento, cfr. Corte cost., 30 gennaio 2002, n. 1, in Fam. e d. 2002, p. 229 ss., con nota di F. Tommaseo, Giudizi camerali “de potestate” e giusto processo . Sulla necessità che il Giudice, nel corso di un procedimento che interessi il fanciullo, lo consulti personalmente, sempre che costui presenti discernimento sufficiente alla stregua del diritto interno e che tale audizione non sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso, cfr. Cass. civ., sez. I, ord. 16 aprile 2007, n. 9094, in Fam. e d. 2007, p. 883 ss., con nota di F. Tommaseo, e Cass. civ., sez. I, 18 marzo 2006, n. 6081, in Fam. e d. 2006, p. 585, con nota di B. Lena. Si segnala che la giurisprudenza di legittimità ritiene che all’ascolto del minore il giudice debba procedere personalmente; tuttavia, tale conclusione – condivisa dalla S.C. anche nella sentenza che si annota – sembra contrastare con il dettato delle fonti sopranazionali. Infatti, l’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata con l. 27 maggio 1991, n. 176, prevede che «. . . si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne sia direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di proceduta della legislazione nazionale . . . »; l’art. 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con l. 20 marzo 2003, n. 77, dispone che « nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve. . . nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi . . . ». Peraltro, sulla discrezionalità del Giudice in ordine alla valutazione dell’opportunità di procedere all’audizione dei minori e alle relative modalità, cfr. Cass. civ., sez. I, 15 febbraio 2008, n. 3798, con nota di A. Liuzzi, Sottrazione internazionale di minori e questioni processuali; ancora in tema di ascolto e di residenza del minore, in Fam. e d. 2008, p. 888 ss., e Cass. civ., sez. I, 4 aprile 2007, n. 8481 (entrambe pronunciate nell’ambito del procedimento di volontaria giurisdizione previsto dalla l. 15 gennaio 1994, n. 64, di ratifica ed esecuzione della Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980, in tema di sottrazione internazionale di minori). [Nota bibliografica] Sulle Convenzioni di New York e di Strasburgo, si veda P. Vercellone, La convenzione internazionale sui diritti del fanciullo e l’ordinamento italiano, in Minori e Giustizia 1993, p. 124 ss.; A. Liuzzi, La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli: prime osservazioni, in Fam. e d. 2003, p. 287 ss. In generale, sull’ascolto del minore nei processi di separazione e divorzio, si rinvia a G. Sergio, L’ascolto del minore e la giustizia, in Fam. e d. 1999, p. 590 ss., e al contributo di R. Russo, pubblicato sulla Rivista dell’AIAF (Associazione Italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori) 2005/1, p. 156 ss. Sulle nuove regole dettate dall’art. 155-sexies c.c. si v. A. Frassinetti, in Commentario breve al diritto di famiglia, Padova 2008, p. 412 ss. Sull’audizione del minore come mezzo istruttorio fondamentale per la formazione del convincimento del Giudice e non come strumento per garantire al minore la partecipazione ai giudizi ai quali è interessato, cfr. F. Tommaseo, Riflessioni sul processo civile minorile, in Studi in onore di Piero Schlesinger, Milano 2004, p. 3945; contra, L.P. Comoglio, Difesa e contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in R. dr. proc. 1997, p. 573, secondo cui l’audizione delle parti è strumento necessario per l’attuazione del contraddittorio nei procedimenti inquisitori a struttura camerale. 311 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 In senso favorevole all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza in rassegna si veda F. Tommaseo, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processali, in Fam. e d. 2006, p. 396 ss., per il quale l’ascolto del minore è « momento essenziale per la formazione del convincimento del giudice » e la sua mancanza « se non motivata con espresso riferimento al contrario interesse del minore, è causa di nullità del procedimento ». [Antonio Scalera] Le massime PROCESSO CIVILE Cass. civ., sez. un., 10 settembre 2009, n. 19448 La domanda di indennizzo per arricchimento senza causa e quella di risarcimento danni da responsabilità aquiliana non sono intercambiabili, in quanto diverse per causa petendi e petitum, poiché nella prima la causa dello spostamento patrimoniale non necessita di essere qualificata come antigiuridica e l’indennizzo deve essere ragguagliato alla minor somma tra l’arricchimento e il depauperamento. Ne consegue che, promosso – da parte di un concessionario nei confronti di un altro concessionario – un giudizio di indebito arricchimento in relazione alla mancata fruizione di acque pubbliche, non è ammissibile in sede di legittimità, in quanto costituente domanda nuova, il motivo di ricorso con cui si faccia valere la violazione delle norme in materia di illecita captazione (o sottensione) di acque, poiché quest’ultima realizza un’ipotesi di illecito aquiliano permanente, risarcibile ai sensi degli artt. 45-47 del r.d. n. 1775 del 1933. DIRITTO INTERNAZIONALE PROCESSUALE Cass. civ., sez. un., ord., 10 settembre 2009, n. 19447 Il requisito della forma scritta richiesto, per la clausola di proroga della giurisdizione in favore di uno degli Stati aderenti, dall’art. 23 del Reg. CE n. 44 del 2001 (già imposto dall’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968), è da ritenersi rispettato – sulla scorta dei criteri ermeneutici dettati con le sentenze della Corte di giustizia n. 24 del 14 dicembre 1976 e n. 221/84 dell’11 luglio 1985 – non solo nel caso di accettazione scritta della predetta clausola, ma anche quando il contratto sia stato concluso per accettazione tacita, mediante la sua esecuzione ai sensi dell’art. 1327 c.c., se il rapporto è stato preceduto da operazioni commerciali in cui la clausola risulti regolarmente accettata per iscritto (anche con mezzi elettronici, come previsto dal punto 2 dell’art. 23 del citato Regolamento CE n. 44 del 2001) e costantemente applicata, senza che emergano elementi tali da giustificare la presunzione di una volontà contraria a tale ininterrotta prassi negoziale. Deve, pertanto, ritenersi valida ed efficace tra le parti la clausola di proroga della giuri- sdizione a favore del giudice italiano, contenuta – nell’àmbito di rapporti commerciali tra una società italiana e una austriaca appartenenti allo stesso gruppo – in fatture e conforme all’ordine, mai contestate dalla società austriaca. Cass. civ., sez. un., ord., 10 settembre 2009, n. 19445 In tema di obbligazioni contrattuali, il criterio di collegamento previsto dall’art. 5, n. 1 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, richiamato dall’art. 3, comma 2, della l. 31 maggio 1995, n. 218, ai sensi del quale il convenuto domiciliato in uno Stato contraente può essere citato dinanzi al giudice del luogo in cui dev’essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, trova applicazione anche nel caso in cui il pagamento di una somma di denaro certa, liquida ed esigibile sia chiesto dall’assuntore del concordato di una società in amministrazione straordinaria o dal cessionario del credito, configurandosi, in entrambi i casi, una successione a titolo particolare nel credito, non riconducibile ad iniziative unilaterali volte ad incidere surrettiziamente sulle regole della giurisdizione, che lascia inalterato il rapporto obbligatorio in tutte le sue componenti oggettive, con la conseguenza che il debitore, avvertito dello spostamento del luogo di pagamento, deve adempiere al domicilio del cessionario, ancorché diverso da quello del cedente, purché non ne derivi un eccessivo aggravio, e non potendosi invocare in contrario l’anteriorità della scadenza del credito, avuto riguardo all’art. 1221 c.c., che addossa al debitore in mora le conseguenze dell’inadempimento. Cass. civ., sez. un., 20 agosto 2009, n. 18509 In tema di giurisdizione in materia di contratto individuale di lavoro, costituisce lavoro continuativo all’estero – idoneo, ai sensi dell’art. 19, n. 2, lett. a), del Regolamento CE n. 44 del 2001, ad identificare il luogo ove il lavoratore svolge abitualmente la sua prestazione – quello strutturalmente collegato ad una località sita in territorio straniero e che non costituisca la naturale estrinsecazione di un rapporto di lavoro costituito e destinato a svolgersi prevalentemente in Italia (nella specie, le sez. un. hanno escluso la giurisdizione del giudice italiano a favore di quello straniero in quanto il lavoratore – assistente di volo su un aeromobile battente bandiera belga e al quale veniva applicato il trattamento contributivo, fiscale e previdenziale previsto dalla disciplina belga – si limitava ad avere, in Italia, presso l’aero- 312 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali porto di Fiumicino, solamente la sede dell’imbarco, senza svolgimento di alcuna prestazione lavorativa). GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA Cass. civ., sez. un., 19 agosto 2009, n. 18375 GIURISDIZIONE Cass. civ., sez. un., 20 agosto 2009, n. 18499 In tema di conflitto negativo di giurisdizione, l’esistenza di due pronunce contrastanti sulla giurisdizione a conoscere la medesima controversia, declinata da entrambe, radica di per sé nelle parti un interesse alla risoluzione del conflitto in considerazione della situazione di stallo processuale. Ove però sulla stessa questione sia intervenuta una terza pronuncia che parimenti abbia statuito – esplicitamente o implicitamente – sulla giurisdizione e deciso la causa nel merito, passando in giudicato, la giurisdizione è definitivamente fissata nei termini del giudicato ed il conflitto va risolto sulla base della regola discendente, in termini di giurisdizione, dal giudicato (nella specie la S.C., ravvisata l’identità della causa petendi e della situazione sostanziale – l’asserita violazione di una riserva di posti, di cui all’art. 5 della legge n. 145 del 2002, fissata dalla legge per la progressione alla qualifica di dirigenti di seconda fascia – dedotte nei giudizi instaurati innanzi al giudice ordinario conclusisi, il primo, con sentenza di merito passata in giudicato, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità delle assunzioni dei dirigenti definite con deliberazione commissariale ed il secondo, dopo la declinatoria della giurisdizione da parte del giudice amministrativo, con la declinatoria della giurisdizione in ordine all’accertamento del diritto dei ricorrenti all’assunzione come dirigenti di II fascia – ha ritenuto che le due controversie ponessero la stessa questione di giurisdizione, affermando il principio di cui in massima e risolvendo il denunciato conflitto negativo di giurisdizione nel senso della giurisdizione del giudice ordinario). Cass. civ., sez. un., 9 settembre 2009, n. 19393 La controversia avente ad oggetto una domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta in data anteriore al 20 aprile 2005, e quindi disciplinata dagli artt. 5, comma 6, e 19 del d. legisl. n. 286 del 1998 e dall’art. 28, lett. d), del d.p.r. n. 394 del 1999, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la situazione giuridica soggettiva dello straniero ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore. Non è configurabile un eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, per invasione della sfera riservata al potere discrezionale della P.A., nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza, rilevata la violazione od elusione del giudicato amministrativo, adotti provvedimenti in luogo dell’Amministrazione inadempiente, sostituendosi al soggetto obbligato ad adempiere: in ossequio al principio dell’effettività della tutela giuridica, infatti, il giudizio di ottemperanza, al fine di soddisfare pienamente l’interesse sostanziale del soggetto ricorrente, non può arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti od addirittura elusivi del contenuto della decisione del giudice amministrativo. ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Cass. civ., sez. un., 7 agosto 2009, n. 18077 In tema di occupazione temporanea e d’urgenza di un immobile espropriando, il periodo di occupazione legittima decorre dal momento della effettiva immissione in possesso del beneficiario dell’occupazione, che si verifica, di regola, in conseguenza del c.d. “dimensionamento” – consistente nell’individuazione dell’area mediante infissione di picchetti e nell’affermazione degli incaricati dell’operazione che da quel momento il possesso dell’area s’intende trasferito all’amministrazione espropriante – costituendosi, per effetto di tali comportamenti, una impossibilità giuridica dell’ulteriore godimento dell’immobile da parte del proprietario. Dalla stessa data decorre – per le occupazioni regolate, ratione temporis, dall’art. 20 della legge n. 865 del 1971 – anche il diritto alla corrispondente indennità (il quale postula che il proprietario abbia effettivamente perduto la disponibilità del bene). L’indisponibilità giuridica derivante dalla mera pronuncia del decreto di occupazione può invece costituire presupposto per il riconoscimento di un indennizzo, in favore del proprietario dell’immobile, soltanto ove quest’ultimo fornisca la dimostrazione dell’esistenza di un reale pregiudizio (quale, ad esempio, quello derivante dall’impossibilità di alienazione del bene in presenza di concrete possibilità). Cass. civ., sez. un., 7 agosto 2009, n. 18077 In tema di occupazione temporanea e d’urgenza di un immobile espropriando, l’onere del beneficiario dell’occupazione di provare la persistenza del godimento sul bene da parte del proprietario, al fine di escludere il diritto all’indennità di occupazione, deve riguardare tutte le prerogative che a questo derivino dal possesso del bene, atteso che nel caso di godimento solo pro parte (ovvero limitato ad alcune attività sol- 313 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 tanto) il diritto all’indennità non può essere escluso, dovendosi valutare piuttosto in quale misura il godimento parziale o limitato incida sulla determinazione dell’in- * dennità medesima (fattispecie relativa ad occupazione regolata, ratione temporis, dall’art. 20 della legge n. 865 del 1971). * * B) Cassazione penale, Sezioni unite In primo piano 18 PRESCRIZIONE DEL REATO Cass. pen., sez. un., 10 dicembre 2009, n. 47008 [Prescrizione del reato – Riforma introdotta con la l. 5 dicembre 2005, n. 251 – Disciplina transitoria – Applicazione retroattiva della sopravvenuta normativa più favorevole – Limiti – Pendenza del giudizio di appello – Interpretazione del limite] La questione – Se a seguito della sentenza di condanna emessa in primo grado debba ritenersi verificata la condizione della “pendenza in appello del processo”, prevista dall’art. 10, comma 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251 ai fini di escludere l’applicazione delle disposizioni sopravvenute più favorevoli in tema di prescrizione. Massima – Ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione di cui all’art. 10, l. 5 dicembre 2005, n. 251, la pendenza del giudizio in appello, che vale a escludere l’applicazione retroattiva delle nuova disciplina più favorevole, è da individuarsi con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado. Il caso – Con sentenza emessa il 10 novembre 2005, il Tribunale di Palermo dichiarava Tizio responsabile dei reati continuati di violenza carnale e atti di libidine ai danni della figlia Caia, all’epoca minore degli anni 8, per i fatti commessi dallo stesso sino al maggio del 1994. Una decisione questa confermata dalla Corte di appello, a seguito dell’espletamento di una perizia sulla capacità della persona offesa a rappresentare gli accadimenti oggetto del processo, con la pronuncia emessa il 14 febbraio 2008. Avverso la sentenza di secondo grado l’imputato propone quindi ricorso per Cassazione, deducendo in particolare l’avvenuto decorso della prescrizione. I reati contestatigli sono infatti soggetti a una pena edittale massima di anni 10 di reclusione, ragione per cui, alla luce della modifica dell’art. 157 c.p. introdotta dalla l. 5 dicembre 2005, n. 251, essi sono da considerare prescritti sin dal novembre 2006. Contro una tale interpretazione si pone la pubblica accusa, la quale osserva che la legge n. 251 del 2005 è entrata in vigore il 7 dicembre 2005, ossia un mese dopo la pronuncia della sentenza del Tribunale ed in pendenza del termine per proporre appello: ragione per cui la norma transitoria di cui all’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, limitando l’efficacia retroattiva della nuova disciplina prescrizionale più favorevole ai processi già pendenti in grado di appello (o avanti la Corte di cassazione), imporrebbe di seguire la previgente disciplina prescrizionale del reato in forza della quale i delitti commessi da Tizio non sarebbero da considerare ancora estinti. Da qui la questione sottoposta alle Sezioni Unite avente ad oggetto proprio l’interpretazione del concetto di « pendenza del processo in appello » quale limite di efficacia retroattiva della più favorevole disciplina della prescrizione. Sintesi della motivazione – 1. Il quadro normativo di riferimento. – 2. Le contrastanti interpretazioni giurisprudenziali dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005. – 3. La tesi accolta dalle Sezioni Unite. 1. Il quadro normativo di riferimento Per un corretto inquadramento ed un agevole approfondimento della questione la S.C. riporta anzitutto il contenuto della norma di riferimento nella sua originaria formulazione ed in quella attuale, risultante a seguito dell’intervento operato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 23 novembre 2006, n. 393. 314 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali L’art. 10, legge n. 251 del 2005 – dopo avere fissato, al comma 1, l’entrata in vigore della nuova legge nel giorno successivo alla sua pubblicazione ed avere sancito, al comma 2, la non applicabilità ai procedimenti ed ai processi in corso della nuova disciplina, qualora i termini di prescrizione risultassero più lunghi di quelli previgenti – recitava testualmente, al comma 3: «Se per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti ed ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione». La Corte Costituzionale con la menzionata pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale comma, limitatamente alle parole « dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché ». All’uopo ha rilevato: che il principio della retroattività delle disposizioni più favorevoli posto dall’art. 2, comma 4, c.p. (da intendersi riferito a tutte le norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato) non è oggetto della tutela privilegiata contemplata dall’art. 25, comma 2, Cost. poiché questa concerne unicamente il divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice o comunque più sfavorevole all’imputato; che, pertanto, il medesimo è derogabile anche tramite una legge ordinaria, ma che, trattandosi comunque di una regola generale del nostro sistema penale, alla quale viene attribuita valenza anche dalla legislazione internazionale e da quella comunitaria (Patto sui diritti civili e politici di New York del 16 dicembre 1966; Trattato sull’Unione Europea di Amsterdam del 2 ottobre 1997 e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza del 7 dicembre 2000), la deroga deve essere diretta a far prevalere principi di uguale o maggior valenza (quali – a titolo esemplificativo – l’efficienza del processo, la salvaguardia dei diritti dei soggetti che in vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, la tutela di interessi dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo). Con specifico riferimento alla disposizione transitoria de qua ha affermato che la scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione non era « assistita da ragionevolezza » e violava l’art. 3 Cost., sotto diversi profili. Innanzitutto, a causa del carattere non indefettibile dell’incombente suddetto, che caratterizza solo il rito ordinario, restando estraneo a quelli alternativi ed altresì perché il medesimo non era idoneo a correlarsi significativamente alla funzione della prescrizione (strumento con il quale l’ordinamento si fa carico del diminuito allarme sociale suscitato dal reato e del meno agevole esercizio del diritto di difesa, determinati dal decorso del tempo), tanto da risultare “eccentrico” rispetto agli altri eventi processuali presi in considerazione dall’art. 160 c.p., ai fini della sua interruzione; inoltre si è segnalato che non erano invocabili esigenze di efficienza processuale e di conservazione della prova poiché al momento dell’apertura del dibattimento non sono state ancora compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate. Per effetto della richiamata sentenza l’operatività dei nuovi termini di prescrizione, in quanto più favorevoli, risulta ormai esclusa dalla disposizione di cui all’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, unicamente con riguardo ai « processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione ». Con successiva pronuncia, del 28 marzo 2008 n. 72, la Consulta ha dichiarato infondate varie questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla suddetta residua deroga, evidenziando: che la stessa non può dirsi irragionevole, discendendo dal fatto oggettivo e inequivocabile che «processi di quel tipo siano in corso ad una certa data»; che l’avvenuta emissione di una sentenza di primo grado o di un decreto di condanna assume rilievo rispetto all’istituto della prescrizione in quanto questi atti, al pari del decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, sono inclusi tra quelli indicati dall’art. 160 c.p.; che nei processi di appello (ed ancor più in quelli pendenti in cassazione) l’esigenza di evitare che l’acquisizione del materiale probatorio e quindi l’esercizio della difesa siano resi più difficili a causa del decorso del tempo è ormai soddisfatta poiché, in linea generale, l’attività istruttoria si svolge in primo grado; che l’opzione legislativa trova giustificazione siccome volta ad impedire la dispersione delle attività processuali realizzate secondo cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi, vigenti all’epoca del loro compimento (motivazione integralmente richiamata dall’ordinanza 23 ottobre 2008, n. 343 che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione nuovamente sollevata). In relazione all’attuale testo della norma transitoria si è dunque posto il quesito sopra enunciato, il quale nella fattispecie in esame è rilevante sotto duplice aspetto. Da un lato va considerato che la legge n. 251 del 2005, è entrata in vigore il 7 dicembre 2005, ossia un mese dopo la pronuncia della sentenza del Tribunale ed in pendenza del termine per proporre appello; per altro verso, se si ritenesse applicabile la previgente disciplina, la causa estintiva (come con maggiore precisione verrà in seguito illustrato) non si sarebbe ancora verificata, mentre in caso di operatività di quella nuova l’ultimo fatto delittuoso addebitato al ricorrente nell’àmbito del reato continuato risulterebbe prescritto al 9 marzo 2007, quindi prima della sentenza di secondo grado (risalendo a data ancora precedente l’avverarsi della prescrizione per quelli commessi in epoca anteriore). 2. Le contrastanti interpretazioni giurisprudenziali dell’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005 Al proposito si sono delineate nella giurisprudenza di legittimità diverse e contrastanti posizioni. a) In taluni precedenti è stato affermato che la pendenza del grado di appello, alla quale consegue la non retroattività delle norme sopravvenute più favorevoli, ha inizio con l’effettiva proposizione del gravame e non già 315 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 con la semplice conclusione del primo grado di giudizio. Invero la formula adottata dal legislatore deve essere valutata « nella sua specificità lessicale » e l’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, evoca non la pendenza del giudizio di appello, bensì del processo nel « grado di appello », in questo modo attribuendo rilievo all’atto che lo introduce. Né possono assumere valenza il decreto di citazione in giudizio per l’appello ovvero la trasmissione del fascicolo al giudice di secondo grado, eventi successivi all’impugnazione (Cass. 2 ottobre 2007, n. 41965; Cass. 9 aprile 2008, n. 18382; Cass. 10 aprile 2008 n. 26101; Cass. 28 maggio 2009, n. 22328). b) Una pronuncia, rimasta peraltro isolata, ha invece collegato la pendenza di un processo in appello alla sua iscrizione nel registro della Corte d’appello (Cass. 15 aprile 2008, n. 24330). In particolare si è assunto che il dato centrale e fondamentale del passaggio da una fase processuale all’altra è costituito rispettivamente dalla trasmissione e dalla ricezione degli atti: ciò alla luce dell’urgenza imposta per il primo di questi adempimenti dagli artt. 432 e 590 c.p.p., e della circostanza che il giudice dell’impugnazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 465 e 598 c.p.p., può provvedere agli atti preliminari di sua competenza solo dopo la suddetta ricezione. Al contempo è stato censurato il riferimento alla presentazione dell’impugnazione, comportando un criterio del genere molteplici incertezze nell’ipotesi di procedimenti con più imputati; del pari si è esclusa la possibilità di avere riguardo all’emissione della sentenza di primo grado in quanto siffatta interpretazione sarebbe in contrasto con il dettato normativo e porterebbe a ritenere già istaurato l’appello, pur essendo la celebrazione di questo giudizio meramente eventuale. c) Secondo un altro orientamento, decisamente maggioritario, la pendenza del processo in appello coincide con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (tra i precedenti più significativi: Cass. 27 novembre 2006, n. 42189; Cass. 21 febbraio 2008, n. 13350; Cass. 20 novembre 2007, n. 1574; Cass. 26 maggio 2008, n. 31702; Cass. 10 ottobre 2008, n. 40976; Cass. 15 luglio 2008, n. 38587; Cass. 16 luglio 2008, n. 37333; Cass. 16 gennaio 2009, n. 7697; Cass. 22 ottobre 2008, n. 13523; Cass. 14 maggio 2009, n. 34231). A sostegno si è considerato che il significato dell’attuale norma transitoria va inteso e “ri-definito” nel senso che non riproduca ciò che la Consulta ha ritenuto irragionevole e non conforme al sistema, tenendosi altresì conto dello scopo originariamente perseguito. E’ stato, quindi, rilevato che la sentenza di condanna determina interruzione della prescrizione e si pone in armonia con l’esigenza di non ridurne indiscriminatamente i tempi; si è precisato che l’effetto riconosciuto alla medesima, di escludere la retroattività delle norme più favorevoli, va riportato alla lettura del dispositivo e non al deposito della motivazione, che non incide sul decorso della causa estintiva; infine è stata negata ogni rilevanza ad altri fatti, quali la presentazione dell’impugnazione o l’iscrizione nel registro della Corte di appello, che a loro volta non sono ricompresi tra quelli previsti dall’art. 160 c.p., e dipendono dalla volontà di taluni soggetti processuali. Anche le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi in ordine a questioni diverse, in ben due occasioni hanno seguito quest’ultimo indirizzo, in un caso affermando che doveva operare la nuova disciplina in quanto al momento della entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, non era ancora stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado (Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008 n. 19601), nell’altro applicando la normativa previgente perché al momento suddetto già era stata emessa tale sentenza, che “costituisce atto interruttivo della prescrizione” (Cass. pen., sez. un., 27 novembre 2008 n. 3287). 3. La tesi accolta dalle Sezioni Unite Queste Sezioni Unite, rimanendo nell’àmbito del quesito che qui interessa e rileva, ritengono di aderire all’orientamento maggioritario che individua nella sentenza di condanna emessa in primo grado il fattore al quale ancorare, in tema di prescrizione, l’inapplicabilità delle norme sopravvenute, più favorevoli all’imputato; all’uopo si condividono le argomentazioni che sono state riportate e si osserva quanto segue. Le pronunce della Corte costituzionale producono effetti vincolanti in ogni procedimento esclusivamente per quanto attiene alla dichiarazione in queste contenuta di illegittimità costituzionale di una norma (Cass. 21 febbraio 1984, n. 4678; Cass. 15 luglio 1996, n. 7895; Cass. pen., sez. un., 29 marzo 2007, n. 27614); la giurisprudenza civile ha, peraltro, evidenziato che le argomentazioni poste a fondamento della decisione rilevano al fine di individuarne l’oggetto e la portata, costituendo la motivazione ed il dispositivo elementi di uno stesso atto, unitariamente inteso, reso secondo il modello della sentenza. (Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 1984 n. 5401; Cass. pen., sez. un., 16 gennaio 1985, n. 94); in sede penale, con riferimento a sentenze di rigetto delle questioni di legittimità, le quali non sono in alcun modo vincolanti, si è tuttavia affermato, con diverse sfumature, che esse rappresentano un precedente autorevole e che il giudice in un diverso procedimento, pur conservando il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la disposizione “salvata”, incontra il limite di non assegnare alla formula normativa un significato che secondo il Giudice delle leggi sarebbe in contrasto con la Costituzione (Cass. 13 dicembre 1995, n. 930; Cass. pen., sez. un., 13 luglio 1998, n. 21; Cass. pen., sez. un., 16 dicembre 1998, n. 25). Orbene, la sentenza della Corte Costituzionale parzialmente demolitiva dell’art. 10, comma 3, non solo ha efficacia erga omnes in ordine al precetto dichiarato illegittimo, ma assume valenza, sebbene non assoluta, con riguardo ai motivi della ritenuta irragionevolezza i quali nell’interpretazione della restante disposizione non possono essere trascurati, dovendosi evitare che venga adottato un criterio avente gli stessi caratteri di quello censurato. 316 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali Così pure occorre tenere presenti le valutazioni in base alle quali la successiva sentenza della Consulta ha escluso la incostituzionalità della deroga alla retroattività della disciplina più vantaggiosa per quanto attiene ai processi pendenti in appello (ovvero avanti la Corte di cassazione): infatti se ci si discostasse dalle medesime, senza addivenire a soluzioni dotate di pari ragionevolezza, potrebbero prospettarsi nuove questioni di costituzionalità. È quindi evidente che, a fronte della previsione rimasta in vigore, non deve tanto ricostruirsi la nozione generale ed astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio di appello, ma piuttosto l’esatto significato che la locuzione normativa assume nel particolare contesto in cui è stata introdotta, considerando gli interessi perseguiti e le condizioni per le quali l’esclusione della retroattività si palesa compatibile con la legge fondamentale. Né potrebbe giovare un richiamo dogmatico al dato testuale posto che il concetto di pendenza non ha ricevuto definizione nel nostro sistema processual-penalistico, il ché consente di adeguarlo alle caratteristiche ed alla finalità delle situazioni in cui è destinato ad incidere. Nella delineata ottica, essendo ormai indiscutibile l’operatività della disciplina più favorevole per tutta la durata del giudizio di primo grado, risulta legittimo far scattare l’esclusione a partire dall’atto conclusivo di quest’ultimo il quale si concreti in una sentenza di condanna, che determina interruzione della prescrizione. In effetti, ravvisare la pendenza di un procedimento in appello nel momento in cui viene emesso il provvedimento che pone fine al grado precedente trova congrua spiegazione nella circostanza che questo evento comporta l’impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all’accusa, nell’àmbito del processo principale (non rilevando, ai fini in questione, le disposizioni in tema di competenza dettate da esigenze pratiche in relazione ai procedimenti incidentali cautelari) e che esso apre comunque la fase dell’impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla. A conferma di tale impostazione v’è la tecnica legislativa impiegata nel concepire la norma nonché la ratio a questa sottesa. Mentre il riferimento ai processi di primo grado era avvenuto con indicazione di una determinata cadenza (l’apertura del dibattimento), quelli di appello e di cassazione, invece, sono stati richiamati nella loro globalità e come aventi, ciascuno di loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la conclusione di un grado e la pendenza del successivo. D’altronde va riconosciuto che il legislatore con la disposizione originaria intese apportare, in tema di prescrizione, ampia deroga al principio posto dall’art. 2, comma 4, c.p., al fine di impedire che si verificasse una forma generalizzata di amnistia a scapito di una coerente applicazione della legge penale; la Corte Costituzionale non ha censurato la ragione che ebbe ad ispirare la limitazione (avendo anzi ritenuto che la tutela dell’efficienza del processo valga, in generale, a giustificare un’eccezione al citato principio), ma la scelta della formalità destinata a fungere da discrimine in subiecta materia: pertanto, in relazione alla norma che residua dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale, s’impone un approccio ermeneutico che sia conforme agli enunciati in questa contenuti ed attribuisca altresì rilievo al suddetto intento, evitando di restringere senza necessità la deroga stessa. Di conseguenza, anche sotto codesto aspetto, occorre riportarsi ad un momento che, dopo la conclusione del giudizio di primo grado, sia il più possibile risalente nel tempo; per il resto si condivide quanto segnalato nelle sentenze del Giudice delle leggi circa la specifica esigenza che il sacrificio dell’interesse dell’imputato ad un più benevolo trattamento venga parametrato alla funzione dell’istituto della prescrizione e quindi collegato ad un atto interruttivo del suo corso. All’uopo va puntualizzato che, se la prescrizione implica la rinuncia dello Stato a realizzare la pretesa punitiva a causa del decorso del tempo, di converso ogni atto avente efficacia interruttiva di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 160 c.p., rappresenta esplicitazione e riaffermazione della volontà di accertare fatti e responsabilità, in una prospettiva di ravvisato perdurare dell’allarme sociale (Cass. 22 aprile 1997, n. 6054; Cass. 22 novembre 2007, n. 2113). In altre parole l’interruzione della prescrizione, nell’incidere in modo negativo sul calcolo della prescrizione, si traduce in un elemento di contrasto al verificarsi della causa estintiva e pertanto costituisce un’espressione tipica dell’esigenza di assicurare l’efficacia della giurisdizione e del processo penale. La sentenza di condanna – quale accadimento che conclude il giudizio di primo grado, nel cui corso si è raccolto il materiale probatorio e quale evento che, consolidando l’accusa, interrompe la prescrizione – è dunque idonea, sia in relazione al momento processuale in cui interviene, sia con riguardo al suo contenuto di verifica fattuale e di imposizione punitiva, a segnare la linea di demarcazione temporale tra la pregressa e la nuova normativa; né può sottacersi che la stessa è stata menzionata dalla Consulta nell’operare richiamo ad atti rilevati a questo fine. Gli esposti motivi rendono evidente che la situazione di pendenza non può essere determinata dalla proposizione dell’impugnazione ovvero dall’iscrizione del processo nel registro del giudice di secondo grado: tali fatti non sono interruttivi della prescrizione né altrimenti indirizzati a garantire la funzione del processo; a ciò aggiungasi che la soluzione di far dipendere il verificarsi o meno della prescrizione da comportamenti delle parti oppure da adempimenti di carattere amministrativo sarebbe priva di plausibile fondamento. [Dario Micheletti] 317 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 * * * C) Cassazione civile, Sezioni semplici Le schede 19 COMPRAVENDITA Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2009, n. 21621 [Autonomia contrattuale – Interpretazione della volontà delle parti –Giudizio di fatto] [Compravendita – Garanzia convenzionale – Assunzione della garanzia da parte del terzo] Massima – (1) La ricostruzione della volontà delle parti consacrata in un documento costituisce accertamento di fatto riservato al giudice di merito che è incensurabile in sede di legittimità se non per violazione dei criteri ermeneutici dettati dagli art. 1362 e ss. (2) Il riconoscimento dei vizi di cui è affetta la cosa e l’assunzione dell’impegno a ripararli fa sorgere in capo al terzo una obbligazione di garanzia diversa ed autonoma rispetto a quella gravante sul venditore. Fatto – Tizio compra da Caio un bene che si rivela in seguito inadatto all’uso cui è destinato, pertanto conviene in giudizio Caio per ottenere la risoluzione del contratto, la restituzione del prezzo e il risarcimento del danno causato dai vizi della cosa venduta. Caio chiama in garanzia il produttore del bene viziato Mevio, affinché la responsabilità per i vizi del bene venga dichiarata nei confronti di questi. Tizio nel contempo riceve una comunicazione di Mevio, con la quale quest’ultimo riconosce l’esistenza dell’inidoneità del bene all’uso cui Tizio l’ha destinato e si propone di renderlo utilizzabile. Il Tribunale risolve il contratto di compravendita concluso tra Tizio e Caio, affermando l’estraneità di Mevio rispetto a tale contratto, da cui discende l’assenza di ogni responsabilità di questi nei confronti del compratore. In riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello interpreta la missiva inviata da Mevio a Tizio quale assunzione contrattuale di garanzia dei vizi, tramite la quale egli, oltre ad averli riconosciuti, si sarebbe obbligato ad eliminarli, e condanna perciò Mevio al risarcimento del danno. Ricorre Mevio, adducendo l’erronea interpretazione della missiva quale assunzione contrattuale di obbligazione. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Motivi della decisione – (1-2) Basandosi sul principio per il quale non è sindacabile nel giudizio di legittimità l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito attraverso il quale si ricostruisce la volontà contrattuale delle parti sulla base delle risultanze istruttorie (sempre che non vengano violati i canoni interpretativi previsti dagli articoli 1362 ss.), la S.C. ritiene che nel caso di specie il produttore Mevio abbia concluso con Tizio un contratto di garanzia, distinto ed autonomo rispetto al contratto di compravendita stipulato dallo stesso Tizio con l’alienante Caio. Conseguentemente, l’obbligazione – gravante sul venditore – di garantire che la cosa sia idonea all’uso convenuto, la quale trova la sua fonte nel contratto di compravendita, è diversa e separata rispetto all’obbligazione di garanzia – gravante sul produttore – che scaturisce dal diverso contratto che il produttore stesso e l’acquirente concludono nell’esercizio dell’autonomia privata. Il produttore che, con una dichiarazione inviata al compratore, riconosca i vizi del bene da lui prodotto e si offra di ripararlo assume contrattualmente nei confronti di quest’ultimo la correlativa obbligazione, della quale il compratore è pertanto legittimato a pretendere l’adempimento e – in mancanza – il conseguente risarcimento dei danni. [Precedenti] (1) Negli stessi termini ex plurimis Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2007, n. 12946 secondo la quale, quando in sede di legittimità venga denunziata la violazione di tali regole [quelle dell’interpretazione del contratto degli artt. 1362 ss., ndr], è necessaria la specifica dimostrazione del modo in cui il ragionamento seguito dal giudice di merito abbia deviato dalle regole nei detti articoli stabilite, non essendo sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera proposizione di una diversa e più favorevole interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante; Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2007, n. 12936; Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2007, n. 7524. Va rilevato tuttavia che nel caso affrontato dalla sentenza in commento la ricostruzione della volontà delle parti non si limitava all’interpretazione di un contratto già e sicuramente stipulato, bensì giungeva a postularne l’avvenuta conclusione, interpretando una lettera quale assunzione negoziale di una obbligazione nei confronti del destinatario. La Corte non affronta invece il tema della struttura del contratto che ella ritiene concluso tramite l’invio della suddetta missiva. Potrebbe forse ritenersi che si tratti di un contratto con obbligazioni del solo proponente per la cui conclusione, ai sensi dell’art. 1333 c.c., è sufficiente il mancato rifiuto del destinatario. Sull’utilizzo delle regole di interpretazione del contratto anche per stabilire se le parti hanno voluto porre in essere un assetto di interessi giuridicamente vincolante v. Cass. civ. 4 febbraio 2009, n.2720. Sul giudizio circa l’avvenuta o meno conclusione di un contratto, quale accertamento di mero fatto non sindacabile in Cassazione, se sorretto da congrua motivazione e immune da vizi logici e giuridici, v. Cass. civ. 27 settembre 2006, n.21019. (2) Sulla natura dell’obbligazione del terzo v. anche Cass. civ., sez. II, 23 dicembre 1991, n. 13869, secondo cui è compito del giudice di merito interpretare la dichiarazione del terzo di assunzione 318 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali della garanzia al fine di ricondurla alla fattispecie legale, con i contenuti e le caratteristiche di cui agli artt. 1490 ss., ovvero considerarla quale obbligazione di garanzia autonoma e perciò indipendente rispetto ai requisiti di legge. In questa indagine il giudice non può limitarsi alla considerazione della natura del vizio oggetto della garanzia, ma deve estendere la sua indagine a tutti gli altri aspetti, limiti e condizioni di esercizio della medesima e soprattutto dal suo specifico contenuto (alternativa fra l’“actio redibitoria” e la “quanti minoris”; obbligazione assunta dal garante di sostituire o riparare le parti risultate difettose della cosa venduta ecc.). La qualificazione dell’impegno assunto dal terzo nei termini di assunzione di garanzia diversa rispetto a quella gravante sul venditore ai sensi degli artt. 1490 ss. in primo luogo rileva per il diverso regime di decadenza e prescrizione: nel caso di contratto autonomo la prescrizione sarà quella ordinaria decennale, nel caso invece si configuri una garanzia del tipo di cui agli artt. 1490 ss. si avrà la decadenza di otto giorni e la prescrizione annuale. In secondo luogo consente di ovviare all’ostacolo, presente nel nostro ordinamento, riguardante l’azione di esatto adempimento, considerata estranea alla garanzia legale per i vizi. [Nota bibliografica] (1) L’attività di interpretazione funzionale alla ricostruzione della volontà delle parti costituisce un giudizio di merito, tuttavia con la precisazione che “anche l’interpretazione è pro- cedimento logico giuridico, dunque non è puro giudizio di fatto tant’è che oggi è pacifico insegnamento giurisprudenziale e dottrinario che si può ricorrere in Cassazione per violazione o falsa applicazione delle norme dell’interpretazione”, vedi Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici “inter vivos” (Dir. Civ.), in Noviss. D., VIII, p. 904. Ancora su interpretazione del contratto e giudizio di merito, v. Roppo, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 2001, p. 466 ss.; Capobianco, La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, 304 ss.; Bigliazzi Geri, L’interpretazione del contratto, in Comm. Schlesinger. (2) Per la garanzia per i vizi nella vendita in generale, nelle vendite c.d. a catena, circa l’azione di esatto adempimento, v. Luminoso, La compravendita, Torino 2008, p. 221; C.M. Bianca, La vendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, VII, 1, Torino 1993, p. 944; D. Rubino, La compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 1971, p. 859: R. Calvo, Vendita e responsabilità per vizi materiali, Napoli 2007; S. Cherti, Le garanzie convenzionali nella vendita, Padova 2004; A. Zaccaria, Sostituzione di accessori del bene compravenduto in adempimento di una garanzia convenzionale, in questa Rivista, 2009, fascicoli 4 e 5; Corrias, La garanzia di fabbrica, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Milano 2005, p. 4477 ss.; Id., Garanzia pura e contratti di rischio, Milano 2006, p. 333 ss. [Giulia Gabassi] Le massime blicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio). ENTI COLLETTIVI Cass. civ., sez. V, 10 settembre 2009, n. 19486 Cass. civ., sez. I, 11 agosto 2009, n. 18218 Il principio secondo il quale la responsabilità personale e solidale di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta ai sensi dell’art. 38 c.c. non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza formale dell’associazione ma si fonda sull’attività negoziale concretamente svolta e sulle obbligazioni assunte verso i terzi che hanno confidato sulla solvibilità e sul patrimonio di chi ha concretamente agito, si applica anche ai debiti di natura tributaria. In tema di contratti c.d. di sponsorizzazione – nei quali beni particolarmente noti ed ammirati, inseriti in circuiti di manifestazioni, corse o regate seguite da un vasto pubblico ed utilizzati come veicolo di diffusione di messaggi pubblicitari, essendo corredati dal marchio o dalla denominazione dell’impresa che si vuole pubblicizzare – la tutela dei diritti all’immagine e alla denominazione del bene risulterebbe pregiudicata qualora si consentisse a chiunque di appropriarsene a scopi pubblicitari, senza ottenere il consenso dei titolari e senza pagare le dovute royalties. Il danno – patrimoniale e non – causato da tale comportamento illecito è risarcibile, ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c., sotto il profilo sia del c.d. annacquamento della denominazione e dello svilimento dell’immagine del bene, sia del pregiudizio economico per il mancato esborso del prezzo, che comunemente è dovuto per simili campagne pubblicitarie, mentre non è applicabile la tutela di cui all’art. 2598 ss. c.c., in tema di concorrenza sleale, per la mancanza di un rapporto di concorrenzialità tra le imprese. DIRITTI DELLA PERSONALITÀ Cass. civ., sez. I, 11 agosto 2009, n. 18218 La tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli artt. 6, 7 e 10 c.c., è invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche dalle persone giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della denominazione e dell’immagine di un bene, la suddetta tutela spetta sia all’utilizzatore del bene in forza di un contratto di leasing, sia al titolare del diritto di sfruttamento economico dello stesso (principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso dell’avente diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’immagine e la denominazione di un’imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o come elemento di richiamo nell’àmbito di campagne pub- REGIME PATRIMONIALE DEI CONIUGI Cass. civ., sez. I, ord., 22 settembre 2009, n. 20392 L’azione prevista dall’art. 184, comma 2, c.c. – secondo cui l’annullamento degli atti di disposizione compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro può 319 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 essere chiesto nel termine annuale di prescrizione – è un’azione speciale di annullamento avente natura costitutiva. Ne consegue che il coniuge che intenda far valere la mancanza del proprio consenso in ordine a tale atto di disposizione, al fine di sottrarre la propria quota all’espropriazione forzata promossa dai creditori del terzo acquirente, non può limitarsi a proporre l’opposizione di terzo all’esecuzione – di per sé non idonea a giustificare la situazione di comproprietà – ma è tenuto ad agire, congiuntamente o autonomamente, con l’apposita azione di annullamento. FILIAZIONE Cass. civ., sez. I, 25 settembre 2009, n. 20625 In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ult. co., e 10, comma 2, della l. 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla l. 28 marzo 2001, n. 149 (entrata in vigore il 1° luglio 2007), il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità (per il quale non era in precedenza prevista la presenza del difensore) deve svolgersi ora, fin dalla sua apertura con l’assistenza legale dei genitori e del minore; con riferimento ai procedimenti in corso, cui la novella è applicabile in assenza di disposizioni transitorie, la ritardata nomina del difensore determina però solo l’inutilizzabilità dell’attività svolta dopo l’entrata in vigore di tale obbligo, e non una nullità generale idonea ad estendersi a tutti gli atti del procedimento, fino alla sentenza definitiva (nella specie, la Suprema Corte ha confermato quanto statuito dalla corte territoriale in ordine all’inutilizzabilità di una CTU espletata dopo l’entrata in vigore della novella e prima che alla madre venisse nominato un difensore d’ufficio). SUCCESSIONI MORTIS CAUSA meno (nella seconda) di proporzionalità tra le attribuzioni patrimoniali e le quote di ciascuno dei partecipanti alla comunione. Cass. civ., sez. II, 20 agosto 2009, n. 18561 La divisio inter liberos, regolata dall’art. 734 c.c., ricorre quando la volontà del testatore è quella di effettuare direttamente la divisione dei suoi beni fra gli eredi, distribuendo tra questi le sue sostanze mediante l’assegnazione di singole quote concrete, con effetti reali ed immediati. Ricorre, invece, l’ipotesi di cui all’art. 733 c.c. quando il testatore non divide, ma si limita a dettare le regole per la futura divisione. L’accertamento della ricorrenza in concreto dell’una o dell’altra fattispecie costituisce indagine di fatto sulla volontà del testatore, non sindacabile in sede di legittimità se sorretta da corretta motivazione (nella specie è stata cassata la sentenza di merito che aveva escluso l’applicabilità dell’art. 733 c.c. alla clausola testamentaria con la quale veniva espressamente raccomandato ad uno degli eredi, attributario di un gruppo di poderi, di lasciare tali beni “conservati uniti ed intatti finché possibile”, senza però indagare sulla possibilità di ricondurre la anzidetta clausola nell’àmbito di operatività della divisio inter liberos, ai sensi dell’art. 734 c.c.). BENI Cass. civ., sez. II, 7 settembre 2009, n. 19283 Il concetto di bene mobile contenuto nell’art. 812 c.c. è onnicomprensivo, includendo in sé, con carattere residuale, tutti i beni che non siano qualificabili come immobili ai sensi del primo e del secondo comma del medesimo articolo. Pertanto, l’espressione “beni mobili”, ove riferita ai beni che corredano un’abitazione, non consente di escludere una parte di essi, dovendosi ritenere comprensiva anche dei quadri, degli oggetti e degli arredi in genere. Cass. civ., sez. II, 20 agosto 2009, n. 18560 La mera circostanza che l’erede abbia accettato l’eredità non è sufficiente a far decorrere il termine quinquennale per la proposizione dell’azione di annullamento del testamento per incapacità del testatore, ex art. 591, comma 3, c. c., giacché a tal fine è necessario che venga data esecuzione alle disposizioni testamentarie. DIVISIONE Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20256 Il discrimen tra la divisione transattiva, rescindibile (art. 764, comma 1, c.c.), e la transazione divisoria, non rescindibile (art. 764, comma 2, c.c.) né annullabile per errore (art. 1969 c.c.), è costituito non dalla natura transattiva di una controversia divisionale, ricorrente in entrambi i negozi, bensì dall’esistenza (nella prima) o PROPRIETÀ Cass. civ., sez. II, 29 settembre 2009, n. 20871 Chi agisce giudizialmente per fare dichiarare la inesistenza a carico del proprio fondo di una servitù di veduta diretta deve limitarsi a provare che sul fondo del vicino si apre una veduta a distanza inferiore a un metro e mezzo dal confine, in quanto l’art. 905 c. c. gli dà diritto di pretenderne l’eliminazione, mentre incombe al convenuto, ai sensi dell’art. 2697 c. c., per evitare il riconoscimento di tale diritto, fornire la prova di un titolo che gli attribuisca la servitù di veduta. Soltanto se affermi che la veduta sia stata aperta in sostituzione di un’altra veduta di cui ammetta o non contesti la conformità al diritto, l’attore deve altresì dimostrare il presupposto su cui si basa la sua pretesa, cioè la difformità della nuova veduta rispetto a quella preesistente. 320 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2009, n. 20608 La violazione delle norme sulle distanze legali del c.c. (ovvero delle norme locali richiamate dal c.c.), mentre legittima sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per sé fonte di danno risarcibile, essendo al riguardo necessario che chi agisca per la sua liquidazione deduca e dimostri l’esistenza e la misura del pregiudizio effettivamente realizzatosi. soluzione più equa, con il temperamento dei contrastanti interessi, nel rispetto del criterio del minor pregiudizio per il fondo servente e della maggior convenienza sia per detto fondo che per quello dominante. Siffatta indagine spetta al giudice del merito e non è sindacabile in Cassazione, se sorretta da idonea motivazione. COMUNIONE E CONDOMINIO Cass. civ., sez. II, 7 settembre 2009, n. 19289 L’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali non si estingue per il decorso del tempo, essendo imprescrittibile, salvo gli effetti dell’eventuale usucapione, la quale dà luogo all’acquisto del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. DIRITTI REALI DI GODIMENTO Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2009, n. 20997 In tema di passaggio coattivo, nel caso in cui si lamenti l’impossibilità di accedere al proprio fondo, invece che con mezzi meccanici di ridotte dimensioni (motocicletta), con mezzi meccanici di medie o comunque più grandi dimensioni (autovettura), senza invadere la proprietà del vicino, si versa in una ipotesi di interclusione relativa, ai sensi dell’art. 1051, comma 1, c.c., perché il fondo, pur avendo possibilità di uscita sulla pubblica via, non ne ha ugualmente, causa la situazione dei luoghi, con gli anzidetti mezzi meccanici di dimensioni maggiori. Anche in tale caso, l’indagine del giudice ha ad oggetto il conveniente uso del fondo e la portata di tale indagine è condizionata dalla posizione difensiva del convenuto titolare del fondo servente, nel senso che, soltanto ove non proposte ovvero respinte le questioni sull’agevole acquisibilità di altro accesso o sulla materiale impossibilità dell’ampliamento del passaggio, occorre affrontare e risolvere le questioni sulle modalità di detto ampliamento in relazione al principio del contemperamento degli interessi dei due fondi. Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2009, n. 20992 Le condizioni in cui una costituenda servitù coattiva deve essere esercitata possono essere determinate dal giudice anche di ufficio, secondo la situazione dei luoghi e l’aggravio del fondo costituito servente (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva stabilito doversi modificare il tracciato di una servitù di acquedotto rispetto all’originaria posa delle tubazioni, benché la domanda di mutamento di detto tracciato fosse stata avanzata soltanto in appello). Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2009, n. 20992 Nella servitù di acquedotto coattivo, la determinazione del luogo attraverso il quale deve effettuarsi il passaggio delle acque non può farsi se non con riguardo alla concreta situazione di fatto, considerandosi di volta in volta gli elementi che debbono concorrere alla scelta della Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20254 A norma dell’art. 9, comma 3, della l. 24 marzo 1989, n. 122, i condomini possono deliberare – con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 2, c.c. – la realizzazione di parcheggi pertinenziali nel sottosuolo di edifici condominiali, anche in numero inferiore a quello della totalità dei componenti, essendo i dissenzienti tenuti a rispettare la sottrazione dell’uso dell’area comune a seguito della destinazione a parcheggio. Tuttavia, poiché il citato art. 9, comma 3, fa salvo il contenuto degli artt. 1120, comma 2, e 1121, comma 3, c. c., detta sottrazione è consentita solo se è assicurata anche ai condomini dissenzienti la possibilità di realizzare, in futuro, nella zona comune rimasta libera, un analogo parcheggio pertinenziale della propria unità immobiliare di proprietà esclusiva, in modo da garantire a tutti il godimento del sottosuolo secondo la sua normale destinazione. Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2009, n. 18192 A differenza di quanto previsto dall’art. 1134 c.c. – che consente il rimborso al condomino delle spese sostenute senza autorizzazione soltanto in caso di urgenza – l’art. 1135 c.c. non contiene analogo divieto di rimborso delle spese non urgenti sostenute dall’amministratore nell’interesse comune. Ne consegue che l’assemblea di condominio può ratificare le spese ordinarie e straordinarie effettuate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, purché non voluttuarie o gravose, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione. Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2009, n. 18192 La delibera dell’assemblea di condominio che ratifichi una spesa assolutamente priva di inerenza alla gestione condominiale è nulla, e non già semplicemente annullabile, senza che possa aver rilievo in senso contrario il fatto che la spesa sia modesta in rapporto all’elevato numero di condomini e all’entità complessiva del rendiconto (nella specie, si trattava di spese relative al telefono privato dell’amministratore ed all’acquisto di una licenza di software compiuta in proprio dall’amministratore). Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2009, n. 18192 Non è annullabile la delibera di un’assemblea condominiale il cui verbale, ancorché non riporti l’in- 321 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 dicazione nominativa dei condomini che hanno votato a favore, tuttavia contenga, tra l’altro, l’elenco di tutti i condomini presenti, personalmente o per delega, con i relativi millesimi, e nel contempo rechi l’indicazione, nominatim, dei condomini che si sono astenuti e che hanno votato contro e del valore complessivo delle rispettive quote millesimali, perché tali dati consentono di stabilire con sicurezza, per differenza, quanti e quali condomini hanno espresso voto favorevole, nonché di verificare che la deliberazione assunta abbia superato il quorum richiesto dall’art. 1136 c.c. POSSESSO E USUCAPIONE Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20228 Nell’ipotesi in cui lo spoglio sia stato clandestino, colui che agisce in possessoria – sul quale incombe, di regola, l’onere di provare la tempestività della proposizione dell’azione – deve dimostrare soltanto la clandestinità dell’atto violatore del possesso e la data della scoperta di esso da parte sua, iniziando a decorrere il termine annuale di decadenza dal momento in cui cessa la clandestinità e lo spossessato viene a conoscenza dell’illecito o acquisisce la possibilità di venirne a conoscenza facendo uso della normale diligenza. Resta, invece, a carico del convenuto spoliatore l’onere di provare l’intempestività dell’azione rispetto all’epoca di conoscenza o di conoscibilità dello spoglio. Cass. civ., sez. II, 8 settembre 2009, n. 19384 In tema di azioni a difesa del possesso, tra causa possessoria e causa petitoria sussiste una forma di connessione impropria, non essendo ravvisabile un vincolo di subordinazione o di garanzia o di pregiudizialità. Ne consegue che non va disposta la sospensione del giudizio possessorio in attesa dell’esito definitivo del giudizio petitorio, posto, altresì che la sentenza definitiva che decide la controversia petitoria, escludendo definitivamente la sussistenza del diritto, impone di negare al possesso la protezione giuridica. OBBLIGAZIONI IN GENERALE Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2009, n. 20995 Poiché l’obbligazione di consegnare una cosa determinata include, ai sensi dell’art. 1177 c.c., quella di custodirla fino alla consegna, risponde di inadempimento all’obbligazione accessoria di adeguata custodia – in relazione al furto avvenuto in un cantiere edilizio – l’appaltatore che non dimostri di avere adottato tutte le precauzioni suggerite dall’ordinaria diligenza, senza che possa rilevare l’avvenuta cessazione del rapporto principale di appalto (nella specie, per la risoluzione di diritto, ex art. 81 del r.d. n. 267 del 1942, a seguito della sottoposizione della committente a liquidazione coatta amministrativa), atteso che l’obbligo di custodia è correlato alla detenzione dei beni affidati all’appaltatore e non all’attualità del rapporto di appalto, al quale esso sopravvive. Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18406 In materia di obbligazione solidale, ciascun debitore può agire in regresso nei confronti dell’altro a condizione che l’importo azionato non ecceda la parte di pertinenza del condebitore nei confronti del quale l’azione viene esercitata. Ne consegue che, ove tale limite venga rispettato, l’azione di regresso può essere esercitata anche congiuntamente da più debitori che abbiano pagato l’intero debito, senza che il convenuto possa opporre che uno di costoro ha pagato meno di quanto dovuto, poiché la ripartizione della somma cumulativamente azionata attiene ai rapporti interni tra condebitori. RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DEL DEBITORE E MEZZI DI CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE Cass. civ., sez. I, 4 settembre 2009, n. 19234 Nell’azione revocatoria ordinaria il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore consiste nella insufficienza dei beni del debitore ad offrire la garanzia patrimoniale, essendo irrilevante una mera diminuzione di detta garanzia. È invece rilevante ogni aggravamento della già esistente insufficienza dei beni del debitore ad assicurare la garanzia patrimoniale (principio affermato dalla S.C. con riguardo alla costituzione in pegno, da parte di una società già in crisi, delle quote di partecipazione in altra società, a garanzia di preesistenti debiti del gruppo verso il creditore, con conseguente vincolo di indisponibilità pressoché definitivo di parte determinante dell’attivo e contributo causale al proprio fallimento). Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18528 I contratti definitivi stipulati in esecuzione di un contratto preliminare sono soggetti a revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c. allorquando venga provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto: tale prova può essere data nel giudizio introdotto con la domanda revocatoria del contratto definitivo indipendentemente da un’apposita domanda diretta nei confronti del contratto preliminare per sentirne dichiarare l’inefficacia. CONTRATTO IN GENERALE Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2009, n. 19104 In materia contrattuale, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e corretta motivazione, lo stabilire se una determinata clausola contrattuale sia 322 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali soltanto di stile ovvero costituisca espressione di una concreta volontà negoziale con efficacia normativa del rapporto. Tuttavia, sia per il principio di conservazione delle clausole contrattuali, sia perché rispondente all’interesse dell’acquirente di un immobile a non esser limitato nella disponibilità e nel godimento del medesimo, non può ritenersi generica ed indeterminata, e pertanto di stile, senza ulteriori argomenti al riguardo, la clausola secondo la quale l’alienante garantisce la libertà del bene da ipoteche, pesi e trascrizioni pregiudizievoli, ancorché essa sia sintetica e onnicomprensiva. Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20106 I principi della buona fede oggettiva e dell’abuso del diritto debbono essere intesi e rivisitati alla luce dei principi costituzionali e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi. In questa prospettiva, i due principii si integrano a vicenda: la buona fede costituisce un canone generale cui debbono conformarsi la condotta delle parti di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata, mentre il divieto dell’abuso del diritto costituisce l’espressione della necessità di rispettare la correlazione necessariamente esistente tra il potere del quale un soggetto di diritto privato sia titolare (ex lege o ex contractu) e lo scopo in vista del quale tale potere gli viene conferito. Qualora la finalità di fatto perseguita non sia quella consentita dall’ordinamento, ricorre un abuso: il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto rende abusivo l’esercizio che il titolare del diritto medesimo ne abbia fatto. Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20106 L’esercizio del potere – conferito ad una delle parti di un rapporto contrattuale (nel caso di specie, una concessione di vendita) da un’apposita clausola del regolamento negoziale – di recedere ad nutum dal contratto deve avvenire nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza: qualora infatti tale potere venga esercitato in modo non conforme a tali principi, la controparte ha il diritto al risarcimento dei danni che ne siano derivati. Spetta al giudice valutare se il contraente si sia avvalso del potere di recedere ad nutum dal contratto con modalità ed in circostanze tali da indurre a riconoscere (o ad escludere) che egli abbia abusato del suo diritto: la relativa valutazione deve essere particolarmente rigorosa nelle ipotesi caratterizzate da una provata disparità di forze fra i contraenti (nella specie, il giudice d’appello aveva respinto l’azione risarcitoria esperita da alcuni concessionari nei confronti della società concedente – una società produttrice di automobili – per avere quest’ultima sciolto unilateralmente i relativi rapporti contrattuali con un atto di recesso ad nutum compiuto nell’esercizio del potere conferito da una clausola del contratto di concessione di vendita. La S.C. ha cassato la sentenza rilevando che i giudici del merito erano caduti in errore laddove avevano affermato che l’esercizio del potere di recesso attribuito dal contratto non avrebbe potuto essere sottoposto ad un controllo di ragionevolezza da parte dell’autorità giudiziaria). Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20245 In materia contrattuale, affinché sia configurabile la fattispecie della c.d. « presupposizione » (o condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l’esistenza di una situazione di fatto – considerata ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo – quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venir meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti stesse. Il relativo accertamento, esaurendosi sul piano propriamente interpretativo del contratto, costituisce una valutazione di fatto, riservata, come tale, al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici o giuridici. Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20107 Il rappresentato che agisca in giudizio ai fini della declaratoria della simulazione del negozio compiuto dal rappresentante, essendo terzo rispetto al contratto, può fornire la prova della simulazione “senza limiti”, ai sensi dell’art. 1417 c.c., e, pertanto, sia a mezzo di testimoni che di presunzioni, non dovendo fornire la prova della sua partecipazione all’accordo simulatorio. Cass. civ., sez. II, 10 settembre 2009, n. 19559 In materia di annullamento del contratto per dolo, le dichiarazioni precontrattuali con le quali una parte cerchi di rappresentare la realtà nel modo più favorevole ai propri interessi non integrano gli estremi del dolus malus quando, nel contesto dato, non sia ragionevole supporre che l’altra parte possa aver attribuito a quelle dichiarazioni un peso particolare, considerato il modesto livello di attendibilità che, in una determinata situazione di tempo, di luogo e di persone, è da presumere che possa essere riconosciuta a certe affermazioni consuete negli schemi dialettici di una trattativa (sempre che ad esse non si accompagni la predisposizione di ulteriori artifici o raggiri, idonei a travisare la realtà cui quelle affermazioni si riferiscono). Valutare se, in concreto, ricorra un’ipotesi di dolus malus ovvero di dolus bonus è compito precipuo del giudice di merito. Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18540 Sebbene sia consentito al giudice rilevare d’ufficio la nullità del contratto anche quando ne sia stata domandata la risoluzione per inadempimento, tale rilievo resta precluso quando sulla questione della validità del contratto si sia formato il giudicato, anche implicito. Quest’ultimo, a sua volta, si forma in tutti i casi in cui il giudice di primo grado, accogliendo la domanda di risoluzione, abbia per ciò solo dimostrato di ritenere valido il contratto, e le parti in sede di appello non abbiano mosso alcuna censura inerente la validità del contratto. Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2009, n. 20948 323 La nullità parziale non si estende all’intero contenuto Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 della disciplina negoziale se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto emerge dall’attività ermeneutica svolta dal giudice; per converso, l’estensione all’intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce una eccezione che deve essere provata dalla parte interessata. Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18515 L’azione di risoluzione del contratto per inadempimento e la relativa azione risarcitoria hanno differenti presupposti applicativi, perché la prima esige che l’inadempimento di una delle parti non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra, mentre l’azione risarcitoria presuppone che l’inesatta esecuzione della prestazione abbia prodotto al creditore un danno. l’ipotesi di termini differenziati di adempimento, e poiché l’esercizio della facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, a fronte del grave inadempimento della controparte, non è subordinato ad alcuna condizione (e in particolare non postula che il creditore abbia previamente intimato una diffida o contestato, ancorché solo genericamente, l’inadempimento della controparte), l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. può ben essere dedotta per la prima volta in sede giudiziale, anche non era stata sollevata in precedenza per rifiutare motivatamente l’adempimento chiesto ex adverso. CONTRATTI DELLA P.A. IN GENERALE Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20672 Cass. civ., sez. II, 10 settembre 2009, n. 19559 In materia di risoluzione del contratto per inadempimento, la disposizione dell’art. 1453, comma 2, c.c. – secondo cui non può più chiedersi l’adempimento una volta domandata la risoluzione – comporta la cristallizzazione definitiva delle posizioni delle parti sino alla pronuncia giudiziale, sicché il giudice dovrà accertare l’esistenza di un inadempimento imputabile al debitore soltanto con riguardo alle prestazioni già scadute e non anche con riferimento a quelle ancora da scadere. Ne consegue che, proposta, da parte dell’alienante, domanda di risoluzione di un contratto di compravendita per inadempimento dell’acquirente, a quest’ultimo è precluso l’adempimento solo se è già inadempiente al momento della domanda, mentre non vi sono ostacoli all’esecuzione della prestazione che non sia ancora scaduta a tale data. Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2009, n. 20614 Nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche è necessario far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambo le parti, al fine di stabilire quale di esse – in relazione ai rispettivi interessi ed all’oggettiva entità degli inadempimenti – si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti, perché l’inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell’altra parte (nella specie, la S.C. ha confermato, sul punto, la sentenza di merito che – in relazione alla mancata stipula di un contratto definitivo di compravendita di un immobile – aveva ritenuto che la nullità dell’atto di provenienza in capo alla promittente venditrice avesse un’incidenza talmente decisiva e preponderante da rendere irrilevante il ritardo addebitabile alla controparte). Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2009, n. 20614 Poiché l’art. 1460 c.c. non pone alcuna limitazione temporale o modale all’esperibilità dell’eccezione, salva In materia di contratti con la P.A., il titolare di un patto di prelazione riconosciuto da un ente pubblico con riferimento a futuri contratti relativi allo stesso servizio non ha l’onere di partecipare alla gara, potendo all’esito legittimamente divenire aggiudicatario del servizio allo stesso prezzo di quello risultante dalla migliore offerta presentata dai concorrenti. Ne consegue che l’omesso inserimento della clausola di prelazione tra le condizioni di gara integra gli estremi dell’inadempimento e consente al titolare del diritto di agire per il risarcimento del danno. CONTRATTO PRELIMINARE Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2009, n. 19097 Il promissario acquirente di un immobile, garantito libero da ipoteche, ma, in realtà, da esse gravato, ha la facoltà, non l’obbligo – ai sensi dell’art. 1482, comma 1, c.c., applicabile al contratto preliminare – di chiedere al giudice la fissazione di un termine per la liberazione dal vincolo da parte del promittente venditore; se però ha chiesto la risoluzione del preliminare, per effetto dell’art. 1453, comma 2, c.c., il promittente venditore non può attivarsi per ottenere la cancellazione della garanzia. Inoltre, il promissario acquirente può sospendere il pagamento delle rate di prezzo pattuite, ai sensi dell’art. 1482 c.c., comma 1, c.c. Cass. civ., sez. II, 10 settembre 2009, n. 19557 Il contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (ovvero un contratto preliminare di preliminare) è nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l’interesse di obbligarsi ad obbligarsi, in quanto produttivo di una inutile complicazione. Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20258 In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi dell’art. 40 della l. 28 febbraio 1985, n. 47, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 c.c. non solo qualora l’immobile sia stato costruito senza 324 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali licenza o concessione edilizia (e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione), ma anche quando l’immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria. Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità non annullati né revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna preclusione all’emanazione della sentenza costitutiva, perché il corrispondente negozio di trasferimento non sarebbe nullo ed è, pertanto, illegittimo il rifiuto del promittente acquirente (nella specie, a sua volta acquirente dello stesso immobile in base a precedente rogito notarile – di dare corso alla stipulazione del definitivo, sollecitata dal promittente acquirente. COMPRAVENDITA E PERMUTA Cass. civ., sez. II, 22 settembre 2009, n. 20414 In tema di negozi traslativi di fabbricati rurali, le disposizioni dettate dall’art. 40 della legge n. 47 del 1985 trovano applicazione anche per il trasferimento di beni immobili ubicati in zone agricole che siano destinati ad uso residenziale (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabile l’art. 18 della legge n. 47 del 1985, piuttosto che l’art. 40 della medesima legge, omettendo di considerare che la destinazione del fabbricato ad uso di abitazione escludeva di per sé la pertinenzialità di quest’ultima rispetto al fondo agricolo e che risultava irrilevante il dato formale della mancanza di accatastamento urbano). Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2009, n. 19099 La parte che deduca, con riferimento ad una determinata vendita, la ricorrenza di un prezzo inferiore a quello effettivo, deve agire in giudizio per far valere la simulazione relativa, nella quale si traduce il negotium mixtum cum donatione, e non il mancato pagamento dell’intero prezzo, che integra gli estremi di una simulazione assoluta. Ne consegue che, proposta in primo grado la domanda di simulazione assoluta, è inammissibile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., la domanda, proposta in appello, tesa ad accertare che il medesimo contratto di compravendita integrava gli estremi di un negotium mixtum cum donatione. DONAZIONE to, attraverso la utilizzazione della compravendita, si realizza il fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo. Pertanto, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato: l’art. 809 c.c., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c. c., non richiama infatti l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione. LOCAZIONE Cass. civ., sez. III, 31 agosto 2009, n. 18899 La corresponsione dell’indennità di avviamento di cui all’art. 34 della legge n. 392 del 1978, costituisce una condizione di procedibilità dell’azione esecutiva di rilascio di immobile adibito ad uso diverso e, pertanto, l’avvenuta offerta di tale indennità rende procedibile l’esecuzione del provvedimento di rilascio. Ne consegue che il ritiro da parte del locatore, successivamente all’esecuzione coattiva del rilascio dell’immobile, della somma offerta, rifiutata dal conduttore e depositata a disposizione di questi, non è idoneo a rendere insussistente la pretesa esecutiva al momento della proposizione dell’opposizione all’esecuzione. Cass. civ., sez. III, 2 settembre 2009, n. 19083 Nelle locazioni di immobili urbani adibiti ad attività commerciale, l’obbligazione incombente sul conduttore di rilasciare l’immobile alla scadenza e l’obbligazione gravante sul locatore di corrispondergli l’indennità di avviamento commerciale sono legate da un rapporto di reciproca dipendenza, tanto che ciascuna delle prestazioni non è esigibile in mancanza dell’adempimento, o dell’offerta di adempimento dell’altra (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto desumibile dalla proposizione della domanda riconvenzionale di pagamento dell’indennità di avviamento l’implicita formulazione della relativa eccezione di inadempimento). Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20671 In tema di prelazione urbana, ai sensi dell’art. 38 della l. 27 luglio 1978, n. 392, la completezza delle indicazioni contenute nella denuntiatio è prescritta dalla legge come requisito essenziale ai fini dell’apprezzamento in ordine alla convenienza dell’acquisto dell’immobile locato, la cui valutazione spetta esclusivamente al conduttore e non anche al giudice, il quale deve limitarsi a verificare la coincidenza di tali indicazioni con quanto contenuto nel contratto di vendita a terzi. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20671 Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2009, n. 19099 In tema di atti di liberalità, il negotium mixtum cum donatione costituisce una donazione indiretta in quan- In tema di prelazione di immobili locati ad uso diverso da quello abitativo, la comunicazione della volontà di trasferire il bene a titolo oneroso (onere gra- 325 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 vante sul locatore nei confronti del conduttore, ex art. 38, legge n. 392 del 1978) non ha natura di proposta contrattuale (ovvero di mera informativa di un generico intento di avviare trattative negoziali), ma riveste carattere di atto formale di interpello vincolato nella forma e nel contenuto, sicché la corrispondente dichiarazione del conduttore di esercizio della prelazione non costituisce l’accettazione di una precedente proposta e non comporta l’immediato acquisto dell’immobile, determinando invece la nascita dell’obbligo, a carico di entrambe le parti, di addivenire, entro un preciso termine, alla stipula del negozio di alienazione con contestuale pagamento del prezzo indicato dal locatore. Ne consegue, da un canto, che la ricordata comunicazione deve necessariamente provenire dal proprietario dell’immobile, e, dall’altro, che ogni possibilità di libera trattativa tra le parti deve essere incondizionatamente esclusa, essendo interdetta al conduttore ogni facoltà di incidere sul contenuto del contratto già predeterminato dal proprietario, pena la declaratoria di invalidità della prelazione. APPALTO E CONTRATTO D’OPERA noscenza in data anteriore (nella fattispecie, relativa alla costruzione di un immobile, la S.C. in accoglimento del ricorso, ha ritenuto che, trattandosi di vizi consistenti nell’imperfetta esecuzione delle fondamenta, il termine di prescrizione dovesse farsi decorrere non dalla consegna dell’opera, bensì da quando – successivamente – venne depositata nella procedura di accertamento tecnico preventivo la relazione del consulente di ufficio, essendo in tal modo i committenti venuti a conoscenza dell’esistenza dei vizi). Cass. civ., sez. I, 4 settembre 2009, n. 19216 In tema di appalto, la decadenza del committente dalla garanzia per i vizi dell’opera non costituisce un motivo d’improcedibilità della relativa azione ma involge una pronuncia di merito, in quanto tende al rigetto della domanda per l’inesistenza attuale di una condizione dell’azione, cioè del diritto di garanzia, estinto per l’inutile decorso del tempo prescritto per il suo esercizio. L’istanza di rigetto della domanda attrice, formulata nelle conclusioni, comprende quindi – tra le altre ragioni determinanti una pronuncia favorevole al convenuto – anche la suddetta eccezione, sollevata in comparsa di risposta. Cass. civ., sez. I, 10 settembre 2009, n. 19560 Il riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera e l’assunzione dell’impegno ad eliminarli da parte dell’appaltatore non soltanto implicano l’accettazione delle contestazioni e la rinuncia a far valere l’esonero dalla garanzia previsto dall’art. 1667 c.c., ma determinano altresì – senza che si renda a tal fine necessaria alcuna accettazione formale della controparte – l’insorgenza in capo all’appaltatore di una nuova obbligazione, sempre di garanzia, diversa ed autonoma rispetto a quella originaria, cui corrisponde il diritto del committente di agire per i vizi ormai ex adverso riconosciuti, diritto svincolato dal termine decadenziale e soggetto al solo termine prescrizionale ordinario. Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18402 La piena consapevolezza da parte dell’appaltatore dell’esistenza di vizi nell’opera appaltata e del loro carattere occulto agli occhi del committente, unitamente ad un comportamento reticente e di mala fede nei confronti di quest’ultimo, è da ritenersi equivalente al doloso occultamento, quale circostanza idonea ad esonerare il committente medesimo dall’obbligo della denuncia dei vizi, ai sensi dell’art. 1667, comma 2, c.c. Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18402 In tema di appalto, qualora l’opera appaltata sia affetta da vizi occulti o non conoscibili, perché non apparenti all’esterno, il termine di prescrizione dell’azione di garanzia, ai sensi dell’art. 1667, comma 3, c.c., decorre dalla scoperta dei vizi, la quale è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi, essendo onere dell’appaltatore, se mai, dimostrare che il committente ne fosse a co- CONTRATTO D’OPERA PROFESSIONALE Cass. civ., sez. I, 23 settembre 2009, n. 20444 La clausola contrattuale con la quale l’insorgenza del diritto al compenso in capo al professionista incaricato di predisporre il progetto di un’opera viene condizionato all’ottenimento del finanziamento per l’opera progettata non è configurabile come condizione meramente potestativa, come tale nulla, atteso che, se è vero che il verificarsi di essa dipende dalla volontà e dall’attività di una sola delle parti, è anche vero che tale accadimento non è indifferente per la parte in questione, alla stregua di un mero si voluero, non potendosi dubitare della piena funzionalità della pattuizione ad uno specifico interesse dedotto come tale nel contratto e perciò oggetto del medesimo. Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20101 In àmbito sanitario, il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176, comma 2, c.c. e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale. Cass. civ., sez. I, 11 agosto 2009, n. 18223 In materia di compensi per prestazioni professionali degli ingegneri ed architetti, l’art. 4, comma 12bis, del d.l. 2 marzo 1989, n. 65 (introdotto dalla l. di conversione n. 155 del 1989) – il quale prevede, per le prestazioni rese allo Stato o ad altri enti pubblici per la 326 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali realizzazione di opere pubbliche il cui onere è a carico dello Stato, la possibilità di concordare una riduzione dei minimi tariffari non superiore al venti per cento – non comporta, in mancanza di una esplicita previsione in tal senso, la nullità del patto derogatorio degli anzidetti minimi tariffari, e tantomeno l’obbligo dell’Amministrazione committente di liquidare al professionista il maggiore compenso richiesto in base alle proprie parcelle, sulla scorta del pareri di congruità emessi dall’Ordine professionale. Infatti, in linea con l’evoluzione normativa, interna e comunitaria, in materia di compensi professionali, deve ritenersi che la previsione di minimi tariffari non si traduca in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, atteso che essa risponde all’interesse del decoro e della dignità delle singole categorie professionali e non a quello generale dell’intera collettività, che è il solo idoneo ad attribuire carattere di imperatività al precetto con la conseguente sanzione della nullità delle convenzioni comunque ad esso contrarie. Cass. civ., sez. II, 7 settembre 2009, n. 19292 Ai sensi dell’art. 16 del r.d. 11 febbraio 1929, n. 274, i geometri non sono abilitati a redigere « progetti di massima » riguardanti costruzioni richiedenti l’impiego di strutture in cemento armato, salve le ipotesi eccezionalmente consentite dalla suddetta norma. Né l’eventuale intervento nella fase esecutiva o di direzione dei lavori di un professionista appartenente ad una categoria a ciò abilitata è idoneo a sanare la nullità, per violazione di norme imperative, del contratto d’opera professionale di progettazione. MANDATO Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2009, n. 18107 La banca destinataria di un ordine di pagamento impartito da altro istituto bancario su un conto corrente acceso presso di essa è responsabile, nell’esecuzione dell’incarico, secondo la disciplina del mandato. Essa non può, pertanto, discostarsi dalle istruzioni ricevute dalla banca mandante, con la conseguenza che l’atto giuridico posto in essere oltre i limiti del mandato resta a suo carico, a norma dell’art. 1711, comma 1, c.c. Né assume rilievo una eventuale verifica della conformità di tale atto agli interessi perseguiti dalla banca mandante, qualora si tratti di un mandato rigido e specifico, posto che in tal caso l’atto compiuto in difformità da dette istruzioni non corrisponde alla volontà espressa dal mandante (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva affermato la responsabilità della banca mandataria, in quanto la stessa si era discostata dalle istruzioni ricevute, effettuando il pagamento, su indicazione dell’amministratore della società destinataria del medesimo, su un conto corrente acceso presso altro istituto bancario, senza avvertire la banca mandante delle difficoltà insorte in sede di esecuzione del bonifico e senza che sussistessero ragioni di urgenza che, ai sensi dell’art. 1171, comma 2, c.c., avrebbero potuto giustificare lo scostamento dalle istruzioni ricevute). MEDIAZIONE Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18515 La condanna del mediatore al risarcimento del danno nei confronti di una delle parti per inadempimento del proprio dovere di informazione non implica automaticamente che il contratto debba essere risolto e che il mediatore perda il diritto alla provvigione (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che – dopo aver condannato il mediatore al risarcimento del danno nei confronti del cliente per non averlo informato dell’esistenza di una locazione ultranovennale, regolarmente trascritta, sull’immobile che questi aveva poi acquistato – aveva nel contempo stabilito che al mediatore spettasse il pagamento della provvigione, poiché l’avvenuta conclusione del contratto dimostrava la scarsa importanza dell’inadempimento). Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18514 Il rapporto che si instaura tra chi mette in contatto due o più parti per la conclusione di un affare senza essere legato da vincoli di rappresentanza, collaborazione o dipendenza, ha natura contrattuale, mentre la conclusione dell’affare costituisce soltanto la condicio iuris idonea a far sorgere il diritto alla provvigione. Ne consegue che la mediazione, configurandosi come un contratto, se viene stipulata con un ente pubblico – ancorché questo agisca iure privatorum – richiede la forma scritta ad substantiam, con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato, per mancanza della forma scritta, la richiesta di provvigione avanzata da un mediatore nei confronti dell’Ente nazionale di previdenza e assistenza dei medici, in relazione ad un’attività svolta prima che tale ente venisse privatizzato). MUTUO Cass. civ., sez. III, 28 settembre 2009, n. 20740 L’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è, ai sensi dell’art. 2697, comma 1, c.c., tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda, e quindi non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione. L’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale di per sè a fondare una richiesta di restituzione allorquando l’accipiens – ammessane la ricezione – non confermi altresì il titolo posto dalla controparte a fondamento della propria 327 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 pretesa ma ne contesti anzi la legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma ne deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e come tale determinare l’inversione dell’onere della prova. CONTRATTI BANCARI gisl. n. 58 del 1998, che pone a carico dei soggetti abilitati all’esercizio dell’attività di intermediazione mobiliare « l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta », riguarda esclusivamente i giudizi di risarcimento del danno e non trova pertanto applicazione nel giudizio avente ad oggetto la ripetizione dell’indebito promosso nei confronti di un istituto bancario dal titolare di un conto corrente e di un contratto di custodia di titoli. Cass. civ., sez. I, 4 settembre 2009, n. 19226 Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2009, n. 18234 In tema di azione revocatoria fallimentare, le rimesse effettuate dal terzo garante sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili ai sensi dell’art. 67, comma 2, l. fall., quando risulti che con esse il terzo, utilizzando mezzi propri e senza rivalersi nei confronti del debitore prima del fallimento, non ha posto la somma nella disponibilità giuridica e materiale del debitore ma si è limitato ad adempiere l’obbligazione di garanzia nei confronti della banca creditrice. Pertanto, nel caso in cui il terzo dia ordine alla banca di vendere titoli di Stato da lui costituiti in pegno a garanzia delle obbligazioni assunte dal fallito e di accreditare il relativo controvalore sul conto corrente del debitore, l’operazione realizza una mera annotazione contabile, cioè un atto neutro rispetto al conto corrente, che riduce l’esposizione passiva senza avere, ai fini predetti, natura solutoria con riguardo al patrimonio del fallito, non acquisendo quest’ultimo la disponibilità economica e giuridica della somma stessa. Ai fini dell’applicazione della legge n. 1 del 1991, recante la disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare, rientrano nella categoria degli «strumenti finanziari collegati alla valuta» i contratti costituenti strumenti finanziari derivati il cui valore non deriva dalla sola valuta ma da vari elementi, le cui fluttuazioni di mercato rappresentano il dato fondamentale ed imprescindibile del contratto, ciò giustificando il maggior rigore e i più penetranti vincoli e garanzie richieste dalla citata legge (nella fattispecie, la S.C., nel rigettare il ricorso avverso la sentenza che aveva dichiarato la nullità delle stipulate negoziazioni di valute per la mancata preventiva sottoscrizione del contratto quadro di cui all’art. 6 della legge n. 1 del 1991, ha affermato che la valutazione circa la sussistenza di strumenti finanziari collegati a valute spetta al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e non illogica). CONTRATTI ATIPICI Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2009, n. 20948 In tema di contratto bancario per il servizio delle cassette di sicurezza, la clausola negoziale che limiti il risarcimento del danno da parte della banca (nella specie, per furto) al valore massimo dei beni introdotti nella cassetta, ancorché tale valore sia ragguagliato a vari livelli di canone, senza tuttavia che sia evidenziato preventivamente il divieto per il cliente di custodirvi valori eccedenti il pattuito, non delimita l’oggetto del contratto – con il quale la banca non assume l’obbligo della custodia e della garanzia delle cose contenute nella cassetta, bensì quello di fornire locali idonei, di custodirli e di garantire l’integrità della cassetta – ma integra un patto di esonero di responsabilità, il quale è nullo, ai sensi dell’art. 1229, comma 1, c.c., nell’ipotesi in cui il danno derivi da colpa grave della banca, senza che tale clausola possa influire sulla limitazione quantitativa del danno risarcibile sotto il profilo della prevedibilità del danno stesso (art. 1225 c.c.). SERVIZI DI INVESTIMENTO E STRUMENTI FINANZIARI Cass. civ., sez. I, 6 agosto 2009, n. 17996 La previsione di cui all’art. 23, comma 6, del d. le- Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18419 Il contratto atipico di ormeggio in un porto turistico con obbligo di custodia, assimilabile al contratto di deposito, comporta, salvo patto contrario, l’obbligo dell’ormeggiatore di custodire non solo il natante, ma anche le relative pertinenze (tra le quali rientra l’eventuale motore fuoribordo sullo stesso installato, oggetto di furto nella fattispecie), oltre al correlato obbligo di restituirli, alla scadenza, nello stato in cui erano stati consegnati. Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2009, n. 20623 L’accordo preliminare diretto alla cessione di cubatura – con cui una parte (proprietario cedente) si impegna a prestare il proprio consenso affinché la cubatura o parte di essa che, in base agli strumenti urbanistici, gli compete venga attribuita dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario) compreso nella medesima zona urbanistica – non richiede la forma scritta ad substantiam, dovendosene escludere la natura di contratto traslativo di un diritto reale. Ne consegue che, per ricostruire la comune volontà delle parti in relazione all’individuazione del fondo del cessionario, destinatario dell’aumento di volumetria, può farsi riferimento al comportamento complessivo dei contraenti in sede esecutiva, 328 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali successivamente alla stipulazione dell’accordo (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, nel riconoscere la sussistenza del requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto, aveva dato rilievo alla intervenuta presentazione alla P.A., da parte del cedente, di un atto unilaterale di asservimento e di vincolo, contenente gli estremi identificativi del terreno del vicino, mancanti nel documento iniziale recante l’accordo preliminare, ed aveva ritenuto che il cessionario, con il successivo pagamento della concordata rata del prezzo, avesse prestato adesione, per facta concludentia, a tale individuazione). Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2009, n. 20623 Nella cessione di cubatura si è in presenza di una fattispecie a formazione progressiva in cui confluiscono, sul piano dei presupposti, dichiarazioni private nel contesto di un procedimento di carattere amministrativo. A determinare il trasferimento di cubatura, tra le parti e nei confronti dei terzi, è esclusivamente il provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia del cedente, può essere emanato dall’ente pubblico a favore del cessionario, non essendo configurabile tra le parti un contratto traslativo. Ne consegue che, qualora il cedente, con la stipulazione dell’atto unilaterale di vincolo avente come destinatario immediato la P.A., si sia prestato al compimento di tutti gli atti necessari per far ottenere al cessionario la concessione per una volumetria maggiore, il mancato rilascio della concessione edilizia maggiorata determina l’inefficacia del negozio concluso dai proprietari dei fondi limitrofi e non già la sua risoluzione per inadempimento del cedente. quest’ultimo le avesse conferito un mandato in tal senso, configurandosi come un pagamento non dovuto (in quanto il terzo che lo riceve non è creditore di chi lo effettua) è qualificabile come indebito soggettivo ex latere accipientis, al quale si applica la disciplina dell’indebito oggettivo, non assumendo alcun rilievo la circostanza che l’accipiens fosse effettivamente creditore della somma incassata, in quanto la fattispecie, dovendo essere riguardata dal punto di vista del solvens, che non è debitore a nessun titolo né nei confronti dell’accipiens né nei confronti di altri, non si differenzia dalla fattispecie del pagamento di un debito scaturente da un titolo inesistente o nullo. INGIUSTIFICATO ARRICCHIMENTO Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2009, n. 18099 Ai fini dell’esercizio dell’azione generale di arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 c. c., è richiesta la dimostrazione che il soggetto beneficiario non ha alcun titolo giuridico valido ed efficace per giovarsi di quanto corrisponde al depauperamento subito dall’istante. Tale presupposto non sussiste quando l’attribuzione patrimoniale abbia avuto luogo in virtù di una disposizione di legge o di impegni unilaterali assunti dal soggetto depauperato (principio enunciato in una fattispecie nella quale un privato aveva assunto nei confronti di un Comune, ai sensi dell’art. 10, comma 5, della legge n. 765 del 1967, l’impegno di effettuare le opere di urbanizzazione al fine di ottenere un più rapido rilascio della licenza edilizia e, comunque, vantaggi indiretti nella realizzazione delle opere). TITOLI DI CREDITO RESPONSABILITÀ CIVILE FATTISPECIE DI ILLECITO Cass. civ., sez. I, 6 agosto 2009, n. 17994 In tema di assegno bancario, il dies a quo per l’elevazione del protesto va calcolato con decorrenza dal giorno indicato nell’assegno quale data di emissione, ai sensi dell’art. 32 del r.d. n. 1736 del 1933, non rilevando il fatto che l’art. 31 di detto decreto preveda l’esigibilità dell’assegno dal giorno della presentazione all’incasso, anche se precedente a quella indicata nell’assegno. Tale interpretazione risponde ad esigenze di certezza dei rapporti giuridici, atteso che frequentemente l’istituto bancario pagatore e, conseguentemente, il notaio che leva il protesto non conoscono il momento della presentazione all’incasso dell’assegno, anteriore o posteriore alla data del titolo. PAGAMENTO DELL’INDEBITO Cass. civ., sez. I, 11 settembre 2009, n. 19703 Il pagamento estintivo di un debito risultante da una ricevuta bancaria, effettuato da una banca per conto di un cliente sull’erroneo presupposto che Cass. civ., sez. III, 28 agosto 2009, n. 18799 La legittima difesa di cui all’art. 2044 c.c., idonea ad escludere la responsabilità per fatto illecito, esige il concorso di due elementi: la necessità di difendere un diritto proprio od altrui dal pericolo attuale d’una offesa ingiusta e la proporzione tra l’offesa e la difesa. Tali elementi debbono ritenersi sussistenti nel caso in cui il creditore impedisca di fatto al debitore, minacciando azioni giudiziarie, la dispersione dei propri beni mobili attraverso l’alienazione a terzi (in applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la sentenza di merito, la quale non aveva ravvisato alcuna responsabilità civile nella condotta del creditore che, dopo avere ottenuto un sequestro conservativo su capi di bestiame del debitore, ma prima che questo potesse essere eseguito, aveva impedito che i beni sequestrati fossero consegnati ad un terzo acquirente, minacciando azioni giudiziarie). Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2009, n. 18188 329 Il proprietario di un immobile concesso in loca- Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 zione non può essere chiamato a rispondere, ex art. 2051 c.c., dei danni a terzi causati da macchinari utilizzati dal conduttore, quando non abbia avuto alcuna possibilità concreta di controllo sull’uso di essi, non potendo detta responsabilità sorgere per il solo fatto che il proprietario medesimo ometta di rivolgere al conduttore formale diffida ad adottare gli interventi del caso al fine di impedire il verificarsi di danni a terzi, giacché essi costituirebbero atti inidonei ad incidere sul funzionamento della cosa dannosa (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione la quale aveva affermato la responsabilità del proprietario di un immobile adibito ad officina, per i danni causati a terzi dall’impianto di espulsione dei gas utilizzato dal conduttore e gestore dell’officina stessa). Cass. civ., sez. I, 11 settembre 2009, n. 19690 L’annullamento in sede giurisdizionale della deliberazione con cui una u.s.l. abbia illegittimamente conferito ad un professionista l’incarico di sostituire in via temporanea un medico convenzionato deceduto non fa sorgere l’obbligo di risarcire i danni subiti dagli altri medici convenzionati per non aver potuto effettuare prestazioni in favore degli assistiti, sussistendo un interesse di mero fatto alla sostituzione del professionista deceduto, in quanto dalla convenzione deriva esclusivamente il diritto ad essere scelto dai pazienti nella zona assegnata, in base ad una manifestazione di volontà assolutamente libera ed incoercibile perché fondata su un’adesione fiduciaria intuitu personae. Né è configurabile un illecito extracontrattuale lesivo di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo, in quanto il pregiudizio lamentato ha carattere meramente indiretto, derivando dalla concorrenza di un professionista in più, senza che in alcun modo venga pregiudicata l’autonomia discrezionale dei pazienti nella scelta del medico di fiducia. Cass. civ., sez. III, 28 settembre 2009, n. 20743 In materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo subito da uno studente all’interno della struttura scolastica durante le ore di educazione fisica, ai fini della configurabilità di una responsabilità a carico della scuola ex art. 2048 c.c. non è sufficiente il solo fatto di aver incluso nel programma della suddetta disciplina e fatto svolgere tra gli studenti una gara sportiva, essendo altresì necessario che il danno sia conseguenza del fatto illecito di un altro studente impegnato nella gara e che, inoltre, la scuola non abbia predisposto tutte le misure idonee a evitare il fatto (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva escluso la responsabilità della scuola rispetto all’infortunio patito da un allievo nel corso di una partita di calcio, durante la quale si era ferito al volto a causa di uno scontro di gioco). Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2009, n. 20949 Il pedone che si accinga ad attraversare la strada sulle strisce pedonali non è tenuto, alla stregua dell’ordina- ria diligenza, a verificare se i conducenti in transito mostrino o meno l’intenzione di rallentare e lasciarlo attraversare, potendo egli fare ragionevole affidamento sugli obblighi di cautela gravanti sui conducenti. Ne consegue che la mera circostanza che il pedone abbia attraversato la strada, sulle strisce pedonali, frettolosamente e senza guardare non costituisce da sola presupposto per l’applicabilità dell’art. 1227, comma 1, c.c., occorrendo invece a tal fine che la condotta del pedone sia stata del tutto straordinaria ed imprevedibile. Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2009, n. 18544 L’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227, comma 1, c.c., non concretando un’eccezione in senso proprio ma una semplice difesa, dev’essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza della colpa del danneggiato e sulla quantificazione dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20684 La vittima di un fatto illecito ha l’obbligo giuridico di attivarsi, in adempimento del dovere di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., per ridurne od eliderne le conseguenze dannose e tale obbligo sussiste anche quando l’attività necessaria per ridurre le conseguenze del danno possa portare all’eliminazione della prova di esso, venendo meno soltanto dinanzi ad attività gravose, eccezionali o che comportano notevoli rischi. Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18401 Se un veicolo a motore non soggetto all’obbligo di assicurazione della responsabilità civile viene modificato illegittimamente, e la trasformazione ne determini l’inclusione in altra categoria di mezzi per il quale sia invece prescritto tale obbligo, del sinistro causato da tale veicolo deve rispondere, ai fini risarcitori nei confronti dei terzi, l’impresa designata per conto del Fondo di garanzia per le vittime della strada, dovendosi tale sinistro ritenere determinato da veicolo non coperto da assicurazione, ai sensi dell’art. 19 della l. 24 dicembre 1969, n. 990 (fattispecie relativa a sinistro avvenuto prima dell’introduzione dell’obbligo assicurativo per i ciclomotori, e causato da un ciclomotore la cui cilindrata era stata illegittimamente aumentata). Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18401 In caso di sinistro causato da veicolo non coperto da assicurazione non vi è solidarietà passiva tra il Fondo di garanzia per le vittime della strada ed il responsabile del danno, perché l’obbligazione del primo ha natura risarcitoria e non indennitaria, ed è sostitutiva di quella del responsabile; ne consegue che la prescrizione dell’azione nei confronti del danneggiante non è interrotta dagli atti interruttivi validamente compiuti dal danneggiato nei confronti del suddetto Fondo. 330 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali RESPONSABILITÀ CIVILE L’OBBLIGAZIONE RISARCITORIA Cass. civ., sez. lav., 30 settembre 2009, n. 20980 In caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l’asserito demansionamento, ferma la necessità di evitare, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale. (nella specie, la S.C. ha cassato, in parte qua, la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto risarcibile ex se, anche sotto il profilo non patrimoniale, il danno da demansionamento lamentato dal lavoratore, il quale da compiti operativi di responsabilità era stato relegato, per un lungo periodo, all’assolvimento di compiti di studio e consulenza con perdita di potere decisionale). Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2009, n. 20949 In tema di danno non patrimoniale per la morte di un prossimo congiunto, la circostanza che il giudice di merito abbia liquidato agli aventi diritto una somma unitaria definita « danno morale » non può ritenersi decisione di per sé erronea, in tutti i casi in cui risulti dalla motivazione del provvedimento che il giudicante, nella stima del danno, abbia tenuto conto non solo della sofferenza transeunte, ma di tutte le conseguenze derivate dal fatto illecito. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20684 Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile in virtù degli artt. 651 e 652 c.p.p., l’estinzione del reato e l’improponibilità o improcedibilità dell’azione penale non costituiscono impedimento all’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza degli elementi costitutivi del reato. Tuttavia, l’accertamento del giudice civile deve essere condotto secondo la legge penale e deve avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese le eventuali cause di giustificazione e l’eccesso colposo ad esse relativo. Ne consegue che, affinché possa ritenersi configurato un reato e consequenzialmente la responsabilità del suo autore per il danno non patrimoniale, occorre non solo che sia integrato l’elemento materiale del reato, ma anche l’elemento psicologico, il cui mancato accertamento esclude l’ipotizzabilità del danno non patrimoniale ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. (nella specie, la S.C., alla stregua dell’enunciato principio, con riferimento al caso in cui un pensionato si era visto domandare da un impiegato di un ente previdenziale, in esecuzione di una circolare interna dell’istituto, un documento non necessario per effettuare l’accredito della pensione sul suo conto corrente bancario, ha confermato sul punto la sentenza impugnata, con la quale era stato escluso che la suddetta condotta potesse integrare, sul piano psicologico, gli estremi del reato di rifiuto di atti d’ufficio e che, di conseguenza, il soggetto passivo dell’omissione potesse pretendere il ristoro del danno non patrimoniale). SOCIETÀ Cass. civ., sez. I, 24 settembre 2009, n. 20544 Nelle società di persone a tempo indeterminato, la dichiarazione di recesso del socio è un negozio giuridico unilaterale recettizio che produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza della società, a differenza del caso in cui la società abbia una scadenza prefissata, ove l’uscita di uno dei soci dalla compagine sociale determina una modifica del contratto sociale che necessita del consenso di tutti i soci. Nella prima ipotesi non è esclusa, peraltro, la facoltà di revoca del recesso da parte del socio, in quanto la prevalenza del rapporto volontaristico-collaborativo fra i soci comporta che una diversa comune volontà possa essere espressa, almeno fino a che non si sia proceduto alla liquidazione della quota del socio uscente, mediante la revoca della precedente volontà di scioglimento del singolo rapporto sociale, sempre che sussista la concorde volontà di tutti i soci in tal senso. Cass. civ., sez. I, 15 settembre 2009, n. 19813 In materia di aumento del capitale di una s.r.l., l’obbligo di versamento per il socio deriva non dalla deliberazione, bensì dalla distinta manifestazione di volontà negoziale consistente nella sottoscrizione della quota del nuovo capitale offertagli in opzione, e ciò indipendentemente dalla circostanza che egli abbia o meno concorso con il proprio voto alla deliberazione di aumento. Tale sottoscrizione è un atto di natura negoziale, e precisamente un contratto consensuale in relazione al quale la legge non prevede l’adozione di una forma particolare (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto provata per fatti concludenti la sottoscrizione dell’aumento di capitale di una società, essendo stato dimostrato l’avvenuto versamento di tre assegni, in adempimento della presunta sottoscrizione). Cass. civ., sez. I, 4 agosto 2009, n. 17936 Il divieto di accordare prestiti o fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di proprie partecipazioni, stabilito per le s.r.l. dall’art. 2483 c.c. (nel testo applicabile ratione temporis, ora sostituito dall’art. 2474 c.c.), in quanto volto a garantire l’effettività del capitale sociale (e le regole di versamento almeno parziale del capitale sottoscritto), non trova applicazione nell’ipotesi in cui la società rinunci a perseguire ulteriormente una pretesa creditoria litigiosa nei confronti dell’acquirente o del sottoscrittore: in tale ipotesi, infatti, diversamente da quanto accade in caso di rinuncia 331 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 ad un credito certo, l’aumento di capitale non si concretizza in un apporto proveniente in sostanza dal patrimonio della società stessa, senza immissione di ricchezza nuova da parte del sottoscrittore, non potendosi porre la rinuncia ad una mera possibilità (l’esito vittorioso della lite) sullo stesso piano della mancata acquisizione di un valore patrimoniale sicuramente esistente. Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2009, n. 20143 Nel caso di annullamento della delibera di esclusione da una società cooperativa, grava sul socio – il quale agisca per il risarcimento del danno alla reputazione personale, con riflessi patrimoniali, sofferto a causa dell’illegittima esclusione – l’onere di provare, sia pure a mezzo di presunzioni, l’esistenza del danno, non essendo configurabile un pregiudizio in re ipsa, tanto più che l’esclusione, sia pure illegittima, può dipendere, in astratto, da un ventaglio di cause, anche di oggettiva incompatibilità con la permanenza del rapporto sociale; né può farsi ricorso alla liquidazione equitativa, inidonea a surrogare l’assolvimento dell’onere della prova in ordine all’esistenza del concreto pregiudizio. PUBBLICITÀ IMMMOBILIARE Cass. civ., sez. III, 31 agosto 2009, n. 18892 Per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e di incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo, che insieme con la nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari (nella specie, non riportando la nota di trascrizione della citazione di un giudizio di verificazione di una vendita immobiliare, il prezzo di vendita, nonostante nella citazione fosse trasfuso per intero il contratto, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata con la quale era stata ritenuta la inidoneità della trascrizione della citazione a far decorrere il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di riscatto da parte del locatario, ai sensi dell’art. 39 della legge n. 392 del 1978). PROVE Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20104 Non può supplirsi all’onere di provare i fatti costitutivi della domanda con la richiesta alla controparte di esibizione di documenti, anche perché, tra l’altro, l’inosservanza all’ordine di esibizione, quando concesso, costituisce un comportamento liberamente valutabile dal giudice di merito, ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20104 In tema di interrogatorio formale, la parte richiedente può soltanto invocare il potere discrezionale del giudice di merito di ammettere tale mezzo di prova in relazione alla sua indispensabilità ai fini della decisione (nella specie la S.C. ha rigettato il motivo prospettato dal ricorrente secondo cui il giudice di merito non si sarebbe potuto esimere, in ogni caso, dall’ammettere il mezzo istruttorio volto a provocare la confessione della controparte). PRESCRIZIONE E DECADENZA Cass. civ., sez. I, 24 settembre 2009, n. 20544 Il sequestro giudiziario dell’azienda di una società di persone non costituisce impedimento di ordine giuridico all’esercizio del diritto del socio uscente alla liquidazione della quota sociale, né della facoltà di porre in essere atti idonei ad interrompere la prescrizione. Cass. civ., sez. lav., 12 agosto 2009, n. 18250 L’eccezione di interruzione della prescrizione, configurandosi come eccezione in senso lato, può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo, sulla base di allegazioni e di prove, incluse quelle documentali, ritualmente acquisite al processo. Ne consegue che, a fronte di una eccezione di prescrizione, colui nei cui confronti viene sollevata non ha l’onere di proporre una controeccezione di interruzione della prescrizione, ma di allegare e provare la sussistenza dell’atto interruttivo, qualora detta prova non risulti già acquisita, nel primo passaggio processuale successivo alla formulazione dell’eccezione di prescrizione. Tale momento coincide, con riferimento al processo del lavoro, con la prima udienza, dovendo il convenuto formulare l’eccezione di prescrizione, che costituisce eccezione in senso stretto, costituendosi ai sensi dell’art. 416 c.p.c., mediante il deposito, almeno dieci giorni prima dell’udienza, di memoria difensiva. Cass. civ., sez. I, 25 settembre 2009, n. 20656 Gli atti interruttivi della prescrizione previsti dall’art. 2943 c.c. devono contenere l’esplicitazione di una pretesa idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto passivo, con l’effetto di costituirlo in mora. Ne consegue che – ove un bene immobile gravato da ipoteca a garanzia di un mutuo bancario sia acquistato da un terzo – in caso di fallimento del mutuatario, l’atto di insinuazione al passivo del fallimento proposto dalla banca creditrice ha natura di atto interruttivo della prescrizione anche nei confronti del terzo acquirente del bene ipotecato, mentre non può valere, ai medesimi fini interruttivi, nel diverso giudizio proposto dal terzo acquirente al fine di far valere la prescrizione indiretta dell’ipoteca a causa della prescrizione del credito con essa garantito, poiché l’atto proveniente da un terzo 332 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali non può integrare gli estremi del riconoscimento del debito ai sensi dell’art. 2944 c.c. to dal valore della causa determinato a norma del c.p.c. e, quindi, in tema di obbligazioni pecuniarie, dalla somma pretesa con la domanda di pagamento (art. 10 c.p.c.). Identico parametro deve essere applicato nei gradi di impugnazione, con la conseguenza che, nel caso in cui al giudice superiore venga riproposta una parte limitata della domanda, ovvero l’oggetto dell’impugnazione risulti limitato per dettato normativo, il valore della causa deve essere rimodulato in relazione all’effettiva entità della riforma che si intende conseguire (in applicazione di questo principio la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale, che aveva liquidato gli onorari dovuti per prestazioni professionali in secondo grado sulla base del valore indeterminabile riconoscibile ad una controversia ristretta alla sola questione di giurisdizione, ritenendo irrilevante che la parte soccombente avesse reiterato, in via subordinata, la domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, all’unico scopo di non incorrere in preclusioni). Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18399 Ai fini della tempestività dell’interruzione della prescrizione ai sensi dell’art. 2943, comma 1, c.c., in applicazione del principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, occorre aver riguardo non già al momento in cui l’atto con il quale si inizia un giudizio viene consegnato al destinatario, bensì a quello antecedente in cui esso è stato affidato all’ufficiale giudiziario che lo ha poi notificato (nella specie a mezzo del servizio postale), posto che l’esigenza che la parte non subisca le conseguenze negative di accadimenti sottratti al proprio potere d’impulso sussiste non solo in relazione agli effetti processuali, ma anche a quelli sostanziali dell’atto notificato. Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2009, n. 18086 AVVOCATURA La parte che intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima. Cass. civ., sez. I, 23 settembre 2009, n. 20436 L’iscrizione nell’albo professionale di cui agli artt. 24 ss. del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, ha natura costitutiva ai fini dell’esercizio della libera professione forense davanti ai tribunali o alle corti di appello, con la conseguenza che, nella vigenza della citata normativa, l’atto introduttivo del giudizio di impugnazione sottoscritto da un praticante procuratore non ancora iscritto nell’albo professionale degli avvocati ed abilitato a svolgere soltanto l’attività indicata nell’art. 8 del del r.d.l. cit., è affetto da nullità assoluta ed insanabile, rilevabile anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, data la stretta attinenza alla costituzione del rapporto processuale. Cass. civ., sez. III, 2 settembre 2009, n. 19089 In tema di liquidazione degli onorari di avvocato, è demandato al potere discrezionale del giudice di merito stabilire, di volta in volta, l’aumento dell’unico onorario (nella specie a norma dell’art. 5, comma quarto, della tariffa professionale approvata con d.m. 5 ottobre 1994, n. 585), in caso di assistenza e difesa di più parti aventi la stessa posizione processuale, ed anche ove, trattandosi di più processi distinti, sia mancato un provvedimento di riunione. Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2009, n. 18233 Ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico del cliente, il parametro di riferimento è costitui- * * * D) Cassazione penale, Sezioni semplici In primo piano 20 DOLO Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41306 [Delitti di comune pericolo – Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi – Condotta – Direzione finalistica – Dolo indiretto o eventuale – Rilevanza – Esclusione – Fattispecie] 333 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 [Elemento soggettivo – Dolo eventuale – Configurabilità nei reati a dolo specifico – Esclusione ] La questione – Se i reati a dolo specifico siano punibili anche a titolo di dolo eventuale. Massime (1)– La norma incriminatrice di cui all’art. 434 c.p. richiede per la sussistenza del reato che l’agente commetta un « fatto diretto a cagionare un crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro ». Pertanto, se il fatto consumato è stato posto in essere non per conseguire questo risultato (cioè un crollo o altro disastro), ma per raggiungere altra finalità (nella fattispecie un suicidio), l’ipotesi delittuosa in esame non può configurarsi perché sono venuti a mancare sia l’elemento oggettivo, vale a dire il fatto diretto a cagionare il crollo, sia l’elemento soggettivo del reato, ossia la volontà diretta a cagionarlo (sulla base di questo principio la Corte di cassazione ha escluso che debba rispondere di crollo di costruzioni chi ha tentato di togliersi la vita, saturando col gas il bagno del proprio appartamento condominiale, anche se poteva immaginare le conseguenze eventualmente disastrose del proprio gesto). (2)– Il dolo eventuale è incompatibile con le ipotesi delittuose nelle quali l’elemento psicologico del reato sia tipizzato nei termini di volontà diretta al raggiungimento di uno scopo preciso, opportunamente descritto dalla norma incriminatrice. Il caso – Dopo avere affisso alla porta della propria abitazione un biglietto di avviso del pericolo e disinserito l’impianto elettrico di casa, Tizio, con l’intento di suicidarsi, apre la bombola di gas GPL da Kg. 15, apponendo sopra la valvola di apertura alcuni stracci onde favorire la trasformazione del liquido allo stato gassoso e sigilla nel contempo la finestra del bagno della propria abitazione, così saturando di gas l’alloggio. Il tentativo di suicidio non sortisce l’effetto desiderato, perché l’alloggio scoppia prima che il gas provochi la morte di Tizio. Il quale in relazione a questi fatti viene tuttavia condannato, sia in primo che in secondo grado per il delitto di cui all’art. 434 c.p. (crollo di costruzioni). Ricorre quindi per cassazione la difesa, la quale principalmente rileva la violazione dell’art. 434, per la cui esistenza si richiede che il soggetto fosse animato dalla “specifica volontà” di provocare il danno, là dove Tizio era animato dal diverso proposito di togliersi la vita. Sintesi della motivazione – 1. Nozione e ambito di operatività del dolo eventuale. – 2. L’irrilevanza penale del fatto per mancanza del fine specifico di provocare il crollo. 1. Nozione e ambito di operatività del dolo eventuale. Nel ritenere fondato il ricorso della difesa, annullando quindi la sentenza di condanna, la Suprema Corte muove dalla preliminare distinzione tra dolo intenzionale o diretto e dolo indiretto o eventuale. Secondo l’ormai consolidata lezione dottrinale, infatti, si ha dolo diretto o intenzionale quando la volontà dell’agente è diretta ad un determinato risultato. Si ritengono però voluti anche i risultati di quei comportamenti che siano stati comunque previsti dal soggetto, anche soltanto come possibili, purché egli ne abbia accettato il rischio, o, più semplicemente, purché non abbia agito con la sicura convinzione che non si sarebbero verificati. In questa ipotesi, il dolo viene qualificato come dolo indiretto o eventuale. Nell’ambito dell’elemento psicologico del reato, però, quest’ultima categoria di dolo non è ipotizzabile per ogni tipo di condotta delittuosa dolosa. Quando accade, infatti, che la norma incriminatrice richieda espressamente che il soggetto abbia agito con un determinato fine, non è possibile ipotizzare che egli abbia agito a costo di determinarlo, giacché risulterebbe evidente in tal caso l’incongruità logica tra la premessa ed il dato ad essa collegato. È quanto si registra nella ipotesi in esame. Venendo infatti alla norma incriminatrice di cui all’art. 434 c.p., la tipizzazione codicistica richiede per la sussistenza del reato che l’agente commetta « un fatto diretto a cagionare un crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero ad un altro disastro », di guisa che, nella ipotesi in cui il fatto consumato sia stato posto in essere non già per conseguire questo risultato, e cioè un crollo rovinoso ovvero altro disastro, ma per conseguire altra finalità, viene a mancare sia l’elemento oggettivo del reato, che per la sua configurazione richiede, appunto, « un fatto diretto a cagionare » crolli o disastri, sia l’elemento psicologico del reato, in quanto il dolo delineato nella dalla fattispecie criminosa in esame, comporta la volontà diretta a cagionare detto crollo od altro disastro. In altri termini, è possibile ipotizzare la tipologia teoretica del dolo eventuale soltanto allorché la legge non richieda, espressamente, che il soggetto agente si sia determinato alla consumazione della condotta con un determinato fine. 2. L’irrilevanza penale del fatto per mancanza del fine specifico di provocare il crollo. Nel caso in esame i giudici di merito hanno motivato il giudizio di colpevolezza dando per acquisito che l’imputato abbia agito al fine di suicidarsi, saturando un ambiente della sua abitazione condominiale con gas GPL liberato da una bombola da kg. 15 e valorizzando poi, come dato decisivo ai fini del giudizio, che ciò facendo l’imputato avrebbe accettato volontariamente il rischio di uno scoppio idoneo a provocare il crollo della costruzione. 334 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali Ciò non toglie però, osserva in contrario il Collegio, che l’azione non fu diretta, come prescrive l’ipotesi delittuosa contestata, a cagionare il crollo, ma a togliersi la vita, di guisa che si conferma ulteriormente che nel caso in esame difetta sia l’elemento oggettivo del reato che quello psicologico e che il Tribunale, anziché applicare la norma di cui all’art. 434 c.p. che detta, giova ribadirlo, « chiunque (. . .) commette un fatto diretto a cagionare », ha letto la norma nel senso che essa statuisce « chiunque (. . .) commette un fatto idoneo a cagionare ». [Dario Micheletti] Le schede 21 INFORTUNI SUL LAVORO Cass. pen., sez. IV, 24 settembre 2009, n. 37467, Lo Bello [Infortunio sul lavoro – Responsabilità colposa del datore di lavoro – Nesso eziologico tra l’insufficienza delle misure antinfortunistiche ed evento di lesioni – Condotta imprudente del lavoratore – Inefficacia causale autonoma] Massima – Le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine a incidenti che derivino dalla sua negligenza, imprudenza e imperizia; pertanto la responsabilità del datore di lavoro può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza, rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute e che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Nessuna efficacia causale può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento. Fatto – Durante i lavori di copertura orizzontale di un edificio, l’operaio muratore Tizio, dipendente della società Alfa, si infortunava, precipitando da un’altezza di circa venti metri, nel tentativo di estrarre, con un’imprudente manovra, un cavo elettrico dal pozzo dell’ascensore. Per agevolare l’operazione, aveva abbassato una delle staffe di protezione del montacarichi a sua disposizione. La Corte d’appello di Palermo condannava Caio, Presidente del Consiglio di amministrazione della società, per il reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, avendo omesso, secondo l’accusa, di esigere che i singoli lavoratori osservassero le norme di sicurezza e usassero i mezzi di protezione predisposti [art. 4, lett. c), d.p.r. n. 547 del 1955), nonché di adottare impalcature e ponteggi, previsti per i lavori a un’altezza superiore a due metri (art. 16, d.p.r. n. 164 del 1956), atti a eliminare i pericoli di caduta. Adìta la S.C., il ricorrente lamenta la mancata valutazione della imprudente condotta di Tizio, quale causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento. Motivi della decisione – L’indirizzo giurisprudenziale prevalente, in tema di condotta colposa concorrente del lavoratore infortunato, si fonda sulla premessa in base alla quale il datore di lavoro, quale garante dell’incolumità fisica e morale dei propri dipendenti – in virtù dell’art. 2087 c.c. e delle specifiche norme poste a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro – è, da un lato, tenuto ad attivarsi positivamente per organizzare l’attività lavorativa in modo sicuro e, dall’altro, è destinatario dell’obbligo di vigilare sulla correttezza dell’operato dei propri dipendenti. Gli si impone, pertanto, di esigere il rispetto, da parte dei lavoratori, delle regole di cautela, finalizzate alla riduzione al minimo dei rischi connessi all’attività svolta. Richiamate tali premesse, ritiene la Corte che, avendo le norme di prevenzione antinfortunistica lo scopo di salvaguardare il lavoratore anche in ordine agli incidenti connessi alla propria negligenza, imprudenza e imperizia, degli eventi lesivi che ne derivano, risponde, ex art. 40, comma 2, c.p., il datore di lavoro che abbia omesso di vigilare attentamente, affinché l’attività lavorativa si svolga in condizioni di piena sicurezza. In base al principio della equivalenza causale, il S.C. nega che il contegno di Tizio valesse ad escludere la responsabilità di Caio, visto che, secondo il disposto dell’art. 41, comma 2, c.p., solo una condotta imprudente tanto eccezionale e imprevedibile, da potersi dire anomala, avrebbe potuto assurgere a causa esclusiva di verificazione dell’evento. Come si legge nella costante giurisprudenza di legittimità, l’interruzione del nesso causale e la conseguente esenzione da responsabilità penale del datore di lavoro, si ricollega al comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si pone al di fuori di ogni controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di sicurezza. Tali sono le ipotesi del lavoratore che provoca l’infortunio, violando con consapevolezza le cautele impostegli o ponendo in essere, colposamente, un’attività del tutto estranea al processo produttivo. Sotto tale profilo, non potendosi definire “abnorme” il comportamento – ancorché incauto – di Tizio, ritenendosi che, nel merito, fosse stato correttamente valutato il profilo psichico colposo, nella mancata predisposizione e imposizione delle cautele antinfortunistiche da parte di Caio e che tale atteggiamento fosse stata la premessa imprescindibile 335 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 dell’evento di lesioni, il provvedimento de quo conclude rigettando in toto l’assunto del ricorrente. [Precedenti] Con riferimento ai caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e dell’esorbitanza della condotta del lavoratore, ai fini dell’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, cfr.: Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2006, Palmieri, in Mass. Ced, rv 236009; Cass. pen., sez. IV, 11 marzo 1999, Di Spirito, in Mass. G. lav. 1999, p. 804; Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 1991, Simili, in C. pen. 1991, p. 10; Cass. pen., sez. IV, 11 febbraio 1991, Lapi, in Mass. C. pen. 1991, p. 14; Cass. 3 ottobre 1988, Bongiasca, in R. pen. 1989, p. 741. [Nota bibliografica] In generale, sul concorso di fattori causali: M. Romano - G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale, Milano 2004, sub art. 41, p. 396. Più specificamente, sul concorso di colpe in tema di infortuni sul lavoro, v. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza sul lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., VI, Torino 1992, p. 111; M. Bellina, La rilevanza del concorso colposo della vittima nell’infortunio sul lavoro: una timida apertura, in C. pen. 2008, p. 1007; A. Roiati, Infortuni sul lavoro e responsabilità oggettiva: la malintesa sussidiarietà dello strumento penale, ivi, p. 2867. [Cosetta Castaldello] 22 TRUFFA Cass. pen., sez. II, 28 ottobre 2009, n. 41471, Orlando [Truffa – Dipendente pubblico che fa timbrare il cartellino marcatempo da un collega mentre è assente dal lavoro – Sussistenza del reato] Massima – Realizza il reato di truffa consumata il dipendente comunale che fa timbrare il proprio cartellino marcatempo da un collega, mentre è assente dall’ufficio per assistere ad una partita di calcio. Fatto – L. O. veniva condannato per il reato di truffa ai danni del Comune di T., in quanto aveva fatto rilevare la propria presenza sul luogo di lavoro, con la timbratura del cartellino marcatempo nell’orario pomeridiano in cui lo stesso, invece, risultava essere presente allo stadio comunale per assistere ad un incontro calcistico. Motivi della decisione – La Suprema Corte aderisce ad un orientamento giurisprudenziale costante, avallato dalle Sezioni Unite, in merito alla distinzione tra delitto consumato e tentato di truffa. Secondo tale orientamento, « nel delitto di truffa, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l’elemento del danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale, che abbia l’effetto di produrre – mediante la cooperazione artificiosa della vittima che, indotta in errore dall’inganno ordito dall’autore del reato, compie l’atto di disposizione – la perdita definitiva del bene da parte della stessa ». Pertanto, in tutte quelle situazioni in cui il soggetto passivo assume, per incidenza di artifizi o raggiri, l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma questo non perviene, con correlativo danno, nella materiale disponibilità dell’agente, si verte nella figura di truffa tentata e non con- sumata. Seguendo rigorosamente l’orientamento appena descritto, i giudici di legittimità hanno sancito che il delitto di truffa si perfeziona non nel momento in cui il soggetto passivo assume un’obbligazione per effetto degli artifizi o raggiri subiti, bensì in quello in cui si verifica l’effettivo conseguimento del bene economico da parte dell’agente e la definitiva perdita di esso da parte del raggirato. Orbene, rileva la Corte come nella fattispecie in esame si sia verificata una lesione concreta e definitiva del patrimonio dell’Ente Pubblico mediante una dazione patrimoniale non dovuta, costituita dal corrispettivo non dovuto, pacificamente percepita dall’imputato, che ben avrebbe potuto, quantomeno, dichiarare di rinunciare, prima della sua percezione, all’importo relativo all’assenza ingiustificata dal lavoro. La Corte, inoltre, rileva l’incompatibilità tra la presenza del dipendente presso il campo sportivo e la sospensione del rapporto di lavoro derivante, secondo l’imputato, dalla fruizione di un permesso, asserendo che il rimprovero mosso al dipendente non fosse tanto quello di essersi recato – durante l’orario di servizio – ad assistere ad una partita di calcio, ma di aver percepito un ingiusto profitto, avendo ricevuto la retribuzione anche in relazione ai tempi in cui si era assentato dal lavoro, con corrispondente danno al Comune per aver ingenerato negli organi preposti al controllo delle presenze la falsa rappresentazione che egli invece avesse lavorato, con un indebito percepimento di una retribuzione senza titolo. Per questi motivi, in ossequio ai principi sopra riportati, la Suprema Corte ha ravvisato nella fattispecie concreta il delitto consumato di truffa. [Precedenti] La sentenza recepisce un orientamento giurisprudenziale consolidato. Si veda, in particolare, Cass. pen., sez. un., 16 dicembre 1998, n. 1, Cellamare, in C. pen. 1999, p. 1414. Per altre decisioni conformi e specifiche cfr. Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2008, n 23623, A., in Guida al dir. 2008, n. 27, p. 91; Cass. pen., sez. II, 24 febbraio 2004, n. 11856, B., in D. e prat. lav. 2004, p. 1634. [Nota bibliografica] In generale sul delitto di truffa, v. G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale – Parte Speciale: i delitti contro il patrimonio, V ed., Zanichelli, Bologna 2007, p. 168 ss.; F. Mantovani, Diritto penale – Parte speciale: i delitti contro il patrimonio, III ed., Cedam, Padova 2009, p. 180 ss.; G. Locatelli, in Comm. Padovani, sub. art. 640, p. 2937. Nello specifico, v. L. Brutti, Brevi note in tema di truffa ai danni dello Stato ed assenze ingiustificate dal lavoro, in Rass. giur. Umbra, 1999, p. 590; A. Fanelli, Sub art. 640, in Comm. Lattanzi-Lupo, Giuffrè, Milano 2005, p. 157. [Marco Casellato] 23 STUPEFACENTI Cass. pen., sez. IV, 5 novembre 2009, n. 42485, Manganiello [Stupefacenti – Attenuante del fatto lieve – Indici sintomatici della elevata potenzialità offensivo-diffusiva della condotta – Prevalenza del dato ponderale] 336 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali [Stupefacenti – Eliminazione della distinzione tabellare – Detenzione di sostanze di specie diversa – Unicità del reato] Massima – (1) Ai fini della mancata concessione dell’attenuante speciale del fatto di lieve entità, a norma dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, ove la quantità della sostanza stupefacente, detenuta ad uso non strettamente personale, sia notevole, il dato ponderale può essere legittimamente reputato sintomo sicuro di una non trascurabile potenzialità diffusiva dell’attività di spaccio, senza che il giudice prenda espressamente in esame gli altri parametri normativi, se non prevalenti rispetto al dato ponderale. (2) A seguito della soppressione della distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”, l’azione consistente nella contestuale detenzione di sostanze stupefacenti di natura e tipo diversi integra un solo reato. Fatto – La Corte d’appello di Bologna, in accoglimento dell’impugnazione proposta dal Procuratore Generale, rideterminava, in aumento, la pena, comminata, a carico di Tizio, dal Tribunale, per il reato di detenzione ai fini di spaccio di grammi 76,566 di hashish (n. 131,48 dosi medie giornaliere ricavabili) e di grammi 0,627 di eroina (n. 4,2 dosi medie giornaliere ricavabili), considerando la continuazione tra reati e ritenendo di dover escludere la sussistenza dell’attenuante del fatto di lieve entità. Tizio ricorreva in Cassazione, lamentando l’illogicità della motivazione, con la quale i giudici di merito, basandosi sul solo dato ponderale, avevano escluso la natura strettamente personale del consumo di droga e la lievità del fatto, nonché l’erroneità della mancata esclusione della continuazione tra reati, con conseguente determinazione della pena in aumento. Motivi della decisione – (1) La S.C. respinge l’assunto difensivo incentrato, in prima battuta, sull’asserita illogica qualificazione del fatto, come condotta penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, lett. a). Ad avviso del ricorrente, il Giudice d’appello aveva erroneamente, non solo dedotto la rilevanza penale della condotta, ma altresì escluso la circostanza del fatto lieve, basandosi sul solo dato quantitativo della sostanza detenuta. Il provvedimento in epigrafe torna, in effetti, a ribadire la valenza meramente sintomatica e non presuntiva degli indici forniti dal legislatore all’interprete, per determinare la finalità a uso non esclusivamente personale del possesso di droga (consistenti non solo nell’entità quantitativa della sostanza, ma anche in ogni altra circostanza dell’azione, quali le modalità di presentazione, il confezionamento, ecc.). Tuttavia, precisa che detta valutazione era stata opportunamente effettuata nel merito, tenendo conto delle modalità di nascondimento della droga, dell’assenza di prova dello stato di tossicodipendenza, dell’ingenza del quantitativo rispetto al reddito di Tizio e al ragionevole fabbisogno immediato di un tossicodipendente di media levatura. Una volta, però, dedotta la natura illecita della condotta, il giudizio sulla sua non trascurabile potenzialità offensiva e diffusiva, con correlativo diniego dell’attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73, non abbisogna di un puntuale esame, da parte del giudice, di tutti i parametri normativi indicati, qualora l’incidenza di uno di questi sulla concreta valutazione delle modalità e delle circostanze dell’azione, non sia tale da superare la sintomaticità del dato ponderale. Il vaglio in senso negativo di uno solo dei parametri di riferimento, con decisività almeno pari a quella di tutti gli altri, è sufficiente a negare la sussistenza dell’attenuante in parola. (2) Meritevole di accoglimento è ritenuta, invece, la lagnanza proposta avverso la quantificazione della pena, conseguente all’applicazione dell’aumento di cui all’art. 81, cpv., c.p. Rileva il S.C. che, stante il quadro normativo precedente alla legge n. 49 del 2006, in tutte le ipotesi di condotte vietate, aventi ad oggetto sostanze droganti di specie diversa, trattandosi di distinte azioni tipiche a diversa oggettività giuridica e con trattamento sanzionatorio differenziato, risultava normativamente fondata l’opzione, adottata dalla giurisprudenza prevalente, di ravvisare, nei casi analoghi a quello de quo, una pluralità di reati, non inquadrabili in un rapporto di assorbimento e, al più, avvinti dal vincolo della continuazione. La parificazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti” ha reso non più adottabile il criterio basato su una diversità di tabelle: la disciplina unitaria, anche quoad poenam, delle condotte aventi ad oggetto le varie droghe e il medesimo disvalore, in termini di offensività, a esse riconosciuto dal legislatore, ha di fatto inficiato il presupposto normativo sul quale si fondava il precedente filone esegetico e depongono a favore della considerazione che la detenzione ai fini di commercio di stupefacenti di natura diversa, ma di medesima potenzialità lesiva dei beni protetti dalla normativa, non integra un concorso di fattispecie delittuose distinte e autonome, ma un unico reato. [Precedenti] (1) Per la necessaria valutazione di tutte le circostanze e modalità dell’azione, ai fini dell’affermazione dell’uso non esclusivamente personale, v. Cass. pen., sez. VI, 19 marzo 2009, n. 12146, in questa Rivista 2009, p. 1155; Cass. pen., sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 17899, in R. pen. 2008, p. 765. In ordine al riconoscimento dell’attenuante del fatto lieve e alla rilevanza del dato ponderale: Cass. pen., sez. IV, 25 novembre 2008, Lo Presti, in Rep. F. it 2009, sub voce Stupefacenti, n. 24; Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 2008, Z., ivi, n. 28. (2) Negli stessi termini: Cass. pen., sez. VI, 21 aprile 2008, C., in Mass. Ced, rv 241375 e, per la giurisprudenza di merito, Trib. Camerino, 29 settembre 2006, in R. pen. 2006, p. 1330. Per la sussistenza di una pluralità di reati, nel vigore della disciplina precedente alla legge n. 49 del 2006, v. Cass. pen., sez. VI, 16 aprile 2003, Poppi, in Mass. Ced, rv 226649; Cass. pen., sez. IV, 21 febbraio 1997, Buttazzo, ivi, rv 207879. [Nota bibliografica] Sul punto e, in generale, per l’analisi delle diverse problematiche interpretative, connesse alla nuova disciplina in tema di sostanze stupefacenti: C.A. Zaina, La nuova disciplina penale delle sostanze stupefacenti, Rimini 2006, passim; A. Manna, La nuova disciplina in tema di stupefacenti ed i principi costituzionali in materia penale, in D. pen. proc. 2006, p. 829 ss.; V. Manes, Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze, in La disciplina penale degli stupefacenti, a cura di G. Insolera, Milano 2008, p. 13 ss.; Id., Il nuovo art. 73 del d.p.r. n. 309/1990: nodi risolti e questioni ancora aperte, in C. pen. 2008, p. 4461 ss.; S. Grillo, Stupefacenti: nuove norme e “antiche” questioni, in D. pen. proc. 2009, p. 407 ss. 337 [Cosetta Castaldello] Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 Le massime un valore superiore alla somma stanziata dall’Amministrazione al fine di dare maggiore prestigio ed autorità alla propria persona). TENTATIVO Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32830 Nei reati a forma libera la desistenza volontaria non è configurabile allorché il soggetto attivo abbia comunque compiuto atti che si inseriscano nel determinismo causale produttivo dell’evento del reato. (Fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale consistita nel privare dello sfollagente e nello strattonare agente di polizia intervenuto per un tentativo di furto; la Corte, in applicazione del principio suddetto, ha ritenuto non ravvisabile la desistenza nell’avvenuta restituzione dello sfollagente, essendosi, con l’apprensione del medesimo, già realizzata la consumazione del reato). CIRCOSTANZE OMISSIONE O RIFIUTO DI ATTI D’UFFICIO Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32837 Integra il reato di omissione d’atti di ufficio la mancata comunicazione, da parte della P.A., entro trenta giorni dalla richiesta dell’interessato, a norma dell’art. 5 della legge n. 241 del 1990, dell’unità organizzativa competente e del nominativo del responsabile del procedimento. (In motivazione la Corte ha precisato che siffatta intervenuta nomina del responsabile non esime il superiore gerarchico dall’obbligo di comunicazione di cui sopra). INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO Cass. pen., sez. fer., 17 agosto 2009, n. 33408 La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può essere ravvisata anche nel delitto tentato, quando le modalità del fatto criminoso siano idonee a fornire concrete e univoche indicazioni sull’entità del pregiudizio che si sarebbe determinato nel caso in cui l’azione delittuosa fosse stata portata a compimento. (Fattispecie relativa ad un’ipotesi di tentata truffa aggravata). PRESCRIZIONE Cass. pen., sez. VI, 27 agosto 2009, n. 33500 Riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio l’amministratore di un’associazione che svolge attività di recupero di soggetti tossicodipendenti in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, con conseguente introito di danaro pubblico. (Fattispecie in tema di riconosciuta configurabilità della responsabilità dell’amministratore per il delitto di peculato). Cass. pen., sez. I, 11 agosto 2009, n. 32623 CALUNNIA È tardiva e inefficace la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione del reato formulata dopo che sia pronunciata sentenza nel grado di giudizio in cui è maturata. CONCUSSIONE Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32841 Ai fini della prova del delitto di calunnia è necessario che sia accertata non già la mera non verosimiglianza delle dichiarazioni con le quali altri sia incolpato di un reato, ma la sicura falsità delle stesse. Cass. pen., sez. VI, 27 agosto 2009, n. 33491 Non integra il delitto di concussione la promessa o il compimento di una prestazione, in forza di induzione o costrizione, che sia di esclusivo vantaggio per la P.A., salvo il caso in cui il pubblico ufficiale abbia agito anche per acquisire un indebito personale vantaggio. (Fattispecie relativa alla condanna di un ufficiale dei Carabinieri per le intimidazioni esercitate su un commerciante per ottenere una fornitura di mobili destinata all’arredamento del suo ufficio per FAVOREGGIAMENTO Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32852 Il delitto di favoreggiamento concorre con il delitto di resistenza a pubblico ufficiale nel caso in cui l’aiuto al ricercato si risolva nell’uso della violenza o minaccia al pubblico ufficiale, poiché, con lo stesso comportamento, vengono violati interessi giuridici diversi. 338 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali MANCATA ESECUZIONE DOLOSA DI UN PROVVEDIMENTO DEL GIUDICE OMICIDIO COLPOSO Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32832 Cass. pen., sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32222 Il reato di sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento di una cosa pignorata da parte del proprietario che ne sia anche custode rientra nella previsione dell’art. 388, comma 4, c.p., e non già dell’art. 334 dello stesso codice, che si riferisce infatti ai vincoli sulla cosa derivanti dal sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa. Il reato di sottrazione di beni pignorati, posta in essere dal proprietario-custode, può essere commesso anche da colui che vanti sui medesimi concreti poteri dispositivi e di gestione pur non essendo formalmente definibile come debitore dei soggetti procedenti in executivis. (Fattispecie di beni pignorati appartenenti ad una società di persone ed affidati in custodia al legale rappresentante della stessa). In tema di omicidio e lesioni per colpa c.d. stradale, il giudice di merito, riconosciuto il concorso di colpa della persona offesa, adempie il dovere di motivazione in ordine alla graduazione delle colpe concorrenti di cui è impossibile determinare con certezza le diverse percentuali dando atto di aver preso in considerazione le modalità del sinistro e di aver raffrontato le condotte dei soggetti coinvolti. Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32846 L’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento di minori può sostanziarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo. PROCURATA INOSSERVANZA DI PENA Cass. pen., sez. VI, 18 agosto 2009, n. 33424 Integra il reato di procurata inosservanza di pena un’attività volontaria e specificamente diretta ad eluderne l’esecuzione, che concorre con quella del condannato ricercato, attraverso un aiuto idoneo a conseguire l’effetto di sottrarlo alla relativa esecuzione. (Fattispecie in cui le imputate hanno favorito i rispettivi mariti, entrambi latitanti, dotando l’abitazione nelle cui pertinenze essi avevano trovato rifugio di apparecchi di videoregistrazione, in modo da segnalare l’arrivo degli organi di polizia e non consentirvi un accesso immediato). ALTERAZIONE DI STATO Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32854 Concorre nel reato di alterazione di stato mediante falso di cui all’art. 567, comma 2, c.p., chiunque, pur senza rendere alcuna falsa dichiarazione di nascita, contribuisca, materialmente o moralmente, con adeguata efficienza causale, all’evento tipico realizzato dall’autore della dichiarazione che altera lo stato di nascita. DIFFAMAZIONE Cass. pen., sez. V, 6 agosto 2009, n. 32180 Sussiste l’esimente dell’esercizio del diritto di critica sindacale (art. 51 c.p.) qualora il rappresentante di un’organizzazione sindacale indirizzi una missiva a vari enti istituzionali nonché alla stessa parte lesa, che censuri le scelte di quest’ultima – effettuate in qualità di Capo dell’Ufficio di Procura, in ordine alla gestione del personale amministrativo – ipotizzando a suo carico la realizzazione di comportamenti penalmente rilevanti (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto la missiva non espressione di una querelle personale ma di critica in ordine all’operato istituzionale, essendo volta a stigmatizzarne, ancorché con toni aspri, eppur conferenti all’oggetto della controversia, le iniziative intraprese in campo disciplinare e giudiziario,censurando atteggiamenti ritenuti inutilmente persecutori e, quindi, intervenendo a tutela dei lavoratori del settore nella veste di rappresentante di categoria). FURTO Cass. pen., sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32190 Non è punibile il furto commesso in danno del convivente more uxorio, ma è punibile, a querela dell’offeso, il furto commesso in danno di persona già convivente more uxorio. (In motivazione, la Corte ha precisato che la prevalenza dell’interesse alla riconciliazione rispetto a quello alla punizione del colpevole, posto a fondamento della causa soggettiva di esclusione della punibilità di cui all’art. 649 c.p., ricorre anche con riguardo ai soggetti che siano, o siano stati, legati da un vincolo non matrimoniale, ma ugualmente caratterizzato da una convivenza tendenzialmente duratura, fondata sulla reciproca assistenza e su comuni ideali e stili di vita). Cass. pen., sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32232 Integra il reato previsto dall’art. 624-bis c.p., la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di un ristorante durante l’orario di 339 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 chiusura, poiché il concetto di privata dimora è più ampio di quello di abitazione, ricomprendendo tutti i luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. ARMI al servizio sociale e degli altri benefici penitenziari, non può essere trascurata la tipologia e la gravità dei reati commessi, ma si deve avere soprattutto riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per i quali è stata inflitta la condanna in esecuzione, per verificare concretamente se sussistano, o non, sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che ne rendano possibile il reinserimento sociale attraverso la richiesta misura alternativa. Cass. pen., sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32253 Nella categoria delle « materie esplodenti » indicata nell’art. 678 c.p. rientrano quelle sostanze (nella specie un petardo) prive di potenzialità micidiale sia per la struttura chimica, sia per le modalità di fabbricazione, dovendo invece essere annoverate nella diversa categoria degli « esplosivi » – la cui illegale detenzione è sanzionata dall’art. 10 della legge n. 497 del 1974 – quelle sostanze caratterizzate da elevata potenzialità, le quali, per la loro micidialità, sono idonee a provocare un’esplosione con rilevante effetto distruttivo. Cass. pen., sez. fer., 17 agosto 2009, n. 33396 La circostanza attenuante del fatto di lieve entità prevista dall’art. 4, comma 3, legge n. 110 del 1975 non è applicabile al porto ingiustificato d’armi da punta e taglio. (Fattispecie relativa al porto di coltello a serramanico). DIRITTO D’AUTORE Cass. pen., sez. fer., 27 agosto 2009, n. 33471 In tema di diritto d’autore, nel caso di detenzione per la vendita di supporti illecitamente duplicati ed altresì privi del contrassegno Siae non è configurabile il reato di detenzione per la vendita o di messa in commercio di supporti privi di detto contrassegno [art. 171-ter, comma 1, lett. d), legge n. 633 del 1941), giacché tale reato presuppone l’autenticità del supporto detenuto. REATI FALLIMENTARI Cass. pen., sez. V, 4 agosto 2009, n. 31885 Integra il reato di bancarotta semplice (art. 217 l. fall.) l’amministratore che, ancorché estraneo alla gestione dell’azienda – esclusivamente riconducibile all’amministratore di fatto – abbia omesso, anche per colpa, di esercitare il controllo sulla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili, poiché l’accettazione della carica di amministratore, anche quando si tratti di mero prestanome, comporta l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo di cui all’art. 2932 c.c. Cass. pen., sez. V, 4 agosto 2009, n. 31894 L’elemento soggettivo del delitto di bancarotta preferenziale (art. 216, comma 3, l. fall.) è costituito dal dolo specifico che è ravvisabile ogni qualvolta l’atteggiamento psicologico del soggetto agente sia rivolto a favorire un creditore, riflettendosi contemporaneamente, anche secondo lo schema tipico del dolo eventuale, nel pregiudizio per altri. Ne consegue che i pagamenti effettuati in situazione di insolvenza, anche attraverso datio in solutum e più specificamente a mezzo di compensazioni, sono consentiti in linea generale dagli art. 1186 c.c. e dall’art. 56 l. fall., ma assumono rilievo penalistico se qualificati al fine di favorire, a danno dei creditori, taluni di essi. Cass. pen., sez. V, 6 agosto 2009, n. 32164 MISURE DI PREVENZIONE Cass. pen., sez. VI, 3 agosto 2009, n. 31817 Integra il delitto previsto dall’art. 30, l. 13 settembre 1982, n. 646, l’omessa comunicazione alla polizia tributaria di un mutuo o di un affidamento bancario alla cui concessione corrisponda l’assunzione di un debito di pari importo per la persona condannata o sottoposta a misura di prevenzione perché indiziata di appartenere ad associazioni mafiose o camorristiche. Il delitto di bancarotta fraudolenta impropria (art. 223, comma 2, n. 1, l.fall.) è strutturato come reato complesso, rispetto al quale un reato societario tra quelli espressamente previsti dal legislatore ed assunto come elemento costitutivo deve essere causa o concausa del dissesto societario; tuttavia, il momento consumativo del reato è da individuarsi nella dichiarazione di fallimento, che fissa anche il dies a quo da cui decorre la prescrizione. Cass. pen., sez. V, 6 agosto 2009, n. 32173 ORDINAMENTO PENITENZIARIO Cass. pen., sez. I, 3 agosto 2009, n. 31809 Ai fini della concessione dell’affidamento in prova L’omessa tenuta della contabilità interna integra gli estremi del reato di bancarotta documentale fraudolenta – e non quello di bancarotta semplice – qualora si accerti che scopo dell’omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori. 340 Studium Iuris, 3/2010 Novità giurisprudenziali n. 309 del 1990, nell’ipotesi in cui la pena venga unitariamente inflitta per continuazione tra il reato di cessione di modici quantitativi di sostanze stupefacenti e quello di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, in relazione al quale la sostituzione non è prevista. STUPEFACENTI Cass. pen., sez. VI, 18 agosto 2009, n. 33419 Non è applicabile la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, prevista dall’art. 73, comma 5-bis, d.p.r. * * * E) Giurisprudenza di merito Le schede 24 CANCELLAZIONE DI IPOTECA Trib. Roma 4 giugno 2009. [Ipoteca – Cancellazione prevista dall’art. 13, comma 8decies, legge n. 40 del 2007 – Annotazione di cancellazione richiesta in forza di atto pubblico – Equiparabilità degli effetti – Insussistenza – Differenze] Massima – La cancellazione prevista dall’art. 13, commi 8decies ss., legge n. 40 del 2007 ha efficacia diversa rispetto alla normale annotazione di cancellazione richiesta in virtù di un atto notarile, in quanto la prima – avente soltanto funzione di pubblicità notizia – ha il solo effetto di introdurre un nuovo sistema di conoscibilità legale della estinzione dell’obbligazione garantita e dell’ipoteca Fatto – Con atto autenticato nelle firme dal Notaio Romolo Romani di Roma, la Banca Alfa, riconosciuta l’avvenuta estinzione del debito per capitale, interessi ed accessori relativi al mutuo concesso all’impresa Beta, consente alla cancellazione dell’ipoteca iscritta a proprio favore presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari a garanzia del credito estinto. Presentata, da parte del Notaio autenticante, la domanda di annotazione in cancellazione, la Conservatoria rifiuta l’esecuzione della formalità adducendo che l’iscrizione doveva intendersi « già cancellata ai sensi dell’art. 13, comma 8-decies, legge n. 40 del 2007 (c.d. legge Bersani bis) ». Avverso tale rifiuto propone reclamo il Notaio Romolo Romani, chiedendo che il Tribunale di Roma ordini al Conservatore di procedere all’annotazione richiesta ai sensi e per gli effetti dell’art. 2882 c.c. Il Tribunale accoglie il reclamo. Motivi della decisione – Ritiene il Collegio che le ragioni avanzate dal reclamante siano fondate e, in particolare, che la “cancellazione” di cui alla c.d. legge Bersani bis sia cosa differente rispetto all’annotazione della cancellazione a margine dell’iscrizione richiesta dal Notaio Romolo Romani. Tale diversità è stata evidenziata già dalle Circolari emanate dall’Agenzia del Territorio al fine di fissare i contenuti delle comunicazioni di estinzione delle obbligazioni garantite ipotecariamente e chiarirne gli effetti, laddove è palese una presa di posizione a favore dell’attribuzione alla detta “cancellazione” della funzione di pubblicità notizia con cui è resa conoscibile ai terzi l’estinzione dell’ipoteca al fine di evitare che il permanere della medesima, sebbene non più pregiudizievole, rappresenti comunque un elemento di disturbo per la corretta circolazione dei beni immobili. Coerentemente, l’Agenzia del Territorio ha escluso che, al ricevimento della comunicazione prevista dall’art. 13, commi 8-decies ss., legge n. 40 del 2007, il Conservatore debba procedere all’annotazione in cancellazione a margine dell’originaria iscrizione ipotecaria. Sulla base di tali elementi risulta, perciò, chiaro che la “cancellazione” de qua consente soltanto di dare pubblicità legale all’estinzione del diritto di ipoteca, ma non produce la cessazione degli effetti della formalità, la quale – avendo la pubblicità ipotecaria natura costitutiva – può conseguire soltanto alla cancellazione di cui all’art. 2882 c.c., da eseguirsi in forza di atto pubblico o scrittura privata autenticata. La diversità fra le due fattispecie risalta particolarmente allorché, a seguito della “cancellazione” ex legge Bersani bis, la causa estintiva dell’obbligazione venga meno per qualsiasi ragione: in tal caso il creditore ipotecario non avrà l’onere di procedere ad una nuova iscrizione, potendo giovarsi della garanzia reale acquisita con l’iscrizione originaria, la quale deve considerarsi come mai venuta meno. In conseguenza di ciò, il Tribunale ritiene il rifiuto opposto dal Conservatore non condivisibile ed accoglie il reclamo, ordinando di procedere all’annotazione di cancellazione sulla base del titolo presentato dal Notaio Romolo Romani. [Precedenti] La sentenza in epigrafe è, a quanto consta, la prima a pronunciarsi sul nuovo istituto della “cancellazione semplificata” delle ipoteche, introdotta dalla legge n. 40 del 2007, di conversione del d.l. 31 gennaio 2007, n. 7. 341 Novità giurisprudenziali Studium Iuris, 3/2010 Tale istituto prevede che, qualora il creditore sia soggetto esercente attività bancaria o finanziaria, l’ipoteca iscritta a garanzia di obbligazioni derivanti da contratto di mutuo si estingue automaticamente alla data di avvenuta estinzione dell’obbligazione garantita. A seguito del verificarsi del fatto estintivo dell’obbligazione, la banca è tenuta a rilasciare al debitore quietanza attestante la data di estinzione dell’obbligazione e a trasmettere al conservatore la relativa comunicazione entro trenta giorni dalla stessa data. Il Conservatore, ricevuta la detta comunicazione, deve procedere d’ufficio alla cancellazione dell’ipoteca. Malgrado il tenore letterale del disposto normativo sia chiaro nel senso che si tratti di cancellazione dell’ipoteca, le Circolari che l’Agenzia del Territorio ha emanato in adempimento di quanto previsto dall’art. 13, comma 8-octies, della citata legge hanno escluso che a seguito della comunicazione da parte del debitore il Conservatore possa (o, meglio, debba) procedere all’annotazione in cancellazione a margine dell’iscrizione ipotecaria, propendendo per attribuire alla pubblicità della “cancellazione semplificata” il mero ruolo di pubblicità notizia. Allineandosi a tale interpretazione, la pronuncia qui presentata chiarisce la portata degli effetti della suddetta “cancellazione”, negando che essa produca la rimozione degli effetti della formalità ipotecaria, limitandosi piuttosto a consentire la conoscibilità legale dell’avvenuta estinzione del debito cui la garanzia accede. Di conseguenza, la “cancellazione semplificata” non impedisce che il creditore possa comunque giovarsi dell’ipoteca, in quanto estinta ma non cancellata, nei casi di inefficacia originaria o sopravvenuta del fatto estintivo dell’obbligazione, sicché tale formalità pubblicitaria non dà alcuna sicurezza né al debitore né ad eventuali terzi acquirenti del bene ipotecato. [Nota bibliografica] La documentazione dell’Agenzia del Territorio la quale è stata posta a base della decisione in epigrafe è: Circolare Agenzia del Territorio 1° giugno 2007, n. 5/T; Circolare Agenzia del Territorio 20 agosto 2007, n. 11/T; Risoluzione Agenzia del Territorio 6 novembre 2007, n. 86788; Circolare Agenzia del Territorio 8 novembre 2007, n. 12/T; Circolare Agenzia del Territorio 20 novembre 2007, n. 13/T. Sulla “cancellazione semplificata” delle ipoteche si vedano, ex plurimis, Petrelli, Cancellazione di ipoteche a garanzia di mutui nella legge 2 aprile 2007, n. 40, in Notariato 2007, p. 110 ss.; Bianca, La cancellazione d’ufficio dell’ipoteca: profili sistematici, in Vita not. 2008, p. 623 ss.; Chianale, Le nuove regole sulla cancellazione dell’ipoteca per i mutui bancari (l. 2 aprile 2007, n. 40), in R. d. civ. 2007, II, p. 487 ss.; Tassinari, Semplificazione nel procedimento di cancellazione dell’ipoteca nei mutui immobiliari, in Notariato 2007, p. 137 ss.; Ceolin, La c.d. portabilità dei mutui e la cancellazione semplificata delle ipoteche nel decreto Bersani bis, in Nuove l. civ. comm. 2008, p. 259 ss. Sul punto si veda anche l’interessante volume curato dalla Fondazione Italiana per il Notariato: Aa.Vv., La procedura di c.d. cancellazione semplificata delle ipoteche, Roma 2008. La pronuncia in epigrafe è stata pubblicata in Riv. not. 2009, II, p. 1222 ss., con nota di Bevilacqua. 342 [Francesco Oliviero] Rassegne Diritto civile IL DANNO ESISTENZIALE SINTESI – L’intervento delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 n. 26972-3-4-5 era atteso da quanti auspicavano ponesse fine all’aspra contrapposizione tra esistenzialisti e non esistenzialisti, contrasto che aveva finito col travolgere anche la stessa Corte di Cassazione, nelle cui decisioni degli ultimi anni è riscontrabile la mancanza di una linea interpretativa chiara ed uniforme. Al danno esistenziale erano infatti dedicati ben sei degli otto quesiti dell’ordinanza di rimessione, e la risposta data delle Sezioni Unite è chiara: di danno esistenziale come categoria autonoma non è più dato discorrere. Tuttavia pregiudizi di tipo esistenziale, ricompresi nella unitaria categoria “danno non patrimoniale”, non suscettibile di suddivisione in sottocategorie, possono essere risarciti se derivanti da lesione di diritti costituzionalmente protetti, nel rispetto della tipicità del danno non patrimoniale sancita dall’art. 2059 c.c., in presenza dell’ulteriore requisito della gravità dell’offesa e della serietà delle conseguenze dannose. In questo modo la Corte intende porre un argine al dilagare delle cc.dd. cause bagatellari. Con una motivazione forse eccessivamente lunga ed articolata queste quattro sentenze dettano dei punti fermi, ma non sono in grado di fornire elementi adeguati agli interpreti i quali tutt’oggi si trovano in una situazione decisamente instabile. DOTTRINA [1] Premessa Il danno esistenziale, frutto dell’elaborazione dottrinale degli anni ‘90 della Scuola triestina, nasce per far fronte alle numerose richieste risarcitorie di nuovi danni alla persona che non potevano trovare tutela sotto la tradizionale voce danno morale o sotto la nuova figura danno biologico (P. Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Contratto e impr. 1994, p. 864; P. Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in R. crit. d. priv. 1998, p. 567). Originariamente dipinto come tertium genus, il danno esistenziale consiste in ogni pregiudizio attinente al fare areddituale della persona, al venire meno delle “attività realizzatrici” legate alla quotidianità dell’individuo e alle sue abitudini di vita. Nel 2003 la Corte di cassazione (Cass. 31 maggio 2003 n. 8827 e n. 8828 in F. it. 2003, I, c. 2272), smentendo clamorosamente la posizione di quanti avevano prospettato la natura di danno evento del danno esistenziale, secondo cui la lesione di diritti di rilevanza costituzionale andrebbe incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sè della lesione (tesi che aveva trovato accoglimento anche in Cass. civ., sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713, in Danno e resp. 2000, p. 841), afferma con decisione la natura consequenziale del danno non patrimoniale, confortata successivamente dalla Corte costituzionale (Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233, in F. it. 2003, I, c. 2201), la quale conferma la linea già dettata nel 1994 con la nota sentenza Mengoni (a favore del danno conseguenza: A. Thiene, L’inesorabile declino della regola restrittiva in tema di danni non patrimoniali, in Nuove l. civ. comm. 2003, p. 13; accoglie, invece, con evidente diffidenza le decisioni delle Corte di cassazione e della Corte costituzionale, e in particolare la categoria del “danno conseguenza” A. Procida Mirabelli Di Lauro, Il sistema di responsabilità civile dopo la 343 Il diritto di sopraelevazione Studium Iuris, 3/2010 sentenza della Corte Costituzionale n. 233/2003, in Danno e resp. 2003, p. 964). Nell’abbracciare la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059, la Corte di cassazione, nell’àmbito della bipolarità del sistema di responsabilità civile e sconvolgendo un sistema di risarcimento del danno alla persona che gravitava attorno all’art. 2043, riconduce all’interno dell’art. 2059 e della categoria unitaria del danno non patrimoniale il danno derivante da reato (danno morale soggettivo), il danno derivante da diritti costituzionalmente garantiti e il danno biologico; successivamente la Corte costituzionale, pur avvallando la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059, contrariamente a quanto affermato dalla Cassazione pochi mesi prima, eleva il danno esistenziale a categoria ontologicamente diversa rispetto al danno biologico e al danno morale, prospettando un vero e proprio sistema tripartito nell’àmbito dei danni non patrimoniali dell’art. 2059 e accogliendo in questo modo le idee di parte esistenzialista secondo cui il danno esistenziale si differenzierebbe da un lato dal danno biologico in quanto non derivante da lesione della salute, e d’altro lato dal danno morale in quanto esteriorizzabile e non meramente interiore (P. Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. n. 8828/2003, in Resp. civ. 2003, p. 691). Quello che consegue a queste ormai famose pronunce, è un panorama giurisprudenziale confuso ed incerto che alimenta il già forte contrasto tra esistenzialisti e non-esistenzialisti, soprattutto con riguardo alla corretta interpretazione da dare al filtro dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, che vale a distinguere la sfera di ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale dalla sfera di ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale (critico nei confronti del nuovo orientamento e del sistema bipolare è A. Procida Mirabelli Di Lauro, L’art. 2059 c.c. va in paradiso, in Danno e resp. 2003, p. 831; diffidenti appaiono pure gli Autori di scuola triestina: P. Ziviz, Brevi riflessioni sull’ingiustizia del danno non patrimoniale, in Resp. civ. 2003, p. 1336; P. Ziviz, Il nuovo volto dell’art. 2059 c.c., in Resp. civ. 2003, p. 1041; favorevole, invece, ad una rigida selezione dei diritti inviolabili F. Gazzoni, L’art. 2059 c.c. e la Corte costituzionale: la maledizione colpisce ancora, in Resp. civ. 2003, p. 1292 e G. Ponzanelli, La Corte costituzionale si allinea con la Corte di cassazione, in Danno e resp. 2003, p. 962; denunciano altresì la tendenza ad un certo « lassismo risarcitorio » F.D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp. 2003, p. 826 e M. Bona, Il danno esistenziale bussa alla porta e la Corte costituzionale apre (verso il nuovo art. 2059), in Danno e resp. 2003, p. 941). Nonostante la condivisa necessità di un intervento, neanche le Sezioni Unite, con le quattro pronunce “gemelle”, sono riuscite a sopire il confronto dottrinale tra esistenzialisti e anti-esistenzialisti, confronto che ha praticamente monopolizzato l’attenzione all’interno di una materia così ampia come quella della responsabilità civile. [2] Il filtro dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata e l’ulteriore filtro della serietà della lesione/gravità del danno Le Sezioni Unite, ponendosi nel solco tracciato nel 2003, aderiscono all’orientamento anti-esistenzialista di quanti negavano la necessità di una terza categoria di danno non patrimoniale [G. Ponzanelli, Sei ragioni per escludere il risarcimento del danno esistenziale, in G. Ponzanelli (a cura di), Il risarcimento integrale senza il danno esistenziale, Milano 2007], affermando che il danno esistenziale era nato per colmare un vuoto di tutela che ormai più non sussiste grazie alla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059. Proprio la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 permette il risarcimento “integrale” di tutti i pregiudizi non patrimoniali, senza che si debba ricorrere a figure di danno variamente denominate. Le conseguenze dannose di tipo esistenziale in realtà non sono cosa diversa dai pregiudizi non patrimoniali, e verrebbe alimentato il pericolo di duplicazioni risarcitorie se si provvedesse alla liquidazione di entrambi, non sussistendo differenza rispetto all’ampio genus dei pregiudizi non patrimoniali. Le critiche al danno esistenziale muovono dalla constatazione che attraverso la creazione di categorie generalizzanti, quale quella del danno esistenziale, si finirebbe per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, com’è effettivamente per il danno patrimoniale, rendendo risarcibili tutte le perdite a prescindere dall’esistenza di un diritto/interesse costituzionalmente tutelato. Viene inoltre condivisa la considerazione delle Sezioni Unite sulla opportunità di introdurre un ulteriore filtro, per fini di deterrenza, fondato sulla serietà della lesione e sulla gravità del danno (E. Navarretta, I danni non patrimoniali: lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Milano 2004; sostiene che questo ulteriore filtro dovrebbe intervenire più sulla determinazione sul quantum che non 344 Studium Iuris, 3/2010 Rassegne sull’an risarcitorio, dovendo i diritti inviolabili essere sempre coperti da una tutela seppur minima G. Ponzanelli, Sezioni Unite: il “nuovo statuto” del danno non patrimoniale, in F. it. 2009, c. 134). Da parte esistenzialista, invece, reazioni estremamente critiche lamentano l’incapacità di chiarire la soluzione del problema, l’assenza di un’indicazione certa dei criteri e delle modalità con le quali risarcire, se del caso, il danno esistenziale (P. Cendon, Ha da passà a nuttata, 14 novembre 2008 e G. Cassano, Primissime note critiche, 11 novembre 2008, in www.personaedanno.it). Tra i commenti delusi della dottrina esistenzialista viene denunciata innanzitutto la palese ostilità nei confronti del nome “danno esistenziale” (prospettata da P. Ziviz, Danno esistenziale: solo il tuo nome è mio nemico, in Resp. civ. 2008, p. 83) che guida le Sezioni Unite in una motivazione contraddittoria e in molti punti portatrice di un linguaggio tipicamente esistenzialista. Ma al di là della questione puramente nominalistica, è evidente che il principio di integrale riparazione del danno non può prescindere da una attenta selezione dei diritti personali inviolabili; è proprio questa questione ad alimentare ulteriormente la diatriba sul danno esistenziale poichè, alla luce della clausola di apertura dell’art. 2 Cost., si rischierebbe di allargare a dismisura l’area dei pregiudizi risarcibili - fino all’inclusione dello stress o di meri disagi e fastidi - con conseguente “perdita di identità” della stessa categoria del danno non patrimoniale. [3] Profili probatori e liquidatori Il danno non patrimoniale costituisce danno conseguenza che va allegato e provato; occorre quindi fornire la prova ulteriore del verificarsi del danno non patrimoniale anche nel caso in cui questo sia riconducibile alla lesione di valori costituzionalmente garantiti (i diritti inviolabili della persona). Con particolare riferimento ai pregiudizi di tipo esistenziale, al danneggiato spetta l’onere di dimostrare di avere subito, in seguito a un fatto illecito, una modificazione negativa della propria sfera personale, una compromissione delle sue attività realizzatrici (tramite prova documentale o testimoniale; particolare attenzione è riconosciuta alla prova per presunzioni) [P. Cendon (a cura di), La prova e il quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale, 2, Torino 2008]. Per quanto riguarda la quantificazione del danno non patrimoniale, il danno esistenziale è desti- nato a soccombere innanzitutto davanti al danno biologico “dinamico”, tendenzialmente onnicomprensivo, che ricomprende i pregiudizi esistenziali conseguenti alla lesione della salute, come previsto nella definizione legislativa contenuta nel Codice delle Assicurazioni (destinata ad avere portata generale, come affermato in un obiter dictum dalle Sezioni Unite): « lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito » (artt. 138 e 139). In altre parole, ogniqualvolta sia ravvisabile un danno di tipo biologico, non si potrà procedere a liquidazione autonoma del danno esistenziale, il quale potrà consistere tutt’al più in una “personalizzazione” del biologico riconosciuto. In secondo luogo, il danno esistenziale è destinato a venire assorbito all’interno del danno morale nei casi di perdita del rapporto parentale in quanto, altrimenti, si avrebbe duplicazione risarcitoria in presenza di una sofferenza unica (immediata/protratta nel tempo). Se da un lato le proposte della Corte vengono accolte con favore, le critiche esistenzialiste denunciano innanzitutto il rischio di under-compensation patologica (e le annesse problematiche in tema di assicurazione obbligatoria) insita nel procedimento di “personalizzazione” (G. Fortunato, Duplicazioni, automatismi e semplificazioni nella nuova sistematica del danno non patrimoniale, in Danno e resp. 2009, p. 797). Il giudice, una volta verificato il presupposto (l’ingiustizia costituzionalmente qualificata), dovrebbe essere libero di risarcire o meno il danno esistenziale e di determinare il quantum risarcitorio in base al principio di integrale risarcimento del danno individuando il complesso delle ripercussioni negative sul “valore-uomo” (P. Cendon, Cass. S.U. n. 26972/2008: non con l’accetta per favore, 18 novembre 2008 in www.personaedanno.it). GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ [1] Premessa Dal momento in cui il confronto dottrinale si è spostato sul piano giurisprudenziale si è sviluppa- 345 Il diritto di sopraelevazione Studium Iuris, 3/2010 to un forte disorientamento tra gli operatori del diritto. Alla prima sentenza che ha espressamente riconosciuto il danno esistenziale (Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, in Danno e resp. 2000, p. 841) è seguito un periodo caratterizzato da pronunce fortemente contraddittorie: mentre da un lato non poche sentenze di legittimità negavano radicalmente l’esistenza del danno esistenziale in sé o come autonoma categoria di danno risarcibile (Cass. 15 luglio 2005, n. 15022, in F. it. 2006, I, c. 1344, in cui si afferma che non si può fare riferimento a una generica categoria di danno esistenziale « dagli incerti e non definiti confini »; Cass. 9 novembre 2006, n. 23918, in F. it. 2007, II, c. 227, c.d. Segreto, in cui la Corte, in sintonia con le previsioni del 2003, ravvisa duplicazione risarcitoria nella corresponsione di danno biologico e danno esistenziale, secondo la previsione del Codice delle Assicurazioni), una giurisprudenza sterminata che lo inquadrava ora come danno evento, risarcibile per il solo configurarsi del fatto lesivo, mutuando il ragionamento svolto dalla Corte costituzionale nel 1986 per il danno biologico (Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, in Corr. giur. 2000, p. 873; Cass. 10 maggio 2001, n. 6507, in Nuova g. civ. comm. 2002, p. 536; Cass. 18 aprile 2007, n. 9233, in Danno e resp. 2008, p. 151), ora come danno conseguenza, risarcibile solo in presenza di puntuale allegazione e prova (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828, in F. it., 2003, I, c. 2272; Cass. civ., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572, in F. it. 2006, I, c. 1344; Cass. 6 febbraio 2007, n. 2546 in Resp. civ. 2007, p. 1279; Cass. 30 ottobre 2007, n. 22884, in F. it. 2007, I, c. 3879) pareva giunta a riconoscere il danno esistenziale quale autonoma categoria giuridico-sistematica. Nel persistere di questa situazione di completo disordine (con pronunce di stampo contrario a pochi giorni di distanza le une dalle altre: Cass. 2 febbraio 2007, n. 2311, in F. it. 2007, I, c. 747 e Cass. 6 febbraio 2007, n. 2546, in Resp. civ. 2007, p. 1279: « il danno esistenziale deve essere autonomamente apprezzato e valutato equitativamente, in quanto costituisce un autonomo titolo di danno »; di altro parere è Cass. 20 aprile 2007, n. 9510, in Resp. civ. 2007, p. 802: « non può formare oggetto di tutela una generica figura di “danno esistenziale” nella quale far confluire fattispecie non previste dalla norma e non ricavabili dall’interpretazione costituzionale dell’articolo 2059 c.c. »; in questo stesso senso: Cass. 8 ottobre 2007, n. 20987, in Resp. civ. 2008, p. 865; ma dopo pochi mesi si sono nuovamente pronunciate in favore dell’esistenza della categoria del danno esistenziale e del suo autonomo risarcimento le recenti Cass. 31 gennaio 2008, n. 2379, in Mass. F. it. 2008, n. 186 e Cass. 12 febbraio 2008, n. 3284, in Danno e resp. 2008, p. 445), un nuovo intervento delle Sezioni Unite pareva inevitabile al fine di ricomporre le file della disciplina risarcitoria. [2] Il filtro dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata e l’ulteriore filtro della serietà della lesione/gravità del danno Si può riscontrare nelle sentenze di legittimità successive una sostanziale uniformità con l’impianto delineato dalle Sezioni Unite, secondo cui pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili come danni non patrimoniali derivanti da lesione di diritti costituzionalmente protetti. Con riguardo al filtro dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, la Cassazione sancisce la non risarcibilità del danno da stress per lungaggini burocratiche, in quanto non esiste un corrispondente contra jus costituzionale (Cass. 9 aprile 2009, n. 8703, in Danno e resp. 2009, p. 764 con commento di G. Ponzanelli e in Nuova g. civ. comm. 2009, p. 1007): coerentemente con quanto affermato dalle Sezioni Unite, il sistema di responsabilità civile non può servire a risarcire pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti e ogni altra insoddisfazione della vita quotidiana. Viene invece riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per peggioramento della qualità della vita del danneggiato in seguito ad illecito penale, dovuto all’obbligo di sottoporsi ad esami clinici per controllare l’assenza di patologia tumorale, ritenuto provato con metodo presuntivo, coerentemente con le indicazioni delle Sezioni Unite (Cass. 13 maggio 2009, n. 11059, in Danno e resp. 2009, p. 776 con commento di G. Ponzanelli e in Nuova g. civ. comm. 2009, p. 888): « comunque li abbia qualificati, la Corte d’Appello ha risarcito tutti i pregiudizi che ha ragionevolmente ritenuto derivanti dal reato, in linea con gli enunciati principi ». Per quanto riguarda l’ulteriore filtro della serietà della lesione e della gravità del danno, esemplificativa è la recente cassazione delle sentenze che avevano riconosciuto il danno non patrimoniale di tipo esistenziale in seguito al black out elettrico del 27-28 settembre 2003 (Cass., ord. 21 settembre 2009, n. 20324, in www.altalex.com). Solo in pochi casi la Cassazione ha disatteso le indicazioni fornite (tra le sentenze che sollevano 346 Studium Iuris, 3/2010 Rassegne dubbi in merito alla costituzionalità del diritto leso Cass. 2 settembre 2009, n. 19092, in www.altalex.com, conferma la sentenza d’appello che aveva risarcito il danno biologico di una donna in seguito ad errato intervento medico e il danno esistenziale al marito per perdita del diritto alla sessualità coniugale previsto dall’art. 143 c.c.). In un caso di immissioni, la Cassazione ha riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale a favore di una famiglia costretta per lungo tempo a subire gli effetti molesti, fastidiosi ed insalubri del fumo passivo e a tenere chiuse le finestre anche in piena estate per tutelare la propria salute (Cass., ord. 31 marzo 2009, n. 7875, in Danno e resp. 2009, p. 763 e in Nuova g. civ. comm. 2009, p. 893). È necessario ricordare come le pronunce in tema di immissioni storicamente siano state terreno fertile per l’applicazione delle teorie esistenzialiste: in mancanza di una lesione alla salute medicalmente accertabile, venivano risarciti i danni esistenziali dovuti alle condizioni di disagio provocate da immissioni oltre la soglia della tollerabilità, potendosi trovare un contra jus costituzionale nel generico diritto al benessere e alla serenità personale in nome dell’art. 2 Cost., e spesso finendo per risarcire automaticamente un danno in re ipsa. La sentenza in esame descrive le « conseguenze delle lamentate immissioni sul modo di vivere la casa dei danneggiati », e per la Cassazione tanto basta ad individuare ciò che può essere liquidato come danno non patrimoniale. Anche in tema di danno da demansionamento e riconoscimento del danno esistenziale è venuta col tempo a crearsi una ampia casistica: si tratta di ipotesi di risarcimento danni non patrimoniali in àmbito contrattuale legislativamente prevista (Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008 n. 26972, in Giur. it. 2009, p. 1380, con nota di M. Vizioli, Il c.d. danno esistenziale ancora di fronte le Sezioni unite della suprema Corte di cassazione: in particolare la tutela della persona del lavoratore). Le Sezioni Unite avevano già dato la loro interpretazione in relazione all’autonoma categoria del danno esistenziale consistente nel danno arrecato dal datore di lavoro alla possibilità del lavoratore di realizzarsi come persona nell’ambiente lavorativo e di conseguenza nella vita sociale e familiare (Cass. civ., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572, in F. it. 2006, I, c. 1344); in base all’art. 2087 c.c. (violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità del lavoratore) possono trovare tutela anche nell’àmbito del diritto del lavoro interessi e diritti costituzionali quali l’art. 32 Cost. (integrità psicofisica del lavoratore) e gli artt. 2, 4, 32 Cost. (dignità della persona del lavoratore), come avviene nei casi di pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvono nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa. Un interessante intervento della Suprema Corte analizza, con particolare attenzione, il tema del risarcimento del danno non patrimoniale, a seguito di demansionamento, alla luce delle Sez. Un. dell’11 novembre 2008, cassando la sentenza della Corte d’appello che aveva accertato il demansionamento con metodo presuntivo; il Giudice, liquidando somme di vario importo e imputandole a titolo di danno esistenziale e morale contravveniva alle indicazioni delle Sezioni Unite circa il pericolo di duplicazioni risarcitorie e secondo le quali il danno non patrimoniale costituisce categoria unitaria (Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 2008, n. 29832, in www.cortedicassazione.it). A contrario, è stato riconosciuto il danno esistenziale (come categoria autonoma, non come parte dell’unica categoria danno non patrimoniale), ritenuto provato con metodo presuntivo, quale lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, con incidenza sulla vita professionale e di relazione dell’interessato (la sentenza fa esplicito riferimento alle sez. un. del 2006, ignorando le recenti pronunce di San Martino: Cass. civ., sez. lav., 5 ottobre 2009 n. 21223, in www.altalex.com). [3] Profili probatori e liquidatori La prima conferma della nuova impostazione proviene dalle stesse Sezioni Unite (Cass. sez. un. 16 febbraio 2009 n. 3677 in Resp. civ. 2009, p. 754): « il danno esistenziale . . . costituisce un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente solo perchè diversamente denominato ». La S.C. rigetta l’ultimo motivo di ricorso « non avendo il danno esistenziale richiesto una valenza autonoma e quindi non essendo cumulabile in relazione al danno morale », rispettando così l’unitarietà della categoria danno non patrimoniale. L’ord. 21 settembre 2009 n. 20324, in www.altalex.com, sul caso dei danni bagatellari da black out elettrico, interviene su una questione fondamentale: la domanda di risarcimento non può essere formulata in termini generici; parlare di danno non patrimoniale in termini consequenziali comporta per il richiedente un onere di allegazio- 347 Il diritto di sopraelevazione Studium Iuris, 3/2010 ne e un onere della prova, al fine di permettere al giudice una valutazione fondata su fatti concreti che possono comportare una diversità di apprezzamento. Afferma la Cassazione che, da un punto di vista probatorio, il Tribunale (in sede di appello alla sentenza del Giudice di Pace) aveva riconosciuto esistente il danno senza che l’attore l’avesse provato e neanche avesse richiesto di provarlo, assumendo come assioma che un qualche danno doveva essersi prodotto secondo la massima di esperienza per cui una interruzione di energia protratta, secondo l’id quod plerumque accidit, comporta danni economicamente apprezzabili. La pretesa massima di esperienza di natura causaleprobabilistica è stata affermata dal Tribunale senza alcun riferimento alla vicenda concreta ed in modo del tutto astratto. Aggiungono i Giudici di legittimità che la motivazione fornita dal Tribunale sarebbe insufficiente e anzi apodittica poiché ha preteso di « trasformare la regola probabilistica generale in regola di inferenza probabilistica adeguata al caso concreto senza offrire alcuna giustificazione ». GIURISPRUDENZA DI MERITO [1] Premessa Le sez. un. insistono sulla pericolosità della diffusione di cause bagatellari; con tale locuzione si individuano « le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, oppure quelle in cui tale danno, pur essendo ontologicamente serio, è tuttavia per la coscienza sociale insignificante o irrilevante per il livello raggiunto ». Nella giurisprudenza di merito ci sono state sentenze che hanno riconosciuto il danno esistenziale per il black out elettrico che ha determinato la rinuncia a quelle attività di riposo e svago che costituiscono la normale aspettativa di ogni essere umano, protetta dall’art. 2 Cost., valutato equitativamente in 225,00 euro (Giudice di Pace di Casoria, 13 luglio 2005, n. 2781), o ancora sentenze che hanno riconosciuto il danno esistenziale per la rottura del tacco della scarpa della sposa (Giudice di Pace di Palermo, 17 maggio 2004, n. 4859). Le sez. un. affermano che i princìpi sanciti costituiscono principio informatore della materia, che come tale deve essere rispettato dai giudici di merito, anche nel caso di giudizio secondo equità, che comunque non è un giudizio extra-giuridico. In pochi casi, rispetto alla copiosità della produzione giurisprudenziale di merito in tema di danno non patrimoniale, i giudici riconoscono e applicano i principi dettati dalla Suprema Corte. [2] Il filtro dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata e l’ulteriore filtro della serietà della lesione/gravità del danno Una delle conseguenze dei contrasti giurisprudenziali a livello di legittimità è la loro ripercussione sull’attività dei giudici di merito, che spesso hanno riconosciuto il risarcimento in casi di lesioni di dubbio riferimento ai valori costituzionali (Trib. Salerno 13 gennaio 2009, in www.personaedanno.it, riconosce il danno esistenziale a due sposi per il viaggio di nozze rovinato per la « violazione del diritto costituzionalmente garantito ad esplicare la propria personalità anche in vacanza, intesa quale luogo privilegiato di ricreazione e rigenerazione della persona, oltre che di manifestazione delle sue attività realizzatrici, specie se connesse ad un’esperienza così emotivamente significativa nel percorso di vita di una persona come il viaggio di nozze »; Trib. Genova 4 maggio 2009, in www.personaedanno.it, riconosce il danno esistenziale, ravvisato nell’impossibilità di sostenere l’esame di maturità e, in particolare, nel vulnus al percorso di studi intrapreso, con la prospettiva di dover compiere ulteriori sforzi per la relativa preparazione, a due studenti; Trib. Messina 11 settembre 2009, in www.personaedanno.it, condanna un padre che aveva trascurato le figlie al risarcimento del danno non patrimoniale, per lesione del diritto costituzionalmente protetto dagli artt. 29 e 30 Cost. con riferimento ai valori tutelati dall’art. 2 Cost., e cioè il diritto dell’individuo di essere tutelato all’interno e nella sua appartenenza ad una di quelle formazioni sociali ove si svolge la personalità; Trib. Milano 30 gennaio 2009, in www.personaedanno.it, risarcisce il danno non patrimoniale, diverso dal biologico, comprensivo della sofferenza transeunte e di ogni altro pregiudizio connesso alla forzosa compressione che l´infortunio ha cagionato allo sviluppo dell’impegno nell’attività sportiva praticata). Da un’analisi delle sentenze di merito di quest’ultimo anno, si nota che nella maggior parte dei casi non vi è stato alcun abbandono delle categorie che aiutavano a perimetrare i tipi di danno. Infatti, secondo buona parte dei giudici di merito, non vi sarebbero ragioni dogmatiche per non continuare a risarcire il danno esistenziale (risarcisce 348 Studium Iuris, 3/2010 Rassegne espressamente il danno esistenziale come voce autonoma di danno: Trib Montepulciano 2 aprile 2009, in www.personaedanno.it, secondo cui il danno esistenziale, afferendo alle limitazioni delle attività realizzatrici della persona, è ontologicamente diverso sia dal danno biologico sia dal danno morale, sicché ogni voce di danno va risarcita autonomamente; confermano il tradizionale riconoscimento del danno esistenziale il Trib. Venezia 24 marzo 2009, in www.personaedanno.it, in un caso di immissioni ed il Trib. Ravenna 23 marzo 2009, in www.personaedanno.it, in un caso di demansionamento). In alcuni casi, tuttavia, hanno trovato accoglimento le indicazioni fornite dalle Sezioni Unite (App. Perugia, 24 novembre 2008, in www.personaedanno.it, ha risarcito l’insieme dei danni non patrimoniali subiti da una bambina di quattro anni che era stata improvvisamente aggredita da un cane: allorché l’evento lesivo produca conseguenze pregiudizievoli sia sull’integrità psico-fisica, sia ancora sulla sfera dinamica della persona, la voce di danno da liquidarsi sarà quella biologica con una personalizzazione doverosa, tale da coprire tutte le faglie sofferenziali; nello stesso caso, Trib. Nola 22 gennaio 2009, in Resp. civ. 2009, p. 1366, riconosce la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, ribadendo il divieto di automatismi risarcitori nella determinazione del quantum; Trib. Venezia 3 agosto 2009, in www.personaedanno.it, in un caso di malpractice medica, sottolinea che « nulla può essere riconosciuto a titolo di danno esistenziale » essendo ricompreso nella nozione di danno biologico dinamico; Trib. Roma 30 luglio 2009, in www.personaedanno.it, in un caso di lesione del rapporto parentale conseguente ad incidente stradale, riconosce il danno non patrimoniale, provato per presunzione, ai congiunti della vittima non ravvisando alcun autonomo danno esisten- ziale; Trib. Venezia 31 gennaio 2009, in www.personaedanno.it, riconosce il danno derivante da pericolo di lesione della salute ex art. 32 cost. conseguente a una puntura con una siringa abbandonata: l’ansia e la preoccupazione non possono essere assolutamente paragonati a meri disagi e fastidi). [3] Profili probatori e liquidatori È soprattutto in punto di liquidazione che, pur dichiarando di riconoscere e condividere le previsioni delle sez. un., i giudici di merito finiscono per risarcire comunque separatamente le tradizionali voci di danno, affermando che non si possa ravvisare una duplicazione del risarcimento (cumula danno morale e danno esistenziale: App. Salerno 8 gennaio 2009 in Resp. civ. 2009, p. 1362; cumulano invece danno biologico e danno esistenziale: Trib. Venezia 14 maggio 2009, in www.personaedanno.it, in quanto il caso in esame, nonostante le previsioni delle Sezioni Unite, mal si presterebbe ad appiattimento sul solo profilo lesione della salute psichica; Trib. Roma 6 luglio 2009, in www.personaedanno.it, liquida il danno biologico di una donna conseguente a omessa terapia medica, adeguatamente personalizzato per quanto riguarda i danni morali ed inoltre risarcisce il danno non patrimoniale per la perdita del nascituro; in materia di demansionamento: Trib. Bologna 15 settembre 2009, in www.personaedanno.it, risarcisce il danno non patrimoniale sul piano morale ed esistenziale non compreso nella componente relazionale del danno biologico e Trib. Reggio Calabria 15 luglio 2009, in www.personaedanno.it individua danno biologico e, separatamente, danno esistenziale stante la loro natura sostanzialmente diversa). 349 [Marika Rioda] Giurisprudenza costituzionale a cura di Paolo Veronesi Aggiornamento alla G.U. n. 2 del 13 gennaio 2010 SENTENZE Sentenza 30 novembre, n. 318 – Infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 2, e 73, comma 3, della legge della Regione Liguria 6 giugno 2008 n. 16 (Disciplina dell’attività edilizia), sollevata, in riferimento all’art. 117, comma 2, lett. e) ed l), Cost. Il rimettente sosteneva che la normativa in oggetto avrebbe introdotto nuove ipotesi di trascrizione nei registri immobiliari non previste dalla legislazione statale (artt. 2643 e 2645 c.c.), con ciò violando la competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. Per la Corte, all’opposto, le norme codicistiche non contengono alcun elenco; esse adottano invece una formulazione aperta, riferendosi ad « ogni altro atto o provvedimento », destinato a produrre gli effetti indicati. Facendo leva sul tenore della disposizione, per la Corte si deve quindi ritenere che la norma de qua, la quale non esisteva nel testo iniziale del codice e fu introdotta in sede di coordinamento al momento dell’emanazione del codice stesso, comporta il superamento del principio, largamente accolto sotto il vigore del precedente codice civile, del carattere tassativo dell’elenco degli atti da trascrivere. Tale carattere sarebbe quindi venuto meno, non potendosi dubitare che, nell’ordinamento attuale, possano essere trascritti anche atti non espressamente contemplati dalla legge, purché producano gli stessi effetti degli atti previsti in modo esplicito. In questo contesto nel caso di specie rileva che la giurisprudenza di legittimità, pur con accenti diversi, ha qualificato il vincolo gravante sulle aree a parcheggio come diritto reale d’uso, di natura pubblicistica, che la legge pone a favore dei condomini del fabbricato cui accede e limita il diritto di proprietà dell’area. Detto vincolo di destinazione, così qualificato, è senz’altro assimilabile, quanto agli effetti che ne derivano, al « diritto di uso sopra beni immobili », il cui atto costitutivo o modificativo è soggetto a trascrizione, in quanto rientrante nel catalogo degli atti contemplati dall’art. 2643 c.c. Pertanto, anche l’atto di asservimento che costituisce quel vincolo va trascritto, ai sensi dell’art. 2645 c.c. Su questa pronuncia e sul tema da essa affrontato, si v. supra p. 243 ss., il contributo del Notaio Gaetano Petrelli. Sentenza 18 dicembre 2009, n. 333 – Illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale. In applicazione dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale conseguenziale dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale. Sentenza 18 dicembre 2009, n. 335 – Infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 537, comma 3, c.c., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 30, comma 3, Cost. In base alla norma impugnata « i figli legittimi possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali ». Nella sua pronuncia la Corte ribadisce « come dall’art. 30 della Costituzione non discenda in maniera costituzionalmente necessitata la parificazione di tutti i parenti naturali ai parenti legittimi », in quanto « un ampio concetto di “parentela naturale” non è stato recepito dal legislatore costituente, il quale si è limitato a prevedere la filiazione naturale ed a stabilirne l’equiparazione a quella legittima, peraltro con la clausola di compatibilità » (sentenza n. 532 del 2000). Ragione per cui è essenziale valutare la ragionevolezza del trattamento differenziato, commisurata « alla dinamica evolutiva dei rapporti sociali » (sentenza n. 377 del 1994). In esito a una simile verifica la Corte conclude quindi per l’infondatezza. Sentenza 18 dicembre 2009, n. 336 – Infondatezza la questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, comma 2, 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost. Il Consiglio Nazionale Forense in sede giurisdizionale, da un lato, denunciava la irragionevolezza intrinseca che caratterizzerebbe la scelta normativa di perequare, agli effetti del giudizio disciplinare, la « efficacia probatoria » che scaturisce dalla pronuncia di « condanna a seguito di dibattimento e quella di applicazione della 350 Studium Iuris, 3/2010 Giurisprudenza costituzionale pena su richiesta delle parti ». Dall’altro lato, il Consiglio Nazionale lamentava l’ulteriore (presunta) incoerenza rappresentata dal fatto che, a fronte della medesima sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, si assegni alla stessa una efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, mentre identici effetti sono esclusi nel giudizio civile ed in quello amministrativo. 351 Giurisprudenza comunitaria a cura di Giulio Carpaneto Aggiornamento al 18 gennaio 2009 Sentenza 586/08 del 17 dicembre 2009 – [Direttiva 2005/36/CE – Riconoscimento di diplomi – Nozione di “professione regolamentata” – Selezione di un numero predeterminato di persone attraverso una valutazione comparativa che attribuisce un titolo di limitata validità temporale – Idoneità scientifica nazionale – Docente universitario] Un cittadino italiano ha conseguito nel 2005 in Germania titoli che lo abilitavano all’insegnamento nelle università tedesche. Rientrato in Italia ha iniziato l’attività di ricerca scientifica nell’università veneziana di Cà Foscari ed ha chiesto il riconoscimento dei suoi titoli didattici tedeschi per ottenere la docenza in Italia, ma il Ministero italiano ha respinto le domande. Ne è sorto un contenzioso, nel corso del quale il giudice ha chiesto lumi alla Corte. Questa ha osservato che la circostanza che l’accesso ad una professione sia riservato ai candidati selezionati mediante una procedura diretta ad ottenere un numero predeterminato di persone sulla base di una valutazione comparativa dei candidati piuttosto che mediante l’applicazione di criteri assoluti e che conferisce un titolo la cui validità temporale è strettamente limitata non implica che tale professione sia una professione regolamentata ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. a) della Direttiva n. 2005/36/CE. Tuttavia, gli artt. 39 e 42 CE impongono che le qualifiche acquisite in altri Stati membri siano riconosciute per il loro giusto valore e siano debitamente prese in considerazione nell’ambito di tale procedura. Sentenza 229/08 del 12 gennaio 2010 – [Direttiva 2000/78 CE – Art.4, n. 1 – Divieto di discriminazioni a motivo dell’età – Norma nazionale che pone a 30 anni il limite di età per l’assunzione nel corpo dei vigili del fuoco – Finalità perseguita – Nozione di esigenza professionale essenziale e determinante] Sentenza 341/08 del 12 dicembre 2010 – [Direttiva 2000/78/CE – Artt. 2, n. 5 e 6, n. 1 – Divieto di discriminazioni a motivo dell’età – Norma nazionale che fissa a 68 anni il limite di età per l’esercizio della professione di dentista convenzionato – Finalità perseguita – Nozione di “misura necessaria per la tutela della salute” – Coerenza – Idoneità e logica della misura] Sentenza 226/08 del 14 dicembre 2010 – [Direttiva 92/43/CEE – Conservazione degli ambienti naturali nonché della fauna e della flora selvatiche – Decisione dello Stato membro interessato di approvare il progetto di lista dei siti di importanza comunitaria redatto dalla Commissione – Interessi e punti di vista da prendere in considerazione] Sentenza 233/08 del 14 dicembre 2010 – [Mutua assistenza in materia di ricupero dei crediti – Direttiva 76/308/CEE – Facoltà di controllo della magistratura dello Stato membro o dell’autorità designata ad hoc – Efficacia esecutiva del titolo che consente l’esecuzione del ricupero – Regolarità della notifica del titolo al debitore – Notifica in una lingua non compresa dal destinatario] Nel 1999 l’ufficio centrale doganale di Weiden (Germania) emetteva un’ingiunzione di pagamento di imposta a carico di un cittadino della Repubblica ceca, incaricando della notifica il Ministero delle finanze della Repubblica ceca. Nel 2004 il fisco tedesco rinnovava l’ingiunzione, chiedendo al ministero ceco di procedere all’incasso del credito. Alla riscossione materiale veniva delegata un’autorità locale, che adiva il giudice. Il destinatario del provvedimento si difendeva sollevando diverse eccezioni formali quanto all’identità del destinatario e alla lingua del documento trasmessogli. La controversia giungeva in ultimo grado e il giudice si rivolgeva alla Corte. Questa dichiarava che: 1) L’art. 12, n. 3, della Direttiva 76/308/CEE, modificata dalla Direttiva 2001/44/CE va interpretato nel senso che la magistratura dello Stato membro o l’autorità designata ad hoc sono incompetenti, in linea di massima, ad accertare il carattere esecutivo del titolo che consente il ricupero del credito. Se invece un giudice di detto Stato membro è investito di una domanda mirante ad invalidare o ad accertare l’irregolarità del provvedimento di esecuzione, come la notifica del titolo esecutivo, detto giudice è competente ad accertare se dette misure sono state adottate ritualmente secondo i canoni legislativi e regolamentari vigenti in detto Stato membro. 2) Nell’ambito della mutua assistenza istituita con la Direttiva 76/308, modificata con la Direttiva 2001/44, il destinatario di un titolo esecutivo che consente il ricupero deve, per essere posto in grado di far valere i propri diritti, ricevere la notifica di detto titolo in una lingua ufficiale dello Stato membro nel quale risiede l’au- 352 Studium Iuris, 3/2010 Giurisprudenza comunitaria torità designata ad hoc. Per garantire l’osservanza di detto diritto, spetta al giudice nazionale applicare il diritto nazionale sempre salvaguardando la piena efficacia del diritto comunitario. Sentenza 304/08 del 14 gennaio 2010 – [Direttiva 2005/29/CE – Pratiche commerciali sleali – Normativa nazionale che vieta in linea di massima le pratiche commerciali che subordinano la partecipazione dei consumatori ad un gioco promozionale all’acquisto di un bene o di un servizio] Una società commerciale tedesca organizzava una lotteria abbinata all’acquisto di un determinato volume di prodotti nei suoi negozi. La centrale tedesca che controlla la concorrenza chiedeva al giudice nazionale di ingiungere all’impresa promotrice dell’azione pubblicitaria di sospenderla immediatamente, trattandosi di un’iniziativa vietata dalla legge nazionale che disciplina la concorrenza. Iniziava così una vera e propria controversia giurisdizionale, che giungeva in ultimo grado. A questo punto il giudice consultava la Corte, chiedendo se la legge nazionale fosse compatibile con la normativa comunitaria sulla concorrenza e la Corte così si pronunciava: la Direttiva 2005/29/CE va interpretata nel senso che osta ad una norma nazionale, come quella contestata nella causa principale, che sancisce un divieto di massima, senza tener conto delle circostanze specifiche della fattispecie, delle pratiche commerciali che fanno dipendere la partecipazione dei consumatori ad un concorso o ad un gioco promozionale dall’acquisto di un bene o di un servizio. 353 Novità legislativea a cura di Simona Droghetti Aggiornamento alla G.U. n. 13 del 18 gennaio 2010 D.P.R. 30 luglio 2009, n. 189 – Regolamento concernente il riconoscimento dei titoli di studio accademici, a norma dell’art. 5 della l. 11 luglio 2002, n. 148 (G.U. 28 dicembre 2009, n. 300). Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 18 settembre 2009, n. 185 – Modificazioni al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 19 giugno 2003, n. 179 e successive modificazioni ed integrazioni, recante la disciplina dei concorsi pronostici su base sportiva (G.U. 22 dicembre 2009, n. 297). D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181 – Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell’art. 6 della l. 3 agosto 2004, n. 206 (G.U. 16 dicembre 2009, n. 292). Legge 3 dicembre 2009, n. 187 – Ratifica ed esecuzione dell’Accordo di cooperazione tra la Comunità europea e i suoi Stati membri da un lato, e la Confederazione svizzera, dall’altro, per lottare contro la frode ed ogni altra attività illecita che leda i loro interessi finanziari, con atto finale, processo verbale e dichiarazioni, fatto a Lussemburgo il 26 ottobre 2004 (Suppl. ordinario n. 241 alla G.U. n. 299 del 24 dicembre 2009). Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare l’Accordo di cooperazione tra la Comunità europea e i suoi Stati membri da un lato, e la Confederazione svizzera, dall’altro, per lottare contro la frode ed ogni altra attività illecita che leda i loro interessi finanziari, con atto finale, processo verbale e dichiarazioni, fatto a Lussemburgo il 26 ottobre 2004. Decreto del Ministro dell’economia e delle Finanze 4 dicembre 2009 – Modifica del saggio di interesse legale (G.U. 15 dicembre 2009, n. 291). Con il presente provvedimento la misura del saggio degli interessi legali di cui all’art. 1284 c.c. è fissata all’1% in ragione d’anno, con decorrenza dal 1° gennaio 2010. Decreto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare 17 dicembre 2009 – Istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, ai sensi dell’art. 189 del d. legisl. n. 152 del 2006 e dell’art. 14 bis del d. l. n. 78 del 2009 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009 (Suppl. ordinario n. 10 alla G.U. n. 9 del 13 gennaio 2010). D. Legisl. 20 dicembre 2009, n. 198 – Attuazione dell’art. 4 della l. 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici (G.U. 31 dicembre 2009, n. 303). Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 24 dicembre 2009 – Rilevazione dei tassi effettivi globali medi, 1° luglio – 30 settembre 2009, vigenti dal 1° gennaio al 31 marzo 2010 (G.U. 30 dicembre 2009, n. 354 Studium Iuris, 3/2010 Novità legislative 302). A decorrere dal 1° gennaio 2010, data di entrata in vigore del presente decreto, e fino al 31 marzo 2010, ai fini della determinazione degli interessi usurari ai sensi dell’art. 2, comma 4, della l. 7 marzo 1996, n. 108, i tassi riportati nella tabella allegata al presente provvedimento devono essere aumentati della metà. D. L. 29 dicembre 2009, n. 193 – Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario (G.U. 30 dicembre 2009, n. 302). Si riporta di seguito il testo integrale del decreto: Art. 1. Modifiche al decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51. 1. Al comma 1 dell’articolo 245 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, le parole: « non oltre il 31 dicembre 2009 » sono sostituite dalle seguenti: « non oltre il 31 dicembre 2010». 2. I giudici onorari e i vice procuratori onorari che esercitano le funzioni alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il cui mandato scade entro il 31 dicembre 2009 e per i quali non è consentita un’ulteriore conferma secondo quanto previsto dall’articolo 42-quinquies, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, sono ulteriormente prorogati nell’esercizio delle rispettive funzioni fino alla riforma organica della magistratura onoraria e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2010. Art. 2. Modifiche alla legge 4 maggio 1998, n. 133. 1. Alla legge 4 maggio 1998, n. 133, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 1: 1) il comma 3 è sostituito dal seguente: « 3. Il Consiglio superiore della magistratura, con delibera, su proposta del Ministro della giustizia, individua annualmente le sedi disagiate, in numero non superiore a ottanta »; 2) al comma 4, primo periodo, le parole: « in numero non superiore a cento unità » sono sostituite dalle seguenti: « in numero non superiore a centocinquanta unità »; b) l’articolo 1-bis è abrogato; c) all’articolo 2, comma 1, primo periodo, le parole: « e 1-bis» sono soppresse; d) all’articolo 2, comma 3, le parole: « e 1-bis» sono soppresse; e) all’articolo 5, comma 1, primo periodo, le parole: « e 1-bis» sono soppresse. 2. Per l’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo è autorizzata la spesa complessiva di euro 2.934.953 per l’anno 2010 e di euro 2.574.329 a decorrere dall’anno 2011, cui si provvede: a) quanto a euro 2.934.953 per l’anno 2010, mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa relativa al Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307; b) quanto a euro 2.574.329 a decorrere dall’anno 2011, mediante l’utilizzo di quota parte delle maggiori entrate derivanti dalle disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell’articolo 4. Art. 3. Copertura delle sedi rimaste vacanti per difetto di magistrati richiedenti. 1. Fino al 31 dicembre 2014, per le sedi individuate quali disagiate ai sensi dell’articolo 1 della legge 4 maggio 1998, n. 133, rimaste vacanti per difetto di aspiranti e per le quali non siano intervenute dichiarazioni di disponibilità o manifestazioni di consenso al trasferimento, il Consiglio superiore della magistratura provvede, nei limiti previsti dall’articolo 1, comma 4, della legge 4 maggio 1998, n. 133, con il trasferimento d’ufficio dei magistrati che abbiano conseguito la prima o la seconda valutazione di professionalità, con esclusione di coloro che abbiano conseguito valutazioni superiori alle predette. Il trasferimento d’ufficio di cui al presente comma può essere altresì disposto nei confronti dei magistrati che svolgono da oltre dieci anni le stesse funzioni o, comunque, si trovano nella stessa posizione tabellare o nel medesimo gruppo di lavoro nell’ambito delle stesse funzioni e che alla scadenza del periodo massimo di permanenza non hanno presentato domanda di trasferimento ad altra funzione o ad altro gruppo di lavoro all’interno dell’ufficio ovvero ad altro ufficio, o che tale domanda abbiano successivamente revocato. Il trasferimento d’ufficio di cui al presente articolo può essere disposto esclusivamente in sedi disagiate che distano oltre 100 chilometri dalla sede ove il magistrato presta servizio. Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa all’interno di altri distretti della stessa regione, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160. 2. Non possono essere trasferiti d’ufficio ai sensi del presente articolo: a) magistrati in servizio presso uffici in cui si determinerebbero vacanze superiori al 20 per cento dell’organico; b) magistrati in servizio presso altre sedi disagiate; c) magistrati che sono stati assegnati o trasferiti nella sede ove prestano servizio ai sensi dell’articolo 1, comma 5, della legge 10 marzo 1987, n. 100, o dell’articolo 33, comma 5, della legge 5 febbraio 1992, n. 104; d) magistrati che sono genitori di prole di età inferiore a tre anni. 3. La percentuale di cui al comma 2, lettera a), è calcolata per eccesso o per difetto a seconda che lo scarto decimale sia superiore o inferiore allo 0,5; se lo scarto decimale è pari allo 0,5 l’arrotondamento avviene per difetto. 4. Le condizioni per il trasferimento d’ufficio devono sussistere alla data di pubblicazione della delibera di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 4 maggio 1998, n. 133. 5. Il trasferimento d’ufficio è disposto nei confronti dei magistrati di cui al comma 1 che prestano servizio nel distretto nel quale sono compresi i posti da coprire, ovvero, se ciò non è possibile, nei distretti limitrofi o nei distretti delle regioni limitrofe. Per il distretto di Cagliari si considerano limitrofi i distretti di Genova, Firenze, Roma, Napoli e Palermo; per il distretto di Messina anche quello di Reggio Calabria e per il distretto di Reggio Calabria anche quelli di Messina e Catania. Per la Sardegna si considerano limitrofe le regioni Liguria, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia; per la Sicilia si considera limitrofa la regione Calabria e per la Calabria anche la regione Sicilia. 6. Nel caso di pluralità di distretti limitrofi o di regioni limitrofe viene dapprima preso in considerazione il distretto il cui capoluogo ha la minore distanza chilometrica ferroviaria e, se del caso marittima, con il capoluogo del distretto presso il quale il trasferimento deve avere esecuzione. 7. Nell’ambito del distretto, l’ufficio da cui operare i trasferi- 355 Novità legislative Studium Iuris, 3/2010 menti è individuato con riferimento alla minore percentuale di scopertura dell’organico; in caso di pari percentuale, il trasferimento è operato dall’ufficio con organico più ampio. Nell’ambito dell’ufficio è trasferito il magistrato con minore anzianità nel ruolo. 8. Ai magistrati trasferiti ai sensi del presente articolo si applicano gli articoli 2, 3 e 5 della legge 4 maggio 1998 n. 133. Art. 4. Misure urgenti per la digitalizzazione della giustizia. 1. Con uno o più decreti del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, sentito il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione e il Garante per la protezione dei dati personali, adottati, ai sensi dell’articolo 17 comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono individuate le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni. Le vigenti regole tecniche del processo civile telematico continuano ad applicarsi fino all’adozione dei decreti di cui ai commi 1 e 2. 2. Nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano, nei casi consentiti, mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, e delle regole tecniche stabilite con i decreti previsti dal comma 1. Fino all’adozione del decreto del Ministro della giustizia di cui al comma 1 contenente le regole tecniche in materia di notificazioni e comunicazioni per via telematica, le stesse sono effettuale nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. 3. All’articolo 51, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, sono apportate le seguenti modificazioni: a) i commi 1, 2 e 3 sono sostituiti dai seguenti: « 1. A decorrere dal quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana dei decreti di cui al comma 2, negli uffici giudiziari indicati negli stessi decreti, le notificazioni e le comunicazioni di cui al primo comma dell’articolo 170 del codice di procedura civile, la notificazione di cui al primo comma dell’articolo 192 del codice di procedura civile e ogni altra comunicazione al consulente sono effettuate per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata di cui all’articolo 16 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale. La notificazione o comunicazione che contiene dati sensibili è effettuata solo per estratto con contestuale messa a disposizione, sul sito internet individuato dall’amministrazione, dell’atto integrale cui il destinatario accede mediante gli strumenti di cui all’articolo 64 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. 2. Con uno o più decreti aventi natura non regolamentare, da adottarsi entro il 1° settembre 2010, sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio nazionale forense ed i consigli dell’ordine degli avvocati interessati, il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione, individuando gli uffici giudiziari nei quali trovano applicazione le disposizioni di cui al comma 1. 3. A decorrere dalla data fissata ai sensi del comma 1, le no- tificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento alle parti che non hanno provveduto ad istituire e comunicare l’indirizzo elettronico di cui al medesimo comma, sono fatte presso la cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario »; b) il comma 5 è sostituito dal seguente: « 5. Il secondo comma dell’articolo 16 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, è sostituito dal seguente: “Nell’albo è indicato, oltre al codice fiscale, l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato ai sensi dell’articolo 16, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Gli indirizzi di posta elettronica certificata ed i codici fiscali, aggiornati con cadenza giornaliera, sono resi disponibili per via telematica al Consiglio nazionale forense ed al Ministero della giustizia nelle forme previste dalle regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ». 4. All’articolo 40 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, è aggiunto, in fine, il seguente comma: « 1-bis. Con il decreto di cui al comma 1, l’importo del diritto di copia rilasciata su supporto cartaceo è fissato in misura superiore di almeno il cinquanta per cento di quello previsto per il rilascio di copia in formato elettronico ». 5. Fino all’emanazione del regolamento di cui all’articolo 40 del citato decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, i diritti di copia di cui all’Allegato n. 6 del medesimo decreto sono aumentati del cinquanta per cento ed i diritti di copia rilasciata in formato elettronico di atti esistenti nell’archivio informatico dell’ufficio giudiziario sono determinati, in ragione del numero delle pagine memorizzate, nella misura precedentemente fissata per le copie cartacee. Conseguentemente, fino alla stessa data, è sospesa l’applicazione dell’Allegato n. 8 al medesimo decreto.6. Il maggior gettito derivante dall’aumento dei diritti di cui ai commi 4 e 5 è versato all’entrata del bilancio per essere riassegnato, per la quota parte eccedente rispetto a quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, lettera b), ad appositi capitoli dello stato di previsione del Ministero della giustizia per il funzionamento e lo sviluppo del sistema informatico, con esclusione delle spese di personale. 7. Il Ministero della giustizia può avvalersi di Consip S.p.a., anche in qualità di centrale di committenza ai sensi dell’articolo 33 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, per l’attuazione delle iniziative in tema di digitalizzazione dell’Amministrazione della giustizia e per le ulteriori attività di natura informatica individuate con decreto del Ministero della giustizia. Il Ministero della giustizia e Consip S.p.a. stipulano apposite convenzioni dirette a disciplinare i rapporti relativi alla realizzazione delle attività di cui al presente comma, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato. 8. Al codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 125, primo comma, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: « che indica il proprio codice fiscale »; b) all’articolo 163, terzo comma, n. 2), le parole: « il cognome e la residenza dell’attore » sono sostituite dalle seguenti: « il cognome, la residenza e il codice fiscale dell’attore » e le parole: « il nome, il cognome, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono » sono sostituite dalle seguenti: « il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono »; c) all’articolo 167, primo comma, dopo le parole: « Nella 356 Studium Iuris, 3/2010 Novità legislative comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare » sono inserite le seguenti: « le proprie generalità e il codice fiscale »; d) dopo l’articolo 149 è inserito il seguente: « Art. 149-bis (Notificazione a mezzo posta elettronica). – Se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo. Se procede ai sensi del primo comma, l’ufficiale giudiziario trasmette copia informatica dell’atto sottoscritta con firma digitale all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario risultante da pubblici elenchi. La notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario. L’ufficiale giudiziario redige la relazione di cui all’articolo 148, primo comma, su documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia. La relazione contiene le informazioni di cui all’articolo 148, secondo comma, sostituito il luogo della consegna con l’indirizzo di posta elettronica presso il quale l’atto è stato inviato. Al documento informatico originale o alla copia informatica del documento cartaceo sono allegate, con le modalità previste dal quarto comma, le ricevute di invio e di consegna previste dalla normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici trasmessi in via telematica. Eseguita la notificazione, l’ufficiale giudiziario restituisce all’istante o al richiedente, anche per via telematica, l’atto notificato, unitamente alla relazione di notificazione e agli allegati previsti dal quinto comma ». 9. Per consentire il pagamento, da parte dei privati, con sistemi telematici di pagamento ovvero con carte di debito, di credito o prepagate o con altri mezzi di pagamento con moneta elettronica disponibili nei circuiti bancario e postale, del contributo unificato, del diritto di copia, del diritto di certificato, delle spettanze degli ufficiali giudiziari relative ad attività di notificazione ed esecuzione, delle somme per il recupero del patrocinio a spese dello Stato, delle spese processuali, delle spese di mantenimento, delle pene pecuniarie, delle sanzioni amministrative pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie il Ministero della giustizia si avvale, senza oneri a carico del bilancio dello Stato, di intermediari abilitati che, ricevuto il versamento delle somme, ne effettuano il riversamento alla Tesoreria dello Stato, registrando in apposito sistema informatico a disposizione dell’amministrazione i pagamenti eseguiti e la relativa causale, la corrispondenza di ciascun pagamento, i capitoli e gli articoli d’entrata. Entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, determina con proprio decreto, sentito il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione, le modalità tecniche per il riversamento, la rendicontazione e l’interconnessione dei sistemi di pagamento, nonché il modello di convenzione che l’intermediario abilitato deve sottoscrivere per effettuare servizio. Il Ministero della giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, stipula apposite convenzioni a seguito di procedura di gara ad evidenza pubblica per la fornitura dei servizi e delle infrastrutture senza ulteriori oneri a carico del bilancio dello Stato. 10. Il Ministro della giustizia è autorizzato ad adottare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, un regolamento al fine di disciplinare la tipologia e le modalità di estrazione, raccolta e trasmissione dei dati statistici dell’Amministrazione della giustizia all’archivio informatico centralizzato esistente, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato. 11. Si considerano in ogni caso necessarie, ai sensi dell’articolo 20, quinto comma, della legge 5 agosto 1978, n. 468, le spese continuative relative alla gestione dei sistemi informatici del Ministero della giustizia, derivanti dall’adesione a contratti quadro stipulati dal Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione. Art. 5. Entrata in vigore. 1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge. D. L. 30 dicembre 2009, n. 194 – Proroga di termini previsti da disposizioni legislative (G.U. 30 dicembre 2009, n. 302). Legge 23 dicembre 2009, n. 191 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010) (Suppl. Ordinario n. 243 alla G.U. n. 302 del 30 dicembre 2009). Il presente provvedimento normativo, in vigore dal 1° gennaio 2010, si caratterizza per essere strutturato in due articoli suddivisi a loro volta in svariati commi. L’art. 1, articolato in quattro commi, è dedicato ai risultati differenziali; l’art. 2, articolato in 253 commi, contiene disposizioni relative ad agevolazioni fiscali, misure per il finanziamento dell’apprendistato, modifiche alla disciplina del lavoro accessorio e della somministrazione di lavoro, disposizioni concernenti comuni, province e comunità montane, modifiche alla disciplina delle spese di giustizia, previsione di convenzioni tra il Ministero della Giustizia e le Regioni per il potenziamento del servizio giustizia, nuove modalità di pubblicazione delle sentenze di condanna, varie disposizioni di carattere finanziario. Si riportano di seguito, per la loro rilevanza, i commi 212-218, 220, dell’art. 2 del provvedimento: 357 Novità legislative Studium Iuris, 3/2010 (omissis) 212. Al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 9, comma 1, le parole: « le esenzioni previste » sono sostituite dalle seguenti: « quanto previsto »; b) all’articolo 10: 1) i commi 4 e 5 sono abrogati; 2) dopo il comma 6 è aggiunto il seguente: « 6-bis. Nei procedimenti di cui all’articolo 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni, gli atti del processo sono soggetti soltanto al pagamento del contributo unificato, nonché delle spese forfetizzate secondo l’importo fissato all’articolo 30 del presente testo unico. Nelle controversie di cui all’articolo unico della legge 2 aprile 1958, n. 319, e successive modificazioni, e in quelle in cui si applica lo stesso articolo, è in ogni caso dovuto il contributo unificato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione »; c) all’articolo 13: 1) il comma 2 è sostituito dal seguente: « 2. Per i processi di esecuzione immobiliare il contributo dovuto è pari a euro 200. Per gli altri processi esecutivi lo stesso importo è ridotto della metà. Per i processi esecutivi mobiliari di valore inferiore a 2.500 euro il contributo dovuto è pari a euro 30. Per i processi di opposizione agli atti esecutivi il contributo dovuto è pari a euro 120»; 2) al comma 2-bis sono premesse le seguenti parole: « Fuori dei casi previsti dall’articolo 10, comma 6-bis»; 3) il comma 4 è abrogato. 213. Entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, stipula una o più convenzioni in base alle quali si provvede alla gestione dei crediti relativi alle spese di giustizia regolate dal citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, conseguenti ai provvedimenti passati in giudicato o divenuti definitivi fino al 31 dicembre 2007, o inerenti al mantenimento in carcere per condanne, per le quali sia cessata l’espiazione della pena in istituto prima della stessa data, mediante le seguenti attività: a) acquisizione dei dati anagrafici del debitore e quantificazione del credito, nella misura stabilita dal decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell’articolo 205 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni; b) iscrizione a ruolo del credito. 214. Restano in ogni caso ferme le disposizioni del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, che attengono alla natura del credito, incluse quelle riferite alle condizioni per l’esigibilità dello stesso. 215. Le risorse derivanti dalla gestione dei crediti relativi alle spese di giustizia di cui al comma 213 sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, previa verifica della compatibilità finanziaria con gli equilibri di finanza pubblica da parte del Ministero dell’economia e delle finanze, con particolare riferimento al rispetto del conseguimento, da parte dell’Italia, dell’indebitamento netto strutturale concordato in sede di programma di stabilità e crescita, alle pertinenti unità previsionali di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia e destinate al finanziamento di un piano straordinario per lo smaltimento dei processi civili e al potenziamento dei servizi istituzionali dell’amministrazione giudiziaria. 216. All’articolo 36, quarto comma, secondo periodo, del codice penale, dopo le parole: « capoversi precedenti » sono aggiunte le seguenti: « salva la pubblicazione nei giornali, che è fatta unicamente mediante indicazione degli estremi della sentenza e dell’indirizzo internet del sito del Ministero della giustizia ». 217. Al comma 4 dell’articolo 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, la lettera b) è sostituita dalla seguente: « b) la pubblicazione della sentenza ai sensi dell’articolo 36 del codice penale ». 218. All’articolo 18 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, il comma 2 è sostituito dal seguente: « 2. La pubblicazione della sentenza avviene ai sensi dell’articolo 36 del codice penale nonché mediante affissione nel comune ove l’ente ha la sede principale ». (omissis) 220. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della giustizia stipula con le regioni una o più convenzioni, finanziate con le risorse del Fondo per le aree sottoutilizzate di cui all’articolo 61 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, per la realizzazione di progetti finalizzati al rilancio dell’economia in ambito locale attraverso il potenziamento del servizio giustizia. 358 Indici a cura di Mirko Faccioli, Mauro Tescaro e Riccardo Villani INDICE DELLE QUESTIONI Dir. civ. Donazione manuale Proc. pen. Patteggiamento Consulente tecnico 302 * * 303 304 * INDICE DELLE NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI 1. INDICE ANALITICO ALFABETICO 1a sottovoce Voce Affidamento di minori Compravendita - ascolto del minore - garanzia per vizi Contratti in generale Detenzione di stupefacenti a fini di spaccio - interpretazione del contratto Diritto penale Esecuzione forzata Ipoteca Lesioni colpose Truffa - attenuante del fatto di lieve entità - dolo specifico - prescrizione del reato - esecuzione in forma specifica - cancellazione - aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica - dipendente pubblico, assente dal lavoro, che fa timbrare il cartellino dal collega 2a sottovoce Pag. - necessità - assunzione dell’impegno di eliminare i vizi della cosa - natura di giudizio di fatto 311 318 318 - e dolo eventuale riforma ex l. n. 251 del 2005 dell’obbligo di contrarre ex l. n. 40 del 2007 337 333 314 305 341 - e condotta imprudente del lavoratore 335 - sussistenza del reato 336 2. INDICE CRONOLOGICO CASSAZIONE CIVILE Schede in formato tema Sezione sez. un. Data 11 novembre 2009 359 Numero Pag. 23825 305 Indici Studium Iuris, 3/2010 Schede Sezione II sez. un. Data 9 giugno 2009 21 ottobre 2009 Numero Pag. 21621 22238 318 311 Massime Sezione I I I sez. un. I I I II II II II I I I sez. lav. sez. un. III III III III III III sez. un. sez. un. III III III III III III II II III III III III III II II II 4 6 6 7 7 7 7 10 10 10 10 11 11 11 12 19 19 19 19 19 19 19 20 20 20 20 20 20 20 20 20 20 28 31 31 2 2 2 2 2 Data Numero Pag. Sezione agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 agosto 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 17936 17994 17996 18077 18086 18099 18107 18188 18192 18192 18192 18218 18218 18223 18250 18375 18399 18401 18401 18402 18402 18406 18499 18509 18514 18515 18515 18528 18540 18544 18560 18561 18799 18892 18899 19083 19089 19097 19099 19099 331 329 328 313 333 329 327 329 321 321 321 319 319 326 332 313 333 330 330 326 326 322 313 312 327 324 327 322 323 330 320 320 329 331 325 325 333 324 325 325 II I I I II II II II sez. un. sez. un. sez. un. V II II I I I I I I III III II II II I II II II II II I II I I I I II II II 360 2 4 4 4 7 7 7 8 9 10 10 10 10 10 10 11 11 12 12 15 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 22 22 23 23 24 24 24 24 24 Data Numero Pag. settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 19104 19216 19226 19234 19283 19289 19292 19384 19393 19447 19448 19486 19557 19559 19560 19690 19703 18233 18234 19813 20101 20104 20106 20106 20107 20143 20228 20245 20254 20256 20258 20392 20414 20436 20444 20544 20544 20614 20608 20614 322 326 328 322 320 321 326 322 313 312 312 319 324 323 326 330 329 333 328 331 326 332 323 323 323 332 322 323 321 320 324 319 324 333 326 331 332 324 321 324 Studium Iuris, 3/2010 Indici Massime Sezione II II I III III III III III III II 24 24 25 25 25 25 25 28 28 29 Data Numero Pag. Sezione settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 20623 20623 20625 20671 20671 20672 20684 20740 20743 20871 328 328 320 325 325 324 330 327 330 320 III III III III sez. lav. II II II II 30 30 30 30 30 30 30 30 30 Data Numero Pag. settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 settembre 2009 20948 20948 20949 20949 20980 20992 20992 20995 20997 323 328 330 330 331 321 321 322 321 Numero Pag. 32832 32837 32841 32846 32852 32854 33396 33408 33471 33419 33424 33491 33500 339 338 338 339 338 339 340 338 340 341 339 338 338 CASSAZIONE PENALE Schede in formato tema Sezione Data I sez. un. 7 ottobre 2009 10 dicembre 2009 Numero Pag. 41306 47008 333 314 Numero Pag. 37467 41471 42485 335 336 336 Schede Sezione Data IV II IV 24 settembre 2009 28 ottobre 2009 5 novembre 2009 Massime Sezione I VI V V V V V IV IV IV IV I VI Data 3 3 4 4 6 6 6 6 6 6 6 11 12 agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 Numero Pag. Sezione 31809 31817 31885 31894 32164 32173 32180 32190 32222 32232 32253 32623 32830 340 340 340 340 340 340 339 339 339 339 340 338 338 VI VI VI VI VI VI sez. fer. sez. fer. sez. fer. VI VI VI VI Data 12 12 12 12 12 12 17 17 17 18 18 27 27 agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto agosto 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 2009 GIURISPRUDENZA DI MERITO Organo giudicante Trib. Roma Data 4 giugno 2009 361 Pag. 341 Condizioni di abbonamento L’abbonamento decorre dalla data di perfezionamento del contratto d’acquisto e comunque dal primo numero utile. L’abbonamento si intenderà tacitamente disdetto in assenza di richiesta di rinnovo da comunicarsi con contestuale pagamento del canone almeno 30 giorni prima della data di scadenza. I fascicoli non pervenuti all’abbonato devono essere reclamati entro e non oltre un mese dal ricevimento del fascicolo successivo. Decorso tale termine saranno spediti contro rimessa dell’importo. ABBONAMENTO 2010 Italia r 144,00; Estero r 200,00 Il pagamento potrà essere effettuato tramite gli incaricati della Casa Editrice sottoscrivendo l’apposita ricevuta intestata a WKI Srl - Cedam, oppure con un versamento intestato a WKI Srl - Cedam - Viale dell’Industria, 60 – 35129 Padova - utilizzando le seguenti modalità: – Conto corrente postale 205351; – Bonifico Cassa di Risparmio del Veneto Agenzia - Padova - via Valeri - CIN C • ABI 06225 CAB 12163 • c/c 047084250184 • IBAN IT 30 C 06225 12163 047084250184; – Carta di credito Visa, Master Card, Carta Sì, American Card, American Express, Diners Club, Eurocard specificando il numero e la data di scadenza.