Com’è possibile un individualismo sociale? di Rino Genovese [da «La società degli individui», n. 41, 2011] 1. È stato Georg Simmel, dapprima con il pionieristico La differenziazione sociale e poi nella sua Sociologia2, a cogliere nell’accrescersi delle differenze in ogni settore della vita sociale l’aspetto fondamentale della modernità: qualcosa di più della semplice divisione del lavoro, pure oggetto d’importanti indagini da Marx a Durkheim. Ciò che sotto il termine ‘differenziazione’ Simmel mette a fuoco, infatti, è l’aumento della complessità sociale tout court: dai fenomeni apparentemente secondari (come la moda, enorme serbatoio di differenze e connessioni tra i gruppi sociali, che proprio nel loro distinguersi si relazionano all’insieme della società) alla diversità dei ruoli che fa sì che qualcuno, appartenendo contemporaneamente a cerchie differenti, possa essere, poniamo, buon padre di famiglia da una parte, e un terribile delinquente dall’altra. La teoria sociologica successiva, da Parsons a Luhmann, farà di tutto questo una sorta di vangelo codificandolo in modo astratto come differenziazione dei sistemi sociali secondo le loro funzioni: sicché la sfera del diritto deputata all’amministrazione della giustizia, per esempio, è altra cosa dalla politica come sfera in cui si prendono le decisioni collettive, e tutt’e due sono diverse dalla religione come momento del sacro e dei fini ultimi; laddove le funzioni si presentano in modo indifferenziato (si pensi al capo di una tribù che le riunisce tutte nella sua persona) o debolmente differenziato negli stadi dell’evoluzione sociale precedenti alla modernità. Caratteristica della teoria della differenziazione è di poggiare su una base fortemente evolutiva, in virtù dell’influenza su di essa del darwinismo e di Spencer. Differenziazione è anzitutto quella tra le specie, la segregazione o specializzazione degli organi, e tutta la complessa articolazione di funzioni che permette l’adattamento di un organismo all’ambiente. La possibilità di un ritorno indietro nella scala evolutiva, del riprecipitare anche solo parziale in momenti trascorsi dell’evoluzione, è esclusa da questo pensiero che, come si sa, è tutt’uno con l’idea di un progresso rettilineo. Del resto anche la visione della storia di Marx è incentrata su una teoria degli stadi influenzata da Darwin, oltre che da Hegel, secondo cui a una fase (cioè al dominio di un modo di produzione, di una formazione economico-sociale) segue un’altra che soppianta la precedente. L’intero pensiero sociale tra Ottocento e Novecento appare permeato da una coscienza evoluzionista, progressista in senso lato. Nel presente sono tutt’al più possibili sopravvivenze del passato, destinate però a dissolversi nel continuum dell’evoluzione sociale, che si lascerebbe descrivere come un processo di differenziazione dei sistemi sociali in un susseguirsi di fasi storiche diverse. A questo topos, che accomuna scuole di pensiero tra loro per il resto lontane come il marxismo e la sociologia, soltanto l’antropologia culturale sfugge almeno in parte. Non che in questa disciplina sia assente l’idea secondo cui dalla società 1 1 G. Simmel, La differenziazione sociale (1890), trad. it., con una introduzione di B. Accarino, Laterza, Roma-Bari 1982. 2 G. Simmel, Sociologia (1908), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1989. 1 ‘primitiva’ si arrivi per evoluzione alla civiltà occidentale moderna, ma il suo occuparsi di forme di vita ancora radicate nel mondo otto-novecentesco (lo stesso profondamente segnato dall’esperienza del colonialismo), il suo misurarsi con l’alterità in carne e ossa, le conferisce un di più di pathos nei confronti di ciò che, da un altro punto di vista, appare soltanto destinato a morire. Inoltre la stessa nozione di cultura, con i suoi molti usi e significati3, si presta a un numero tanto alto di variazioni sul tema da comprendere al suo interno sostanzialmente ogni manifestazione della vita sociale; mentre il termine ‘società’ della teoria sociologica, con la sua insistenza sui rapporti di proprietà e di potere, sulla sociologia politica più che sullo studio delle forme di vita (nonostante l’eccezione di Simmel e qualcun altro), è orientato ad assumere su di sé il carico dell’evoluzione sociale più di quanto lo sia il termine ‘cultura’ proprio dell’antropologia culturale. La mia tesi è perciò che il concetto di cultura si presti a cogliere sia l’originario grado d’indifferenziazione sociale più o meno relativa, sia le ricadute della differenziazione moderna in forme di vita totalmente o parzialmente dedifferenziate. Il possibile accostamento di questa problematica alla coppia concettuale ‘comunità’ versus ‘società’ – anch’essa caratteristica della tradizione sociologica – non coglierebbe nel segno. Perché in questa opposizione è in gioco la presenza o meno di un aspetto organico e locale (Tönnies definisce la comunità un «vincolo di sangue» e un «rapporto tra i corpi»4 di contro a una società per così dire disincarnata), mentre l’antropologia detta appunto culturale opera in modo sufficientemente vago da comprendere al suo interno gli svariati usi e costumi di qualsiasi forma di vita, non importa quanto estesa dal punto di vista spaziale purché suscettibile di una proiezione di se stessa (sia attraverso il mito e la tradizione sia proponendosi come unica forma di vita ‘illuminata’), e quindi di una durata nel tempo. A questa autosublimazione identitaria nessuna forma di vita sociale si sottrae. Il particolarismo olistico della cultura si distingue così dall’universalismo individualistico della società (usando liberamente la terminologia di Louis Dumont5); ma la distinzione tra i due modelli attiene alla scelta del punto di vista, alla prospettiva da cui una data forma di vita viene descritta, non alla presunta oggettività di una linea evolutiva univoca dall’uno all’altro. I totalitarismi novecenteschi possono perciò essere visti come un correttivo olistico, cioè culturale, entro un mondo come quello moderno che si vorrebbe compiutamente individualistico e quindi sociale: comprendendo sotto il termine ‘individualismo’ tanto quella differenziazione che, dal Rinascimento in avanti, ha visto la nascita e lo sviluppo dell’autonomia individuale, quanto quell’utilitarismo economico che, dalla Riforma protestante al liberalismo, ha contrassegnato la vita di ciò che si è soliti definire un individuo. Dumont descrive tutto questo in termini d’ideologia (l’individualismo sarebbe per lui l’ideologia moderna); ma, nella misura in cui non si tratta né di una falsa coscienza né soltanto di un insieme di credenze, quanto piuttosto di un insieme di usanze e costumi, di stili di vita e forme simboliche, che segna la modernità occidentale fino alla sua straripante espansione odierna, sembra preferibile descrivere tutto questo come cultura. La nozione di quest’ultima indicherebbe in definitiva sia ciò che con il suo carattere identitario e particolaristico si oppone a una società mondiale universalisticamente dispiegata, sia questa stessa pretesa universalistica quando si palesi come una tendenza identitaria tra altre. Nel 3 In proposito si veda il classico C. Kluckhohn, A. L. Kroeber, Il concetto di cultura (1952), trad. it., il Mulino, Bologna 1982. 4 F. Tönnies, Comunità e società (1887), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1979, p. 97. 5 L. Dumont, Saggi sull’individualismo, trad. it., Adelphi, Milano 1993. 2 secondo caso, quindi, essa non sarebbe niente di più che l’ossimoro di un universalismo che, non riuscendo a essere tale, finisce in un universalismo particolare. Questo universalismo spezzato dal suo contrario, cioè da una pluralità di forme di vita, che scopre se stesso come un particolare tra altri, è ciò che, nella prospettiva di un’autocritica dell’Occidente moderno6, si può descrivere come la compresenza di culture e tempi storici diversi dentro la cosiddetta storia universale. Ma è anche ciò su cui si è appuntata la critica del movimento socialista fin dai suoi albori nel fuoco della ottocentesca questione sociale. È come se il socialismo avesse proclamato: «Questo universalismo non è veramente universale perché esclude da sé gran parte dell’umanità, risultando amputato in virtù degli interessi particolari di una minoranza». Così, a partire dalla condizione a sua volta particolare della classe lavoratrice, esso cerca un’uscita verso un universale più largo e più autentico. Questa ‘mossa’ non abolisce l’universalismo: piuttosto tende a correggerne la forma storica concretamente realizzata. E soprattutto, con la sua proposta economica collettivistica, il socialismo non cancella l’individualismo moderno, ma lo modifica nel senso di una differenza individuale che non si esprima più essenzialmente come una differenza di censo e di potere. Questo aspetto era chiaro a Simmel quando rilevava che il socialismo non avrebbe abolito le differenze – ormai un dato acquisito nella modernità –, ma le avrebbe spostate da un ambito a un altro, dallo status economico al prestigio sociale. E naturalmente era chiaro a Jean Jaurès quando affermava: «Il socialismo è l’individualismo logico e completo»7. Solo un socialismo servito in salsa totalitaria, cioè come una soluzione olistico-culturale ai problemi posti dalla modernizzazione in paesi con un basso livello di sviluppo, ha potuto mirare a una dedifferenziazione tanto rozza da cancellare il momento individualistico moderno – al prezzo di un’asfissia generalizzata. Se il tratto dominante della modernità è dato dall’universalismo e dall’individualismo (o, in altre parole, dal suo essere in primis società e solo in seconda istanza cultura, quasi per un’incapacità di tenere fede alle promesse), un individualismo sociale sarebbe allora del tutto nelle cose. Eppure una prospettiva siffatta richiede di essere giustificata per via della sua forma paradossale, della sua natura di ossimoro in opposizione a un altro ossimoro – quello, come si è visto, dell’universalismo particolare. La domanda «com’è possibile un individualismo sociale?» riecheggia dunque quella simmeliana di derivazione trascendentale «com’è possibile la società?». La risposta che Simmel dava alla domanda era del tutto circolare e autoreferenziale8: la società è possibile grazie alla società perché, a differenza della natura di cui si occupa la teoria della conoscenza kantiana, le sue condizioni di possibilità non risiedono in una mente sia pure soltanto parzialmente esterna al suo oggetto, ma ricadono integralmente al suo interno. Così Simmel in sostanza accettava la prospettiva kantiana, limitandosi a dichiararne l’inadeguatezza ai fini di una teoria della società. Questa visione teorica non è riproponibile. La sua conseguenza immediata è di tipo armonicistico. L’individualismo sociale sarebbe nelle cose per la semplice ragione che le tendenze alla socializzazione (Vergesellschaftung) e alla 6 Cfr. il mio La tribù occidentale. Per una nuova teoria critica, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 7 J. Jaurès, Socialisme e liberté, in Le socialisme et la vie, Payot & Rivages, Paris 2011, p. 72. Non troppo diversa, anche se basata sulla teoria sistemica e sul rifiuto del trascendentale, la risposta di N. Luhmann, Come è possibile l’ordine sociale, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1985. 8 3 individualizzazione non sono che le due facce di un unico processo. Non vi sarebbe perciò alcuna difficoltà di fondo nel realizzare un individualismo sociale, anzi, questo sarebbe già sempre lì. Il momento olistico-culturale, secondo questa visione, è alle spalle: può sopravvivere tutt’al più come residuo ma non è attuale. L’individualismo moderno è già al di là del suo passato arcaico-tradizionale: significative ricadute all’indietro non possono esservi. La società afferma se stessa come il luogo della differenziazione crescente in cui è compresa la differenza individuale. Dopo di che, fenomeni come la rivoluzione iraniana del 1979, l’islamismo radicale, gli stessi totalitarismi del Novecento, risultano inesplicabili. La loro principale ragion d’essere, infatti, sta nella resistenza tenace che una modernità differenziante trova nelle tradizioni culturali, particolaristiche e olistiche, riprese e strumentalizzate in chiave politica, anche per proporre un universalismo alternativo a quello intrecciato con l’idea di autonomia individuale. Inoltre la nozione di trascendentale, cioè di un soggetto trascendentale che dètta le condizioni di possibilità dell’esperienza, è ormai inservibile. Questa filosofia era tutt’uno con l’affermazione dell’individuo nell’illuminismo, al quale il soggetto trascendentale dava una garanzia dell’esperienza, riferendosi a quelli che rubricava sotto la voce ‘soggetti empirici’ come alla loro autosublimazione identitaria. Perciò era parte dell’affermarsi della forma di vita occidentale moderna come unica forma di vita ‘illuminata’ cui ricondurre il mondo intero. La successiva interpretazione di Durkheim, che faceva del trascendentale kantiano nient’altro che la società stessa in quanto sovraordinata agli individui, è in questo senso affatto plausibile: perché, gonfiando il trascendentale (che già in precedenza appariva come il gonfiarsi dei soggetti empirici), lo elevava a principio sociale totale, ovverosia a cultura in senso olistico, bloccando qualsiasi dinamismo interno a questa trascendentalizzazione. Il trascendentale è la forma più alta di un universalismo prigioniero della sua potenza al punto da rendersi particolare e ristretto. Del resto, il fatto che anche Adolf Eichmann nel processo di Gerusalemme abbia potuto dichiararsi figlio del soggetto trascendentale e dell’imperativo categorico spinge a riflettere sul suo carattere intrinsecamente repressivo nei confronti degli individui. Le traversie storiche cui il nesso individuo-società è andato incontro nel corso del Novecento, insieme con una modernità rivelatasi nient’affatto univoca e a tutto tondo, indurrebbero allora a prendere semplicemente atto della fine del suo contenuto teorico-critico, che consiste nella tensione e irriducibilità reciproca dei due termini, e ad adeguarsi a un concetto di società che risolva interamente in sé l’individuo, o al contrario a un concetto d’individuo che cancelli la società, magari nel segno di un economicismo neoliberista ben contento di annunciare che «la società non esiste». Un’altra possibilità, invece, consiste nel rilanciare questo nesso prima che esso sia inghiottito nell’olismo delle culture – oggi aggressivo all’incirca quanto poteva esserlo ieri, nell’epoca dei nazionalismi e dei totalitarismi –, e al di là del mero individualismo soddisfatto di sé, impotente contro quell’olismo antindividualistico di cui si ritiene nemico. 2. I totalitarismi erano stati concepiti da Adorno e dalla Scuola di Francoforte come la fine dell’individuo liberale nella fase monopolistica del capitalismo: il che significava, anche dopo la sconfitta del fascismo, la realizzazione di una società ‘totalmente amministrata’ a Est come a Ovest. Così non c’era più alcuno scarto tra l’individuo e una società concepita come ‘cattivo universale’. Nella diagnosi francofortese il momento della differenziazione moderna semplicemente non 4 appariva; e anche l’individuo era solo un punto di riferimento dialettico per una conciliazione hegelo-marxiana, nell’identità dell’interesse individuale e di quello collettivo, utopicamente rimandata all’infinito9. Stando a questa impostazione teorica, però, non si spiegherebbe il prepotente ritorno dell’individuo di marca neoliberale nel quadro di un capitalismo oggi considerato come globale. Nei termini francofortesi sarebbe inesplicabile, perché la cosiddetta globalizzazione non andrebbe d’accordo con il liberalismo, semmai con una rafforzata gabbia d’acciaio weberiana. Questo nodo (che attiene anche alla già ricordata inconsistenza di ogni pensiero ‘per fasi’: prima ci sarebbe il capitalismo liberale, poi quello monopolistico, da ultimo quello globale, come se il capitalismo non fosse fin dall’inizio le tre cose: enfaticamente liberale, virtualmente monopolistico e tendente a espandersi nel mondo) contribuisce a rendere di nuovo attuale la questione del nesso individuo-società, nella tensione irrisolta tra i due termini. Insieme, certamente, con il ritornante olismo delle culture, diverso dal punto di vista politico da quello dei nazionalismi e totalitarismi novecenteschi, ma capace di soffocare in modo analogo l’individuo preso nella contrapposizione tra ‘noi’ e gli ‘altri’. La domanda «com’è possibile un individualismo sociale?» s’inscrive in questo contesto mutato. E il rapporto individuosocietà ritorna non tanto come concetto centrale della sociologia, quanto piuttosto come il nocciolo di una critica delle culture e del loro carattere olistico. La questione intorno alle condizioni di possibilità di un individualismo sociale ripropone allora la vecchia domanda trascendentale in un modo non più trascendentale. È solo perché si dà un soggetto trascendentalizzato come un insieme ritornante di punti di vista, chiuso nella ripetizione, nella sua credenza bloccata10, è solo per questo, e non perché vi sia un soggetto legislatore, che un discorso intorno alle condizioni di possibilità ha ancora un senso. Il significato della ricerca delle ‘condizioni di possibilità’ diventa adesso quello della ricerca di una possibile detrascendentalizzazione del soggetto. Si tratta in questo caso di condizioni empiriche di possibilità, cioè di vincoli. La domanda suona: quali i presupposti che rendono possibile, ossia non vuota ma colma di significato, un’espressione in se stessa paradossale come quella di ‘individualismo sociale’? E a che cosa propriamente ci si riferisce con tale espressione? Si è visto che il suo significato simmeliano è fuori causa. L’idea che sia la stessa società a rendere possibile la moltiplicazione delle differenze in ogni campo, e perciò anche la differenza individuale, o è scontata o è addirittura falsa se si pensa agli insopprimibili, insistenti momenti olistici. Che cosa sarebbe allora un individualismo sociale? E soprattutto: esiste, o può esistere, nella realtà qualcosa del genere? Per riprendere la formulazione marxiana, esso sarebbe né più né meno che il programma di un’uscita dalla ripetizione verso una società in cui il libero sviluppo di ciascuno sia condizione (ritorna questa parola!) del libero sviluppo di tutti, e viceversa. Ciò presuppone l’individualismo occidentale moderno, non lo cancella affatto. Pensare di abolirlo, o d’impedirne lo sviluppo, ha condotto a una collettivizzazione burocratica forzata diametralmente opposta a ciò che quel programma si proponeva. D’altro canto, proprio il suo essere figlio di una tradizione culturale sradicante, per così dire anticulturale, come quella illuministica moderna, potrebbe essere la ragione per cui, all’interno dell’ossimoro ‘individualismo sociale’, 9 Cfr. T. W. Adorno, La crisi dell’individuo, con una introduzione di I. Testa, Diabasis, Reggio Emilia 2010. 10 Per la definizione di questi concetti, cfr. il mio Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere, Cronopio, Napoli 2009. 5 nel cuore del suo movimento oscillatorio, un soggetto trascendentalizzato progressista, quasi per compensazione, si sia installato come in una credenza, conferendo realtà a una prospettiva lontana dal mondo reale come da quello possibile. Sarebbe questa l’utopia astratta che, come un telos necessario insito nella storia, è stata la premessa dell’inevitabile eterogenesi dei fini: una conferma, in fondo, del mondo attuale così com’è (o com’era fino a una trentina d’anni fa). Perciò alla espressione ‘individualismo sociale’ non corrisponderebbe, non avrebbe mai corrisposto nulla di reale o di possibile se non il rafforzamento dell’identità e della ripetizione di coloro che per un certo tempo, forse troppo a lungo, vollero credervi. Qualcosa di molto simile a una fede religiosa. Dal punto di vista della teoria, poi, l’incapacità di produrne di nuova, dopo Marx, avrebbe messo capo a un’apologia indiretta, sotto le vesti di una critica rapidamente ammuffita, del sistema economico occidentale moderno denominato capitalismo, considerato capace di permeare di sé l’intera realtà senza lasciare aperto il minimo spiraglio. E con questo il discorso sarebbe chiuso in quanto preso nell’errore dall’inizio alla fine. Sennonché un’altra forma dell’utopia prende corpo proprio dall’ossimoro, dalla sua stessa contraddizione in termini. E l’individualismo sociale può ridiventare un orizzonte possibile e un programma credibile quando i presupposti o i vincoli della sua prospettiva siano considerati non di ordine logico-reale, come nel caso di un telos insito nella storia, ma di ordine logico-probabilistico: cioè come qualcosa di cui, asserita l’ineffettualità e l’inattualità, non è ancora dimostrata l’impossibilità. I giudizi di questo tipo avrebbero la forma «se… allora» oppure «ammesso che… allora». Per esempio: «ammesso che non si tratti di un mondo totalmente amministrato, allora un varco per introdurre degli elementi d’individualismo sociale ci sarebbe»; oppure «ammesso che gli individui sfuggano a una disciplina e a un controllo di tipo foucaultiano, allora potrebbero coltivare l’utopia». Il carattere ipotetico di questi giudizi li colloca in un altrove rispetto alla realtà, però non a troppa distanza da essa: sicché si può parlare di un’utopia concreta. Al contrario, l’obiettività di una presunta scienza storica li poneva in un’insondabilità, quella della predizione dialettica, che sarebbe dovuta essere un’assicurazione sul futuro ed era invece, più banalmente, un modo di tenere fermi i soggetti rassicurandoli circa il presente. Tutto ciò induce a rovesciare il giudizio intorno al rapporto tra la scienza e l’utopia: astratta è l’utopia che si camuffa da scienza; concreta quella che sa di essere utopia e si mostra a viso aperto. La prima poteva capovolgersi in antiutopia o utopia negativa perché, fin dall’inizio, tendeva al dogma. La seconda non è altro che l’assunzione della forma di vita dell’Occidente moderno come forma di vita critica. Più precisamente, è la critica nel suo risvolto mondano in quanto bricolage nella costruzione di un futuro che si vorrebbe aperto, e per ciò stesso plasmabile a partire dalle condizioni date. In questo modo operava l’ironia di Fourier nei confronti della vita sociale che aveva sotto gli occhi, osservata grazie a uno straniamento capace di farne emergere l’inconsistenza. Era uno spostamento del punto di vista rispetto a quello consueto – ciò in cui qualsiasi teoria consiste –, ma era anche uno spostamento ulteriore che permetteva alla teoria sociale, diventando utopica, di precipitare in un’immagine della felicità pubblica. Immagini siffatte, d’altronde, sono l’autentico di più che le utopie aggiungono alla teoria sociale: quelle di un’alterità che scardina l’immagine (culturale) corrente dell’ ‘altro’. Ciò era vero già ai tempi cinquecenteschi di Thomas More, in cui la visione utopica dell’isola che non c’è si confondeva con il protocolonialismo dei viaggi di esplorazione, ma per riportarne a casa un’immagine straniata della vita sociale nella madrepatria britannica. 6 3. Ricapitolando, dunque: affinché possa esserci un individualismo sociale, è indispensabile che tra le condizioni empiriche di possibilità presenti nella società, cioè nella più ampia comunicazione, si ritrovi un certo grado di individualismo moderno unito a un certo grado di universalismo – democratico, si potrebbe aggiungere, in quanto tendenza all’inclusione e all’universalismo dei diritti. In assenza di queste due condizioni è impossibile anche solo parlare di un individualismo sociale. Ma si tratta di due condizioni necessarie, non ancora sufficienti. Una terza condizione è da ricercare nell’intervento, almeno in linea di principio, di un ethos staccato dall’ethnos, cioè dagli usi e costumi di una cultura particolare. In effetti è dubbio che qualcosa del genere si dia nella realtà. Se evitiamo la finzione trascendentale di un dovere sgorgante dalla stessa purezza del suo imperativo – e se d’altra parte siamo scettici sulla capacità, da parte di una habermasiana etica del discorso, di produrre i contenuti della morale attraverso il ragionevole consenso dei partecipanti riuniti quasi in un’assemblea di spiriti eletti –, il compito di un ethos autonomo, illuministicamente differenziato dalla cultura, diventa un compito infinito in senso analogo a quello di un’infinità dell’utopia. Come infatti l’utopia rischiara il cammino pur senza mai realizzarsi (qualcuno direbbe, perché si muove con noi), così l’idea di un’autonomia della morale è un’idea utopica oppure, usando il linguaggio di Kant fuori contesto, un’idea regolativa cui attenersi, ammesso che ci si attenga, come se fosse realmente possibile. Il compito infinito rimanda all’idea di un illuminismo autocritico in quanto interminabile fatica di Sisifo. Il sasso sospinto fino alla sommità ritorna giù di continuo; ma è anche vero che è possibile, con sforzo, riportarlo su daccapo. Questo carattere illuministico-normativo dell’utopia si basa, evidentemente, su una scelta di valore di tipo assiologico non giustificabile pienamente con argomenti razionali. Perché – ci si potrebbe domandare – un individualismo sociale sarebbe meglio di un olismo culturale? Perché il lancio sradicante fuori di sé, tipico della modernità occidentale, sarebbe preferibile alla quieta autoconsistenza di una cultura, con i suoi costumi, i suoi riti e i suoi miti, oppure con la sua religione, entro cui gli individui – esistenti in questo caso solo come entità fisiche e non come fonti autonome di interessi e di passioni – possono trovare tranquillità e conforto? Una risposta ultimativa a queste domande non c’è11. D’altra parte – e qui s’insinua il dubbio proveniente da una forma di vita critica – non pare affatto assodato che una vita sociale immersa nell’olismo della cultura sia felice come quella nello stato di natura secondo Rousseau. Tutto lascia pensare, al contrario, che una cultura lasciata a se stessa, se anche oggi fosse immaginabile nella sua separatezza, sarebbe preda della più grande violenza naturale e sociale. Quello che gli illuministi apprezzavano come ‘incivilimento dei costumi’, se non era la pura apologia della loro stessa forma di vita, era la proiezione universalistica, sì, ma soprattutto utopica, di una mitezza proponibile a tutti, sotto ogni clima. Soltanto in base alle sofferenze che produce o evita ai suoi partecipanti, infatti, una forma di vita sociale andrebbe giudicata. L’individualismo sociale si presenta allora come la più alta espressione di quella utopia: non nel senso di una conciliazione finale degli opposti, ma in quello di una tensione ben temperata tra i due termini che, nella loro oscillazione incessante, danno un significato sia al momento individuale sia a quello sociale. Ciò è ravvisabile 11 Un argomento, che ne riprende uno famoso di Fichte, potrebbe essere: optare per l’una o l’altra alternativa dipende dal tipo di essere umano che si vuole essere. Ma in realtà dipende molto di più dai contesti e dalle opportunità che si offrono a un individuo nel corso della vita. 7 soprattutto nella prospettiva del conflitto sociale democratico, in cui il costituirsi di un ‘noi’, di una collettività nella lotta, non esclude la partecipazione dell’individuo ad altri contesti conflittuali, e quindi ad altri possibili ‘noi’. Così un’operaia o un’impiegata saranno inserite in un collettivo sindacale nella vertenza che le oppone alla controparte padronale in fabbrica o in ufficio, mentre in famiglia si opporranno al dominio del padre o del marito, forti della loro appartenenza a un collettivo femminista. Quella differenziazione che Simmel vedeva operante nell’intersecarsi di cerchie sociali diverse spezza alla radice l’olismo culturale delle identità bloccate, quando si esprima come conflitto sociale plurale e aperto. L’altra faccia del conflitto, comunque, è la cooperazione di tipo strategico, cioè in vista del raggiungimento di determinati obiettivi, come momento proprio dell’individualismo sociale. Il ‘noi’ mobile che si costituisce cooperativamente è un’identità collettiva sempre in via di definizione e di ridefinizione. Il contrario di un accordo di tutti con tutti proposto da una teoria come quella di Habermas, che finisce con l’identificare il ‘noi’, alla maniera di Kant, con l’umanità intera – e quindi con il chiuderlo in un universalismo privo della inquietudine utopica capace di lacerarlo. L’idea della cooperazione-conflitto, o della cooperazione come un effetto del conflitto, è molto lontana dalla competizione tra i partecipanti alla comunicazione sociale indicata talvolta anche come ‘meritocrazia’. Passa di qui la linea di demarcazione tra un individualismo sociale e un individualismo liberale di tipo atomistico. Sostenere che una possibile politica socialista non avrebbe bisogno di una morale significherebbe affermare un controsenso. Il socialismo si propone come una determinata commistione tra la politica e la morale in cui non la predica, o la semplice edificazione «siate più buoni», è ciò a cui la politica è sottoposta, ma un’idea morale in cui la cooperazione-conflitto, nella ricerca di un riequilibrio delle chance e di una ridistribuzione del potere a favore di chi non ne ha o è più debole, è in contrasto con quella di competizione puramente individualistica o, peggio ancora, per clan. La competizione tende infatti a favorire il più forte, anche quando avviene secondo le regole e premia chi se lo merita. Ciò non significa che andrebbe abolita con un tratto di penna (sarebbe impossibile!) ma che andrebbe riconosciuta come il momento liberale della democrazia liberale, non come quello democratico-socialista. La particolare combinazione di politica e morale proposta dal liberalismo, del resto, non è affatto l’alfa e l’omega dell’etica pubblica. Il problema di come intrecciare gli aspetti divergenti dell’individualismo liberale e dell’individualismo sociale, con quali quantità dell’uno e dell’altro, è il dilemma che si trovano davanti le democrazie occidentali contemporanee se non vogliono rassegnarsi al loro declino postdemocratico. 8