Dr. C. Lombardi
L’evoluzione della terapia antistaminica nella patologia allergica
La rinite allergica è una patologia estremamente comune in Europa e negli Stati Uniti e tuttavia
sottovalutata nonostante si stimi che vi sia un incremento delle forme allergiche più gravi (i fenomeni di
anafilassi sono aumentati di 7 volte) e che il costo annuo delle patologie allergiche in Europa sia stimato in
100 miliardi di euro. La rinite, come l’asma, è in aumento anche in Italia anche nell’età pediatrica e spesso
vi sono con embricazioni con forme rinitiche infettive e non allergiche. La rinite allergica è un fattore
fondamentale nello sviluppo dell’asma. In generale le allergopatie sono attualmente in aumento e si stima
che nel 2015 ne sarà affetto il 50% degli europei, in particolare nel nostro Paese vi sono nuove forme di
difficile trattamento di forme allergiche respiratorie negli immigrati. Il quadro clinico della rinite è in corso
di mutamento poiché vi è uno spostamento della patologia da forme lievi e moderate-gravi, un incremento
di forme miste, un numero maggiore di pazienti polisensibilizzati e un evoluzione verso forme resistenti al
trattamento definite SCUAD (Severe Chronic Upper Airway Disease). Da considerare con attenzione sono le
comorbidità della rinite ed in primo luogo la presenza di asma. Inoltre, la rinite allergica ha un forte impatto
sulla qualità del sonno. L’aderenza alla terapia è un parametro fondamentale nel successo della terapia ed
è legato in primo luogo alla semplicità e all’efficacia della stessa. A tal proposito va sottolineato che i
pazienti con rinite sono ampiamente insoddisfatti delle terapie prescritte. È noto che l’istamina abbia un
ruolo primario nella patogenesi della rinite. Ad oggi gli antistaminici rappresentano la prima scelta nel
trattamento della rinite allergica in accordo con le principali linee guida. Questa classe farmacologica è nota
dal 1937, ma solo negli anni Novanta sono stati identificati i sottotipi dei 4 recettori dell’istamina (H1, H2,
H3 e H4). L’istamina ha effetti a livello delle terminazioni nervose e vascolare ed interagisce anche con i
canali del calcio. Complessa è anche l’azione sui diversi recettori. La prima molecole presentavano limiti
riguardo le interazioni a livello del sistema nervoso centrale e per la scarsa attività recettoriale (con
attivazione dei recettori muscarinici o serotoninici). I nuovi antistaminici (seconda generazione), fra le quali
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piperazine e piperidine, presentano un più rapido inizio ed una maggiore durata d’azione, una minore
sedazione in assenza di effetti anticolinergici significativi. Studi in vitro sui nuovi antistaminici, quali la
bilastina, hanno mostrato anche affinità antiinfiammatoria oltre che un profilo farmacocinetico sicuro che
non richiede un adeguamento del dosaggio in caso di disfunzione epatica o renale nei pazienti anziani. La
bilastina ha inoltre un’efficacia comprovata sui sintomi cutanei, oculari e nasali negli studi condotti rispetto
agli antistaminici di prima generazione in assenza di significativi effetti sul sistema nervoso centrale (ad es.
sonnolenza). Recenti studi hanno dimostrato inoltre che i nuovi antistaminici non interferiscono con le
performance di guida in volontari sani. Pertanto per la rinite allergica le raccomandazioni consigliano di
utilizzare farmaci che non causino sedazione. Da ultimo va menzionata il crescente interesse per la terapia
topica combinata con antistaminici (azelastina) e steroidi topici (fluticasone) che, in analogia alla terapia
dell’asma, ha mostrato efficacia maggiore rispetto ai singoli componenti.
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Dr. F. Di Marco
LAMA nella BPCO: efficacia su riacutizzazioni e mortalità
La presentazione tratterà degli anticolinergici e del loro impatto su outcome clinici quali
riacutizzazioni e mortalità. Durante il ricovero e nei mesi successivi vi è una significativa mortalità che
raggiunge il 23% ad un anno dall’ospedalizzazione. Questo dato è in riduzione negli ultimi anni
verosimilmente per un miglioramento nel trattamento medico e per l’introduzione della ventilazione noninvasiva. La capacità d’esercizio è un indice prognostico importante nel paziente con BPCO. Dopo la
riacutizzazione il recupero dal punto di vista funzionale richiede mesi, dopo tre mesi un paziente su cinque
non è ancora tornato ai parametri di funzionalità respiratoria che aveva prima del ricovero. Inoltre, nel 30%
dei casi le riacutizzazioni sono ricorrenti e tendono a presentarsi in cluster con il 27% delle seconde
riacutizzazioni che si verificano entro le 8 settimane dalla prima. La prognosi del paziente BPCO è
influenzata oltre che dalla frequenza delle riacutizzazioni anche dalla gravità delle stesse.
Vi sono 3 classi di recettori colinergici (M1, M2 ed M3). Non vi sono farmaci anti M1, né è
auspicabile che agiscano a livello di M2, mentre il recettore M3 è il target terapeutico in quanto oltre a
causare la dilatazione dei vasi sanguigni nella muscolatura scheletrica è responsabile della contrazione delle
muscolatura liscia e dell’aumento della secrezione delle vie aeree. Studi sul tiotropio nelle sue diverse
formulazioni hanno dimostrato che gli antimuscarinici riducono il rischio delle riacutizzazioni. Recenti studi
hanno confermato quest’effetto anche sui nuovi antimuscarinici in quanto anche il glicopirronio riduce le
riacutizzazioni nel paziente BPCO, mentre su aclidinio bromuro non vi sono ancora studi di sufficiente
durata a riguardo. È importante conoscere il nostro paziente per mirare la terapia in quanto vi sono
pazienti BPCO che non hanno frequentemente riacutizzazioni e pazienti anche con ostruzione bronchiale di
grado moderato che hanno 2 o più riacutizzazioni l’anno. Come fanno gli anticolinergici a ridurre la
riacutizzazioni? Il concetto di “stenting farmacologico”, cioè il mantenimento dell’apertura delle vie aeree
perche “l’apertura e chiusura” delle vie aeree causa fenomeni infiammatori sia in vivo che i vitro. La
relazione fra infiammazione e riduzione del flusso aereo nel paziente BPCO è biunivoca perché il
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mantenimento della pervietà delle vie aeree probabilmente riduce i fenomeni infiammatori. Anche rispetto
a salmeterolo il tiotropio ha dimostrato di ridurre il numero delle riacutizzazioni anche in pazienti con
patologia funzionalmente di grado moderato. Perché tiotropio è meglio di salmeterolo? Uno studio fra
tiotropio e indacaterolo ha mostrato che il tiotropio riduceva le riacutizzazioni e produceva una maggiore
broncodilatazione. Sembra quindi che gli anticolinergici riducano le riacutizzazioni più significativamente
che i beta2 stimolanti ma le evidenze su questo punto non sono conclusive. Un ipotesi è che i polimorfismi
nel recettore per i beta2 stimolanti giochino un ruolo importante in questa classe farmacologica; una
seconda ipotesi riguarda l’impatto sulla riduzione delle secrezioni. Nella pratica clinica meglio scegliere un
anticolinergico o l’associazione beta2 stimolante e steroide? Secondo le linee guida lo steroide inalatorio è
indicato nel paziente con frequenti riacutizzazioni bronchiali. Tuttavia non sembrano esserci chiare
evidenze che l’associazione steroide inalatorio beta2 stimolante sia più efficace dell’anticolinergico nel
ridurre le riacutizzazioni indipendentemente dal livello di FEV1. È stato dimostrato che la terapia con
tiotropio riduca la mortalità nel paziente BPCO. È stato segnalato un aumento della mortalità per cause
cardiovascolari con la formulazione Respimat del tiotropio. Per questo è stato fatto uno studio mirato su un
ampia popolazione che non mostra differenza fra le due formulazioni di tiotropio in termini di mortalità e
ne provava l’equivalenze delle due formulazioni.
In conclusione: le riacutizzazioni costituiscono un momento critico della storia naturale della BPCO
con impatto importante sui sintomi, la funzione, la qualità della vita, costi e mortalità; i farmaci
anticolinergici sono efficaci nel ridurre le riacutizzazioni anche in pazienti con patologia moderata; il
tiotropio ha dimostrato in due trials di poter essere più efficace dei beta2 stimolanti in termini di
prevenzioni delle riacutizzazioni e di ridurre la mortalità nel paziente BPCO.
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Prof. A. Papi
Farmacologia nel controllo dell’asma
La trattazione approfondirà il razionale clinico e farmacologico del combinare steroide inalatorio e
beta2 stimolante. L’asma è primariamente una malattia infiammatoria cronica. Gli steroidi inalatori sono il
cardine dell’intervento terapeutico nell’asma in quanto hanno dimostrato risultati più efficaci del solo
broncodilatatore sulla funzione respiratoria del paziente asmatico. Inoltre, negli ultimi decenni è stato
dimostrato che gli steroidi inalatori soddisfino tutti gli outcome riportati nelle linee guida nel controllo
dell’asma. Il problema clinico si pone quando basse dosi di steroidi inalatori non sono adeguate per
ottenere il controllo della malattia; in tal caso vi sono varie possibilià terapeutiche, sebbene l’associazione
di basse dosi di steroide inalatorio e di broncodilatatori a lunga durata d’azione sia risultata vincente
mentre in precedenza si riteneva di dover principalmente aumentare la dose di steroide inalatorio. È stato
dimostrato che l’associazione di budesonide e formoterolo riduca la frequenza delle riacutizzazioni
rendendo poco probabile la presenza di un infiammazione non controllata che sia “mascherata” dal
broncodilatatore. Riguardo lo steroide inalatorio, la massima risposta farmacologica si ha ai bassi dosaggi
per i quali la curva dose risposta è più ripida mentre vi è scarso beneficio nell’incrementare lo steroide ad
alte dosi (la curva è a plateau), mentre aumentando la dose di steroidi inalatori aumenta linearmente la
presenza di effetti sistemici pertanto è importante, come sottolineato dalla linee guida, cercare di ridurre la
dose di steroidi inalatori se il paziente è ben controllato. Il razionale farmacologico della combinazione è
che gli steroidi aumentano l’espressione del recettore dei beta2 agonisti e quindi potenzialmente di
aumentare la risposta ai beta2 riducendo la tachifilassi a lungo termine. I beta2 agonisti aumentano tramite
AMP ciclico la traslocazione del recettore degli steroidi che è fondamentale nel maccanismo d’azione degli
steroidi stessi. Sia farmacologicamente che clinicamente ha senso associare beta2 agonisti e steroidi
inalatori. Aumentando la dose di steroide si raggiunge il controllo dell’asma (l’outcome centrale per i
farmaci per l’asma) in una percentuale fino a circa l’80% dei pazienti. Le combinazioni di steroidi e
broncodilatatori sono costituite da farmaci molto diversi tra loro, ad esempio formoterolo è molto più
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rapido di salmeterolo nell’insorgenza dell’effetto; fra gli steroidi il fluticasone risulta superiore a
budesonide in termini funzionali e clinici rispetto alla budesonide per l’elevata affinità recettoriale, la
lipofilia e l’elevato legame alle proteine plasmatica, ha inoltre un’elevata emivita nell’organo target e
presenta una bassa biodisponibilità orale (ridotti effetti sistemici). Le dosi di fluticasone per ottenere un
efficace effetto infiammatorio sono inferiori rispetto agli altri steroidi inalatori. Negli studi dedicati, il
fluticasone si è dimostrato una molecola sicura in termini di effetti collaterali. Vi sono dati che dimostrino
come vi siano diversità negli effetti del combinare diverse molecole fra steroidi e broncodilatatori in quanto
vi sono importanti interazioni fra i farmaci e diversità fra gli stessi. I corticosteroidi per via inalatoria
possono inibire l’uptake (clearance locale) e la rimozione dei broncodilatatori cationici dalle vie aeree.
Nonostante macroscopiche diversità farmacologiche fra i farmaci inalatori, i trial clinici non sembrano
evidenziare grossolane diversità fra le associazioni nel confronto fra fluticasone-salmeterolo e budesonide
associata a formoterolo. Tuttavia diverse survey affermano che il controllo della malattia nella real life sia
raggiunto in percentuali minori rispetto ai grandi trial clinici. È probabile che spostando l’attenzione dai trial
clinici agli studi in real life si evidenzino le diverse proprietà farmacologiche che i grandi trial clinici non
sono riusciti a mostrare. Una recente survey ha mostrato che le proprietà più importanti che
un’associazione dovrebbe avere secondo i medici sono il miglioramento dei sintomi e un potente effetto
antiinfiammatorio oltre a un miglioramento del FEV1, un elevato profilo di sicurezza e tollerabilità e una
rapidità di azione. Vi è una nuova combinazione costituita da formoterolo e fluticasone che presenta una
maggior durata della plume inalata, favorendo la coordinazione del paziente, minor velocità di erogazione
con basso rischio di impatto nelle alte vie aeree e con una diametro medio delle particelle di 3.5 micron in
elevata percentuale. L’utilizzo del basso dosaggio della combinazione fluticasone formoterolo si è
dimostrato migliore dei singoli componenti sul FEV1 e vi sono vantaggi clinici verso i singoli componenti.
In conclusione la nuova combinazione fluticasone formoterolo si è dimostrata sicura e ben tollerata
dimostrandosi valida nel migliorare il controllo dell’asma garantendo un efficace controllo dei sintomi del
paziente in tempi rapidi ed maniera efficace, riducendo inoltre la frequenza delle riacutizzazioni.
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Prof. C. Tantucci
Iperinsufflazione polmonare statica e dinamica nel paziente con BPCO:
cause, conseguenze e nuove riflessioni.
L’iperinsufflazione polmonare statica è legata a malattie che portano ad una distruzione del
parenchima polmonare come l’enfisema panlobulare. Queste alterazioni derminano una riduzione del
ritorno elastico associata alla perdita dell’interdipendenza fra polmone e piccole vie aeree che causa una
riduzione del flusso con aumento del volume residuo (alterazione che avviene precocemente in questi
pazienti) e, nel tempo, anche della capacità polmonare totale. Nell’iperinsufflazione vi è un aumento della
capacità funzionale residua in parta legata alla riduzione della zona di apposizione diaframmatica. La
muscolatura scheletrica è ancora in grado di generare una certa forza, ma durante eventi acuti come le
riacutizzazioni vi è minore possibilità di compenso. L’iperinflazione dinamica è determinata da fattori che
sono tempo dipendenti, ma non necessariamente legata all’esercizio fisico in quanto può verificarsi anche a
riposo. Quali sono i fattori che la determinano? Ad esempio elevate costanti di tempo che implicano una
difficoltà di svuotamento del sistema, un’aumentata richiesta ventilatoria con aumento del volume
corrente e/o della frequenza respiratoria (che comporta una riduzione del tempo espiratorio) o la presenza
di flusso limitazione durante respiro corrente in un paziente che non presenti più riserva di flusso. Il sistema
non riesce a tornare al volume di rilasciamento e quindi il volume di fine espirazione aumenta con riduzione
della capacità inspiratoria; inoltre la pressione alveolare media di fine espirazione non torna a 0 ma sarà
positiva (pressione positiva di fine espirazione intrinseca, PEEPi). L’iperinflazione polmonare dinamica può
portare ad un notevole incremento del carico di lavoro della muscolatura respiratoria essendovi una soglia
rappresentata dalla PEEPi ad ogni atto respiratorio. Le conseguenze dell’iperinsufflazione polmonare
dinamica sono una presenza della PEEPi che è disomogenea in base alle alterazioni delle varie regioni, una
riduzione della capacità inspiratoria e un’acuta alterazione dei muscoli respiratori nel generare forza.
Globalmente vi è un progressivo incremento del volume di fine espirazione che ha un ruolo importante
nella meccanica respiratoria. Nella BPCO si assiste ad incremento del volume residuo, a fenomeni di air
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trapping e, nelle fasi finali, anche ad un modesto incremento della capacità polmonare totale. È frequente
che un soggetto con iperinsufflazione polmonare statica sviluppi questa alterazione anche a livello
dinamico e questa è la ragione per cui i broncodilatatori funzionano nei pazienti con patologia sostenuta da
un grave enfisema. Ad oggi purtroppo non vi sono farmaci che contrastino l’iperinsufflazione polmonare
statica che è una perdita dell’elastanza del polmone. L’iperinflazione polmonare porta ad un progressivo
incremento del volume residuo (anche in presenza di VEMS ancora normale) e successivamente aumenta la
capacità funzionale residuo e solo negli stadi avanzati vi è aumento della capacità polmonare totale. Per
quanto concerne i fenomeni dinamici, durante l’esercizio è stato dimostrato che anche i pazienti con
ostruzione lieve tendono a presentare iperinsufflazione polmonare dinamica, nonostante questo non sia
vero in assoluto per tutti i pazienti. Tale fenomeno di aggrava con l’incremento dell’ostruzione al flusso. Il
consumo d’ossigeno è molto ridotto nei soggetti flusso limitati e non vi sono dubbi che l’iperinflazione
polmonare dinamica sia la chiave di volta dell’intolleranza all’esercizio fisico. Dal punto di vista
sintomatologico, nel soggetto ostruito vi è la presenza di dispnea da sforzo, ed il soggetto tende a limitare
l’esercizio fisico creando un circolo vizioso. Nel paziente BPCO con ostruzione al flusso di grado
progressivamente crescente è stato dimostrato con l’ecocardiografia che il grado di iperinflazione a riposo
si associa a riduzione telediastolica del ventricolo sinistro. Quindi più vi è iperinflazione più vi è un ostacolo
al ritorno venoso. Nei soggetti BPCO al test da sforzo incrementale si assiste ad un ridotto aumento del
polso dell’ossigeno che si associa ad un mancato incremento della gettata cardiaca. È probabile che nei
BPCO in stadio avanzato questo fattore può ridurre il massimo lavoro e il consumo di ossigeno. Secondo
una recente survey i pazienti potrebbero avere più sintomi al risveglio e probabilmente il dormire male
riduce in maniera importante sulla qualità della vita. In clinostatismo vi è una riduzione della capacità
funzionale residua di circa 700-900 ml. Nel paziente ostruito durante la notte può incrementare la flussolimitazione con riduzione relativamente inferiore della capacità funzionale residua come durante un
esercizio di media entità durante tutte le ore di sonno. Questi aspetti hanno conseguenze importanti per
l’utilizzo di una terapia desufflatrice che funzioni anche durante la notte. L’iperinflazione polmonare è un
alterazione con impatto sull’outcome in quanto accorcia la durata della vita essendo un predittore di
mortalità. Quale è il nesso con la mortalità? La ridotta tolleranza all’esercizio fisico, che si è dimostrata
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correlare alla sopravvivenza, può essere una spiegazione, ma vi è probabilmente anche un incremento della
frequenza delle riacutizzazioni, l’infiammazione sistemica, lo squilibrio neurovegetativo e forse anche
l’ipossemia notturna.
In conclusione la presenza di iperinflazione dinamica in pazienti con BPCO si associa a dispnea
cronica e ortopnea se grave, a diminuita tolleranza all’esercizio e ridotta qualità della vita. L’iperinflazione
dinamica è inoltre un fattore indipendente di mortalità e quindi desufflare il paziente con la terapia
farmacologica, non farmacologica e riabilitativa è di primaria importanza nel trattamento dei pazienti con
BPCO.
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Dr. P. Santus
Novità nella classe dei LAMA:il vantaggio della somministrazione bis in die
I dati funzionali che raccogliamo nelle nostre valutazioni non sono direttamente fruibili dal paziente
ma si estrinsecano nei sintomi che questi riferiscono alle valutazioni ambulatoriali. Fra i sintomi più rilevanti
ricordiamo dispnea, tosse ed espettorato, e sensazione di costrizione toracica. La dispnea rappresenta un
sintomo centrale e con elevato impatto secondo gli stessi pazienti. Da rilevare è inoltre che i sintomi
presentano una variabilità circadiana con, in genere, un picco al mattino. Qual è il comportamento dei
pazienti rispetto alla terapia in relazione ai sintomi? Al variare di questi nel 50% dei casi i pazienti variano il
comportamento terapeutico anche con l’utilizzo di farmaci al bisogno. In una scala temporale più estesa, in
presenza di un peggioramento dei sintomi, la compliance del paziente alla terapia si riduce di molto.
Potrebbe essere utile una strategia basata su un rinforzo dell’attività terapeutica che mantenga a livelli
elevati l’efficacia del farmaco gestendo al meglio la variabilità giornaliera dei sintomi. Tra i farmaci recenti,
l’aclidinium è un antimuscarino in dose di 400 mcg 2 volte die per il quale vi sono studi che ne hanno
mostrato l’efficacia rispetto a formoterolo e tiotropio. Su tale farmaco vi sono, inoltre, studi che ne hanno
valutato anche nelle ore notturne i valori di FEV1. Come concetto generale sembra che la seconda
somministrazione nella giornata porti ad un aumento nel grado di broncodilatazione rispetto alla terapia in
monosomministrazione sia in acuto che nella somministrazione dopo 15 giorni. Sono stati studiati inoltre
l’impatto sui sintomi respiratori di questa molecola ed è stato dimostrato che questi fossero migliorati in
maniera significativa. Ma come valutare i sintomi notturni? Ad esempio si possono utilizzare degli score di
gravità. Anche in periodi più lunghi, ad es. 6 settimane vi è un potenziamento della broncodilatazione dato
dalla seconda somministrazione di aclidinium rispetto a tiotropio anche in termini di sintomatologia sia
notturna che diurna (limitazione attività quotidiane). In studi di più lunga durata (52 settimane) è stata
testata l’efficacia clinica e funzionale di alcidinium. I nostri dati preliminari hanno approfondito lo studio di
questo farmaco e di glicopirronio anche con il single breath test oltre alla funzione con spirometria globale.
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In BPCO gravi il volume residuo, le resistenze e la capacità funzionale residua si riducono con entrambi gli
anticolinergici (più rapidamente con aclidinio), mentre specularmente aumenta la capacità inspiratoria per
aclidinium. La slope dela fase 3 si riduce con aclidinium come per una migliore distribuzione della
ventilazione polmonare. All’EGA è stata riscontrata un incremento dei valori di ossemia e una riduzione
della capnia con aclidinium a 3 ore dal basale ed un significativo impatto sulla dispnea (scala VAS).
In conclusione la doppia somministrazione può avere una importante rilevanza nell’ottenimento
del successo terapeutico ponendo al centro le necessità del paziente.
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Dr. F. Braido
L’aderenza al trattamento nel paziente con BPCO:
ruolo centrale del device
La trattazione verterà sull’aderenza e il ruolo del device alla luce dell’evoluzione tecnologica.
L’assunzione continuativa e corretta del farmaco è basilare per l’ottenimento di risultati nei trial della
ricerca scientifica. In molti trial vi è evidenza che l’aderenza al trattamento ha importanti ripercussioni
cliniche ed economiche (incremento di ospedalizzazione e mortalità in assenza di aderenza). Nello studio
TORCH della durata di 3 anni vi era comunque una quota di pazienti che assumeva meno dell’80% delle dosi
con ripercussioni sulla mortalità in chi non assumeva con continuità la terapia. La non aderenza ha costi
sociali ed economici e quindi agire sull’incremento dell’aderenza può essere una strategie per ottimizzare i
costi dei sistemi sanitari. È necessario avere terapia efficaci ed un piano di gestione della malattia e del
paziente per implementare l’aderenza. La mancata aderenza può essere legata all’abbandono del
trattamento (che viene assunto solo in un periodo dell’anno) o la non assunzione di tutte le dosi prescritte.
Maggiore è la percezione dell’efficacia della terapia più il paziente è aderente. Vi sono tuttavia altri
elementi come la durata del trattamento, la complessità e frequenza del regime terapeutico (piani
terapeutici complessi sono legati ad una minore aderenza), gli effetti collaterali, i costi, la via di
somministrazione e il device. Il device si pone come “tassello” fra paziente e la terapia e può essere
avvertito sia come beneficio che svantaggio dal paziente. Per questo è importante è ciò che il paziente
riferisce sulla malattia nella scelta della terapia più congrua. Recentemente vi è stato un incremento
dell’utilizzo delle polveri inalatoria e riduzione degli MDI. Per il medico è importante la precisione della
dose e la deposizione nelle zone bersaglio (dove sono localizzati i recettori). L’evoluzione tecnologica dei
nuovi device permette che il farmaco venga inalato sotto forma di particelle di dimensioni adeguate per il
raggiungimento dei target. Lo sviluppo dei nuovi device è stato seguito con un accorgimento tecnico, è
stato ridotto l’orifizio dal quale si inala per incrementare il delta di pressione che garantisca il dissolvimento
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in particelle di dimensioni adeguate. I nuovi device (come il Genuair®) hanno dimostrato che i pazienti
riescano a generare il flusso inspiratorio necessario ad attivare correttamente il dispositivo. Con questo
device è stato dimostrato inoltre che la quantità di farmaco che arriva nella sede target è oltre il 30%. Con
farmaci radiomarcati si è dimostrato che la porzione più periferica è quella che viene raggiunta tramite
Genuair®. Il paziente, riguardo il device, richiede che sia facile da usare, discreto, facilmente portabile e
abbia dei sistemi di feedback che lo informano dell’avvenuta inalazione in maniera corretta. Un altro
aspetto concernente le aspettative del paziente riguarda l’avere un indicatore di dose, un sistema semplice
di blocco una volta terminate le dosi e che garantisca di non caricare più dosi in successione se non è stata
inalata correttamente la dose. Per il paziente indipendentemente dal tipo di device la facilità nel farlo
funzionare è l’obiettivo prioritario. È possibile creare endpoint dedicati, con questi, uno studio dedicato con
placebo ha mostrato che dopo due settimane una percentuale significativamente maggiore di pazienti
preferica il nuovo device Genuair® rispetto a HandiHaler®. Centrale è la propensione a continuare l’uso
degli inalatori riferita dal paziente. Una recente survey ha sottolineato strategicamente l’importanza dei
device come strumento di cura per malattie ad alto impatto inoltre sono da combattere le criticità
fondamentale come la percezione che tramite questo strumento di terpia si curino malattie lievi e con
farmaci “soft”. In conclusione è necessario diffondere il messaggio che vi siano nuove tecnologie efficaci
nella terapia inalatoria e farmaci che ne possono usufruire.
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Prof. M. Pistolesi.
Traslare le evidenze della letteratura scientifica al singolo paziente:
il ruolo dello pneumologo
La BPCO è un campo di studio complesso includendo la bronchite cronica (che colpisce la vie aerre
di calibro maggiore), la malattia delle piccole vie e l’enfisema (che porta a distruzione delle parti più
periferiche del parenchima). Vi è inoltre il problema dell’overlap asma-BPCO. Ad eccezione dell’enfisema si
tratta di malattie dell vie aeree conduttive. In tutte queste patologie vi è un ruolo attivo dei vasi. Nel 2007
si pensava di trattare il paziente BPCO in base al grado di ostruzione del VEMS. Nel 2011 vi è stata un
ridefinizione della BPCO che la definiva malattia trattabile e si poneve l’accento sulle riacutizzazioni
bronchiali (evento acuto caratterizzato dal peggioramento dei sintomi oltre la variazioni giornalieri e porta
il medico ad un cambio di terapia). Su queste acquisizioni sono stati integrati i sintomi (valutati su due
scale) e la presenza di riacutizzazioni al grado di ostruzione bronchiale per definire una terapia inalatoria
più precisa. Il problema riacutizzazioni è in correlazione con il fenotipo. Spesso si utilizza ormai la TC torace
per valutare il grado di enfisema anziché la DLCO. All’incremento dell’enfisema e all’ispessimendo delle vie
aeree incrementavano il numero di riacutizzazioni. In una coorte di pazienti BPCO quelli con maggiore
enfisema (misurato alla TC o con la DLCO) sono quelli con un declino più rapido. Integrando questo ed altri
studi si raggiunge l’evidenza che: le riacutizzazioni non hanno una frequenza significativamente diversa nei
pazienti con malattia delle vie aeree conduttive rispetto a quelli con enfisema e, pertanto, non
caratterizzano il meccanismo fisiopatologico alla base dell’ostruzione del flusso aereo. Riguardo le
riacutizzazioni e la gravità: l’ospedalizzazione, l’uso di steroidi ed antibiotici sono più frequenti nei pazienti
in stadio GOLD 4. Ne consegue che più che essere un fenotipo la riacutizzazione ci fornisce informazioni
sulla gravità della malattia ed è meglio considerabile come un indice attendibile di gravità della BPCO più
che un attributo riferibile ad un fenomeno specifico. Un fenotipo dovrebbe avere delle caratteristiche
stabili e ripetibili mentre negli studi i pazienti possono passare dalla categoria frequente a infrequente
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riacutizzazione e viceversa e quindi, vi sono evidenze che la frequenza delle riacutizzazioni non sia stabile
nel tempo. Uno dei problemi nella ricerca sulla BPCO è la mancanza di una definizione condivisa, il fatto che
spesso non venga segnalata perché il paziente non si presenta dal medico, possa avvenire improvvisamente
e vi sia confusione diagnostica con l’embolia polmonare, lo scompenso cardiocircolatorio e la polmonite.
Un'altra evidenza da traslare nella pratica è che la frequenza di riacutizzazioni non sia facilmente misurabile
ponendo problemi nel classificare alcuni pazienti secondo le recenti linee guida. Secondo il parere di esperti
oltre alla misurazione del flusso sarebbe utile per far progredire le conoscenze sulla BPCO comprendere i
meccanismi della limitazione del flusso (malattia delle piccole vie aeree o l’enfisema). Compito del medico è
valutare quale fra i meccasmi sia presente e quale sia primario. Recenti evidenze confermano che la
funzione polmonare e la presenza di espettorato purulento permettono di classificare i pazienti in base alla
gravità e al fenotipo analogamente a quanto permette di quantificare la TC torace. È difficile guidare la
terapia con la classificazione GOLD che pur valutando la gravità del paziente non ne permette una
definizione del fenotipo.
In conclusione, il ruolo della pneumologo consiste nell’incentivare la valutazione clinica e funzionale
completa evitando di limitarsi alla semplice misura della curva flusso/volume e del numero di
riacutizzazioni come raccomandato dalle più recenti linee guida. L’identificazione mediante dati clinici e
funzionali completi del meccanismo fisiopatologico alla base dell’ostruizione del flusso aereo (endotipo) è
essenziale per indirizzare la terapia verso le manifestazioni cliniche (fenotipo) di ciascun paziente.
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Prof.ssa C. Bucca
Le implicazioni terapeutiche della co-morbidità cardiovascolare in BPCO
Fra le comorbidità della BPCO la presenza di cardiopatia è la più frequente. Questa associazione è
legata alla presenza degli stessi fattori patogenetici e di una significativa morbilità e mortalità con una
prognosi peggiore in presenza di entrambe le patologie. Nonostante questi aspetti frequentemente solo
una delle due condizioni viene diagnosticata. È pertanto importante nel paziente respiratorio ricercare la
presenza di cardiopatie misconosciute ed inviare il paziente al cardiologo per ottimizzare la terapia sui due
fronti. Il punto comune alle due patologie è l’infiammazione sistemica legata al fumo di sigarette o
inquinanti che si riflette a livello coronarico, a livello della funzione cardiaca e anche nella presenza di
ipertensione. Vi sono vari mediatori infiammatori coinvolti in questi processi ad esempio il TNF-alfa, la
proteina C-reattiva o l’interleuchina 6. Le alterazioni sono a livello dell’interstizio polmonare, dell’alveolo
con la presenza di edema e nella formazione di versamento pleurico. Vi sono inoltre un sovraccarico del
circolo polmonare venoso con incremento della pressione di incuneamento e altri fattori come l’ipossemia
che possono associarsi alla presenza di ipertensione polmonare. Studi di epidemiologia hanno evidenziato
che lo scompenso cardiaco è presente in circa il 20% dei pazienti con BPCO e, analogamente, la prevalenza
di BPCO fra i pazienti con scompenso cardiaco varia dal 20 al 32%, mentre il 10% dei pazienti ospedalizzati
per scompenso cardiaco acuto è affetto anche da BPCO. Vi è inoltre un rischio di 4.5 volte maggiore di
sviluppare scompenso cardiaco nei pazienti affetti da BPCO. Le implicazioni cliniche di questa coesistenza di
patologie sono importanti se si considera che anche nei pazienti con BPCO lieve, le malattie cardiovascolari
sono responsabili del 50% circa di tutti i ricoveri e di oltre il 20% delle morti; la BPCO raddoppia il rischio di
patologie cardiovascolari e tale rischio aumenta con il progredire della malattia. Nella BPCO le malattie
cardiovascolari e il tumore del polmone sono le più importanti fonti di morbilità e mortalità. In pazienti
affetti da cardiopatia la coesistenza di BPCO può essere un fattore importante per l’ospedalizzazione,
inoltre i pazienti con BPCO sono a rischio di ricevere un minore trattamento per lo scompenso come ad
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esempio betabloccanti o ace-inibitori. Vi è il problema della diagnosi di entrambe le condizioni. La
radiografia toracica non è sufficientemente sensibile, i risultati delle prove di funzionalità respiratoria
possono essere di difficile interpretazione, mentre le misure ecocardiografiche sono limitate
dall’iperinflazione che comporta una difficile finestra acustica. L’ostruzione delle vie aeree sommata alla
restrizione legata alla cardiopatia può essere misdiagnosticata o mal valutata in termini di gravità ad
esempio per variazioni degli indici di ostruzione con la diuresi. Fra i dati di laboratorio, il peptide
natriuretico atriale non è un marker specifico in quanto aumenta anche in presenza di cuore polmonare.
Nonostante questo limite, uno studio ha dimostrato che l’utilizzo precoce del peptide natriuretico atriale in
Pronto Soccorso permette di supportare la diagnosi di scompenso cardiaco non noto. Anche i reperti
obiettivi sono sfumati ed aspecifici nei pazienti con entrambe le patologie. La prima terapia della BPCO si
basa sull’utilizzo di broncodilatatori beta-agonisti che, soprattutto se non selettivi, aumentano il rilascio di
catecolamine endogene e il consumo dell’ossigeno del miocardio. I principali effetti cardiaci dei beta2
stimolanti sono la presenza di aritmie legate ad un aumento del drive adrenergico e depressione della
funzione miocardica. Vi è inoltre una down-regulation dei recettori beta1 che potrebbe avere ripercussioni
sulla contrattilità del miocardio. Altri effetti deleteri dei beta2 stimolanti nel paziente cardiopatico possono
essere la presenza di tachicardia, ipokalemia e allungamento dell’intervallo QT. Sono soprattutto da evitare
nel cardiopatico i beta2 stimolanti per via orale che presentano maggiori effetti collaterali rispetto alla via
inalatoria in assenza di un aumento dell’efficacia terapeutica. Nonostante vi siano pochi dati su questi
effetti. Gli anticolinergici sono preferibili nei pazienti cardiopatici con BPCO, ma anche in questo ambito vi
sono pochi studi. Particolarmente complessa risulta la valutazione degli effetti opposti dalla terapia fra
beta2 stimolanti e betabloccanti, questi ultimi in particolare sono negati spesso ai pazienti con BPCO per
timore degli effetti di bronco-ostruzione. È importante utilizzare betabloccanti cardioselettivi nel paziente
BPCO. Fra gli altri farmaci cardioattivi, ace-inibitori e antiangiotensina 2 possono avere effetti positivi a
livello polmonare; inoltre gli antiagonisti dell’aldosterone possono avere un effetto protettivo sulla
membrana alveolo-capillare, mentre la digitale può dare vasocostrizione.
In conclusione la combinazione di scompenso cardiaco e BPCO ha interessanti aspetti terapeutici
che necessitano in maggior parte di conferme scientifiche. I betabloccanti nei pazienti con ostruzione
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moderata e fissa non sembrano pericolosi nella BPCO anche se vi sono pochi studi sui nuovi betabloccanti e
mancano dati a lungo termine su questi pazienti. Gli effetti avversi dei beta-gonisti nei pazienti con
cardiopatia necessitano di ulteriori studi.
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Prof. A. Rossi
Innovazione nella terapia del paziente asmatico
L’asma può sembrare un problema in gran parte risolto. Sicuramente si sono ridotti drasticamente i
pazienti ricoverati per asma bronchiale. Questo è legato al fato che la grande maggioranza dei pazienti
asmatici (circa l’80%) può essere controllata dalla combinazione di salmeterolo/fluticasone come mostrato
da uno studio clinico. Tuttavia vi è un quinto di pazienti che non è controllato con questa terapia (dato
confermato da vari studi). Uno dei problemi del controllo della malattia è l’assunzione continua della
terapia. Si pensa che il paziente che assuma la terapia ma non sia controllato appartenga a un diverso
fenotipo di asma (asma grave allergico, asma eosinofila, asma neutrofilica, asma neutrofilica ecc.). Vi sono
innovazioni nella terapia dell’asma che sono pensate per i pazienti non controllati dalla terapia di
associazione (ad es. l’omalizumab). Negli ultimi anni, il flusso di comunicazione fra i pazienti e
l’organizzazione ha portato a benefici per gli stessi pazienti. Il mepolizumab (un anti-interleuchina 5) è un
interessante farmaco con numerosi lavori che dimostrano che questo farmaco riduca il numero delle crisi
rispetto al placebo. Dal punto di vista della terapia con farmaci biologici il trattamento dell’asma è avanti
rispetto a quello della BPCO. Data l’eterogeneità della malattia potrebbe essere anche che sottogruppi di
pazienti asmatici possano beneficiare di terapia differenti (ad es. antitrombotici). Cosa hanno di diverso i
pazienti non controllati? Un aspetto è la presenza di una maggiore quantità di muscolo liscio nelle vie aeree
periferiche. Inoltre questo muscolo presente in maggiore quantità è più vicino al lume. È da ricordare che il
muscolo liscio è un potente strumento che difende la membrana alveolo capillare. Il muscolo liscio si
accorcia fino al 10% della lunghezza iniziale contraendosi anche in vie aeree che hanno perso i legami con i
tessuti circostanti che la ostacolano. In letteratura vi è grande interesse per le piccole vie aeree. Cosa
succede alle vie aeree periferiche negli asmatici asintomatici? È stato dimostrato con l’utilizzo
dell’isoproterenolo che la maldistribuzione della fase 3 si riduca e compaia il volume di chiusura. È noto che
le piccole vie aeree siano fortemente coinvolte nell’asma in fase silente e questo fenomeno è reversibile
con un semplice broncodilatatore (probabilmente in maggior misura con uno steroide). Nei soggetti che
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hanno più frequenti riacutizzazioni le vie aeree sono più compromesse. Nei soggetti con asma di difficile
controllo vi è differenza nella pendenza della fase 3 e nel volume di chiusura che è più elevato. È stato
confermato che nei pazienti con asma difficile è compromesso il volume di chiusura. Nel paziente non
controllato vi è un problema essenzialmente farmacologico e probabilmente anche una sede di lesione che
non viene raggiunta dalla terapia. Nuove tecnologie come la TC in espirio permettono di studiare le vie
aeree periferiche che possono essere studiate funzionalmente anche con il volume di chiusura e il volume
residuo. Vi è un aumentato volume residuo nell’asma, ma la capacità polmonare totale non è fissa.
All’incremento del volume residuo vi è anche un aumento della capacità polmonare totale che tende a
preservare la capacità vitale. Pertanto, nel follow up del paziente asmatico, la misurazione del volume
residuo potrebbe affiancarsi alla spirometria semplice nel dimostrare quest’alterazione funzionale. Le vie
aeree periferiche sono un potenziale bersaglio terapeutico e vi sono delle combinazioni terapeutiche che le
raggiungono, vi sono dei vantaggi? La deposizione del farmaco in vie aeree compromesse potrebbe essere
influenzata, ma uno studio dedicato ha dimostrato che tale deposizione è confrontabile in asma, BPCO e
sani. La formulazione extrafine di beclometasone formoterolo, rispetto a fluticasone salmeterolo, è
altrettanto efficace e sicura con vantaggi nella rapidità della broncodilatazione. La deposizione con la
polvere avviene nel polmone profondo perché le particelle sono sottili (masso diametro di massa media).
Più le particelle sono grandi, più contengono farmaco che tende ad impattare sulle vie aeree superiori;
quindi è importante che il diametro di massa media sia adeguato affinchè il farmaco arrivi in periferia. Uno
studio trasversale ha mostrato che la formulazione extrafine penetra più in profondità raggiungendo un
maggiore controllo della terapia con una dose inferiore di steroide. Vi è quindi un effetto clinico importante
per la formulazione extrafine del farmaco. È stato recentemente dimostrato che l’utilizzazione della
combinazione beclometasone-formoterolo al bisogno porta meno riacutizzazioni rispetto al salbutamolo al
bisogno. Questo approccio è utilizzabile anche nello step-down terapeutico nel paziente con asma
controllato. In conclusione l’asma è una malattia delle piccole vie aeree e non una “piccola malattia” delle
vie aeree. È importante che le piccole vie aeree siano studiate anche nel paziente asmatico, almeno con la
misurazione regolare dei volumi polmonari con attenzione al volume residuo. Il trattamento farmacologico
deve interessarsi alle alterazioni delle piccole vie particolarmente nell’asma grave.
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Prof. S. Centanni
L’impatto delle riacutizzazioni di BPCO: dal dato alla real life
La trattazione verterà sull’impatto delle riacutizzazioni integrando dati scientificie e la real life.
Quest’ultima è importante perché riflette le necessità della pratica clinica quotidiana. Non vi sono evidenze
scientifiche del coinvolgimento sistemico della BPCO, ma questa è condizione patologica respiratoria con
importanti effetti sistemici. La BPCO ha un substrato infiammatorio e vi è uno stress ossidativo con
interessamento soprattutto muscolare. La funzione polmonare ha risvolti complessi che vanno oltre il solo
FEV1 che, tuttavia, mantiente un ruolo in una prima stadiazione della patologia. Nella BPCO le
esacerbazioni sono un punto importante. Nel corso di riacutizzazione vi è un rilascio di mediatori (ad es. il
TNF alfa, la proteina C reattiva) che hanno un impatto cardiovascolare importante. È noto che la BPCO
abbia forti correlazioni con la funzione cardiovascolare che aumentato nelle fasi di acuzie spiegando,
almeno in parte, gli eventi cardiovascolari acuti in corso di riacutizzazione di BPCO. Di questo importante
impatto nella BPCO vi sono evidenze già a livello dell’endotelio. In sintesi, le riacutizzazioni possono
comportare un peggioramento anche delle condizioni cardiovascolari e possono rappresentare un
momento di pericolo legato a queste condizioni. Lo stress ossidativo è un elemento centrale per quanto
riguarda le disfunzioni muscolo scheletriche e per il rischio cardiovascolare nel paziente BPCO. Il polmone è
uno scambiatore di gas e l’ossigeno è una molecola cardine per la vita. La sedentarietà è un dato con
importanti ripercussioni cliniche. L’attività fisica è il più grande predittore dell’outcome nel paziente BPCO e
migliorando l’attività fisica si hanno importanti effetti clinici su vari livelli. Le riacutizzazioni impattano sulla
funzione, su mediatori dell’infiammazioni e sono un aspetto da considerare fortemente negli aspetti di
prevenzione e trattamento. La definizione più accettabile della riacutizzazione prevede un aumento dei
sintomi respiratori che necessiti di un intervento medico superiore al trattamento abituale. Nell’anamnesi è
necessario valutare che il paziente assuma con regolarità la terapia prescritta. È stato proposto di
classificare le riacutizzazioni in lievi, cioè che vengono controllate da un incremento della terapia abituale
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effettuato dal paziente; moderate che necessitino di steroide e/o antibiotici; gravi che richiedano accesso
in PS o ospedalizzazione. I tre sintomi cardine della riacutizzazione sono aumento della dispnea, aumento
della tosse aumento o modifiche delle caratteristiche dell’espettorato. La presenza di questi sintomi
presenta anche ripercussioni sulla terapia. Vi sono varie cause di riacutizzazioni con un ruolo principale
legato alle infezioni batteriche o virali, ma anche una correlazione con l’inquinamento, le variazioni
climatiche e l’interruzione della terapia di fondo. La diagnosi differenziale coinvolge numerosi quadri clinici.
I fattori associati ad un aumento delle esacerbazioni sono l’età, il grado di ostruzione, la presenza di
secrezioni e tosse produttiva, la durata della patologia, l’utilizzo di steroide nell’anno precedente, la
colonizzazione batterica, le comorbidità. Lo studio ECLIPSE ha mostrato che circa il 33% dei pazienti BPCO è
frequente riacutizzatore e questa possibilità è presente in tutte le classi di gravità della patologia con
impatto sulla storia naturale della malattia. Il paziente frequente riacutizzatore tende ad essere stabile nel
tempo ed identificabile con l’anamnesi con la pregressa storia di riacutizzazioni come principale fattore
predittivo. Un recente studio italiano conferma il dato dello studio ECLIPSE anche nella realtà italiana. Vi è
anche un impatto sulla depressione che è più frequente nel paziente con frequenti riacutizzazioni. Il
numero di riacutizzazione correla con la prognosi e la riospedalizzazione impattando in maniera importante
sul paziente. Il declino funzionale è accelerato nel paziente frequente riacutizzatore con impatto sulla
qualità di vita del paziente come confermato in più studi. L’accesso in pronto soccorso ha importante
ripercussioni prognostiche e spesso questi pazienti non hanno ancora avuto diagnosi di BPCO. L’eziologia
infettiva è la causa principale di riacutizzazione. Tra i virus il più importante è il rhinovirus mentre fra i
batteri sottolineamo l’Haemophilus come patogeno più frequente, mentre lo Streptococcus Pneumoniae
rimane il patogeno di più frequente riscontro nelle polmoniti. Più grave è l’ostruzione più elevata è la
probabilità di avere un’infezione da gram negativi come le Enterobacteriaceae e lo Pseudomonas
aeruginosa. Tutti i documenti sulla BPCO si focalizzano sulle riacutizzazioni. La terapia inalatoria consente di
prevenire un buon numero di riacutizzazioni. Cosa possiamo fare per prevenire le riacutizzazioni?
Promuovere la vaccinazione antinfluenzale e la partecipazione a programma riabilitativi, utilizzare l’O2
terapia se necessaria, la verifica della corretta assunzione della terapia inalatoria e la disassuefazione dal
fumo di sigaretta. Sul tabagismo la prevenzione rimane il metodo migliore.
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In conclusione le riacutizzazioni sono eventi frequenti nella vita del paziente BPCO con impatto
immediato (morbilità, ospedalizzazioni e mortalità) e tardivo (declino della funzione respiratoria). Alcuni
pazienti sono frequenti riacutizzatori, sebbeno non dobbiamo dimenticare che alcune di queste siano
prevenibili. Circa il 50% delle riacutizzazioni sono sostenute da batteri. È necessario stratificare i pazienti
per identificare quelli più a rischio di riacutizzazione.
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Prof. F. Blasi
European lung white book: la realtà epidemiologica delle malattie
respiratorie in Europa
Le malattie respiratorie sono la seconda causa di morte in Italia. La trattazione verterà sul lavoro di
raccolta di dati epidemiologici europei sulle malattie respiratorie che ha esitato in un libro, il “White Book”,
che è stato presentato al Parlamento Europeo. Le problematiche relative alle patologie croniche sono
legate al cambiamento della popolazione. La piramide delle età mostra profonde divergenze fra i vari paesi
ed in Italia il 30% della popolazione ha oltre 65 anni, dato che incide sulla prevalenza delle malattie
croniche. Altro punto è l’urbanizzazione con il conseguente problema dell’esposizione all’inquinamento,
problematica nella quale la pneumologia è disciplina primaria. A livello europeo il 15% della mortalità è
legato a malattie respiratorie, con le infezioni respiratorie che rimangono una causa importante. Mentre le
malattie croniche sono in riduzione a livello europeo l’unico percentuale in aumento è legata alla malattie
respiratorie. L’invecchiamento della popolazione è un punto importante. Sappiamo il guadagno in anni di
vita della popolazione grazie alle cure. Da sottolineare sono anche le ineguaglianze nella gestione della
salute nei vari paesi, dato legato al censo. Negli Stati Uniti vi è grande differenza nell’accesso alle cure
sanitarie rispetto al reddito con alcune popolazioni più a rischio. Vi sono differenze anche all’interno di
distanze ridotto come in diversi quartieri di una stessa città come dimostrato a Londra. Le mortalità e le
incidenze nelle diverse malattie sono analizzate per patologie. Riguardo la BPCO vi è una prevalenza di 23
milioni di soggetti, di questi circa 1 milione viene ricoverata e vi sono circa 150.000 decessi anno. In
percentuale sono affetti il 5-10% dei pazienti di più di 40 anni con fattore di rischio principale il fumo di
sigaretta e secondariamente l’esposizione professionale, l’inquinamento e fattori genetici. Riguardo la
mortalità in Europa, grazie a questo studio, è possibile avere online dal sito della società Europea i dati
aggiornati riguardanti i singoli Paesi. Sulla tubercolosi (TB) vi sono circa 400000 nuovi casi annui in europa
che comportano la morte di circa 40000 pazienti. Un particolare allarme è l’elevata frequenza relativa della
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TB farmaco resistente (MDR) che rappresenta un importante problema di sanità pubblica. Per far emergere
il problema, un riassunto di due pagine per ogni malattia è stato fatto per chiarificare con immagini su costi,
ricoveri e mortalità e delle varie patologie. La sola BPCO costa 200 miliardi all’anno. Attualmente, grazie alla
società europea (ERS) le malattie respiratorie sono state inserite nei programmi di ricerca europei. Vi sono
importanti nessi fra HIV e TB, ad esempio in Grecia vi è un aumento di HIV e TB con ripercussioni importanti
(ad esempio l’aumento della mortalità perinatale). Questo libro è stato presentato al parlamento europeo
ed è diventato un punto di riferimento per la commissione sanitaria europea.
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Dr. G. F. Sferrazza Papa
L’ecografia del diaframma
Il diaframma è innervato dal nervo frenico ed è il principale muscolo inspiratorio. La disfunzione
diaframmatica è una condizione patologica sottodiagnostica che causa dispnea da sforzo e rientra nella
diagnosi differenziale della dispnea di origine indeterminata. Le cause di disfunzione del diaframma sono
molteplici dalle lesioni chirurgiche del nervo frenico (durante la chirurgica toracica, del collo e la
cardiochirurgia), alla neuromiopatia associata alla terapia intensiva, alle malattie demielinizzanti, alle
neoplasie o dall’utilizzo di farmaci come gli steroidi. Un problema diagnostico rilevante è quale test
utilizzare per lo studio del diaframma nella pratica clinica. È necessario distinguere la paralisi diaframmatica
monolaterale, che si manifesta con dispnea essenzialmente da sforzo o può essere un riscontro occasionale
all’RX del torace, e la paralisi bilaterale che comporta la presenza di dispnea anche a riposo (con ortopnea e
dispnea all’immersione in acqua) e frequentemente comporta insufficienza respiratoria e necessità di
ventilazione meccanica. I test di funzionalità ventilatoria (spirometria in orto- e clinostatismo, massima
pressione inspiratoria) e la misurazione della pressione transdiaframmatica permettono di escludere una
paralisi diaframmatica bilaterale, ma possono non essere sufficientemente sensibili nell’individuare
alterazioni nella paralisi monolaterale. Recenti studi dimostrano che l’ecografia è una metodica accurata
anche nell’individuazione della disfunzione diaframmatica monolaterale. Inoltre, l’ecografia diaframamtica
è utile in numerose indicazioni come la presenza di dispnea da sforzo di natura da determinare, un difetto
ventilatorio restrittivo inspiegato, la guida per l’esecuzione dell’elettromiografia, un sospetto
interessamento diaframmatico nell’ambito di patologie neuromuscolari, un difficile svezzamento dalla
ventilazione meccanica o la valutazione diaframmatica nell’ambito di una sopraelevazione radiografica
dell’organo. Rimane da verificare il ruolo dell’ecografia nell’ambito della patologia infettiva (ascessi
subfrenici) e neoplastica. Negli ultimi anni vi sono stati numerose pubblicazioni sull’ecografia
diaframmatica soprattutto in terapia intensiva nello studio del weaning del paziente difficile da estubare.
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Lo studio ecografico del diaframma non è attualmente standardizzato, a nostro parere è utile studiare il
muscolo diaframma con varie proiezioni. Dividendo il muscolo nei due emidiaframmi distinguiamo la zona
di apposizione, che rappresenta circa il 50% della superficie del muscolo e la cupola diaframmatica. È
possibile studiare la zona di apposizione con sonda lineare con approccio transtoracico nel seno
costofrenico. In tale proiezione si visualizza il diaframma come una struttura ipoecogena (scura) delimitata
da due linee iperecogene (pleura e peritoneo che appaiono bianche). L’esame si conduce facendo inspirare
il paziente da capacità funzionale residua a capacità polmonare totale e valutando l’ispessimento della zona
di apposizione, un ispessimento >20% dimostra permette di escludere la paralisi diaframmatica. È utile
confermare la diagnosi con lo studio della cupola diaframmatica. Questa è studiabile con approccio
addominale in ipocondrio destro con sonda convex misurandone l’escursione a tidal volume, durante sniff
test e all’inspirio forzata in M-mode. L’algoritmo diagnostico nel sospetto di una disfunzione diaframmatica
bilaterale prevede in primo luogo l’esecuzione di prove di funzionalità ventilatoria, massima pressione
inspiratoria (o sniff test) e, in presenza della persisenza del dubbio diagnostico, è consigliabile l’esecuzione
di esami di secondo livello come la misurazione della pressione trasndiaframmatica o l’ecografia
diaframmatica. In conclusione, l’ecografia è una metodica utile ed accurata per lo studio della funzione
diaframmatica, sono tuttavia necessari ulteriori studi per verificarne il ruolo nella patologia infettiva,
neoplastica e congenita.
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