DOSSIER 2010 Profughi ambientali A cura di Luciana Delfini, Laura Genga, Lorenzo Grassi e Maurizio Gubbiotti Cinquanta milioni di esuli In fuga per il clima una popolazione pari a quella dell’Italia S econdo le ultime stime, il numero dei profughi ambientali nel mondo quest’anno supererà di slancio la soglia dei 50 milioni (nel 1990 erano la metà). Una quantità pari all’intera popolazione italiana costretta all’esodo forzato in conseguenza dei catastrofici cambiamenti climatici: inquinamento e riscaldamento globale, desertificazione e siccità, scioglimento dei ghiacciai e crescita dei livelli del mare, eventi meteorologici estremi come alluvioni e uragani, sino alle guerre per il controllo delle materie prime. Senza contare i 192 milioni di persone che non vivono nella loro terra di nascita, pari al 3% della popolazione mondiale. Ma le prospettive sono ancora più inquietanti, considerato che sia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) che l’International Organization for Migration (IOM) hanno previsto che entro il 2050 si raggiungeranno i 200/250 milioni di persone coinvolte (una ogni 45 nel mondo), con una media di 6 milioni di uomini e donne costretti ogni anno a lasciare i propri territori (un numero che equivale al doppio degli abitanti di Roma). A questi si aggiungono i tanti sfollati per decisioni che impongono la costruzione di dighe o impianti industriali che comportano la distruzione di centri urbani o dei terreni e degli ambienti di vita e lavoro. Così il degrado economico e politico rischia di innescare un circolo vizioso. Lo spostamento di popolazioni dovuto al degrado dell’ecosistema e alle variazioni del clima è un fenomeno che si ripete da sempre nella storia dell’umanità. A differenza del passato, però, la modificazione dell’ambiente ad opera dell’uomo è oggi così rapida e di tale forza da risultare imprevedibile, come dimostrano i sempre più frequenti disastri naturali. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), in un suo recente rapporto, ha evidenziato come negli ultimi decenni il numero e la gravità di questi disastri siano aumentati in modo significativo. Tra il 2005 e il 2007, l’agenzia dell’ONU ha risposto a una media annua di 276 emergenze in 92 Paesi, oltre la metà delle quali causate da calamità, il 30% da conflitti e il 19% da emergenze sanitarie. Inoltre, stando ai dati dell’ultimo rapporto sullo sviluppo umano dell’United Nations Development Programme (UNDP), il Programma ONU per lo Sviluppo, oggi vi sono 344 milioni di persone a rischio per i cicloni tropicali, 521 milioni minacciate dalle inondazioni e 130 milioni dalla siccità. Oltre a vittime e sfollati, inoltre, le calamità - che spesso colpiscono aree già povere - si lasciano dietro uno strascico fatto di potenziali epidemie e aumento del rischio fame. Se fino a qualche anno fa erano le guerre la principale causa delle emigrazioni di massa, oggi il riscaldamento globale rappresenta un fattore predominante (nel 2008 ben 20 I numeri 250 milioni 276 192 milioni 344 milioni È la stima delle persone che nel 2050 si vedranno costrette a lasciare i propri territori resi ormai invivibili dagli effetti dei cambiamenti del clima Sono le persone che attualmente non vivono nella loro terra di nascita (pari al 3% dell’intera popolazione mondiale) milioni di persone sono state costrette a spostarsi temporaneamente o definitivamente in seguito a eventi meteorologici estremi, contro i 4,6 milioni di profughi creati da guerre e violenze). Ormai il numero dei profughi ambientali ha superato quello dei profughi di guerra. Ciò nonostante, queste persone non esistono da un punto di vista giuridico, non essendo stati riconosciuti come “rifugiati” dalla Convenzione di Ginevra del 1951, né dal suo Protocollo supplementare del 1967. Oltre alla necessità di uno status giuridico per i profughi ambientali, la vera urgenza è quella di far comprendere che molte questioni legate all’ospitalità e all’accoglienza nei nostri Paesi devono in primo luogo essere affrontate attraverso un serio impegno collettivo nella lotta ai cambiamenti climatici. Misure ancor più necessarie se si pensa che, al di là delle prospettive future, gli effetti del riscaldamento globale sono già una drammatica realtà in molti Paesi, che pagano un prezzo alto per vittime e sfollati. All’inizio del 2009, ad esempio, piogge torrenziali hanno inondato buona parte dell’Africa Australe, colpendo quasi un milione e mezzo di persone e provocando 150 mila sfollati. L’emergenza è stata particolarmente grave in Angola e Namibia, dove migliaia di persone si sono dovute confrontare con la distruzione dei raccolti e una persistente insufficienza di cibo. In Myanmar (ex Birmania) il ciclone Nargis nel maggio 2008 ha fatto 140 mila vittime, colpendo anche altri 2-3 milioni di persone e costringendo 800 mila persone a sfollare. Ancora tutto da valutare, infine, l’impatto devastante che potrà avere anche sulla popolazione l’enorme sversamento di petrolio in atto nel Golfo del Messico. Sono state in media le emergenze alle quali ogni anno ha dovuto far fronte l’UNICEF tra il 2005 e il 2007 in 92 Paesi, oltre la metà causate da calamità Sono le persone a rischio per i cicloni tropicali, altre 521 milioni di persone sono invece minacciate da inondazioni Se la Puglia diventa un grande deserto Il fenomeno dei profughi ambientali deve portare a considerare l’Italia non solo come Paese di destinazione, ma anche come possibile punto di partenza. La nostra penisola, infatti, ha già iniziato a scontare gli effetti del riscaldamento globale in quanto area mondiale “a più alta vulnerabilità in termini di perdita di zone umide e in particolare degli ecosistemi e della biodiversità marino-costiera”. Si stima che saranno sommersi circa 4.500 chilometri quadrati del territorio. A preoccupare è anche la progressiva desertificazione. L’Italia infatti, negli ultimi 20 anni, ha visto triplicare l’inaridimento del suolo e si stima che il 27 per cento del territorio nazionale rischia di trasformarsi in deserto. Sono interessate soprattutto le regioni meridionali, dove l'avanzata del fenomeno rappresenta già da un decennio una vera e propria emergenza ambientale. La Puglia è la regione più esposta con il 60% della sua superficie, seguita da Basilicata (54%), Sicilia (47%) e Sardegna (31%). Ma sono a rischio anche le piccole isole. Il volto umano del Global Warming Dalle aree più vulnerabili tentativi di multilateralismo L a presenza a Copenhagen di Paesi fino a poco tempo fa considerati marginali, “periferia del mondo” - come il piccolo Stato insulare di Tuvalu o i Paesi africani del G77 - e la loro partecipazione come protagonisti a pieno titolo ai lavori del vertice, ha fatto irrompere sulla scena politica mondiale l’emergenza dei profughi ambientali con una forza nuova. E da questo inedito protagonismo può venire anche una innovazione nei rapporti internazionali. Nonostante venticinque anni fa l’allora direttore dell’UNEP, Essan El-Hinnawi, avesse già definito i profughi del clima “persone che hanno dovuto forzatamente abbandonare le loro abitazioni per necessità temporanee o permanenti a causa di grandi sconvolgimenti ambientali (naturali e/o indotti dall’uomo), che hanno messo in pericolo la loro esistenza, o danneggiato seriamente la loro qualità di vita”, ai migranti ambientali ancora non è riconosciuto lo status giuridico di ‘rifugiati’. Oggi una tale mancanza non è realisticamente più tollerabile. Senza il riconoscimento giuridico, infatti, milioni di persone si vedono privare non solo del diritto di chiedere asilo, ma anche degli aiuti internazionali connessi allo status di rifugiato. Fra i Paesi individuati come i più vulnerabili ai cambiamenti climatici ci sono le isole e quelli con una consistente quota di popolazione costiera. Le vittime designate dell’innalzamento dei livelli del mare sono dunque il Bangladesh, i Paesi Bassi e molte piccole isole dell’Oceano Pacifico. Già ora i duemila abitanti delle Isole Carteret, arcipelago della Papua Nuova Guinea, e i centomila della Repubblica di Kiribati, combattono quotidianamente contro l’avanzata dell’oceano. A rischio anche le Maldive, che a causa dell’innalzamento dei mari si vedranno sommergere circa l’85 per cento dell’isola principale e gran parte dell’arcipelago, costringendo 300 mila persone a cercare rifugio altrove. Sempre per l’innalzamento dei mari l’Africa potrebbe essere inondata per quasi tre milioni di ettari, mentre il solo Egitto vedrà diminuito il suo territorio di circa due milioni di ettari nel delta del Nilo, evento che costringerà all’esodo forzato ben otto milioni di persone, compresa la popolazione di Alessandria. Per quando riguarda l’America del Sud, invece, lo Stato più a rischio sarebbe la Guyana, da dove potrebbero arrivare altri 600 mila profughi ambientali. Poi ci sono le stime legate al rischio delle inondazioni. Uno dei casi più drammatici si è avuto a inizio 2009 in Namibia. A marzo dello scorso anno l’ONU contava oltre 350 mila persone colpite dalle inondazioni in quel Paese. Tanto che il portavoce dell’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), Ufficio di coordinamento degli Affari umanitari delle Nazioni Unite, Elizabeth Byrs, aveva lanciato da Ginevra l’allarme per la loro sicurezza alimentare. Le inondazioni hanno infatti danneggiato oltre la metà delle strade e messo a rischio circa il 63% dei raccolti. Per questo, l’ONU stimava che circa mezzo milione di persone potesse trovarsi rapidamente in condizioni di insicurezza alimentare. Una previsione molto grave anche in prospettiva. Secondo la Byrs, infatti, “544 mila persone potrebbero essere colpite da insicurezza alimentare tra il 2009 e il 2010”. Come se non bastasse, nella vicina Angola, l’OCHA stimava altre 160 mila persone colpite da inondazioni. Significativa anche la situazione del Brasile, che tra aprile e giugno 2009 ha vissuto due drammi contrapposti: mentre il Sud del Paese attraversa la peggiore ondata di siccità degli ultimi 80 anni, il Nord e il Nord-Est sono stati colpiti da violente inondazioni. Il Rio delle Amazzoni, ad esempio, ha superato il maggior livello di piena mai registrato nella sua storia conosciuta: 30 metri al di sopra del livello normale. Nel suo ultimo rapporto, l’IPCC ha indicato tra le aree che subiranno maggiormente gli effetti del cambiamento anche il Vietnam, che potrebbe perdere 500 mila ettari di terra nel delta del fiume Rosso e altri due milioni nel delta del Mekong, costringendo dieci milioni di persone a spostarsi. Fenomeni meteorologici estremi come i cicloni e gli uragani - eventi che la “febbre” del pianeta rende sempre più frequenti - non sono da meno. Per convincersene basta scorrere le classifiche del Munich Re e ricordarsi che nei ricchi Stati Uniti “Katrina” ha costretto a lasciare le proprie case quasi un milione di persone. Negli ultimi tempi dalle aree più vulnerabili al climate change sono iniziate ad arrivare delle proposte di soluzioni “tampone” al problema dei migranti ambientali. In attesa che venga finalmente e giuridicamente riconosciuto lo status di rifugiato ambientale questi tentativi - che certamente non rappresentano la soluzione organica e definitiva al problema - hanno comunque il merito di tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori politici internazionali su un’emergenza pericolosamente sottovalutata che coinvolge milioni di persone nel mondo. Non solo. Arrivando spesso e volentieri da piccoli Stati, questi tentativi di approccio concreto al problema rappresentano anche un importante e innovativo spazio di multilateralismo in seno alla politica internazionale. Cochabamba rilancia la Giustizia Climatica Dalla dichiarazione finale della Conferenza dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra. 22 aprile 2010 - Cochabamba, Bolivia Considerando la mancanza di volontà politica dei Paesi sviluppati di soddisfare in maniera effettiva i loro obblichi e impegni assunti nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico e il Protocollo di Kyoto, e a fronte della mancanza di un organo giuridico internazionale che prevenga e sanzioni tutti i delitti e crimini climatici e ambientali che attentano ai diritti della Madre Tierra e dell’umanità, chiediamo la creazione di un Tribunale Internazionale di Giustizia Climatica e Ambientale che abbia la capacità giuridica vincolante di prevenire, perseguire e punire gli Stati, le Imprese e persone che per azione o omissione contaminano e provocano il cambiamento climatico. Tuvalu, le piccole isole e l’impari lotta degli Inuit Tre esempi che tengono alta l’attenzione sul tema Q uelli che seguono sono i dettagli di tre esempi che negli ultimi tempi hanno riportato all’attenzione degli organismi internazionali e dell’opinione pubblica mondiale il problema dei profughi ambientali. Tuvalu Questo piccolo arcipelago dell’Oceano Pacifico (circa 11.000 abitanti) ha da tempo avviato negoziati separati con i governi di Australia e Nuova Zelanda, i quali hanno sistematicamente negato la possibilità di considerare ufficialmente i migranti tuvaliani come “rifugiati ambientali”. Ma le autorità di Aukland hanno comunque accettato di concedere ogni anno la residenza a 75 cittadini tuvaliani all’interno della cosiddetta Pacific Access Category (PAC). Entrata in vigore nel 2002, per il governo neozelandese la PAC “non è una politica di accoglienza dei profughi ambientali”, ma una semplice politica migratoria destinata ai lavoratori provenienti dai Paesi limitrofi. Tuttavia attraverso questo strumento Tuvalu ha trovato un canale di migrazione fondamentale per i propri cittadini che nei prossimi anni si vedranno costretti alla fuga in conseguenza dei cambiamenti climatici. Pacific Small Island Gli Stati delle piccole isole in Via di sviluppo del Pacifico (Pacific Small Island Developing States) hanno optato per una via più “istituzionale”. I PSIDS, infatti, hanno mantenuto alta l’attenzione della politica internazionale sul problema dei mutamenti climatici e dei loro effetti, migranti innanzitutto, ponendo il problema alle stesse Nazioni Unite. Nell’agosto 2008, ad esempio, questi piccoli Stati hanno portato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York, una bozza di risoluzione intitolata The threat of climate change to international peace and security, la minaccia del mutamento climatico alla pace e alla sicurezza internazionale. Sostenuto anche da Canada, Filippine, Seychelles e Maldive, il documento chiedeva all’Assemblea di portare all’attenzione del Consiglio di Sicurezza la questione della crisi climatica. Pur senza nominare esplicitamente i profughi ambientali, la bozza di risoluzione allude chiaramente ai conflitti che grandi ondate migratorie provocate dal global warming potrebbero innescare in diverse parti del pianeta. Dal 2008 ha raccolto anche l’adesione di Australia, Nuova Zelanda e dei Ventisette membri UE. Inuit contro Stati Uniti d’America Nonostante la sproporzione nei rapporti di forza, gli eschimesi di Canada, Alaska, Groenlandia e Russia hanno deciso di citare in giudizio gli USA. Una denuncia per lesione dei loro diritti umani è stata presentata all’Inter American Commission for Human Rights (IACHR). Nel 2005 l’Inuit Circumpolar Conference (ICC), una ONG rappresentativa di circa 155 mila eschimesi delle regioni artiche, ha presentato una petizione all’IACHR per denunciare la violazione dei diritti umani risultante dal cambiamento climatico provocato dalle azioni e dalle omissioni degli Stati Uniti d’America (fino al 2008 il Paese maggior responsabile dell’inquinamento atmosferico e non sottoscrittore del Protocollo di Kyoto). A causa del global warming e dello scioglimento dei ghiacci, infatti, gli inuit saranno costretti a lasciare le loro terre, il loro stile di vita e i loro mezzi di sostentamento tradizionali. L’IACHR non ha accolto la petizione, ma nel 2007 ha chiesto all’ICC un intervento sulla relazione tra cambiamento climatico e diritti umani. Tra degrado e povertà un circolo vizioso Europa impreparata a migrazioni definitive La World Bank ha stimato che un miliardo e 400 milioni di persone si trovano già oggi nel mondo in zone ad alta fragilità ambientale. Di queste circa 500 milioni abitano in regioni aride e circa 400 milioni vivono in territori ormai di scarsa qualità la cui produttività tende ad esaurirsi rapidamente. La compromessa abitabilità di certe aree, forzando la popolazione a spostarsi, provoca ulteriore degrado e impoverimento e innesca una competizione per l’accesso alle poche risorse disponibili. Secondo dati forniti dall’UNEP, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite, risulta che dei circa 5 miliardi di ettari utilizzati in agricoltura in aree semi aride o in prossimità di deserti, ben il 70% circa di questi è già degradato e gran parte soggetta a desertificazione. Secondo uno studio del German Marshall Fund, a causa dei cambiamenti climatici Europa e Usa subiranno nuove ondate di immigrazione. La preoccupazione della Comunità Europea è che i flussi migratori aumenteranno e a spostarsi saranno le persone provenienti dagli strati più fragili delle società, però avvisa il GMF principalmente da Sud a Sud. Secondo lo studio il mondo occidentale sta ignorando il problema di tipo umanitario che potrebbe essere generato dai nuovi flussi e i Paesi ricchi sono impreparati a ricevere i rifugiati climatici. Si tende infatti ad affrontare le immigrazioni con soluzioni temporanee, mentre coloro che scapperanno dalle conseguenze ambientali derivate dai cambiamenti climatici lo faranno in maniera definitiva. Il Bangladesh sull’orlo della guerra del clima Si innalzano muri contro chi fugge dalle inondazioni I l confine di filo spinato tra India e Bangladesh, che divide prati incolti e boschetti di tamarindi, c’era già prima dell’evidenza del cambiamento climatico, ma questo fornisce un motivo in più per rafforzarlo ed estenderlo: sul lato della instabile barricata climatica del Bangladesh il mare sta invadendo il delta del Gange e gli scienziati pensano che entro la metà del secolo almeno 15 milioni di persone dovranno essere evacuate per non annegare nel mare che sale. L’India guarda terrorizzata a questa prospettiva, visto che è già alle prese con un’immigrazione clandestina inarrestabile e sta cercando di rafforzare elettronicamente e militarmente il suo poroso confine di 2.100 miglia di reticolati con il Bangladesh. “Il Bangladesh è il Paese che potrebbe avere più rifugiati climatici di qualunque altro sulla terra - sostiene Isabel Hilton, esperta ambientale di Ong britanniche che si occupa dell’Asia Questo muro ci dice che le persone che se ne stanno andando non devono andare in India”. La prospettiva della migrazione internazionale di milioni di cittadini è un argomento delicato in Bangladesh e gli esperti di sicurezza nazionale la considerano come la peggiore conseguenza globale dei cambiamenti climatici. Secondo gli analisti militari, l’aumento delle temperature, la carenza di acqua potabile e le modifiche che subirà il territorio potrebbero portare alcune tra le già vulnerabili comunità dell’Asia-Pacifico, sudamericane e africane, a guerre per risorse sempre più scarse. Nicholas Stern, il noto economista che studia le possibili conseguenze dei cambiamenti climatici, ha avvertito che la mancata riduzione delle emissioni di gas serra può portare ad una “estesa guerra mondiale”. Nessuno sa ancora come e dove partirà le prima scintilla dell’incendio innescato dai cambiamenti climatici, ma il pericolo è imminente e rende sempre più urgente un accordo internazionale. Il focolaio potrebbe essere proprio in Bangladesh, dove la maggior parte del territorio è ad una quota inferiore a 20 metri sul livello del mare, con un governo indeciso tra la necessità di lanciare l’allarme sui cambiamenti climatici e il desiderio di mettere la sordina al problema della migrazione. L’India sostiene infatti che sul suo territorio vivono già clandestinamente 5 milioni di bangladesi, il governo di Dacca risponde che si tratta di cifre gonfiate. La questione è una costante fonte di tensione tra le due nazioni e i cicloni che devastano ripetutamente le aree costiere del Bangladesh non aiu- I numeri 15 milioni Sono le persone che dovranno essere evacuate dalla zona del delta del Gange per non annegare nel mare che sale 20 metri È la quota altimetrica sul livello del mare al di sotto della quale si trova la maggior parte del territorio del Bangladesh tano. Secondo Abdul Kalam Azad, senior research fellow al Bangladesh institute of International and strategic studies, quello della migrazione di massa è un problema ingigantito dai media. La pensa diversamente Rabab Fatima, rappresentante per l’Asia del Sud dell’International Organization for Migration: “L’insensibilità politica ha prodotto una carenza di studi su cosa significhi il climate change per I flussi migratori in Bangladesh. Il Paese non è ancora preparato a capire come dovrà confrontarsi con questo agormento e l’atteggiamento prevalente è quello di pensare che il cambiamento climatico sia un grave problema e che lo sia anche la migrazione, ma non si mettono in collegamento i due elementi. Temo che ciò non accadrà culturalmente almeno sino alla prossima generazione e questo potrà creare enormi difficoltà”. Intanto nei villaggi di frontiera ognuno ha almeno un familiare illegalmente emigrato in India e si parla di “clandestini” ridotti in schiavitù. Si dibatte poi sul fatto se gli uomini e le donne che fuggono dalle inondazioni che li hanno privati di tutto siano “rifugiati climatici” oppure, come continua a sostenere il governo di Dacca, normali “migranti”. Una distinzione che non è solo accademica, visto che potrebbe avere reali implicazioni per quanto riguarda i bilanci nazionali, il diritto internazionale e le politiche migratorie. “Gli altri Paesi non vogliono responsabilità per queste masse in movimento - ragiona Koko Warner, dell’ufficio Environmental migration, social vulnerability, and adaptation dell’università Onu di Bonn Sono tutti strenuamente sulla difensiva e questo può diventare esplosivo”. Divario di risorse contro la vulnerabilità Oltre ad essere i responsabili storici dell’inquinamento atmosferico e quindi del mutamento climatico, i Paesi industrializzati sono quelli - per il momento - meno esposti agli effetti del surriscaldamento del pianeta (anche se gli Stati Uniti d’America non sono immuni a fenomeni devastanti) e comunque sono quelli che hanno a disposizione le risorse più ingenti per fronteggiarne gli effetti catastrofici. Tra le nazioni maggiormente esposte agli effetti del global warming ci sono il Bangladesh e i Paesi Bassi, entrambe a rischio per l’innalzamento dei livelli del mare e entrambe alla prese con politiche di adattamento. Peccato che le forze in campo siano assolutamente diseguali. Il Bangladesh, da parte sua, sta già facendo molto per ridurre la vulnerabilità della popolazione, ma ovviamente gli interventi messi in campo scontano la ristrettezza di risorse a disposizione. Con un reddito annuo pro-capite di appena 450 dollari il Bangladesh sta perfezionando un sistema di allarme rapido ed efficace per far fronte al rischio dei cicloni e un parallelo sistema di allertamento e previsione delle inondazioni. Per quanto riguarda invece il governo olandese, ha programmato investimenti per un importo superiore ai 100 dollari pro-capite annui di qui al prossimo secolo. Con un reddito pro-capite di circa 45 mila dollari, l’Olanda ha avviato in questi anni un organico ed esteso programma di delocalizzazione selettiva dalle aree più basse del suo territorio, considerato che la protezione continua si è rivelata una prospettiva assolutamente insostenibile. Un disastro in attesa Ignorati gli effetti delle catastrofi ambientali “lente” C ome ricorda l’Istituto per l’ambiente e la sicurezza umana dell’Università delle Nazioni Unite (Unu-Ehs), “ci sono fondati timori che il numero di persone che fuggono da condizioni ambientali insostenibili crescerà esponenzialmente via via che il mondo sperimenterà gli effetti del cambiamento del clima”. Il direttore dell’Unu-Ehs, Janos Bogardi, insiste sulla necessità che questa nuova categoria di rifugiati trovi un posto nei trattati internazionali: “Dobbiamo prevedere le necessità di assistenza, proprio come per le persone che fuggono per altre situazioni”. Ma salta agli occhi anche un’altra discriminazione tra le persone costrette a emigrare perché il luogo dove abitavano non è più in grado di consentire la sopravvivenza umana. Le vittime di catastrofi naturali improvvise come l’onda di tsunami in Asia nel dicembre del 2004, o un uragano come “Katrina” - risultano infatti ben visibili e di solito beneficiano di sostegno e aiuto umanitario pubblico e privato. Janos Bogardi fa notare che invece non è così per i milioni di persone costrette a sfollare da cambiamenti ambientali più silenti e graduali: il riscaldamento globale, ad esempio, o catastrofi “lente” come la desertificazione, la diminuzione delle riserve idriche o l’innalzamento del livello del mare. Basta ricordarsi che Marocco, Tunisia e Libia perdono ciascuno oltre 1.000 chilometri quadrati di terra produttiva ogni anno a causa della desertificazione, o che in Egitto metà della terra arabile irrigata soffre di salinizzazione e in Turchia 160 mila chilometri quadrati di terra agricola subiscono l’effetto dell’erosione. La perdita di terre coltivabili non potrà che spingere la popolazione agricola a emigrare: su altre terre limitrofe, se ve ne saranno a disposizione, o più probabilmente in città, o all’estero. Per capire la gravità della situazione si può sommare la desertificazione e l’erosione dei suoli all’innalzamento dei livelli del mare e all’erosione delle coste, come in Louisiana (che perde circa 65 chilometri quadrati l’anno di costa “mangiata” dal mare) o come in Alaska (dove centinaia di piccoli centri abitati sulle coste settentrionali sono sul punto di franare nel mare Artico via via che il permafrost si scioglie). Si combini tutto questo alla frequenza crescente di uragani disastrosi. Il risultato, dice l’istituto dell’ONU, è “un disastro in attesa”, che creerà ripetute e massicce ondate di migrazioni. Il numero di persone costrette a muoversi per ragioni legate all’ambiente potrebbe presto superare quelle che lo stesso ONU chiama “persone di cui preoccuparsi”: rifugiati e sfollati all’interno del proprio Paese a causa di conflitti, richiedenti asilo, apolidi, in tutto oltre 19 milioni di persone. Secondo la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa, già oggi ci sono più persone sfollate da disastri ambientali che dalle guerre. Cancun: ultima chiamata Dopo l’assordante silenzio di Kyoto e Copenhagen A perto sotto gli auspici positivi di una sintonia ritrovata sui temi di ambiente, green economy, energie pulite e febbre del pianeta, tra gli USA dell’era Obama e l’UE, il 2009 è stato un anno di grande attesa e preparativi finalizzati al buon esito della quindicesima Conferenza delle Parti sul Clima. Sia per la politica istituzionale, che si è preparata all’appuntamento di Copenhagen con un denso calendario di vertici tematici, sia per la politica di “movimento”, che ha impegnato la società civile internazionale in un altrettanto ricco elenco di forum e manifestazioni distribuiti su entrambi gli emisferi del globo. Ma la politica istituzionale, spiazzata anche dal nuovo protagonismo di Paesi prima non molto influenti sul fronte internazionale - Paesi del BASIC, Paesi emergenti e Stati insulari del Pacifico - non ha saputo dare risposte adeguate a quanti, in tutto il mondo, chiedevano che in Danimarca si chiudesse un buon accordo, capace di dare seguito, in meglio, al Protocollo di Kyoto. Il generico accordo politico sul clima uscito da Copenhagen, infatti, lascia aperti i principali problemi sul tavolo della trattativa climatica globale e fra questi quello dei profughi ambientali. E visto che nel frattempo la scadenza di Kyoto (2012) si è avvicinata, per uscire dalla crisi climatica il mondo ha ancora meno tempo. Se non si riuscirà ad adottare un accordo interna- zionale sul clima vincolante prima della scadenza del mandato di Kyoto, per altro, tutto il complesso sistema dei vincoli, dei controlli internazionali, dei commerci di quote di emissione e dei programmi di assistenza tecnologica ai Paesi in via di Sviluppo previsto dal pur imperfetto protocollo sottoscritto nel 1997, rischia di saltare interrompendo drammaticamente i processi di riduzione delle emissioni. Il mondo è quasi fuori tempo massimo, ma per correre ai ripari sono ancora disponibili gli appuntamenti della conferenza tecnica dell’UNFCCC di Bonn (giugno 2010), che dovrebbe rimettere in moto il processo di definizione di un accordo climatico globale, e soprattutto la COP16 di Cancun prevista per dicembre 2010. Se in tale occasione non sarà adottato il Post Kyoto, le conseguenze saranno drammatiche e si potrà considerare davvero chiuso il processo avviato nel 1997 con il Protocollo Kyoto. Così, a poca distanza dalla chiusura di Copenhagen, è stato lo stesso Segretario esecutivo della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici, Ivo de Boer, a sottolineare la necessità di chiudere l’anno con un trattato, dichiarando che proprio quanto accaduto alla COP15 “rende soltanto il compito più urgente” per il mondo che deve affrontare i cambiamenti climatici. Nel lungo termine, infatti, l’unico obiettivo che può garantire una certa sicurezza al pia- neta è un taglio dell’80 per cento almeno entro il 2050 dei gas serra. Tuttavia è nel breve periodo che si gioca la battaglia più importante: nel 2020 le emissioni che alterano il clima dovranno essere state già considerevolmente diminuite, a cominciare ovviamente dai Paesi che hanno inquinato di più. In ragione della loro maggiore responsabilità storica sull’effetto serra, i Paesi industrializzati sono chiamati ad agire per primi, siglando un duplice impegno: ridurre sostanzialmente entro il 2020 i gas serra (almeno del 40 per cento) e finanziare con risorse adeguate la mitigazione e l’adattamento ai mutamenti climatici (almeno i 30 miliardi promessi per il prossimo triennio per arrivare entro il 2020 a decine di miliardi di euro). Qualche segnale positivo, lo scorso marzo, è arrivato dalla cosiddetta “Dichiarazione di Nusa Dua”, a Bali. Nell’isola indonesiana, infatti, si è riunita l’undicesima Special session del governing council and global ministerial environment forum UNEP - la sessione speciale del forum composto dal consiglio direttivo e dalla plenaria ministeriale dell’UNEP - meeting in cui i ministri dell’Ambiente di mezzo mondo hanno dichiarato che intensificheranno la loro cooperazione in fatto di lotta al mutamento climatico e di protezione dell’ambiente. Ancora, la “Dichiarazione di Nusa Dua”, ha evidenziato anche l’importanza della biodiversità, i vantaggi che si avrebbero dalla progressiva trasformazione dell’economia in una sistema a basso tenore di carbonio e il comune impegno ad adoperarsi per un esito positivo della COP16. Nonostante quella di Nusa Dua sia una solo una dichiarazione di intenti, sancisce principi importanti ed è la prima dichiarazione di così alto livello sottoscritta dai ministri dell’Ambiente di 130 Paesi dopo quella del 2000 a Malmöe. Non a caso il direttore esecutivo dell’UNEP, Achim Steiner, ha espresso viva soddisfazione: “Poco più di un mese dopo la Conferenza di Copenhagen, i ministri dell’Ambiente hanno parlato con una sola voce, chiara ed inequivocabile”, aggiungendo che “di fronte al continuo degrado dell’ambiente e alle sfide del cambiamento climatico, l’immobilismo non è un’opzione”. A maggiore garanzia del raggiungimento di un buon accordo sul clima, inoltre, è importante anche la cornice nella quale l’accordo stesso sarà definito. In un mondo interdipendente, in cui l’alto grado di dipendenza reciproca è reso sempre più evidente proprio dalla crisi climatica, infatti, fermare la febbre del pianeta ha possibilità di successo solo se gli obiettivi e gli interventi da mettere in campo sono globalmente condivi- si. A quanti, come l’ex leader britannico Gordon Brown, dopo Copenhagen hanno iniziato a sostenere l’idea che i termini dell’accordo vadano fissati in meeting ristretti stile G8, G20 o G2, bisogna invece ribadire con fermezza che la definizione del Post Kyoto deve necessariamente passare per un processo multilaterale e democratico. Ossia in ambito ONU e UNFCCC. I problemi sul tavolo delle trattative Copenaghen ha portato il cambiamento climatico al più alto livello di governo, l’agreement riflette inoltre un consenso politico sul lungo termine circa la necessità di rispondere con una riduzione drastica delle emissioni ai cambiamenti climatici. In Danimarca è emersa anche l’indiscutibile necessità che i Paesi industrializzati finanzino il Fondo di adattamento ai mutamenti climatici, ma le cifre messe a disposizione sono al momento assolutamente insufficienti. E non è stato sostanzialmente messo in discussione il modello di sviluppo e lo stile di vita “usa e getta” che ha portato il mondo sulla soglia del baratro. In buona sostanza, a eccezione della dichiarazione d’intenti globalmente condivisa di contenere il surriscaldamento del pianeta entro i 2° C, all’indomani della COP15 la crisi climatica pone al mondo gli stessi problemi irrisolti che erano usciti da Poznan, a dicembre del 2008. Equità e giustizia sociale Come evidenziato dalla quindicesima Conferenza delle Parti, il nuovo accordo internazione sul Clima non potrà eludere i temi dell’equità e della giustizia sociale. Se a livello scientifico è acclarato che i Paesi in via di Sviluppo, storicamente responsabili per una quota assolutamente minoritaria dell’inquinamento atmosferico, sono quelli che subiscono le maggiori conseguenza dei cambiamenti climatici, grazie alle proteste e alle posizioni assunte da Paesi Emergenti e G77 al vertice danese è ormai chiaro anche politicamente che, senza garantire l’accesso a energia, tecnologie pulite e crescita economica a tutti i cittadini del mondo, non passerà alcun accordo. Profughi ambientali È uno dei temi che sta entrando nell’agenda politica internazionale e nella coscienza di fette sempre maggiori di opinione pubblica e società civile globale. I profughi ambientali, milioni di persone costrette a lasciare le proprie case da inondazioni, desertificazioni, o fenomeni climatici estremi, sono le principali vittime del mutamento climatico. Tuttavia il problema non veniva affrontato in ambito di Kyoto e neanche l’agreement di Copenhagen ha affrontato la questione. Di più, siamo in una fase in cui non ci si può aspettare altro che una recrudescenza della crisi. La soluzione del problema passerà per il riconoscimento del diritto dei migranti ambientali a godere del sistema di protezione internazionale accordato a profughi e richiedenti asilo. E se pure è evidente che il cammino per il riconoscimento dello status di rifugiati ambientali ai migranti del clima sarà lungo, è altrettanto evidente che le basi per raggiunge tale obiettivo ci sono. Anche a livello di giurisdizione internazionale. Nel momento in cui il Protocollo di Kyoto ha riconosciuto il nesso tra sviluppo e mutamento climatico, ha infatti riconosciuto anche la relazione che lega gli impatti del mutamento climatico alle migrazioni ambientali. Non a caso da Kyoto è scaturito anche un fondo per la mitigazione e l’adattamento. Peccato che ancora il ciclo non si stato chiuso e che l’anello debole della catena, ossia le vittime del surriscaldamento del pianeta, sia rimasto senza adeguata tutela. Ma con il tema caldo dei profughi ambientali, dovrebbe misurarsi il costruendo trattato sul clima. Di fronte alla prospettiva di 240 milioni di profughi ambientali al 2050, inoltre, affrontare la questione assume anche un carattere strategico per sicurezza globale. Ecco perché, seppur con tempi lunghi ed elefantiaci, il tema non potrà restare senza risposte. Fondo di adattamento Dai piccoli Stati insulari del Pacifico e dell’Oceano Indiano, che rischiano in un futuro prossimo di essere sommersi a causa dell’innalzamento del livello del mare, agli Stati africani resi sempre più vulnerabili da siccità e desertificazione, ai Paesi costieri esposti sia ai cicloni che all’innalzamento dei mari, le aree in cui è necessario intervenire con urgenza sono molteplici. Come sancito dal Protocollo di Kyoto questo intervento dovrà essere finanziato con fondi adeguati e in misura crescente dai Paesi industrializzati, in ragione della loro maggiore responsabilità nell’effetto serra. Che provengano da fondi fast o meno, inoltre, è necessario rendere i finanziamenti per l’adattamento obbligatori, e non volontari come sono tuttora. Egualmente necessaria, anche la trasparenza nella gestione di tali fondi. Green economy e sviluppo sostenibile Sul banco degli imputati come principale responsabile del global warming c’è il modello di sviluppo dominante, basato su fonti fossili e consumi in crescita continua. Arginare la febbre del pianeta e intervenire alle radici del problema, significa quindi promuovere lo sviluppo e la diffusione di un modello di produzione energetica e industriale virtuoso, fondato sull’implementazione delle fonti rinnovabili, del risparmio e dell’efficienza energetici. La premessa dello sviluppo e del benessere economico, inoltre, non può più essere riassunta nella formula magica di consumi in crescita continua, ma deve fondarsi su prospettive ecosostenibili. Fermare deforestazione e agricoltura intensiva Uno degli imperativi cui deve rispondere il futuro trattato sul clima è il blocco della deforestazione che, insieme ai cambiamenti nell’uso dei suoli e all’agricoltura, rappresenta secondo dati IPCC del 2007 il 30,9% delle emissioni globali (IPCC 2007b). Rimasti indefiniti dopo Poznan, a Copenhagen non hanno avuto sorte migliore e restano tuttora nel limbo i meccanismi e la normativa internazionale che dovranno garantire l’arresto della deforestazione. Il Dipartimento Internazionale di Legambiente si occupa dei profughi ambientali dal 2005, in collaborazione con docenti universitari, centri di ricerca e giornalisti. Per mantenere alto il livello di attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni su questo tema di primaria importanza, il Dipartimento ha partecipato in questi anni a numerosi convegni, seminari e dibattiti nazionali e internazionali. Ha inoltre realizzato periodicamente un Dossier. Questo Dossier è aggiornato a maggio 2010 Legambiente Dipartimento Internazionale Via Salaria, 403 - 00199 Roma (Italia) Tel. +39 0686268362 - +39 0686268344 [email protected] www.legambiente.it