Scintigrafia dello scheletro in un caso di sindrome di McCune

ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
Contenuto
EDITORIALE
La migrazione di professionisti della salute dai Paesi poveri ai Paesi ricchi: è possibile
fermare il "brain drain"?
C. RESTI, V. RACALBUTO
Health professionals migration from poor to rich Countries: can we halt the brain drain?
ARTICOLI ORIGINALI
La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno: analisi epidemiologica di pazienti della
U.O. Insufficienza respiratoria e riabilitazione dell'ospedale Forlanini
S. CUOZZO, A. PROPATI, M. VITTO, D. NERVINI, C. SCHIAVONI, F. BENASSI
Sleep apnea syndrome: epidemiologic analysis of a group of patients of department of
respiratory insufficiency and rehabilitation, Carlo Forlanini hospital
Analisi dello stress nella professione infermieristica in Unità operative critiche e di
emergenza
R. GORIO, C. CARDUCCI, E. MENICHETTI, B. MERCURIU, M. MERCURIU
Stress and burnout evaluation in nurses involved in critical and emercency units
CASO CLINICO
Scintigrafia dello scheletro in un caso di sindrome di McCune-Albright
A.M. MANGANO, F. FLORE, A. SEMPREBENE, V. MIELE, L. MANGO
Scintigraphy whit 99mTc-MDP in McCune-Albright syndrome: case report
RASSEGNE
Clinical governance dello scompenso cardiaco nell'anziano: approccio multidimensionale
a una patologia complessa
G. PULIGNANO, D. DEL SINDACO, G. PALOMBARO, M. SORDI, H. PAVACI, G. MINARDI, E. GIOVANNINI
Clinical governance for heart failure in elderly patients: multidimensional approach for
a complex disease
L'evoluzione della risposta immune nel corso della storia naturale o terapeuticamente
modificata nell'infezione tubercolare
F. BELLI
Development of immune reaction during natural history or therapeutic changes in
tubercular infection
GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA
Training per medici ed infermieri per prevenire la sindrome del burnout e lo stress
individuale: i gruppi balint
P. CIURLUINI, D. AIELLO, R. BUCCI
Training for health doctors and nurses to prevent burnout syndrome and individual
stress: balint groups
RECENSIONE
Osservazioni in libertà su un vecchio testo di Pneumologia (1938)
G. SCHMID
77
83
90
97
103
113
132
135
“La Rivista è stata selezionata da
ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES
per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS”
COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE,
FLUIDEX E WORLD TEXTILES
www.scamilloforlanini.rm.it
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
Editoriale
LA MIGRAZIONE DI PROFESSIONISTI DELLA
SALUTE DAI PAESI POVERI AI PAESI RICCHI: È POSSIBILE
FERMARE IL “BRAIN DRAIN”?
HEALTH PROFESSIONALS MIGRATION FROM POOR TO RICH
COUNTRIES: CAN WE HALT THE BRAIN DRAIN?
CARLO RESTI1, VINCENZO RACALBUTO2
U.O. Sanità Internazionale e Cooperazione,
Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma; 2UTC DGCS, Ministero degli Esteri
1
Parole chiave: Risorse umane in sanità. Obiettivi di Sviluppo per il Millennio. Salute globale.
Brain drain
Key words: Human Resources for Health (HRH). Millennium Development Goals (MDG). Global
health. Brain drain
Le risorse umane in sanità (HRH) rappresentano il cuore dei sistemi sanitari di
tutto il mondo ed oltre ad essere il “collante” essenziale che tiene insieme il sistema
di erogazione dei servizi, costituiscono
la risorsa più preziosa e dispendiosa del
sistema, come in tutte le organizzazioni
“knowledge-based”. Oggi si parla di “crisi
globale” di risorse umane perchè secondo
le stime della Joint Learning Initiative,
mancano circa 4 milioni di operatori sanitari nel mondo di cui un milione solo
nell’Africa Subsahariana, che risulta così
essere l’area del pianeta dove vi sono meno operatori sanitari per abitante.
L’OMS ha lanciato l’allarme e lo ha fatto dedicando il World Health Report 2006
alla crisi di professionisti della salute nel
mondo lanciando la decade 2006-2015 per
le risorse umane in sanità1.
Oltre al gioco di numerose e complesse forze e fattori che spingono medici ed
infermieri a migrare dai paesi poveri a
quelli ricchi o più semplicemente ad abbandonare il settore pubblico per quello
privato (fenomeno assai evidente anche
in Italia ed accentuatosi negli ultimi anni), hanno avuto un ruolo storico alcuni
fatti inequivocabili che hanno modellato
i sistemi sanitari di tutto il mondo verso
il libero mercato e lo smantellamento dei
pochi sistemi di “welfare”2.
Il numero degli operatori sanitari è
sempre stato storicamente inadeguato,
anche se negli ultimi anni molti paesi
hanno incominciato a registrare carenze
di quasi tutte le professionalità (ad es.
medici in Africa subsahariana, infermieri
in Italia e Regno Unito). In primo luogo
la formazione di operatori sanitari non ha
tenuto il passo, in generale, con l’aumento
della domanda di servizi causata, tra l’altro, dall’invecchiamento della popolazione
nei paesi ricchi e da nuove sfide al sistema
nei paesi poveri, costituite dal “proclama” dei Millennium Development Goals e
dalla necessità di incrementare l’accesso
ai trattamenti antiretrovirali nella lotta
all’ AIDS. In secondo luogo, le HRH, per
tanti anni sono state la “componente negletta” per eccellenza nello sviluppo dei
sistemi sanitari, nelle grandi Riforme del
sistema in tutti i Paesi del mondo. Basti
pensare solo al sottofinanziamento dei
sistemi pubblici ed al taglio della spesa
78
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
per il personale causato dai Programmi
di Aggiustamento Strutturale (SAP) che
si sono abbattuti su quasi tutti i Paesi a
risorse limitate3.
Si parla così sempre più spesso di aumento dell’ “attrition rate” del personale
sanitario (percentuale di operatori che
abbandona il sistema sanitario pubblico)
e che oltre alla cause distali sopra citate
ha anche cause piùprossimali e spesso “fisiologiche”, come il pensionamento,
l’abbandono della professione, la malattia
e la morte, sempre di piùcausata da HIV
AIDS, nei paesi poveri4.
In tutti i paesi del mondo, il reclutamento e la formazione di personale medico avvengono a ondate, non sempre ben
sincronizzate. Questi squilibri, più o meno
prolungati, creano una pesante disoccupazione in alcuni paesi, mentre in altri le
autorità sanitarie utilizzano medici stranieri che vanno a cercare lavoro sempre
più lontano. Questa globalizzazione di
professionisti della salute si traduce in un
trasferimento netto di medici dal Sud al
Nord - con un costo annuo valutato intorno ai 500 - 600 milioni di dollari.
Una vera e propria forma di apartheid sanitaria
Negli Stati Uniti, il 23% della classe
medica ha una laurea presa all’estero;
nel Regno unito quasi il 20% dei medici è
asiatico.
I paesi arabi del Golfo contano un
pò più di 25.000 medici, provenienti in
maggioranza dal subcontinente indiano.
Tuttavia le migrazioni Sud-Sud sono, in
genere, temporanee e si crea un passaggio
di risorse che transita via via 1- dalle aree
rurali a quelle urbane, 2- da paesi molto
poveri a paesi meno poveri e 3- da questi
a paesi industrializzati del mondo occidentale. Si descrive così una immaginaria
cinghia di trasmissione (“conveyor belt”)
che trasporta, drenandole, risorse professionali partendo dalle aree rurali dei paesi
poveri e terminando nella sanità urbana
dei paesi ricchi5.
Le conseguenze di questi “salassi” sono
economicamente rilevanti, ma sfuggono
ad un semplice inquadramento del problema che li definisca semplicemente come “fuga” o “furto” di camici bianchi. Ad
esempio, dei 1.200 medici formati nello
Zimbabwe durante gli anni ‘90, soltanto
360 lavoravano nel loro paese nel 2000; la
metà dei medici formati in Etiopia, Ghana
e Zambia sono emigrati. Attualmente si
formano in Etiopia meno di 200 medici
all’anno in solo 5 Università. Ebbene, circa 2/3 abbandonano il paese per cercare
“pascoli più verdi”!
La carenza di personale infermieristico,
anche in alcuni paesi del mondo ricco, è
ancora maggiore. Nel 2000, il Ministero
della Sanità britannico ha assunto più di
8.000 infermiere e ostetriche non originarie dell’Unione europea, le quali si sono
aggiunte alle 30.000 loro colleghe straniere già impiegate negli ospedali pubblici e
privati.
Le proiezioni fatte negli Stati Uniti, in
Francia e in Gran Bretagna per il 2010,
parlano di un deficit di svariate decine di
migliaia di diplomati.
Negli Stati Uniti, ad esempio, si stima
il bisogno di assistenza di un milione di
infermieri in più entro il 2010. Costituisce
già un mercato di grande attrazione in
quanto gli infermieri che lavorano negli
USA, con un salario annuale medio di
65,000 USD, risultano i meglio pagati nel
mondo2.
Del resto dobbiamo pensare ed ammettere che la scienza si è sviluppata grazie
alla circolazione e alla “cross fertilization”
di uomini e di idee; la medicina non fa
eccezione. Un tempo, i medici studiavano
nelle prestigiose scuole di Alessandria
d’Egitto, Bologna e Padova, Montpellier,
Heidelberg. Hanno poi viaggiato, un pò
come facciamo noi adesso con molta più
facilità, in tutto il mondo.
A partire dalla rivoluzione microbiologica di Pasteur, hanno percorso il globo da
Nord a Sud e hanno dato vita alla medicina tropicale.
Ma questa migrazione e globalizzazione di professionisti non nasce solo dalla
povertà, da imperativi di sopravvivenza
o dall’evoluzione dei comportamenti. Nasce prima di tutto dalla convinzione che i
C. Resti, V. Racalbuto: La migrazione di professionisti della salute dai paesi poveri ai paesi ricchi.
paesi del Nord siano in grado di offrire ai
professionisti qualificati un tenore di vita
e possibilità di carriera all’altezza delle
loro competenze. C’è forse di che stupirsi
se, grazie alla facilità di spostarsi in aereo
e di accedere ad internet consentendo di
proporre il proprio expertise sul mercato
mondiale della salute, molti nostri colleghi africani, cercano migliori opportunità
di lavoro e di carriera all’estero? La migrazione di professionisti desiderosi di migliorare la propria professionalità e la propria
condizione socioeconomica continuerà ad
avvenire, almeno finchè rimarranno discrepanze enormi nei salari (da 10 a 20
volte inferiori, a parità di potere d’acquisto) rispetto a quelli dei paesi sviluppati;
finchè rimarranno diffuse pessime condizioni e carichi di lavoro, soprattutto nelle
zone rurali e densamente popolate; finchè
non migliorerà considerevolmente la gestione del personale e le opportunità di
accesso all’aggiornamento e allo sviluppo
professionale. In molti casi, al Sud (ad
es.Eritrea ed Etiopia, dove la Cooperazione italiana e la Azienda Ospedaliera San
Camillo - Forlanini sono presenti con programmi di cooperazione ospedaliera e di
appoggio al piano sanitario nazionale, non
fanno eccezione) vi sono troppi e complessi
fattori condizionanti il “brain drain”.
“Brain drain”: fuga o furto?
L’instabilità del panorama politico e
macroeconomico, i pregiudizi etnici, le insoddisfazioni professionali (burocrazia opprimente, ritardi nei pagamenti, isolamento e mancanza di supporto e supervisione),
il divario tra ciò che si è imparato (ancora
troppo spesso orientato ai problemi e alla cura delle malattie tipiche del mondo
occidentale) e ciò che si può e si dovrebbe
fare, le preoccupazioni di dare un futuro,
non solo d’istruzione, ai propri figli, sono
spesso fattori che superano in importanza
il mero calcolo economico. I motivi per i
quali un medico perde il gusto di esercitare la professione nel proprio paese sono
davvero complessi. Uno di questi, spesso
ignorato e che riguarda sia il Nord che
il Sud, dipende dalla percezione, in crisi
79
persistente, che il medico ha della propria
professione. La crisi del NHS inglese e la
carenza di “vocazioni” nel sistema è soltanto uno degli esempi. La visione di una
medicina vincente e dell’elevato status
sociale di cui godeva il medico in passato
è sicuramente venuta meno. Questa idea,
spesso alla base della scelta professionale,
diventa illusoria e genera frustrazione e
rabbia quando i mezzi materiali vengono a
mancare. Non potersi aiutare con qualche
esame di laboratorio per fare una diagnosi,
essere impossibilitati a somministrare il
farmaco appropriato, non poter soddisfare
le più elementari regole igieniche, dover
trasferire una donna per un taglio cesareo a piùdi cento chilometri di distanza e
senza disporre di un mezzo di trasporto
funzionante, etc. è il destino di una buona
parte del personale sanitario nei paesi a
risorse limitate. Coloro che pensano ad
emigrare si trovano quindi di fronte ad un
dilemma: restare fedeli al proprio paese, o
al loro compito professionale di medici?
Risorse umane e MDGs
Gli Obiettivi di Sviluppo per il Millennio (MDGs), tanto “globali” e rappresentativi quanto “immisurabili” e difficilmente
raggiungibili entro il 2015 da molti paesi
dell’Africa Subsahariana, stanno segnando il tempo ed il cammino nello sviluppo
dei servizi per la salute nei paesi poveri6.
Appare molto difficile che sistemi sanitari
deboli, siano in grado di cogliere questi traguardi senza un adeguato numero
di operatori sanitari motivati. In questo
cambiamento, le risorse umane sono e
saranno agenti attivi di cambiamento e
vi sono evidenze che le risorse umane in
sanità condizionino le performances dei
sistemi sanitari. Una maggiore densità di
operatori sanitari ed una migliore qualità
ed organizzazione del lavoro, insieme ad
altri ben noti determinanti della salute,
contribuiscono a migliorare le condizioni
di salute di una popolazione e la sopravvivenza. E costituiscono interventi prioritari per rafforzare i sistemi sanitari7. Così la
densità di operatori sanitari in una popolazione può contribuire significativamente
80
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
nell’efficacia degli interventi per i MDGs.
Ad esempio, il raggiungimento di una copertura vaccinale per il morbillo dell’80%
ed una assistenza qualificata al parto sono
enormemente aumentati quando la densità di lavoratori è superiore a 2,5 operatori
sanitari per mille abitanti. Ben 75 paesi al
mondo per un totale di 2 miliardi e mezzo
di persone si situano al di sotto di questa
soglia minima1,3.
Al problema della scarsità di risorse si
aggiunge quello della loro distribuzione
ineguale tra paesi e tra regioni al loro
interno. Sempre l’Africa Subsahariana
possiede un decimo dei medici e degli infermieri per la sua popolazione rispetto
all’Europa. L’Etiopia ha un cinquantesimo dei professionisti sanitari per abitante rispetto all’Italia. Ciascun paese deve
adottare la sua strategia per aumentare
la produzione di risorse umane adeguatamente formate che devono poi essere
nella giusta misura impiegate, motivate
ed incentivate a rimanere nel sistema per
contribuire ai MDGs. In Etiopia è stata
scelta una strategia di produzione e motivazione massiccia (“flooding and retention
strategy”) di quadri manageriali / clinici
intermedi per i distretti e gli Health Centres (Health Officers) e di operatori di
primo livello (Health Extension Workers)
entro il 20108.
La Banca Mondiale, solitamente prolifica di studi celebrativi dei benefici dell’apertura dei mercati e di studi sul comportamento alla base delle scelte professionali,
non ha presentato alcuna valutazione sui
flussi finanziari prodotti dagli scambi di
capitale umano. Si sa che esistono i flussi
finanziari delle rimesse di chi lavora all’estero alle famiglie d’origine e che queste
ammontano oggi a più dell’aiuto totale dei
paesi donatori ogni anno. Ma quasi nulla
di questi flussi (capitali privati) rientra
nei servizi sanitari che soffrono così la
deprivazione di operatori a causa delle
migrazioni internazionali.
All’interno di un’analisi critica della globalizzazione, l’Oms ha creato una
commissione, «Macroeconomia e salute»,
destinata a proporre un piano innovati-
vo d’investimenti. Sappiamo che nel loro rapporto i commissari hanno respinto
l’argomento abituale secondo cui la salute
migliora sicuramente grazie alla crescita
economica.
Investire in risorse umane diventa così
una priorità e va ben oltre la dimensione
finanziaria coinvolgendo infrastrutture,
tecnologie adeguate, miglioramento della
qualità delle prestazioni e delle condizioni
di lavoro. È ormai convincimento diffuso
che per raggiungere gli obiettivi bisogna
agire anche sul potenziamento e la motivazione delle risorse umane, sull’armonizzazione ed il coordinamento dei donatori e
sul miglioramento dei sistemi informativi
sanitari9,10.
Per rispondere agli obiettivi prefissati, il Fondo mondiale per la lotta
contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi
(GFATM) dovrà mantenere o costituire degli inquadramenti socio-sanitari
capaci di gestire con efficacia le azioni
previste, in particolare il follow up dei
soggetti trattati con farmaci antiretrovirali. Il che si dovrebbe tradurre in rafforzamento dei servizi di base e formazione
con delega di alcuni compiti chiave a
figure intermedie del sistema e più facilmente addestrabili a bassi costi (“task
shifting”)11,12.
È possibile dunque porre rimedio
al “brain drain”?
La valutazione dei costi di formazione
dei professionisti risulta per molti aspetti
difficile e varia significativamente tra le
diverse regioni del mondo. Risulta altrettanto difficile, inoltre, misurarne l’impatto
sui sistemi sanitari e sullo sviluppo. Tuttavia, se si calcola che la formazione di un
medico non specialista in un paese del Sud
costa circa 60.000 dollari, circa 5 volte di
più di quella del personale paramedico, si
può avere una idea sia degli investimenti
in formazione che vanno perduti quando
il professionista migra, sia della convenienza che si ha nel formare personale
paramedico con compiti e deleghe precise
e rapportate ai reali bisogni di salute locali12.
C. Resti, V. Racalbuto: La migrazione di professionisti della salute dai paesi poveri ai paesi ricchi.
Si possono ipotizzare diverse soluzioni.
Nessuna potrà però funzionare facilmente
senza una strategia specifica per ciascuna
realtà. A causa dei flussi transnazionali nel
mercato del lavoro, delle conoscenze, dei
finanziamenti internazionali, il successo
delle diverse strategie nazionali dipende
da un corretto rafforzamento delle politiche
sanitarie a livello globale (global health).
Una soluzione che è stata proposta a
livello internazionale consiste in una compensazione economica versata dai paesi di
accoglienza ai paesi che hanno garantito
la formazione. Va però aggiunto che questa proposta diventa aleatoria in assenza
di una legislazione o patto internazionale
vincolante. I paesi d’origine possono anche
rendere l’emigrazione più difficile, o differirla, imponendo prestazioni professionali
obbligatorie prima del conferimento del
diploma, oppure proponendo il blocco nel
rilascio dei certificati o meccanismi di
contratto obbligatorio. Tuttavia, vietare
l’emigrazione non evita il degrado dell’assistenza medica e le decisioni legislative
degli Stati di solito non incidono per nulla
sulla spinta a emigrare.
Un’altra soluzione comporta la rivalutazione culturale e sociale della funzione
del medico e lo sviluppo di nuovi quadri
sanitari adatti al contesto locale e soprattutto “cost-effective”8.
La categoria medica, infatti, ha difficoltà a rispondere in modo effettivo alle
necessità delle popolazioni del Sud, perché
è stata formata secondo il modello universalista di una medicina curativa (modello
occidentale o curriculum ospedalocentrico) che, fino a poco tempo fa, considerava
ancillari o complementari discipline come
l’epidemiologia, l’igiene e sanità pubblica,
la gestione ed organizzazione di servizi
sanitari, la programmazione sanitaria. Un
modello di sanità pubblica privilegia la difesa della salute sulla cura della malattia
e rivendica attenzione alle comunità più
che all’individuo; prescrive un lavoro di
squadra, con modalità multidisciplinari,
per conciliare cura e prevenzione. Esige,
infine, che l’ospedale - di cui usufruisce
solo una minoranza - non venga più considerato l’unico luogo capace di garantire
cure mediche di qualità.
81
Dal momento che i paesi del Sud non
formano un insieme omogeneo, le strategie e le modalità di cooperazione dovranno
tenere conto della diversità delle situazioni e delle necessità a breve o a lungo
termine. Così, alcuni paesi (Cuba, Italia,
Israele, Filippine) formano più medici di
quanti non ne possano assumere. Altri, come USA, Canada, Australia e Regno Unito, ne formano un numero insufficiente
rispetto alla proporzione medico/abitanti
ritenuta accettabile. La soluzione all’emigrazione del personale sanitario non sta
dunque in una limitazione della mobilità
individuale. Ma forse in un incoraggiamento a muoversi in senso inverso!
Una terza soluzione sembra aprire prospettive più appropriate ed è quella di
ricercare il modo di invogliare il personale
qualificato a rimanere o a reinserirsi nel
proprio paese di origine, per correggere le
diseguaglianze nell’accesso alle cure e anche per valorizzare gli investimenti effettuati nell’istruzione e nella sanità. Lo sviluppo delle nuove tecnologie, in particolare
dell’informazione e della comunicazione,
offre diverse possibilità come, per esempio,
la creazione di corsi di formazione a distanza e la costituzione di reti interattive.
Queste reti raggruppano gli espatriati e
costituiscono una nuova forma di diaspora
intellettuale e scientifica, il cui scopo è
quello di suscitare collaborazioni NordSud, valorizzare sulla scena internazionale
le attività dei colleghi e ricercare occasioni per un ritorno temporaneo o, meglio,
permanente. Ristabilendo legami con la
loro comunità di origine, gli espatriati, pur
restando all’estero, sono in grado di contribuire allo sviluppo del proprio paese.
Conclusioni
Comunque vada, qualsiasi tipo di supporto o di soluzione presenta un rischio di
inappropriatezza se non viene preceduta
da una attenta analisi delle condizioni locali. Come da più parti sostenuto, il “brain
drain” non può essere fermato, almeno
nel breve termine, ma può essere gestito
insieme da donatori e paesi beneficiari
degli aiuti con interventi su larga scala.
82
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Sembra che nulla che non assomigli ad
un “Piano Marshall” per le risorse umane,
potrà aiutare davvero ad invertire la rotta
e a tamponare la crisi.
In Etiopia, negli ultimi due anni, grazie
alla creazione di una “joint task force”* a
livello ministeriale, con il contributo della
Cooperazione italiana**, dell’OMS, della
Banca Mondiale e della Johns Hopkins
university, èstata condotta una approfondita analisi del problema ed e’stata
suggerita una strategia da sviluppare
attraverso appositi piani entro il prossimo
decennio 2008/2017. La strategia verrà
implementata secondo 5 sottoprocessi o
aree che riguardano:
1) il management delle risorse umane in
sanità, partendo dalla riorganizzazione
del Dipartimento ministeriale e dalla
ristrutturazione di una nuova base dati
(human resources information system);
2) la riorganizzazione dei quadri e la loro
distribuzione incluso il bisogno a medio
e lungo termine ed il costo che include
le proiezioni e tiene conto delle nuove
carriere e meccanismi incentivanti;
3) lo sviluppo professionale in termini di
strategie di formazione di base e continua , incluse le nuove tecnologie ICT
per costruire la formazione a distanza e
la telemedicina;
4) i pacchetti incentivanti sia finanziari
che non finanziari e la loro applicazione
nelle Regioni;
5) il nuovo quadro legislativo ed il meccanismo di mobilizzazione delle risorse
per far fronte ai bisogni del Piano strategico per le risorse umane.
Concludendo non bisogna dimenticare,
che non basta rafforzare la leadership
governativa e le scelte locali di governo
del sistema di produzione ed impiego dei
diversi quadri sanitari, ma occorre anche
muovere la cosidetta “global solidarity” in
modo coordinato ed efficace.
L’OMS, ha suggerito con il Rapporto
20061 alcune linee guida finanziarie per
* Human Resources Development Business Process
** Con la presenza di un esperto, dirigente medico dell’A.O. San Camillo - Forlanini, in lunga missione
sostenere nel tempo uno sforzo coordinato
per il rafforzamento dei sistemi sanitari
attraverso la componente HRH. Nel quadro
totale dei flussi finanziari relativi all’Aiuto
allo Sviluppo, si raccomanda di adottare il
principio del 50:50 (“fifty-fifty”). Cioè il 50%
almeno degli aiuti volto direttamente al
rafforzamento dei sistemi sanitari “in toto”,
e di questo una buona metà dedicata al supporto dei piani di emergenza dei governi per
lo sviluppo delle risorse umane in sanità.
BIBLIOGRAFIA
1. The World Health Report, “Working together for
health”, WHO, Geneva, 2006.
2. Frommel D. Quando il Nord è curato dai medici
del Sud: esodo di competenze senza contropartita. Le Monde Diplomatique, 2002; 20-1.
3. Chen L, Evans T, Anand S, et al. (JLI), Human
Resources for Health: overcoming the crisis,
Lancet 2004; 364: 1984-90. www.globalhealthtrust.org
4. Hongoro C, McPake B. “How to bridge the gap in
human resources for health”, Lancet 2004; 364:
1451-6.
5. Rowson M. The brain drain: can it be stopped?,
Health Exchange, 2004; 21-3.
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Per richiesta estratti:
Dott. Carlo Resti, Via Cassia, 603 Roma
e mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
Articoli originali
LA SINDROME DELLE APNEE OSTRUTTIVE NEL SONNO:
ANALISI EPIDEMIOLOGICA DI PAZIENTI DELLA U.O.
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA E RIABILITAZIONE
DELL’OSPEDALE FORLANINI
SLEEP APNEA SYNDROME: EPIDEMIOLOGIC ANALYSIS OF A
GROUP OF PATIENTS OF DEPARTMENT OF RESPIRATORY INSUFFICIENCY AND REHABILITATION, CARLO FORLANINI HOSPITAL
STEFANIA CUOZZO1, ARMANDA PROPATI1, MICHELE VITTO1, DOMENICO NERVINI1,
CLAUDIA SCHIAVONI2, FULVIO BENASSI1
1
U.O. Insufficienza Respiratoria e Riabilitazione, Azienda Ospedaliera
San Camillo-Forlanini-Roma; 2Società Arkìdion srl, Roma
Parole chiave: Apnea ostruttiva. Epidemiologia. Indice di massa corporea. Epworth scale
Key words: Obstructive sleep apnea. Epidemiology. Body mass index. Epworth scale
Riassunto. La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (OSAS) può essere considerata la più comune
forma di disordine respiratorio notturno la cui prevalenza nella popolazione generale varia a seconda delle
diverse indagini epidemiologiche riportate in letteratura.
Gli autori hanno effettuato un’analisi di tipo osservazionale trasversale su 561 pazienti dell’ambulatorio del
sonno della U.O. Insufficienza Respiratoria e Riabilitazione sottoposti a monitoraggio cardio-respiratorio
completo al fine di valutare le correlazioni esistenti tra gravità della patologia, età, sesso, indice di massa
corporea e sonnolenza diurna e confrontate con i principali lavori epidemiologici nazionali ed esteri.
In questo lavoro sono stati analizzati i risultati ottenuti dall’analisi della prevalenza dell’OSAS per età e
classi di età, sesso e classi di indice di apnea/ipopnea (AHI); si è inoltre valutata la relazione esistente tra
valori di AHI, BMI, sesso e scala di Epwoth.
L’analisi dei risultati del lavoro ha mostrato un sostanziale accordo con i principali lavori epidemiologici
nazionali ed esteri confermando le principali distribuzioni epidemiologiche ed il ruolo della menopausa nel
modulare la prevalenza della patologia e confermando inoltre il legame tra la patologia e la presenza di
obesità e la validità della scala della sonnolenza di Epworth come test di screening.
Abstract. Obstructive sleep apnea syndrome (OSAS) is the most common form of sleep disordered breathing
(SDB). The prevalence of the disease in people depends on the different kind of epidemiological analysis
made in international papers.
In this paper the authors present their experience on 561 outpatients coming to the Department of Respiratory Insufficiency and Rehabilitation, Carlo Forlanini Hospital and submitted to a complete nocturnal
cardiorespiratory monitoring in order to study the correlation among the degree of disease, age, gender, body
mass index (BMI) and daily sleepiness and compare them with the main epidemiological national and international papers.
The results coming from the analysis of the prevalence of disease according to age gender and different group
of AHI, BMI, gender and Epworth scale (degree),were analysed.
The results showed a basic agreement with the main epidemiological nationals and international papers
confirming the main epidemiological distribution and the importance of menopause in the outcoming of
the disease and confirming the link between the disease, obesity and usefulness of the Epworth scale as a
screening test.
84
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Introduzione
La sindrome delle apnee ostruttive nel
sonno (OSAS) è la più comune forma di
disordine respiratorio notturno (SDB)1.
La sua prevalenza nella popolazione
generale varia nelle diverse indagini epidemiologiche riportate in letteratura, probabilmente a causa delle modalità adottate nel selezionare la popolazione da
sottoporre ad indagine polisonnografica
notturna2,3,4, dal valore di AHI adottato5,6
e dal livello di gravità della sindrome7 e
dalla caratteristiche somatiche delle differenti popolazioni8.
In generale comunque si ritiene che la
patologia interessi il 2% delle donne e il
4% degli uomini5,9,10. Nell’uomo presenta
una maggiore incidenza tra i 50 ed i 60
anni5,9,11,12 e nelle donne dopo la menopausa13,16.
Lo scopo del nostro studio è stato quello
effettuare una analisi di tipo osservazionale trasversale, nell’ambito dei pazienti dell’
ambulatorio del sonno, al fine di valutare le
eventuali correlazioni esistenti tra la patologia, età e sesso, indice di massa corporea,
e scala della sonnolenza di Epworth e di
confrontare i nostri risultati con i principali lavori epidemiologici nazionali ed esteri.
ché risultati incoerenti all’arruolamento,
113 in quanto presentavano un valore di
AHI inferiore a 5 (negativo); il campione si
è quindi ridotto a 438 casi (321 maschi, con
età compresa tra 23 e 84 anni; 117 femmine, con età compresa tra 34 e 81 anni).
Il software utilizzato per l’analisi statistica è SPSS della SPSS inc.; sono stati
utilizzati il test del χ2 di Pearson ed il test
di normalità delle distribuzioni di Kolmogorov-Smirnov. Sono stati considerati
significativi valori di p<0,05.
Risultati
Analisi della prevalenza dell’OSAS per
età e sesso: l’analisi delle distribuzioni nel
campione di riferimento evidenzia che la
patologia si presenta prevalentemente dopo i 60 anni in entrambi i sessi (Fig.1, 2).
Attraverso una analisi delle frequenze
per classi di età, si è evidenziato come
nella classe di età 55-75 sono concentrati
il 60% dei casi per gli uomini ed il 70% per
le donne.
Tali valori diminuiscono nella classe di
età successiva (Tab. 1 - 2 ).
Materiali e Metodi
Sono stati raccolti i dati relativi a 561
pazienti consecutivi afferenti, dal Febbraio
2003 al Dicembre 2005, all’ambulatorio
del sonno U.O. Insufficienza Respiratoria
e Riabilitazione dell’Azienda ospedaliera
San Camillo-Forlanini, per effettuare un
monitoraggio cardio-respiratorio completo
nel sospetto diagnostico della sindrome
delle apnee ostruttive nel sonno.
Gli strumenti utilizzati sono stati apparecchi per il monitoraggio cardio-respiratorio completo (Poli-Mesam, Embletta,
Medic Air, etc.).
Per ogni paziente sono stati presi in
considerazione i seguenti parametri: età;
sesso; indice di massa corporea (BMI);
indice apnea/ipopnea (AHI); scala per la
sonnolenza di Epwort.
Dei 561 casi, 10 sono stati scartati per-
Fig. 1. Istogramma delle distribuzioni della
prevalenza di OSAS per età negli uomini
85
S. Cuozzo et al.: La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
È stato calcolato il rapporto di mascolinità per classi di età, nella popolazione clinica e rispetto alla popolazione residente
italiana al 2005, che nel nostro campione
è risultato di 2,74.
Dal momento che il rapporto M/F della
comunità è risultato minore rispetto a
quello clinico, tale valore è da attribuire
alla patologia.
Distribuzione prevalenza dell’OSAS per
classi di AHI e sesso: la distribuzione per
gli uomini evidenzia una prevalenza della
forma più severa, il 30% dei casi tra la forma molto lieve e lieve e il 70% tra la forma
moderata o grave (Tab. 3, Fig.3).
Tabella 3. Distribuzione della prevalenza per
classi di AHI - Uomini
Fig. 2. Istogramma delle distribuzioni della
prevalenza di OSAS per età nelle donne
Tabella 1. Distribuzione per classi di età Uomini
Distribuzione prevalenza Osas
per età- Uomini
Classi di
Freq.
Freq.
Percent.
età
Relat. (%)
su pop.
<35
18
5,6
4,1
35-55
87
27,1
19,9
55-75
195
60,7
44,5
>75
21
6,5
4,8
Total
321
100
73,3
Missing
117
26,7
Total
438
100
Distribuzione prevalenza di OSAS
per classi di AHI - Uomini
Classi RDI
Freq .
Freq.
Perc.su
Rel(%)
pop.
Molto lieve
48
15,43
Lieve
41
13,18
11,29
9,65
Moderata
Grave
Molto grave
85
105
32
27,33
33,76
10,29
20,00
24,71
7,53
Total
311
100
73,18
Persi
Total
114
425
26,82
100
Tabella 2. Distribuzione per classi di età Donne
Distribuzione prevalenza Osas
per età – Donne
Freq.
Classi di
Freq.
Percent.
età
Relat.(%)
su pop.
<35
2
1,7
0,5
35-55
23
19,7
5,3
55-75
82
70,1
18,7
10
8,5
2,3
>75
Total
Missing
Total
117
321
438
100
26,7
73,3
100
Fig 3. Istogramma della prevalenza per classi
di AHI- uomini
86
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Distribuzione prevalenza dell’OSAS per
classi di AHI/RDI e classi di età: il test del
χ2 di verifica dell’ipotesi di indipendenza
delle due variabili mostra un p-value =
0,15 per gli uomini ed un p-value = 0,37
per le donne, che conferma tale ipotesi; il
coefficiente di correlazione tra le variabili
età-RDI/AHI essendo prossimo allo zero
(uomini R=-0,036; donne R=0,125) conferma la non correlazione (Fig. 5).
Analisi della relazione tra AHI e BMI
per sesso: per queste analisi sono state
realizzate tabelle di contingenza tra BMI
e AHI, depurate dai valori estremi del
BMI, che presentando frequenze molto
basse, avrebbero potuto non consentire
una corretta analisi.
Per quanto riguarda gli uomini si evidenzia una relazione tra la crescita della
massa corporea e l’aumento della gravità
della patologia (Tab.5, Fig.6).
La distribuzione delle donne è più uniforme, infatti circa il 50% dei casi rientra nella forma più lieve, mentre l’altro
50% in quella moderata o grave (Tab.4,
Fig.4).
Tabella 4. Distribuzione della prevalenza per
classi di AHI – Donne
Distribuzione prevalenza di OSAS
per classi di AHI - Donne
Classi RDI
Freq.
Freq.
Perc. Su
Rel(%)
pop.
molto lieve
34
29,82
8,00
Lieve
25
21,93
5,88
moderata
29
25,44
6,82
Grave
20
17,54
4,71
molto grave
6
5,26
1,41
Total
Persi
114
311
100
26,82
73,18
Total
425
100
Fig. 5. Diagramma a dispersione, Età-RDI
Fig. 4. Istogramma della prevalenza per classi
di AHI donne
Tabella 5. Tabella di contingenza per classi di BMI e AHI - Uomini (a meno dei valori estremi)
Classi AHI
Classi
BMI
molto
lieve
lieve
Mod.
grave
molto
grave
Normopeso
8
4
10
3
Tot.
Sovrapeso
16
15
44
43
6
124
Obeso
24
22
31
59
26
162
Totale
48
41
85
105
32
311
25
87
S. Cuozzo et al.: La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
Fig. 6. Istogramma delle distribuzioni della
prevalenza per classi di BMI e di AHI - Uomini
(a meno dei valori estremi)
Fig. 7. Istogramma delle distribuzioni della
prevalenza per classi di BMI e di RDI - Donne
(a meno dei valori estremi)
Per valori pari all’obesità diminuisce il
valore AHI di tipo moderato per crescere
quello di tipo grave e molto grave.
Questa tendenza viene confermata dal
test di verifica di ipotesi del χ2 che presenta un p-value pari a 0,01 che consente di
rigettare l’ipotesi nulla di indipendenza.
Il coefficiente di correlazione R=0,181
mostra una correlazione di tipo positivo,
anche se molto bassa.
Le donne presentano una quadro nettamente differente; più del 60% che presenta la patologia hanno valori della massa
corporea equivalenti all’obesità, così come
conferma la tabella di contingenza. Quindi
già a prima vista l’ipotesi che ci sia una
correlazione tra la crescita del BMI e quella dell’RDI potrebbe essere rigettata, ma il
test di verifica del χ2, rafforza tale teoria,
presentando un p-value superiore a 0,05
che quindi conferma l’ipotesi nulla di indipendenza tra le variabili. (Tab.6, Fig.7)
Analisi della relazione tra AHI ed
Epworth per sesso
Per quanto riguarda gli uomini, si è
evidenziato come il valore della scala
di Epworth aumenta all’aumentare della
gravità della sindrome (Tab. 7, Fig. 8).
Quanto osservato risulta confermato
dal test del χ2 che presenta un p-value inferiore allo 0,05.
Il valore del coefficiente di Pearson pari
a R=0,349 evidenzia una correlazione positiva tra le variabili.
Analogamente per le donne si è evidenziato come il valore della scala di Epworth
aumenti all’aumentare della gravità della
sindrome (Fig. 9, Tab. 8).
Quanto osservato risulta confermato
dal test del χ2 che presenta un p-value inferiore allo 0,05. Il valore del coefficiente
di Pearson pari a R=0,468 evidenzia una
correlazione positiva tra le variabili.
Tabella 6. Tabella di contingenza per classi di BMI e RDI - Donne (a meno dei valori estremi)
Classi RDI
Classi età
molto
lieve
lieve
Mod.
grave
molto
grave
Normopeso
2
6
2
2
12
Sovrapeso
13
4
8
2
27
Obeso
19
15
19
16
6
75
Totale
34
25
29
20
6
114
Tot.
88
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Tabella 7. Tabella di contingenza per classi di
AHI e Classi della scala di Epworth - uomini
Classi
di Epworth
Tabella 8. Contingenza per classi di AHI e
Classi della scala di Epworth – donne
Classi AHI
<10
>10
Molto lieve
44
6
50
Lieve
29
11
40
Moderata
39
38
77
Grave
48
52
100
Classi RDI
Molto lieve
Lieve
Moderata
Grave
molto grave
Totale
Tot.
molto grave
9
23
32
Totale
169
130
299
Fig. 8. Istogramma delle distribuzioni della
prevalenza di OSAS per classi di AHI e classi
di EPW - Uomini
Discussione/Conclusioni
Dall’analisi dei risultati della nostra
esperienza è emerso, in accordo con analoghi lavori nazionali ed esteri, come questa
patologia sia di prevalente appannaggio
degli uomini con una età di presentazione
intorno ai 60 anni5,9,11-12.
In particolare una più attenta analisi
della frequenza per classi di età ha mostrato delle differenze sostanziali tra i due
sessi; nel gruppo di età compresa tra 35-55
anni risultava del 27,1% negli uomini e
del 19,7% nelle donne, mentre nel gruppo
di età compresa tra i 55-75 anni del 60,7%
negli uomini e del 70,1% nelle donne.
La grande differenza percentuale nelle
donne nei due gruppi, sottolinea come
anche nel nostro campione l’età postmenopausale sia stata quella maggiormente
<10
28
14
14
4
2
62
Classi di Epworth
>10
Totale
4
32
9
23
9
23
15
19
6
8
43
105
Fig. 9. Istogramma delle distribuzioni della
prevalenza di OSAS per classi di AHI e classi
di EPW – donne
interessata dalla patologia e quindi avvalora l’ipotesi di un possibile ruolo protettivo degli estrogeni come suggerito anche da
altri autori13-16.
Anche nel nostro campione, si è evidenziata una diminuzione della frequenza della patologia sia nei maschi che nelle femmine con età > 75 anni (M. 6,5%; F. 8,5%).
Mentre però si è riusciti ad evidenziare
una netta differenza di prevalenza negli
uomini dato che circa il 30% presenta
la forma lieve e il 70% quella moderata e grave, questo non è stato possibile
nel campione di sesso femminile che ha
mostrato una sostanziale uniformità di
distribuzione.
Non è stata tuttavia trovata una correlazione tra le singole classi di età e il
grado di severità della sindrome (p=0,15
negli uomini; p=0,37 nelle donne).
S. Cuozzo et al.: La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
L’obesità, quantificata come BMI>28 Kg/
m2, viene riscontrata nel 60-90% dei pazienti affetti ed inoltre è da sottolineare come il
rischio di sviluppare la patologia sia dalle 10
alle 14 volte maggiore nei pazienti obesi15.
Sebbene alcuni studi prospettici abbiano evidenziato un legame esistente
tra il peso corporeo e la gravità di questa patologia, altri hanno mostrato che i
cambiamenti dell’AHI variano con l’età,
il sesso e il peso corporeo in modo non
uniforme9,14,17-18.
Nel nostro campione l’analisi della relazione tra l’indice di massa corporea (BMI)
e l’indice di apnea/ipopnea (RDI/AHI) ha
mostrato un andamento nettamente differente tra i maschi e le femmine, infatti nei
primi si è evidenziata una dipendenza tra
queste due variabili, quindi all’aumentare
dell’indice di massa corporea si ha un aumento dell’indice di apnea/ipopnea mentre
nelle seconde non è stata riscontrata questa dipendenza (p>0,05) nonostante nel
campione femminile il 60% delle donne
affette avesse dei valori di massa corporea
equivalenti all’obesità.
L’ultima analisi del nostro studio ha
esaminato la relazione esistente tra indice di apnea/ipopnea ed i valori della scala
della sonnolenza di Epworth; i risultati
hanno mostrato come all’aumentare del
valore di RDI/AHI corrispondano valori
maggiori del punteggio della scala della
sonnolenza sia nel campione maschile che
in quello femminile, a confermare quindi
come la sonnolenza diurna debba essere
considerata un campanello d’allarme per
la eventuale presenza di questa patologia
e a confermare la validità della scala di
Epworth come test di screening.
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Per richiesta estratti:
Dr.ssa Stefania Cuozzo
Viale dei Colli Portuensi, 106. 00151 Roma
[email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
ANALISI DELLO STRESS NELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA
IN UNITÀ OPERATIVE CRITICHE E DI EMERGENZA
STRESS AND BURNOUT EVALUATION IN NURSES INVOLVED IN
CRITICAL AND EMERGENCY UNITS
RAFFAELLA GORIO, CHIARA CARDUCCI, EMANUELA MENICHETTI,
BARBARA MERCURIU, MONICA MERCURIU
Servizio di Psicologia Clinica, Crisi ed Emergenza,
Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma
Parole chiave: Stress. Emergenza. Infermiere. Strategie di coping
Key words: Stress. Emergency. Nurse. Coping Strategies
Riassunto. Il presente lavoro approfondisce il fenomeno dello stress all’interno della professione infermieristica e lo studia da vicino attraverso una ricerca effettuata nei reparti di Rianimazione, Pronto Soccorso, Terapia Intensiva degli Ospedali San Camillo, S. Andrea e nell’Agenzia Regionale 118 di Roma, sottoponendo
gli infermieri ad un questionario “indicatore dello stress lavorativo” (O.S.I.) con lo scopo di rilevare l’eventuale presenza dello stress, le sue fonti, le strategie per affrontarlo e le caratteristiche dei singoli individui.
Questo studio preliminare si propone di descrivere tale fenomeno in modo generale, facendo riferimento alle
varie teorie e ricerche e, in particolare, attraverso l’analisi del campione esaminato.
Abstract. The main purpose of our study is the evaluation of burnout and stress symptoms in practical
nurses. We administer the Occupational Stress Indicator (O.S.I.) to nurses of Resuscitation, Emergency
and Intensive Therapy of two of the most important hospitals in Rome: S. Camillo and S. Andrea. We interviewed also the nurses of the emergency of 118. The O.S.I. was administered with the purpose to value
a lot of important elements correlated with stress symptoms like the main sources of stress, the strategies
of coping but also the personal characteristics that influence the perception of stress. This is a preliminary
and descriptive study for evaluating this kind of phenomenon in hospital operators.
Introduzione
Lo stress influisce non solo sul benessere fisico e psicologico dell’individuo ma
anche sulla qualità del lavoro di chi opera all’interno della categoria “professioni
d’aiuto”1.
Per professionisti dell’aiuto si intendono quei lavoratori che si occupano di
cura e di assistenza a soggetti che sono in
uno stato di bisogno psicologico o fisico:
soggetti deboli e anziani, malati cronici o
terminali, pazienti in terapia intensiva,
persone con disagi psichici, lungodegenti. Si tratta di psicologi, psicoterapeuti,
assistenti sociali, educatori di comunità,
medici di pronto soccorso, di terapia intensiva e di chirurgia d’urgenza, psichiatri, infermieri ma anche vigili del fuoco e
volontari della protezione civile. Su questi
operatori si riversano i problemi e il dolore di coloro ai quali gli stessi prestano
assistenza2,3.
Non a caso i professionisti di aiuto sono
considerati i depositari del benessere dell’utente quindi sottoposti a continue richieste di competenza ed efficienza effettuate
dal diretto interessato, dai parenti, dai
colleghi, dalla società. L’elemento centrale
dell’attività del professionista dell’aiuto è
R. Gorio et al.: Analisi dello stress nella professione infermieristica
la relazione con l’altro nella quale la sfera
emotiva è continuamente sollecitata.
In queste condizioni, l’esaurimento
emozionale, la spersonalizzazione e la ridotta realizzazione del sé sono particolarmente frequenti poiché gli stressor sono
maggiormente presenti2.
In particolare le manifestazioni sintomatiche degli infermieri in molti paesi
occidentali sono indice di una professione
ad alto rischio di stress4.
L’attività in sé è la prima fonte di
stress poiché la relazione d’aiuto risulta impegnativa ed, inoltre, essendo una
professione molto richiesta, è facile avere
carenza di personale con conseguente sovraccarico di lavoro. In secondo luogo, la
natura del lavoro porta ad operare in ambienti dove domina un senso di tristezza e
sofferenza. Altre fonti di tensione possono
essere la mancanza di attrezzatura e di
medicine o l’allontanamento dal ritmo di
vita quotidiana dovuto al lavoro a turni e
uno stipendio non adeguato4,5. L’incertezza
delle situazioni da affrontare (urgenze)
e le responsabilità degli infermieri verso
i malati sono all’origine di un alto tasso
di assenteismo. Anche il rapporto con i
malati accresce l’ansia in tale tipo di professione poiché in questo ambito rientrano
le differenze culturali e gli aspetti caratteriali sia del paziente sia dell’infermiere.
La pressione della famiglia o degli amici
del paziente, affinché l’infermiere migliori
la qualità delle cure, è una fonte di stress;
quest’ ultimo cresce proporzionalmente con
l’aggravarsi della malattia, in particolare
quando si arriva alla morte del paziente.
Il costante spettro della morte crea, poi,
uno stress permanente nell’infermiere. A
queste fonti di stress va aggiunto anche
quello di tipo relazionale dovuto spesso
alla mancanza di comunicazione e di aiuto
da parte del personale medico e un certo
disaccordo con i trattamenti proposti dai
colleghi4. Uno studio sullo stress e l’esaurimento professionale (burn out) condotto
a Parigi6 ha dimostrato che gli infermieri
sono più inariditi a livello emotivo rispetto
ai lavoratori impiegati in attività sociali,
ai medici e agli insegnanti. In questa ricerca, un’infermiera su quattro avverte un
impoverimento professionale che si riflette
91
sul piano emozionale: ciò porta ad un minore impegno nell’accudimento dei malati;
inoltre, circa un’infermiera su due si era
assentata almeno una volta dal lavoro in
un mese4. Scopo della ricerca, da noi condotta è individuare i fattori di stress nella
professione infermieristica nelle U.O critiche e di emergenza quali la Rianimazione,
il 118, il Pronto Soccorso e la Terapia Intensiva.
Metodi e Strumenti
Il campione scelto per la nostra ricerca
è costituito da infermieri con un’esperienza lavorativa di almeno 2 anni all’interno
delle unità operative (U.O.) di Rianimazione, ARES 118, Pronto Soccorso e Terapia Intensiva. La caratteristica comune
di questi infermieri è quella di operare in
situazioni critiche e di emergenza caratterizzate da un intenso coinvolgimento
psicologico. All’inizio della ricerca, il campione prestabilito prevedeva un numero
complessivo di 90 infermieri così ripartiti:
– 30 infermieri della Rianimazione (CR1)
dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo
– Forlanini;
– 30 infermieri del Pronto Soccorso (P.S.)
dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo
– Forlanini;
– 30 infermieri del Centralino dell’ARES
118.
Durante la somministrazione dello
strumento utilizzato per la rilevazione dei
dati, le adesioni sono andate diminuendo;
pertanto il campione selezionato, a cui
sono stati somministrati i questionari, è
composto da:
– 10 infermieri dell’U.O. di CR1 del S.
Camillo;
– 10 infermieri dell’U.O. di P.S. del S.
Camillo;
– 20 operatori del centralino del 118
ARES;
– 10 infermieri dell’U.O. di Terapia Intensiva dell’Ospedale Sant’Andrea di
Roma, per un totale di 50 soggetti, di
cui 20 di sesso maschile e 30 di sesso
femminile.
La maggior parte dei soggetti esaminati31, corrispondenti ad un numero superio-
92
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
re alla metà del campione, lavora da più di
5 anni nei reparti sopracitati. L’età media
dei partecipanti va dai 31 ai 57 anni. Per
convenienza, le varie unità operative sono
state denominate rispettivamente:
Gruppo
Gruppo
Gruppo
Gruppo
A – Rianimazione
B – Pronto Soccorso
C – 118
D – Terapia Intensiva
La presente ricerca ha utilizzato l’Occupational Stress Indicator (O.S.I. C. L.
Cooper, S. J. Sloan e S. Williams, 1998 7,8
e per la versione italiana S. Sirigatti e C.
Stefanile, 2002 9 per valutare i fattori di
stress occupazionale.
Il modello di stress che sta alla base
dell’OSI è il risultato di quattro elementi
chiave:
1) Fonti di stress: fattori intrinseci al lavoro, ruolo manageriale, relazione con
altre persone, carriera e riuscita lavorativa, clima e struttura organizzativa,
interfaccia casa-lavoro.
2) Caratteristiche dell’individuo: fattori
biografici e demografici, controllo (forze organizzative, processi di gestione,
influenze individuali), atteggiamento
verso la vita, stile di comportamento,
ambizione.
3) Strategie di coping: supporto sociale,
orientamento al compito, logica, relazione casa-lavoro, tempo, coinvolgimento.
4) Effetti dello stress.
L’O.S.I. è articolato in sette parti: un
questionario biografico da noi modificato
per adattarlo alle esigenze del campione e sei sezioni raggruppate in un unico
questionario composto da 167 item che
prevedono una risposta chiusa valutata
su scala Likert a 6 punti. Sia la validità
che l’attendibilità dello strumento sono
soddisfacenti8,9.
Sono state utilizzate due modalità diverse di somministrazione in relazione
alle esigenze del campione. Nei reparti di
Rianimazione, Pronto Soccorso e Terapia
Intensiva è stata effettuata un’auto-somministrazione lasciando la distribuzione
dei questionari al caposala delle U.O.; in
tal modo, è stato possibile ottenere una
buona adesione poiché non necessaria la
richiesta di intrattenimento degli operatori oltre l’orario di lavoro.
È possibile ipotizzare la presenza di interferenze lavorative e il rischio di perdita
dei questionari. Per quanto riguarda, invece, i centralinisti del 118 è stato possibile somministrare e ritirare personalmente
i questionari distribuiti ai singoli infermieri; in tal modo, nessun questionario
è andato perduto grazie alla rilevazione
contestuale degli stessi.
Tuttavia, la lunghezza e la durata della
somministrazione sono state un elemento
critico agli occhi dei partecipanti. È bene
sottolineare che tutti i soggetti esaminati
si sono dimostrati disponibili a collaborare
ad una ricerca riguardante lo stress poiché considerato un argomento interessante e di reale riscontro.
Risultati
Per verificare l’esistenza di un effetto
è necessario confrontare lo stato di salute
fisica, psicologica e la soddisfazione lavorativa (grafico 1).
Sia il gruppo A che il gruppo B risultano nell’intervallo atteso mentre il gruppo
C e D ne sono al di sotto. Punteggi inferiori all’intervallo atteso sono indice di una
diminuzione della soddisfazione che può
essere sia una conseguenza dello stress
sia una causa.
Grafico 1. Confronto delle medie (–m) della
Soddisfazione lavorativa (ST), Salute psicologica. (PHYT) e della Salute fisica (PHIT)
R. Gorio et al.: Analisi dello stress nella professione infermieristica
Nel parametro PSYT (Salute psicologica), i gruppi A e C risultano nell’intervallo
atteso mentre i gruppi B e D ne sono al di
sopra. Il punteggio elevato suggerisce un
chiaro inaridimento emozionale. Tutti e
quattro i gruppi hanno ottenuto punteggi
elevati nella sottoscala PHIT (Salute fisica) suggerendo la presenza di più sintomi
fisici dovuti allo stress.
Possiamo quindi affermare che in tutti
e quattro i gruppi sono presenti effetti
fisici dello stress nonostante la maggior
parte delle persone abbia affermato, nel
questionario biografico, di essere in buona
condizione fisica e di non aver avuto seri
problemi di salute; questo suggerisce che
i soggetti esaminati riescono a convivere
con i propri disturbi. Solo in due gruppi
(B e D) si hanno sintomi di malessere
psicologico e negli altri due gruppi (C e
D) è presente un’insoddisfazione lavorativa globale. La soddisfazione lavorativa
globale però non è esaustiva. Infatti una
scala più accurata misura i vari aspetti
della insoddisfazione e ne mette in luce
i vari tipi. Nel parametro che misura la
Soddisfazione per la Carriera, troviamo
dei valori al di sotto dell’intervallo atteso
per quel che riguarda i gruppi A, B e C
mentre il gruppo D si colloca nell’intervallo stesso. Tutti e quattro i gruppi, inoltre,
risultano nella media standard rispetto
ai parametri che riguardano la Soddisfazione per il Lavoro stesso; ciò indica che
non è la tipologia di professione a creare
il disagio ma la frustrazione derivante
dalla poca stima che l’Azienda riconosce
ai suoi dipendenti; infatti, è importante
sottolineare che tutti e tre i gruppi in cui
è presente questa insoddisfazione appartengono allo stessa Azienda Ospedaliera,
San Camillo - Forlanini mentre il gruppo
che risulta nella media attesa è di un altro
Ospedale, Sant’Andrea. L’unico punteggio
che si trova al di sotto dell’intervallo atteso, nella scala che misura la Soddisfazione
per l’impostazione e la struttura organizzativa, è quello del gruppo C; ciò indica
che quest’ultimo appare insoddisfatto dei
rapporti e/o dei metodi usati per attuare
cambiamenti o risolvere conflitti; in sintesi, questo gruppo avverte le caratteristiche
dell’organizzazione come limitative. Tre
93
gruppi su quattro (B, C, D) hanno punteggi al di sotto dell’intervallo atteso nella
sottoscala che misura la soddisfazione per
i processi organizzativi; questo evidenzia
che i soggetti non si sentono coinvolti
nel prendere decisioni e ritengono di non
ricevere un’adeguata supervisione. Un ulteriore parametro da non sottovalutare è
la Soddisfazione per le Relazioni Interpersonali, che risulta al di sotto della media
attesa solo nel gruppo B. Questi soggetti
esaminati avvertono come stressanti le
relazioni di lavoro o, più in generale, il
clima presente nell’ambiente di lavoro. In
modo più estensivo, riferendoci al grafico
n° 1, possiamo affermare che nella sezione “Effetti dello stress” il gruppo C, ossia
quello che si riferisce al 118-ARES, risulta
il più colpito dagli effetti dello stress; per
esempio, nella compilazione del questionario nella parte PHIT (Salute fisica),
molti degli esaminati hanno affermato di
avere frequentemente il “mal di testa” e il
valore del punteggio rilevato risulta molto
più significativo rispetto a quello degli
altri gruppi presi in considerazione. Per
verificare se la presenza di questi effetti
sia dovuta alle caratteristiche implicite
del campione, si è analizzata la sezione
del questionario “Caratteristiche dell’individuo” nelle due grandi parti che la
compongono, ossia nelle domande, “come
si comporta di solito” e “come interpreta
gli eventi che accadono intorno a lei”.
Nel grafico 2, sono tre le sottoscale più
importanti che identificano caratteristiche associate con personalità di “tipo A”
e “duro”; entrambi i tipi sono orientati al
successo e tendono al conseguimento di
risultati; la personalità di tipo A, tuttavia,
presenta anche un caratteristico nucleo di
impazienza e tendenza all’irritabilità che
accresce la vulnerabilità allo stress.
Il grado di dedizione al lavoro può essere rilevato osservando i punteggi della
scala STA (Stile di comportamento). In
questa scala tutti e quattro i gruppi sono
nella media; possiamo affermare, quindi,
che il gruppo D della Terapia Intensiva,
pur essendo fortemente dedito al lavoro,
non ne è danneggiato poiché non avverte
l’aumento del ritmo di vita e la sensazione
di urgenza del tempo.
94
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Grafico 2. Confronto delle medie (–m) della sezione “caratteristiche dell’individuo”,
ATT=Atteggiamento verso la vita, STA=Stile di
comportamento, AMB=Ambizione, AT=Tipo A
Anche per la scala che misura l’ambizione (AMB) è solo il gruppo D ad avere
punteggi al di sopra dell’intervallo atteso
mentre gli altri sono nella norma; ciò indica che il gruppo dei soggetti esaminati
mostra predisposizione all’ambizione ed
è per questo che ha un elevato punteggio
nella scala ATT (Atteggiamento verso la
vita) e ricerca di successo. Infine i gruppi
B, C e D sembrano possedere caratteristiche del Tipo A. Per quanto riguarda la
sottoscala che controlla le forze organizzative, ossia il grado con il quale il gruppo
esaminato sente che le forze all’interno
dell’organizzazione reprimono la propria
capacità di influenzare gli eventi, tutti e
quattro i gruppi si collocano al di sopra
dell’intervallo atteso suggerendo, quindi,
la percezione di un minor controllo personale nel proprio lavoro. Analizzando lo
stress nella professione infermieristica,
questo risultato può dipendere dall’incapacità degli infermieri di rendere autonoma la professione che, nella storia, è
stata sempre vista come subordinata alla
figura del medico e di cui ne viene ribadita
l’autonomia nella stesura del profilo professionale. Il punteggio elevato nella scala
LOCG (Processi di gestione) per i gruppi A
e D indica che i partecipanti percepiscono
che sforzo e abilità sono incongruenti con
i risultati ottenuti mentre gli altri due
gruppi, B e C, risultano nell’intervallo atteso. In generale, analizzando tutti questi
fattori possiamo affermare che lo stress
percepito, in tutti e quattro i nostri gruppi
esaminati, non dipende dalle caratteristiche implicite dei partecipanti.
Dall’analisi delle fonti di pressione sul
lavoro emergono alcuni dati importanti: gli infermieri esaminati percepiscono
stress di tipo relazionale nei rapporti con
i colleghi e questo deriva anche da un
sentimento di frustrazione dovuto alle
caratteristiche dell’organizzazione e dalla
mancanza, nell’ambiente familiare, di un
apporto nell’acquisizione di nuove risorse.
Questo può dipendere dalle caratteristiche dell’ambiente stesso o dalla percezione
che il lavoro possa essere intrusivo rispetto alla vita familiare. Solo in due gruppi
(A e B) si hanno punteggi elevati nella
sottoscala che valuta gli item “Carriera
e Riuscita”; questo punteggio indica che i
soggetti esaminati hanno un senso di frustrazione riguardo la crescita personale;
ciò è da collegarsi con il basso punteggio
della “Soddisfazione per la Carriera”.
Tra le principali fonti di stress sono
state identificate:
– ambiguità di ruolo
– relazioni interpersonali
– clima e struttura organizzativa
– interfaccia casa-lavoro.
Sono state, quindi, analizzate le strategie di coping utilizzate per fronteggiare
lo stress lavorativo nel nostro campione.
Dai dati elaborati è possibile rintracciare
le strategie di coping più utilizzate dagli
infermieri professionali; tra queste emergono la ricerca del supporto sociale ( gruppi B, C, D), il “Coinvolgimento” (CI) che
riguarda l’osservazione della situazione
nel suo complesso e permette di mettere in
atto uno sforzo per cambiare quanto può
essere modificato e accettare ciò che non
può essere modificato. Quanto da noi rilevato, sembra riferirsi ad un’idea sincera
da parte dei soggetti esaminati di quanto
e cosa sia realisticamente possibile attuare. Questa strategia è utilizzata da tutti
e quattro i gruppi molto frequentemente
R. Gorio et al.: Analisi dello stress nella professione infermieristica
e risulta un’ottima strategia di coping
nella professione infermieristica. Di fatto,
le qualità che si richiedono all’infermiere
sono quelle dell’empatia, ossia cercare di
provare le emozioni del paziente per comprenderne i bisogni fisici, psicologici e sociali. Ma questa empatia deve essere reale
e oggettiva, non deve mai perdere il punto
di vista personale né tanto meno confonderlo con quello del paziente. La strategia
del Coinvolgimento risulta necessaria non
solo per garantire un’assistenza infermieristica di qualità ma anche per salvaguardare l’infermiere che, davanti ad eventi
come la vita e la morte, deve possedere
una giusta consapevolezza di ciò che è possibile realizzare e ciò che non è in grado di
raggiungere.
Nel nostro caso, i gruppi B, C e D dimostrano di fronteggiare lo stress ricercando
il supporto sociale mentre per il gruppo A
che risulta nella media, questa non sembra essere una strategia di coping molto
utilizzata. Dalla visione più generalizzata
consentita dal grafico 3 possiamo osservare che il gruppo A (Rianimazione del
S. Camillo) utilizza più degli altri strategie per affrontare lo stress; questo può
dipendere dalla tipologia di pazienti e di
assistenza infermieristica che questi ultimi richiedono mentre il gruppo D (Terapia
Intensiva dell’Ospedale S. Andrea) risulta
quello che sa utilizzare minori strategie;
ciò è giustificato dal fatto che questo gruppo non ha un’esperienza lavorativa ( all’interno del reparto stesso) superiore a tre
anni e che quindi è diversamente colpito e
coinvolto rispetto agli altri quattro gruppi
che, invece, lavorano da più anni.
Discussione
La presente ricerca ha analizzato il
fenomeno dello stress nelle Unità Operative di Rianimazione, Pronto Soccorso,
118 e Terapia Intensiva che hanno come
caratteristica comune la criticità e l’emergenza. Sottoponendo ai partecipanti (50
soggetti: 20 maschi, 30 femmine) il questionario O.S.I. (Occupational Stress Indicator), nella versione italiana9, si è potuto
verificare sperimentalmente la presenza
95
Grafico 3. Confronto delle medie (M) della sezione “Strategie di coping”
dello stress lavorativo in tutti e quattro
i gruppi denominati rispettivamente A
(Rianimazione), B (Pronto Soccorso), C
(118) e D (Terapia Intensiva). Lo scoring
del questionario è stato complesso vista la
numerosità degli item che lo compongono.
Utilizzando le griglie e i fogli di correzione individuali e di gruppo, che ci hanno
permesso di rilevare i punteggi grezzi, si
è potuto procedere, successivamente, ad
un’analisi più dettagliata estrapolando le
medie dei punteggi per ogni sottoscala del
questionario. Attraverso l’analisi quantitativa si è giunti alla stesura dei profili e
alla valutazione qualitativa degli stessi. I
risultati hanno dimostrato che lo stress lavorativo risulta evidente in tutti e quattro
i gruppi poiché sono presenti effetti fisici
dello stress nonostante la maggior parte
dei soggetti esaminati abbia affermato,
nel questionario biografico, di essere in
buona condizione fisica e di non aver avuto seri problemi di salute; questo suggerisce che gli stessi riescono a convivere con i
propri disturbi. Solo in due gruppi (B e D)
sono presenti reazioni sintomatologiche
da “malessere psicologico” e, in due gruppi, (C e D) è presente un’insoddisfazione
lavorativa globale. Inoltre tutti e quattro i
gruppi sono risultati nella media standard
rispetto ai parametri che riguardano la
Soddisfazione per il Lavoro; ciò sta ad indicare che non è la tipologia di professione
a creare il disagio ma la frustrazione che
può derivare dalla poca stima che l’Azienda stessa mostra ai suoi dipendenti. Il
gruppo C avverte le caratteristiche dell’organizzazione come limitative.
Tre gruppi su quattro (B, C, D), nella
sottoscala che misura la soddisfazione
per i processi organizzativi, denunciano
una convinzione di non sentirsi coinvolti
nel prendere decisioni ritenendo di non
96
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
ricevere un’adeguata supervisione. Solo il
gruppo B avverte come stressanti le relazioni di lavoro o, più in generale, il clima
dell’U.O. a cui appartiene. In tal senso il
gruppo C, ossia il 118-ARES, risulta il più
colpito dagli effetti dello stress; infatti,
nella compilazione del questionario, nella parte PHIT (Salute Fisica), molti dei
soggetti esaminati hanno affermato di
avere frequentemente il “mal di testa” e,
ampliando il significato del punteggio, si
può affermare che esso risulta molto più
“insoddisfatto” degli altri gruppi esaminati. In seguito alla verifica della presenza o
meno degli effetti dello stress, sono state
esaminate le caratteristiche implicite del
gruppo per escludere l’ipotesi di uno stress
non prettamente lavorativo.
La ricerca ha poi approfondito l’individuazione delle “fonti” di stress, verificando
che quest’ultimo deriva dal vivere secondo
le aspettative ognuno del proprio ruolo; i
partecipanti avvertono la responsabilità
sbilanciata rispetto al grado di potere e
di influenza subito; ciò richiama la presunta mancanza di autonomia. Inoltre
gli infermieri esaminati percepiscono uno
stress di tipo relazionale con i colleghi e
un sentimento di frustrazione dovuto alle
caratteristiche dell’organizzazione e alla
mancanza, nell’ambiente familiare, di un
apporto adeguato nell’acquisizione di nuove risorse. Solo due gruppi (A e B) presentano una frustrazione riguardo la crescita
personale che può essere collegata con l’insoddisfazione per la carriera. Le principali
fonti di stress identificate sono, dunque:
l’ambiguità di ruolo,
le relazioni interpersonali,
il clima e la struttura organizzativa,
l’interfaccia casa-lavoro.
La fase finale della ricerca ha analizzato le strategie di coping più utilizzate dal
campione ossia il modo di fronteggiare lo
stress. I gruppi B, C, D hanno dimostrato di fronteggiare lo stress ricercando il
supporto sociale; per il gruppo A, questa
risorsa non sembra essere una strategia di
coping molto utilizzata. Inoltre i primi tre
gruppi affrontano lo stress organizzando
personalmente i propri compiti. Solo il
gruppo C utilizza la strategia di separare
i sentimenti dai fatti oggettivi. La stra-
tegia del “Coinvolgimento”, che consiste
nell’osservazione della situazione nel suo
complesso, facendo uno sforzo per cambiare quanto può essere modificato e accettando ciò che non può essere cambiato,
è utilizzata da tutti e quattro i gruppi con
molta frequenza. Sintetizzando, il gruppo
A (Rianimazione del S. Camillo) utilizza
più degli altri strategie per affrontare lo
stress; questo può dipendere dalla tipologia di pazienti e di assistenza infermieristica richiesta; mentre il gruppo D (Terapia Intensiva dell’Ospedale S. Andrea)
risulta il gruppo che ne utilizza di meno;
ciò è giustificato dal fatto che questo gruppo non ha un’esperienza lavorativa superiore a tre anni di attività e che quindi è
diversamente coinvolto rispetto agli altri
gruppi che lavorano da più tempo.
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stress indicator, il manuale, Organizzazioni
Speciali Firenze, 2002
Per richiesta estratti:
Dott.ssa Raffaella Gorio
Via G. Guinizelli 18
00152 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile-Giugno 2008
Caso clinico
SCINTIGRAFIA DELLO SCHELETRO
IN UN CASO DI
SINDROME DI McCUNE-ALBRIGHT
SCINTIGRAPHY WHIT 99MTC-MDP IN McCUNE-ALBRIGHT
SYNDROME: CASE REPORT
ANNA MARIA MANGANO1, FRANCESCO FLORE1, ALESSANDRO SEMPREBENE1,
VITTORIO MIELE2, LUCIO MANGO1
Servizio di Medicina Nucleare1; UO Radiologia-DEA2
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Sindrome di McCune-Albright. Scintigrafia ossea. Displasia fibrosa
Key words: McCune-Albright syndrome. Bone scanning. Fibrous dysplasia
Riassunto. Gli autori descrivono il caso clinico di una paziente affetta da Sindrome di McCune-Albright
(fibrodisplasia poliostotica) sottoposta a scintigrafia ossea con 99mTc-MDP, per valutare l’estensione e l’effettiva attività osteometabolica dei segmenti scheletrici interessati, in seguito ad un aggravamento della
sintomatologia.
Gli Autori inoltre discutono circa altri casi di pazienti affetti dalla Sindrome di McCune-Albright riportati
in letteratura.
Abstract. The authors report the case of a patient with McCune-Albright’s syndrome (polyostotic fibrous
dysplasia) who, after an increase of pain, underwent bone scintigraphy with 99mTc-MDP to evaluate the
extension and the degree of osteometabolic activity. They refer the literature about patients affected by
McCune-Albright syndrome.
Introduzione
La sindrome di McCune-Albright è una
patologia associata alla presenza di una
mutazione che attiva il gene GNSA1.
La malattia colpisce prevalentemente
le ossa: può interessare un solo osso (displasia fibrosa monostotica), molte ossa
diverse (displasia fibrosa poliostotica) o
l’intero scheletro (displasia fibrosa panostotica).
La malattia ossea può associarsi a
macchie della pelle (macchie caffelatte)
e disfunzioni di ghiandole endocrine; la
disfunzione endocrina più comune è la
pubertà precoce, ma sono frequenti anche
l’ipertiroidismo, l’eccesso di ormone della
crescita e la malattia di Cushing infantile.
Raramente sono interessati anche altri
organi, come il cuore, il fegato o il muscolo
(sindrome di Mazabraud).
Quando la malattia ossea si associa a
disfunzioni endocrine e macchie cutanee
è anche chiamata sindrome di McCuneAlbright.
Sia le forme monostotiche, sia le forme
poliostotiche e panostotiche, sia la sindrome di McCune-Albright sono causate dalla
stessa mutazione dello stesso gene.
98
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
La causa della sindrome è una mutazione post-zigotica (che interviene nelle
primissime fasi della vita embrionale).
Ogni individuo malato rappresenta una
nuova mutazione, non eredita la malattia
dai genitori e di norma non la trasmette.
Si ritiene che la eventuale trasmissione
del genotipo malattia attraverso uno dei
gameti, porterebbe alla formazione di un
embrione incapace di sopravvivere oltre le
primissime fasi della vita embrionale. La
natura post-zigotica della malattia dà luogo a un mosaico somatico (ogni paziente
ha in tutti i tessuti cellule normali e cellule mutate in proporzioni variabili).
La gravità e la manifestazione dei
sintomi è molto variabile da caso a caso:
dipende dalla precocità di insorgenza della mutazione durante l’embriogenesi, dal
numero di cellule mutate presenti nell’organismo e dalla loro distribuzione.
La sua esatta incidenza non è nota. Si
manifesta più nelle femmine che nei maschi con un rapporto di 3/2 o in soggetti
con neoplasie endocrine isolate.
La mutazione riguarda il codone 201
nell’esone 8 che codifica per la subunità
alfa della proteina Gs, proteina che agisce come mediatore di molti ormoni (LH,
FSH, GHRH, ACTH, CRF, TSH, vasopressina, catecolamine, glucagone, PTH,
calcitonina); la mutazione sostituisce un
solo aminoacido (arginina 201) con un
altro (cisteina, istidina, o più raramente
glicina o serina), determinando un’eccessiva attività della proteina e un’eccessiva
stimolazione autonoma delle cellule colpite nei diversi organi.
Come conseguenza si ottiene un’eccessiva produzione di ormoni, un’abnorme
proliferazione e un alterato funzionamento e delle cellule che formano l’osso e dei
loro progenitori (cellule staminali), che di
conseguenza generano un osso patologico,
deformabile e fragile.
I primi sintomi compaiono nell’infanzia
o più raramente nell’adolescenza, e possono riguardare sia le ossa (dolore, fratture
per traumi minimi, deformazioni), che le
ghiandole endocrine.
Di conseguenza il modo in cui la malattia
si presenta è variabile e porta i pazienti (per
lo più bambini) all’attenzione di specialisti
diversi (ortopedici, endocrinologi, chirurghi
maxillo-facciali, neurochirurghi ecc.).
La malattia ossea è il problema più grave, più difficile da trattare; causa fratture
patologiche e deformità che si instaurano
nell’infanzia e nell’adolescenza.
Il femore e le ossa del cranio sono le
sedi più colpite, ma la malattia può interessare qualsiasi osso.
La malattia ossea si sviluppa a partire
da cellule staminali scheletriche mutate e
disfunzionali.
È stato identificato recentemente un
importante movente patogenetico delle
deformità e della fragilità ossea.
In particolare, le cellule ossee mutate che si accumulano nella displasia
fibrosa producono un fattore circolante,
identificato nel FGF-23 (fibroblast growth
factor-23) capace di promuovere perdita di
fosfati dal rene. Ciò causa una deficiente
mineralizzazione (osteomalacia) dell’osso
fibrodisplasico che, di conseguenza, è più
deformabile e fragile.
Il fattore può essere misurato nel siero
dei pazienti, fornendo un indice, insieme ai
livelli di fosfati, del rischio di osteomalacia.
Al momento non esiste una terapia razionale e di provata efficacia per la malattia ossea, l’espressione più grave della malattia, trattabile solo in modo palliativo.
Per contrastare la displasia ossea si
somministrano bifosfonati, per le deformità ossee importanti si ricorre alla chirurgia.
Le alterazioni endocrine si possono
trattare, nelle femmine, con medrossiprogesterone, in modo da sopprimere la
steroidogenesi gonadica, con testolattone
che inibisce la maturazione scheletrica,
con LHRH agonisti se si associa una pubertà precoce vera e ovariectomia in caso
di progressione rapida; nei maschi con Ketoconazolo, inibitore della steroidogenesi
gonadica e surrenale.
Per quanto riguarda la diagnosi in molti casi, il quadro clinico-radiologico (RX
dello scheletro, TC cranio) è sufficiente.
Viene confermata dal dosaggio dei livelli plasmatici di estradiolo e dallo studio
molecolare del gene GNSA in cellule o
tessuti derivati dagli organi o dalle ossa
affette.
A.M. Mangano et al.: Un caso di Sindrome di McCune-Albright
99
Caso clinico
La paziente L.P. di anni 48 si è presentata nel nostro reparto con diagnosi di
Sindrome di McCune-Albright, inviata da
uno specialista ortopedico per l’aggravamento della sintomatologia e la presenza
di estese multiple alterazioni osteolitiche,
con sovvertimento morfologico e strutturale dei segmenti ossei colpiti evidenziate
durante esecuzione di indagini radiologiche (Fig. 1)
La paziente è stata sottoposta a scintigrafia ossea total body con 99mTc-MDP allo
scopo di fornire informazioni sulla diffusione delle alterazioni ossee, e quindi dare
indicazioni sul tipo di displasia se monostotica, poliostotica o panostotica. Si possono individuare con tale esame altre sedi
di alterata attività non sospettate clinicamente e si possono fornire informazioni
relative a segmenti scheletrici a rischio di
frattura ossea. Le immagini scintigrafiche
hanno evidenziato un esteso, irregolare
incremento di attività, diffuso su tutto lo
scheletro (Fig. 2).
Figura 2. Scintigrafia ossea con 99mTc-MDP
della paziente in proiezione anteriore e posteriore
Discussione
Figura 1. Radiografia digitale del bacino
Una volta diagnosticata, la malattia va
inquadrata nei suoi diversi aspetti (osseo,
endocrino, metabolico) in modo specifico
e i pazienti vanno adeguatamente seguiti
nel tempo.
L’inquadramento della componente ossea della patologia può essere convenientemente effettuata con le varie metodiche
di imaging. Le metodiche radiologiche in
senso stretto (TC ed RX degli arti) danno ragione dell’aspetto preminentemente
anatomico delle eventuali lesioni presenti.
La presenza, il numero, le dimensioni
e le caratteristiche generali delle aree
osteolitiche evidenziate, accompagnate
dal riscontro clinico ortopedico, in genere
danno un sufficiente inquadramento del
coinvolgimento osseo della sindrome.
Se però si vuole ottenere l’evidenziazione dell’aspetto più propriamente funzionale delle lesioni in termini di effettiva
100
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
attività osteometabolica e/o esclusivamente osteolitica, occorre avvalersi in maniera
esclusiva della tecnica scintigrafica.
La scansione Total Body di tutti i
distretti ossei del Paziente consente lo
studio del grado di coinvolgimento delle
lesioni già note e della presenza di lesioni
non altrimenti conosciute1,2.
Nei bambini è possibile effettuare diagnosi differenziale con altre patologie che
mostrano analoga iperfissazione.
Infatti le altre cause di aumentato incremento della fissazione del tracciante
come i tumori, la M. di Paget e le fratture
mostrano quadri di imaging differenti.
Le lesioni nella displasia mostrano ossa
deformate che non riescono a mantenere
il profilo del segmento osseo interessato
dalla patologia contrariamente a quanto
si ottiene nella M. di Paget3.
Le fratture patologiche sono presenti
nell’85% dei Pazienti con displasia fibrosa
idiopatica, mentre l’incidenza di fratture
nei Pazienti con McCune-Albright è più
bassa, il 33%4.
In un paziente di 66 aa affetto dalla
forma poliostotica della displasia fibrosa a
causa di una esacerbazione dei sintomi e
di un notevole aumento della fosfatasi alcalina e dell’osteocalcina una scintigrafia
ossea total body ha dimostrato una patologica concentrazione del radiofarmaco nello
scheletro e si è potuto stabilire un coinvolgimento dell’intero scheletro superiore a
quello aspettato sulla base dei sintomi e
delle indagini radiologiche5.
Un paziente di 16 aa ha mostrato alla
scintigrafia ossea una inusuale e asimmetrica displasia nel cranio, nella faccia,
nelle coste, omeri, femori, tibia, ulna e
colonna vertebrale ma prevalentemente
sul lato di sinistra mostrando solo pochi
foci sul lato di destra. Con lo scopo di un
eventuale trattamento, come per esempio la ricostruzione chirurgica di una
asimmetria facciale, è stata eseguita una
SPECT al fine di confermare l’effettivo
coinvolgimento solo di un lato alla base
della teca cranica, del massiccio facciale,
della mascella e della mandibola. Con la
SPECT è stato possibile dimostrare che
tutte le lesioni arrivavano fino alla linea
mediana6.
L’importanza della scintigrafia Total
Body e della SPECT è stata dimostrata
anche per seguire nel tempo l’evoluzione
dell’estensione delle lesioni ossee2.
L’indagine scintigrafica risulta giustificata anche da un punto di vista radioprotezionistico: la dose di radiazioni a cui
vengono sottoposti i pazienti per un Total
Body è inferiore a quella a cui sarebbero
sottoposti se dovessero effettuare indagini
radiologiche sui singoli segmenti ossei dello scheletro al fine di studiare l’evoluzione
della displasia.
In letteratura si trovano studi scintigrafici anche con altri radiofarmaci quali
111
In-pentetreotide.
Chen e al.7 hanno sottoposto a scintigrafia con 111In-pentetreotide pazienti
con Sindrome di McCune-Albright e acromegalia. Non è stata trovata evidenza di
malattia della ghiandola pituitaria, ma
si è evidenziata un’aumentata captazione di 111In-pentetreotide in alcune aree
di displasia fibrosa; gli stessi Pazienti,
sottoposti a scintigrafia con 99mTc-MDP,
mostravano, oltre le lesioni evidenziate in
corso di scintigrafia con 111In-pentetreotide, altri segmenti ossei interessati dalla
malattia, mostrando che la captazione di
octreoscan non è diffusa a tutti i segmenti
ossei interessati da displasia, ma solo ad
alcuni.
La causa di captazione di 111In-pentetreotide non è chiara: in parte potrebbe
essere dovuta ad una maggiore vascolarizzazione presente in queste lesioni,
ma potrebbe esserci anche una maggiore
espressione di recettori per la somatostatina nelle cellule stesse della displasia
fibrosa. Si8 ritiene che le lesioni displasiche derivino da precursori osteoblasti
che hanno arrestato il loro sviluppo a
causa della attivazione della mutazione
della subunità alfa della proteina Gs.
I recettori per la somatostatina sono
stati trovati nei precursori osteoblastici
nelle ossa dei ratti appena nati9 e sono
implicati nella regolazione dello sviluppo delle ossa10. Se ci sono recettori per
la somatostatina nella displasia fibrosa
come dimostrato in alcuni studi11 potrebbe esserci un ruolo per la somatostatina
nel trattamento di questa malattia. Gli
A.M. Mangano et al.: Un caso di Sindrome di McCune-Albright
analoghi della somatostatina potrebbero annullare gli effetti della mutazione
della subunità alfa della proteina Gs e
bloccare o far regredire la progressione
della malattia scheletrica nella sindrome
di McCune-Albright.
Chen et al. hanno valutato gli effetti
di una terapia a base di analoghi della
somatostatina nei Pazienti che avevano mostrata aree di ipercaptazione nella
scintigrafia con 111In-pentetreotide: dopo 6
mesi di terapia con octreotide queste aree
di alterata captazione del radio-farmaco
non sono cambiate né hanno manifestato
variazioni relative a indici di laboratorio
che hanno continuato a fluttuare come
prima della terapia.
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octreotide scintigraphy in patients with bone
tumours of the extremities. Eur J Nucl Med
1996; 23: 987-90
Richiesta estratti:
Prof. Lucio Mango
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
Rassegne
CLINICAL GOVERNANCE DELLO SCOMPENSO CARDIACO
NELL’ANZIANO: APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE
A UNA PATOLOGIA COMPLESSA
CLINICAL GOVERNANCE FOR HEART FAILURE IN ELDERLY
PATIENTS: MULTIDIMENSIONAL APPROACH FOR
A COMPLEX DISEASE
GIOVANNI PULIGNANO1, DONATELLA DEL SINDACO2, GIANLUCA PALOMBARO3, MARTINA SORDI4,
HERRIBERT PAVACI4, GIOVANNI MINARDI1, EZIO GIOVANNINI1
1
I U.O. Cardiologia/UTIC, Osp. S.Camillo, Roma; 2Unità Scompenso
Cardiaco, U.O. di Card., IRCCS I.N.R.C.A., Roma; 3Dipart. di Scienze Cardiov. e Respir.;
4
II Div.di Cardiologia, Dip. Cuore e Grossi Vasi A. Reale, Univ. “La Sapienza”, Roma
Parole chiave: Scompenso cardiaco. Anziano. Governo clinico
Key words: Heart Failure. Elderly. Disease management
Riassunto. Lo scompenso cardiaco è un problema di sanità pubblica la cui importanza è destinata ad aumentare nei prossimi decenni a causa del processo di invecchiamento della popolazione. L’incidenza dei ricoveri
per scompenso degli anziani è in parallelo aumento, fino a superare il 70% dei ricoveri totali per tale patologia.
La caratteristica peculiare dello scompensato anziano è rappresentata dalla eterogeneità del quadro clinico, in
cui convergono gli effetti del processo di invecchiamento cardiovascolare “fisiologico”, delle cardiopatie, delle
comorbidità e, non ultimo, dello stile di vita. La prognosi degli anziani con scompenso è peggiore di quella
dei pazienti di mezza età, con una più elevata mortalità ospedaliera e a distanza. Le riospedalizzazioni sono
frequenti e causate in metà dei casi da fattori modificabili. Ne derivano qualità e aspettativa di vita scadenti
e disabilità. Poiché lo stato di salute dell’anziano dipende da problemi di ordine fisico, psicologico, socio-economico ed ambientale, vi è necessità di un intervento preventivo, curativo e riabilitativo specifico. Chi si occupa
di assistenza ad un anziano dovrebbe conoscerne le peculiarità biologiche e utilizzare l’approccio specifico che
si chiama valutazione multidimensionale. Tale metodologia è costituita da una valutazione globale, finalizzata all’attuazione di un piano personalizzato di cura a lungo termine. Sul piano terapeutico, negli anziani si
riscontra un evidente gap tra conoscenze disponibili e implementazione delle stesse nella pratica clinica che
sembra dipendere, oltre che dalla maggiore fragilità e complessità dell’anziano, anche dalla ridotta disponibilità di studi specifici. Pertanto le terapie evidence-based, gli esami strumentali e i trattamenti interventistici a
più elevato contenuto tecnologico sono meno utilizzati e la scelta terapeutica sembra essere guidata più dalla
facilità di accesso. Occorre quindi mutare atteggiamento nei riguardi dell’anziano, arricchendo il bagaglio
professionale e culturale con conoscenze specifiche e ampliando il proprio campo di visione.
Abstract. At the dawn of the 21st century, chronic HF has become a major public health problem that threatens to consume increasing resources in the years ahead as the number of older adults at risk of developing
HF continues to rise.
The challenge for the physicians and the healthcare system generally, in taking care of these complex patients,
should not be underestimated. Congestive HF is largely a disorder of elderly persons, and, in light of the high
prevalence and poor prognosis, it is evident that targeted clinical trials and rigorous observational studies aimed to develop more effective treatments and to favour the implementation of specific guidelines into clinical
practice are needed. However, the presence of multiple comorbidities and age-related impairments in older
patients also mandates a multidimensional and multidisciplinary approach to care and, consequently, most of
HF elderly patients should be followed by experienced healthcare professionals with a comprehensive – rather
than ‘‘one-size-fits-all’’ – approach targeted to identify and address their multiple needs. This means that the
greatest challenge in managing elderly patients is the urgent need to extend our conventional approach to the
cardiological care from a specialized ‘‘high-tech’’ to a more comprehensive and holistic ‘‘high-touch’’ one.
G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano
L’invecchiamento della popolazione ha
determinato un parallelo aumento dei tassi
di incidenza e prevalenza di alcune patologie croniche, che nella popolazione anziana
riduzione della qualità della vita, aumento
delle ospedalizzazioni e dei costi per le cure
e marcate ripercussioni a livello socio-economico-sanitario. In Italia, attualmente il
Paese più longevo del mondo, circa il 40%
dei ricoveri ospedalieri ordinari e il 50%
delle giornate di degenza e dei relativi costi
stimati riguarda pazienti anziani.
Tra le malattie croniche, lo scompenso
cardiaco colpisce oltre il 10% dei soggetti
con > 80 anni1,2, al punto da essere definito da alcuni Autori come “la sindrome
cardiogeriatrica del 21° secolo”3. Per tale
motivo esso rappresenta uno dei maggiori
problemi di salute pubblica a livello mondiale e necessita di nuove soluzioni strategiche per cercare di migliorare prognosi
e qualità di vita dei pazienti e contenere,
se possibile, la spesa sanitaria. In un tale
contesto non stupisce che sia sentita la
necessità di studi diretti alla popolazione
più anziana, finora non adeguatamente
studiata. Nonostante il peso epidemiologico, le conoscenze sullo scompenso cardiaco
nell’anziano sono ancora abbastanza limitate, sia sul piano clinico che terapeutico e
si riscontra un evidente gap tra conoscenze
disponibili e implementazione delle stesse
nella pratica clinica, con sottoutilizzo di
farmaci e terapie potenzialmente efficaci.
Caratteristiche cliniche dell’anziano con scompenso
La caratteristica peculiare dello scompensato anziano è rappresentata dalla
eterogeneità del quadro clinico, in cui
convergono dinamicamente gli effetti del
processo di invecchiamento cardiovascolare, delle cardiopatie, delle comorbidità
e, non ultimo, dello stile di vita e fattori
socio-ambientali4.
Il “normale” processo di invecchiamento è associato a modificazioni nella struttura e nella funzione cardiovascolare che,
pur non rivestendo significato patologico,
predispongono l’anziano allo sviluppo di
scompenso cardiaco (Tabella 1). Queste si
103
Tabella 1. Principali effetti dell’invecchiamento sulla struttura e funzione cardiovascolare
– Ridotta compliance vascolare per aumentata rigidità arteriosa
– Aumentata massa ventricolare sinistra
– Ridotto rilasciamento e aumentata rigidità miocardica
– Degenerazione delle cellule pacemaker del nodo SA
e alterata funzione del NSA
– Ridotta capacità dei mitocondri a incrementare la
produzione di ATP in risposta ad aumentata domanda
– Ridotta risposta miocardica e vascolare alla stimolazione beta-adrenergica
– Effetto complessivo: ridotta riserva cardiovascolare
affiancano a modificazioni età-correlate
in altri organi e sistemi che possono ulteriormente incrementare il rischio di scompenso cardiaco e, soprattutto, influenzare
la risposta alla terapia. In particolare,
la caratteristica principale dell’invecchiamento cardiovascolare sembra essere una
ridotta riserva cardiovascolare legata alla
perdita o alla riduzione dei meccanismi
di correlazione e modulazione tra sistema
neuroendocrino e sistema cardiovascolare
con una ridotta risposta post-sinaptica alla stimolazione adrenergica. Nell’insieme
tali modificazioni non hanno un significato patologico e non richiedono di per se
un trattamento, ma possono condizionare
presentazione clinica e decorso delle cardiopatie e la risposta ai differenti trattamenti farmacologici5.
Per quanto riguarda le caratteristiche
cliniche, dati interessanti sono stati forniti dal Registro IN-CHF (Italian NetworkCongestive Heart Failure) dell’ANMCO.
In una analisi di questo Registro (6),
condotta in una coorte di 3327 pazienti,
il 30% aveva un’età >70 anni. Al crescere dell’età, aumentava la percentuale di
pazienti di sesso femminile, in classe
NYHA avanzata, con fibrillazione atriale, tachicardia ventricolare e disfunzione
renale. Negli anziani prevaleva l’eziologia
ischemica e ipertensiva e una eziologia
multipla era presente nel 22,8% rispetto
al 10,2% dei soggetti più giovani. Una funzione sistolica ventricolare sinistra conservata (frazione di eiezione ≥ 40%) era
presente nel 32% dei casi.
104
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Tali differenze età-correlate diventano
ancor più rilevanti se si focalizza l’attenzione sulle fasce di età più avanzata2-4,7.
Oltre gli 80-85 anni la percentuale di donne sale fino al 70%, l’eziologia ipertensiva
diventa la più frequente, il 50% di soggetti
ha funzione sistolica conservata (2), il 40%
fibrillazione atriale e si associano comorbidità multiple.
La diagnosi dello scompenso cardiaco
negli anziani, può frequentemente rappresentare una sfida ardua per il clinico.
I sintomi ed i segni sono spesso aspecifici
e le frequenti coesistenti comorbidità, confondendo il quadro clinico, possono rendere
difficile la valutazione diagnostica. Per tali
motivi, lo scompenso cardiaco nell’anziano
è sia sopradiagnosticato sia sottodiagnosticato4. Tale apparente paradosso è causato
dal fatto che i sintomi di per sé aspecifici
quali l’astenia e la dispnea da sforzo, nell’anziano possono essere causati da condizioni molto frequenti quali l’obesità, il
de-condizionamento fisico, la depressione,
pneumopatie croniche, distiroidismi. Allo
stesso modo segni quali i rantoli polmonari
o gli edemi declivi possono essere causati
da una pneumopatia cronica, da insufficienza venosa cronica, dall’ipoalbuminemia, dalla sedentarietà8,9.
La prognosi degli anziani con scompenso è peggiore di quella dei pazienti di
mezza età, con una più elevata mortalità
ospedaliera e a distanza. Le riospedalizzazioni sono frequenti e causate in metà
dei casi da fattori modificabili. Ne derivano qualità e aspettativa di vita scadenti,
con aumento del grado di disabilità. Nel
Registro IN-CHF l’età è risultata un potente fattore predittivo indipendente di
mortalità, con aumento del rischio del 3%
per ogni anno di età. In particolare, negli
anziani, i predittori indipendenti di morte
sono rappresentati dai ricoveri per SC
nell’anno precedente, l’ipotensione, e la
classe funzionale NYHA avanzata6.
I pazienti anziani presentano nel 60%
dei casi una rilevante comorbilità extracardiaca10, ma questa non comprende solo
malattie come il diabete, l’insufficienza
renale, l’anemia o la BPCO. Si osservano
infatti molte condizioni come problemi di
deambulazione, rischio di cadute, incon-
tinenza, delirio, una prevalenza di quasi
il 50% di deficit cognitivo e depressione11.
Se a ciò si aggiunge il declino età-correlato dello stato funzionale con il quadro di
fragilità, la politerapia, il rischio di reazioni avverse, la disabilità, si configura
il profilo di paziente “complesso” con conseguente difficoltà nell’approccio clinico e
terapeutico (Tabella 2).
La coesistenza nell’anziano di polipatologia, scarsa capacità funzionale, senso di
stanchezza, ipotrofia muscolare, problemi
di deambulazione e di equilibrio, basso
indice di massa corporea (BMI, body mass
index), deterioramento cognitivo e problemi socio-ambientali, conferiscono la connotazione di anziano fragile12. La “fragilità”
è un’entità multidimensionale ancora non
perfettamente delineata che rappresenta
la perdita di riserva funzionale in diversi
organi e sistemi. Il soggetto fragile, in sintesi, è vulnerabile, presenta una ridotta
risposta agli agenti stressogeni e ha quindi un più alto rischio di prognosi avversa
e di sviluppo di disabilità .
La disabilità rappresenta invece la non
autosufficienza nello svolgimento delle
attività della vita quotidiana, con conseguente necessità di assistenza nelle stesse
e costituisce una enorme fonte di assorbimento di risorse sanitarie e assistenziali
per la nostra società.
Nello studio ANMCO INCHF-VAS (Valutazione dell’Anziano con Scompenso)11
(Tabella 3), condotto in 205 ultrasettantenni (età media 75,6 ± 4,2 , range 70-92,
68% maschi, 37% in CF-NYHA III-IV e
32% con funzione sistolica ventricolare
Tabella 2. Comuni comorbidità nel paziente
anziano
– Disfunzione cognitiva
– Depressione, isolamento sociale
– Ipotensione posturale, cadute
– Incontinenza urinaria
– Deprivazione sensoriale
– Disordini nutrizionali
– Politerapia
– Fragilità
– Disfunzione renale
– Malattia polmonare cronica
G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano
105
quotidiana, il 39% un deficit cognitivo e il
68% sintomi depressivi. Un deficit sensoriale, visivo e/o uditivo, era presente nel
20% dei casi. Le dipendenze nelle attività
Età (anni)
75,6 ± 4
strumentali della vita quotidiana riguarMaschi/femmine (%)
68/32
dano la capacità dell’individuo di vivere
69,3%
Coniugati
in modo indipendente nella comunità e
Introito economico inadeguato
24,4%
rivestono un ruolo importante nella adeVive da solo
17,6%
Assenza di supporto assistenziale
11,2%
sione dell’individuo stesso al programma
Cardiopatia ischemica
55%
terapeutico,quali l’assunzione dei farmaci,
62%
Ipertensione
il controllo della dieta, l’utilizzo del telefoBroncopneumopatia cronica ostruttiva
31,2%
no, delle finanze e dei mezzi di trasporto
Diabete mellito
30,2%
Creatinina ≥ 2.5 mg/dl
12,2%
mentre quelle di base ri guardano l’indi40%
Fumo di sigaretta
pendenza in attività quali mangiare, laCharlson comorbidity index
1,8 ± 1,4
varsi, vestirsi, utilizzare i servizi igienici,
N. comorbidità
2,7 ± 1,4
muoversi dentro casa11.
Basic ADL (score ≤ 5)
12,6%
56%
IADL (score ≤ 5)
Dati più ampi su questi aspetti sono
39%
SPMS (score ≤ 7)
stati
raccolti da un altro studio ANMCO,
MLHF (score totale)
34 ± 19
il BRING-UP2 in 1144 ultrasettantenni.
In questo studio si confermava la prevalenza particolarmente elevata di disabilità
(38,5%), depressione (48%) e deficit cognitivo
sinistra conservata), il 56% aveva almeno
(40,7%). La prevalenza di sintomi depressiuna dipendenza e il 40,7% almeno 2 divi, identificata con uno score della Geriatric
pendenze nelle attività strumentali della
Depression Scale ≥ 6, variava tra 34,5% nei
vita quotidiana, il 12,6 % almeno una dipazienti
in classe funzionale NYHA II al
pendenza nelle attività di base della vita
67% dei pazienti in classe IV13.
Non sono ancora disponibili studi di
questo tipo che confrontino i pazienti delle cardiologie con quelli seguiti
da medici di famiglia, internisti o geriatri e con
quelli residenti in casa di
riposo, che sembrano ancor più compromessi sul
piano generale e su quello dell’autosufficienza4,8-9.
Per questo motivo è in
corso uno studio multicentrico nazionale, l’IMAGE-HF (Italian Multidimensional Assessment
Group for Elderly with
Heart Failure), che sta
arruolando prospetticamente pazienti in diversi
centri cardiologici, internistici, geriatrici e di cure
primarie e che valuterà i
differente profili dei pazienti anziani nei diversi
setting clinici (Fig. 1).
Figura 1. Centri aderenti allo studio IMAGE-HF
Tabella 3. Valutazione multidimensionale
dei 205 pazienti con età ≥ 70 anni dello studio
IN-CHF-VAS
106
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Qualità delle cure nell’anziano con
scompenso
Lo scompensato anziano è portatore di
una patologia cronica che può peggiorare
in mancanza di interventi appropriati e
tale quindi da necessitare un costante
livello di attenzione per ridurre il rischio
di riacutizzazione e di recidive. A questo
problema spesso vengono date risposte
inappropriate o carenti se si ricorre unicamente al modello convenzionale di cura,
ancora troppo incentrato sull’ospedale e
sulla prestazione specialistica, per lo più
interessato alla risoluzione dell’emergenza-urgenza, spesso impreparato a gestire
al meglio le problematiche specifiche della
cronicità.
Negli ultimi anni numerosi studi clinici
hanno dimostrato l’efficacia di trattamenti farmacologici come i beta-bloccanti, gli
ACE-inibitori, i Bloccanti recettoriali dell’Angiotensina II e gli antialdosteronici
che riducono la mortalità e la necessità di
ospedalizzazione nei pazienti con scompenso cardiaco di diversa gravità. Questi
farmaci, in assenza di controindicazioni
o di documentata intolleranza, sono considerati parte integrante della terapia
anche nei soggetti anziani ma, nei trial
clinici questo gruppo di pazienti è stato
scarsamente rappresentato. Infatti, pochi trials hanno arruolato soggetti >70
anni ed eccezionale è stata l’inclusione
di soggetti di età >80 anni (Tabella 4).
Ulteriori problematiche sorgono quando
si considerano le crescenti indicazioni a
impianto di devices -come i defibrillatori
o i sistemi di resincronizzazione - o ad altre procedure ad elevato assorbimento di
risorse, senza tuttavia disporre di chiare
evidenze specifiche per i pazienti molto
anziani. Il motivo principale è rappresentato dai rigidi criteri di arruolamento
degli studi stessi, che consentono, infatti,
solo l’inclusione di individui con funzione sistolica significativamente ridotta,
ad alta compliance e senza comorbidità,
mentre una funzione sistolica conservata,
bassa compliance e patologie associate
multiple sono caratteristiche peculiari
del soggetto anziano4-7.
Queste differenze impongono una certa
prudenza quando si intendano applicare le
indicazioni derivanti dai trial e delle linee
guida a una popolazione di individui di
età avanzata. D’altro canto, fino a quando
non sono stati resi disponibili risultati di
recenti studi clinici condotti specificamente in pazienti anziani, l’impostazione del
Tabella 4. Età media e percentuale di donne nei principali trials sulla terapia dello scompenso
cardiaco
Studio
CONSENSUS I
SOLVD-P
SOLVD-T
MDC
Carvedilol US
CIBIS I
DIG
ELITE I-II
RALES
ATLAS
MERIT-HF
CIBIS II
COPERNICUS
Val- HeFT
CHARM
SENIORS
PEP-CHF
Farmaco
Anno
Età
media
Donne
%
enalapril
enalapril
enalapril
carvedilolo
carvedilolo
bisoprololo
digossina
losartan
spironolattone
lisinopril
metoprololo
bisoprololo
carvedilolo
valsartan
candesartan
nebivololo
perindopril
1987
1992
1991
1993
1996
1996
1997
1997-99
1999
1999
1999
1999
2000
2000
2004
2005
2006
70
59
61
49
58
60
64
74
65
64
64
61
63
63
65
75
75
30
11
23
27
23
30
22
33
27
24
23
9
26
20
26
38
56
G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano
trattamento di questi pazienti si è basata
necessariamente sui dati dei trials condotti su una tipologia diversa di pazienti,
metanalisi e analisi per sottogruppi di età,
con conseguente tendenza al sottoutilizzo
di tali trattamenti6,14-15. Inoltre, nell’anziano è frequente un ridotto impiego di risorse strumentali e gli esami a più elevato
contenuto tecnologico sono eseguiti in rari
casi6-7,16. È quindi evidente che l’attuale
approccio convenzionale alla cura dell’anziano è spesso inadeguato per l’assenza di
continuità di cura, insufficiente valutazione iniziale, assenza di programmazione al
momento della dimissione e scarsa comunicazione fra i diversi operatori sanitari
coinvolti.
Ad esempio, quasi la metà delle riospedalizzazioni per scompenso cardiaco degli
anziani sembrano dipendere da motivi
correlati alla disabilità e a problemi psico-cognitivi e socio-ambientali che compromettono la corretta aderenza al piano
terapeutico4. A questi problemi si aggiunge anche la modificazione della struttura
sociale, con il venir meno del consueto
supporto familiare che non è stato ancora
sostituito da forme alternative come l’assistenza sociale e l’assistenza domiciliare
che riescono a servire solo una assoluta
minoranza di individui.
Questa situazione impone la necessità
di ridisegnare percorsi sanitari che prevedano soluzioni gestionali più efficaci,
senza peraltro diminuire la qualità della
prestazione sanitaria. Il miglioramento
della qualità delle cure richiede quindi,
oltre l’implementazione più ampia possibile delle terapie efficaci, anche la presa
in carico del paziente in un modello gestionale di assistenza continuativa personalizzato, in grado di seguirlo durante
le diverse fasi evolutive della malattia17.
Numerosi studi condotti in altri paesi
hanno rilevato, attraverso l’applicazione
di questi modelli di cura, una riduzione
delle ospedalizzazioni, un miglioramento
della qualità della vita e della capacità
funzionale e un contenimento della spesa
assistenziale18. Anche a livello nazionale
cominciano a essere pubblicate le prime
esperienze su questi modelli gestionali19-
107
, con risultati promettenti sia riguardo
la riduzione delle ri-ospedalizzazioni, sia
il miglioramento della qualità delle cure.
Tuttavia, gli ostacoli esistenti a livello
organizzativo e l’assenza di incentivi concreti all’incremento del livello qualitativo
dell’assistenza rendono ancora difficile, al
momento, l’implementazione nella pratica
clinica quotidiana delle conoscenze disponibili in letteratura.
È stato recentemente pubblicato uno
studio condotto presso l’Ambulatorio
Scompenso Cardiaco della I UO di Cardiologia dell’Ospedale S.Camillo e dell’UO
Scompenso Cardiaco dell’IRCCS INRCA
di Roma19. La valutazione di efficacia di
un modello integrato è stata effettuata
mediante uno studio controllato della durata di 24 mesi tra pazienti arruolati nell’Ambulatorio e pazienti dimessi a followup convenzionale. Il modello di intervento
era basato sull’attività dell’ Ambulatorio
dedicato allo scompenso associato a teleassistenza e in stretta collaborazione col
Medico di medicina generale (Fig. 2). È
stato arruolato un totale di 173 pazienti
di età >70 anni (media 77+6, 51% maschi, prevalentemente in classe NYHA
III-IV), 86 nel modello e 87 nel follow-up
convenzionale. Al follow-up si è osservata
una riduzione altamente significativa del
42% dei ricoveri per scompenso cardiaco e
del 36% dell’end-point combinato morteospedalizzazione (Fig. 3). Nel modello di
intervento si è osservato anche un miglioramento della classe funzionale, un incremento della percentuale di soggetti in
trattamento betabloccante e un miglioramento della qualità della vita. La riduzione delle ri-ospedalizzazioni ha consentito
una riduzione netta dei costi di assistenza
stimata di 907,98 € per paziente. A questo
risparmio di spesa vanno aggiunti i risultati positivi in termini di migliore qualità
di vita, autosufficienza e soddisfazione
del paziente. Questo modello potrebbe
ulteriormente essere potenziato dall’introduzione di metodiche di telemonitoraggio
elettrocardiografico domiciliare, in particolare per questi pazienti con limitazioni
funzionali e ridotto livello di autosufficienza.
20
108
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Figura 2. Modello integrato di gestione post-dimissione del paziente anziano con scompenso cardiaco utilizzato presso l’Ambulatorio Scompenso della I UO di Cardiologia (19)
Gestione multidisciplinare dell’anziano con scompenso
Fig. 3. Curve di Kaplan-Meyer che mostrano
l’efficacia a due anni del modello di gestione
integrato nella riduzione di incidenza dell’endpoint combinato morte e/o ospedalizzazione per
scompenso cardiaco. (Modificata da19)
L’implementazione efficace di un modello di assistenza all’anziano richiede la
definizione di precisi criteri di selezione
dei pazienti, di ruoli specifici degli operatori sanitari, di percorsi diagnostico-terapeutici appropriati e condivisi, di modalità di
follow-up personalizzate, che tengano conto dello stato funzionale globale, della severità di malattia, della comorbidità e del
contesto socio-ambientale del paziente.
Basandosi su questi presupposti, il sistema di assistenza al paziente anziano
con scompenso dovrebbe possedere i 4
requisiti che riuniscono in sé le caratteristiche fondamentali dell’assistenza geriatrica: 1) la continuità assistenziale; 2)
la globalità della valutazione; 3) la multidisciplinarietà; 4) l’organizzazione dei
servizi in una rete integrata17-21.
La necessità di questo modello concettuale è confermata da uno studio recente
G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano
condotto in due nazioni con servizi sanitari molto differenti, I pazienti anziani
scompensati dimessi negli Stati Uniti avevano una mortalità inferiore a 30 giorni,
ma simile a un anno rispetto a quelli
canadesi, nonostante un approccio più aggressivo con esteso impiego di procedure
ad elevato assorbimento di risorse negli
Stati Uniti22.
Ne consegue che un nuovo approccio
impone, ovviamente, oltre alla più estesa
applicazione di nuove terapie e tecnologie,
anche una riorganizzazione di servizi e il
ricorso ad un nuovo atteggiamento culturale. Comorbilità, fragilità e disabilità sono tre entità che condizionano l’approccio
al paziente anziano, possono influenzare il
decorso della malattia cardiaca e le scelte
terapeutiche. La valutazione clinica standard dovrebbe quindi essere completata da
una valutazione della capacità del paziente di svolgere autonomamente le attività
della vita quotidiana, dello stato cognitivo,
emotivo, e socio-ambientale e della qualità
della vita. La moderna geriatria chiama
questo approccio globale Valutazione Multidimensionale (VMD)11 che impiega scale
e tests specifici (Tab. 5) e il cui fine è quello
di impostare un percorso diagnostico-terapeutico personalizzato che consente di:
a) valutare il rischio e l’entità di non-autosufficienza per stabilire la necessita o
meno di assistenza continuativa;
b) formulare un piano di terapia e di assistenza in base alla necessità di trattamenti di riabilitazione e di assistenza
infermieristica;
Tabella 5. Strumenti di più frequente impiego nella VMD
Attività del vivere quotidiano (ADL) di Katz
Attività strumentali del vivere quotidiano (IADL)
Mini Mental State Examination (MMSE)
Geriatric Depression Scale (GDS)
Valutazione della deambulazione
Situazione familiare e socio-ambientale
109
c) decidere la sede di erogazione e l’intensità degli interventi e indirizzare
l’anziano al tipo di terapia medica o
chirurgica più indicato.
In tal modo si possono identificare
tre profili principali (e i relativi percorsi
diagnostico-terapeutici) che rispecchiano
grossolanamente tre diverse modalità di
invecchiamento riscontrabili nella pratica
clinica quotidiana16 (Fig. 4):
a) il paziente “robusto” , espressione dell’invecchiamento di successo, autosufficiente, che conduce una vita pienamente attiva, in cui la cardiopatia rappresenta il problema principale e per
il quale possono essere adatte le cure
convenzionali valide per i pazienti più
giovani;
b) il paziente “anziano”, con un quadro
di compromissione intermedia, per il
quale dovrebbe essere applicato un modello collaborativo in cui siano coinvolte
sia competenze specialistiche che cure
primarie;
c) il paziente “fragile”, vulnerabile , con
grave compromissione funzionale e polipatologia, che necessita di un trattamento intensivo multidisciplinare, con
assistenza continuativa e, quando necessario, cure palliative. Per la gestione
ottimale di questi pazienti più compromessi potrebbe essere particolarmente
importante inserire anche i paradigmi
tipici della geriatria nella pratica clinica quotidiana del cardiologo e del
medico di base.
L’ANMCO, consapevole del ruolo centrale, ma non esclusivo, del cardiologo nella cura dello SC, ha promosso alcuni anni
or sono una Consensus Conference fra tutte le Società Scientifiche interessate e le
Associazioni di volontariato, espressione
delle figure professionali coinvolte nell’assistenza a questi pazienti e finalizzata a
produrre queste semplici indicazioni percorso assistenziale che rendano le parole
appropriatezza e governo clinico più concrete e vicine ai reali bisogni di salute dei
cittadini23. Il Documento di Consenso che
è stato prodotto riporta l’approccio multidimensionale al paziente anziano con
scompenso come un indicatore di qualità
dell’assistenza.
110
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Fig. 4. Impiego della valutazione multidimensionale per la selezione del processo diagnostico-terapeutico appropriato nel singolo paziente anziano
Conclusioni
All’alba del terzo millennio lo scompenso cardiaco cronico rappresenta una sfida
e un importante problema sanitario la cui
prevalenza aumenta con l’età e che assorbe un sempre maggior quantitativo di
risorse sanitarie. I dati disponibili indicano che l’anziano con scompenso cardiaco è
spesso un individuo fragile e complesso in
cui molteplici elementi, oltre alla severità
della cardiopatia, concorrono a condizionare il quadro clinico e la prognosi.
Per favorire l’implementazione di terapie efficaci e il raggiungimento di risultati
ottimali, i Cardiologi dovrebbero sia lavorare a più stretto contatto con Internisti,
Medici di Medicina Generale e Infermieri
che si occupano di scompenso cardiaco ma, soprattutto, dovrebbero mutare
atteggiamento nei riguardi dell’anziano,
arricchendo il bagaglio professionale e
culturale con conoscenze specifiche, finalizzate alla messa a punto di una rete assistenziale efficace, basata su modelli di
gestione multidisciplinare e su un approccio globale e personalizzato24.
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al. The evolving care of the elderly with heart
failure: from the ‘high-tech’ to the ‘high-touch’
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Richiesta per estratti:
Dr.Giovanni Pulignano
Via Giovanni Livraghi 1
00152, Roma
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
L’EVOLUZIONE DELLA RISPOSTA IMMUNE NEL CORSO
DELLA STORIA NATURALE O TERAPEUTICAMENTE
MODIFICATA NELL’INFEZIONE TUBERCOLARE
DEVELOPMENT OF IMMUNE REACTION DURING NATURAL HISTORY OR THERAPEUTIC CHANGES IN TUBERCULAR INFECTION
FRANCESCO BELLI
Laboratorio di Microbiologia e Virologia,
Azienda 0spedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
Parole chiave: Macrofagi. Cellule Th1 e Th2. Granuloma tubercolare. Citochine e chemochine
Key words: Macrophages. Th1, Th2 cells. Tubercular granuloma. Cytokines. Chemokines
Riassunto. L’attuale situazione epidemiologica della tubercolosi, nel mondo, impone ulteriori sviluppi negli
studi dell’infezione, dal momento che la malattia tubercolare è ben lungi dall’essere eradicata e rappresenta
tuttora uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Le finalità di ogni ricerca di base e clinica sono l’incremento e l’ottimizzazione dell’armamentario a disposizione di farmaci antibiotici e l’allestimento di vaccini
più efficaci in base alle nuove tecnologie molecolari.
L’evoluzione della risposta immune in corso di infezione tubercolare, così come è stato approfondito negli
ultimi anni, vede in una prima fase l’intervento di fattori dell’immunità innata, dai complessi recettoriali
presenti su cellule fagocitiche ed APC a macrofagi reclutati da chemochine e citochine infiammatorie; la
produzione di mediatori da parte dei macrofagi stessi, pur non essendo in questa fase pienamente operativa
a causa dell’attivazione limitata e T-indipendente delle cellule, innesca tuttavia quei meccanismi che porteranno all’intervento dei linfociti T (Cd4+ principalmente), alla trasformazione della reazione immune in
specifica e mirata, T-dipendente e T-regolata, in un ambiente Th1 polarizzato, alla cooperazione fra le stesse
cellule T e i macrofagi attivati da γ-interferon e altre molecole ed infine alla costituzione del granuloma maturo. La dinamica descritta ha ovviamente numerose variabili biologiche che condizionano la stessa risposta
immunologica e i quadri clinici: in quest’ambito vanno inquadrate le forme osservabili negli immunodepressi, i casi farmaco-resistenti, le situazioni in cui la risposta Th1 non è efficace o preminente, ma deviata anche
per la coesistenza di altre patologie, creando un quadro clinico e immunologico imprevedibile, difficile da
inquadrare e talora complesso da trattare.
Abstract. The current epidemiologic situation of tuberculosis, in the world, requires further studies of infection, because tubercular disease isn’t quite knocked out and is still a great problem of public health. Aim of
immunologic and clinical researches is the development and the optimization in antibiotic instruments and
preparation of better vaccines according to new molecular technologies.
In the last years the development of immune reaction during tubercular infection has been thoroughly
analysed. In an early phase we can note the participation of innate immunity mechanisms (pattern recognition receptors on surface of phagocytic cells and APC, macrophages recruited by chemokines and inflammatory cytokines); cytokines and other molecules production by macrophages in this stage isn’t exhaustive,
owing to restricted and T-independent activation of cells, but is able to prime the mechanisms that promote
the Cd4+ recruitment, transforming of immune reaction in specific, T-dependent and T-regulated reaction,
in Th1-polarized environment, promote cooperation between T cells and γ-interferon activated macrophages
and granuloma formation.
Delineated performance has many biological variances that influence the same immune reaction and clinic
features: in this sphere we frame immunodeficiencies, drug resistant patients, inefficient and not prevailing
Th1 cells reaction, for coexistence of other diseases: in these cases we observe clinic and immunologic features that are unforeseeable, hard to manage and care.
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
“Durante le ultime due settimane sono
stato malato come un cane. Venni curato
da tre medici, i più famosi. Il primo fiutava ciò che avevo sputato, l’altro percuoteva
là donde avevo espettorato, il terzo palpava e auscultava mentre espettoravo. Il
primo disse che morirò, il secondo che forse
morirei, il terzo che ero già morto.”
Da una lettera di F.Chopin, 3 dicembre
1838, 11 anni prima di morire per tubercolosi.
“Un’angoscia indicibile e un peso enorme sul petto, senza più la forza di alzare le
braccia … Malata del male che m’accoppa,
l’anima non mi ubbidisce più … La tisi
galoppante … già a quarant’anni”.
Da una lettera di E. Duse a D’Annunzio, 1900.
“Il cervello non riusciva più a tollerare
le preoccupazioni e i dolori che gli erano
imposti … Allora si fecero avanti i polmoni, che, tanto, non avevano nulla da
perdere. Queste trattative tra il cervello e i
polmoni, che si svolgevano a mia insaputa,
devono essere state spaventevoli”.
F. Kafka, “Lettere a Milena”, 1917.
1. Introduzione
Trenta anni fa, al termine di un congresso nazionale1, chi scrive, fresco di
laurea, udì dai più eminenti tisiologi
italiani queste parole: “Fra 25-30 anni
avrà ancora un senso organizzare simposi sulla malattia tubercolare o continuare
ad investire su di essa cospicue risorse
umane, culturali ed economiche?”. Domande che allora sottintendevano, come
risposte, una serie di no, che oggi si sono
radicalmente e talora drammaticamente
convertiti in altrettanti si. La tubercolosi, che almeno nei paesi occidentali,
tra gli anni ’70 e ’80 del secolo passato,
sembrava epidemiologicamente confinata
a nicchie particolari della popolazione
– anziani, diabetici, alcoolisti, defedati
113
– ha visto espandere il proprio reservoir
tra nuove tipologie di immunodepressi –
HIV+, ad esempio – e quindi, soprattutto,
per flussi migratori e turistici, tra popolazioni (non parliamo di razze) commiste.
Il quadro epidemiologico vede oggi una
nuova, diffusa ricircolazione del batterio
su scala mondiale, anche di ceppi poli o
toti-resistenti agli antibiotici e negli ultimi 30 anni la sanità (anche la nostra!)
ha risposto investendo di meno in risorse
(nessun nuovo farmaco), organizzazione
(ridimensionamento della rete antitubercolare preesistente) e cultura medica
(nuovi sanitari non formati all’impatto
attuale dell’infezione).
I numeri, come sempre, sono eloquenti2: 1/3 della popolazione mondiale è
infettata da M.Tuberculosis, 1.600.000
persone/l’anno muoiono di tubercolosi
(la più frequente causa di morte per un
singolo agente infettante), 200.000 delle
quali sono HIV+; nel 2002 sono stati diagnosticati negli USA 16.000 nuovi casi,
soprattutto negli stati di frontiera con
il Messico (>5 casi/100.000 abitanti), ma
il rapporto casi diagnosticati/infezione
latente sarebbe 1:500. In Italia l’incidenza è di 7,1 casi/100.000 abitanti, il 43%
stranieri3.
I nuovi casi/l’anno, nel mondo, sono circa 9 milioni, con un incremento di un punto percentuale ogni anno, dovuto perlopiù
all’apporto numerico dell’ Africa.
Ma i numeri esemplificano situazioni
al limite del flagello, come nell’ Est Europa (150 casi/100.000 abitanti in Romania)
e nel corno d’Africa e Africa sub-sahariana: 200 casi/100.000 abitanti tra gli
HIV-, 450/600 tra gli HIV+. Nel mondo 14
milioni di persone sono affette da tubercolosi ed AIDS, il 70% di queste vivono in
Africa.
Riteniamo semplicemente un dovere
ed un obbligo continuare a studiare l’infezione tubercolare, ad iniziare dal rapporto microrganismo-ospite e dalla risposta
immune di questi, la sua evoluzione nel
corso della storia naturale dell’infezione o
modificata terapeuticamente, tutti aspetti che non hanno esaurito di presentarci
nuovi interrogativi e ulteriori campi d’indagine.
114
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
2. La risposta immune anti-micobatterica
La reazione dell’ospite a M. Tuberculosis è stata tradizionalmente suddivisa in
due momenti, il primo aspecifico, in cui
sono coinvolti principalmente i macrofagi
e diversi fattori dell’immunità innata, che
si conclude con la formazione di un focolaio infiammatorio (se a livello polmonare,
un’alveolite essudativa), il secondo specifico, caratterizzato dall’intervento di linfociti T attivati e dalla cooperazione di questi
con macrofagi esprimenti una serie di peculiarità funzionali nuove ed efficienti rispetto ai primi coinvolti; in questo secondo
momento sono state individuate due fasi,
una induttiva ed una efferente in base ai
diversi atteggiamenti funzionali delle due
cellule4. La granulomatogenesi è l’apice di
questo complesso intreccio immunologico.
Oggi questo schema è largamente superato anche perché tiene conto solo in parte
delle modalità di collaborazione dei protagonisti cellulari, mediante mediatori quali
le citochine e perché negli ultimi tempi si
sono andati precisando alcuni meccanismi
dell’immunità innata, affatto trascurabili.
Distinguiamo pertanto cinque fasi.
2.1 Reclutamento e incremento di monociti-macrofagi
Ad un primo intervento dei neutrofili che caratterizza l’alveolite essudativa
aspecifica, segue una mobilizzazione vistosa e protratta dei monociti con successiva evoluzione tissutale in macrofagi: i
latori del messaggio chemiotattico sono
stati individuati in chemochine CC infiammatorie5 dette “primarie” (MCP, MIP,
66CCKS) e, in seconda istanza, IL 1, TNF
e fractalchine (CXC3).
2.2 Attivazione “innata” dei macrofagi e
produzione di mediatori
I macrofagi vanno incontro ad una
prima attivazione detta “innata” dallo
stato di quiescenza, dovuta soprattutto
a mediatori proinfiammatori locali e all’interazione fra molecole micobatteriche
e un vasto sistema recettoriale presente
sulla superficie dei fagociti, facente capo
ai “pattern recognition receptors”6,7 (Tab.
1). L’effetto più eclatante di questa prima attivazione macrofagica, linfocito indipendente, è la secrezione di una serie di
prodotti diversificati (Tab. 2): ricordiamo
il rilascio di citochine proinfiammatorie,
a cui sono attribuibili eventi infiamma-
Tabella 1. “Pattern recognition receptors” e micobatteri
Recettore
Recettori per frazioni del
complemento:
C1-C2-C4
C3
Recettori per il mannosio
Recettori cellulari specifici:
CD 14
Scavenger receptors
Toll Like Receptors:
TLR2
TLR2 + TLR6
TLR4
TLR9
Localizzazione
Stimoli induttori
Legami molecolari
macrofagi, cellule dendritiche
macrofagi specifici (microglia)
cellule APC di mic.non
tubercolari
microglia
IL4 IL6 γIFN, prostaglandine
LAM
citochine infiammatorie
LAM
citochine infiammatorie e
Th1
adesione batterica senza opsonizzazione
fagocitosi batterica nell’ambito dell’immunità innata
mannosio, lipidi
macrofagi, cellule endoteliali
fagociti “professionali”
mannosio, lipidi
LAM di M.Bovis e myc.
a rapida crescita
lipoproteina 19KDa
antigene labile non definito
complessi citosina-guanina
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
115
Tabella 2. Mediatori e altre molecole prodotte dai macrofagi
Mediatori pro-infiammatori
Mediatori anti-infiammatori
Modulanti dell’immunità
Chemochine e altre molecole chemiotattiche
Fattori della coagulazione
Fattori del complemento
Molecole antibatteriche:
Enzimi agenti sulla matrice extracellulare
“Colony stimulating factor”
Fattori di crescita angiogenetici
tori locali e manifestazioni sistemiche,
citochine e chemochine che arricchiscono
il numero e la tipologia dell’infiltrato cellulare, molecole coinvolte nel remodelling
tissutale (matrice extracellulare, vasi),
molecole antibatteriche, mediatori antiinfiammatori.
2.3 “Immunizzazione” della risposta: intervento dei linfociti T
Il macrofago nelle sue diversificate
connotazioni morfologiche: cellule epiteliodi, giganti plurinucleate, elementi di
Langhans, ha in questa fase una minima
attività fagocitica ma secerne mediatori
che reclutano e attivano linfociti T. Le
due cellule vanno incontro ad un contatto
diretto mediato da molecole di adesione e
costimolatorie ed è IL 1 macrofagica che
agisce sulle cellule T, promuovendo la produzione di IL 2, fattore di automantenimento e autoamplificazione della risposta
specifica T-mediata. La stimolazione e la
presentazione degli antigeni micobatterici
porta alla selezione di cellule T Cd4+ che,
a loro volta, completano il ciclo attuando una piena attivazione dei macrofagi,
citochino mediata e linfocito dipendente.
Fattori legati al micobatterio (quadro antigenico, vie e modalità di esposizione) e
legati all’ospite (presentazione degli antigeni, peculiarità genetiche che si esprimono soprattutto nell’intervento di peptidi
Citochine infiammatorie: IL 1, IL 6, TNFα
IL 10, TGFβ, prostaglandina E2, Vit. D3
IFNβ, IL 12
MCP-1, RANTES, MIP-1, IL 8, PAF
Fattori III, V, VIII, attivatore del plasminogeno
C3, properdina, fattore B
Idrolasi acide
Fosfatasi
Fosfolipasi
Lisozima
Catepsina G
Defensine
Metaboliti reattivi dell’ossigeno e dell’azoto
Elastasi, collagenasi
M-CSF, GM-CSF
PDGF, EGF, FGF
del sistema maggiore di istocompatibilità
– MHC- di 2° classe), determinano, nell’infezione tubercolare, un deciso viraggio
dei linfociti verso il fenotipo Th18 e un
network citochinico orientato in tal senso
nel microambiente coinvolto (Fig. 1).
2.4 Polarizzazione della risposta linfocitaria antitubercolare: prevalenza Th1
È dimostrato che a orientare la polarizzazione in senso Th1 sono gli stimoli
antigenici di M. Tuberculosis e l’azione
di citochine quali IL 12 9, secreta nel mi-
Fig. 1. Polarizzazione Th1 della risposta cellulare e citochinica nell’infezione Tubercolare
116
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
croambiente dai macrofagi attivati. La
cellula Th1, pienamente operante, secerne
γ-IFN, principale induttore dell’attivazione T-dipendente dei macrofagi. L’interazione fra linfociti T a prevalente fenotipo
Th1 e macrofagi attivati o “armed” è l’asse
attorno al quale ruota tutta la risposta immunitaria antitubercolare specifica, volta
alla neutralizzazione del patogeno; questa
finalità non sarebbe possibile senza l’intervento di cellule linfocitarie specificamente
sensibilizzate e senza la piena maturazione
ed attivazione del complesso macrofagico:
in altre parole, l’azione delle cellule di cui
al punto 2,1 è lontana dal raggiungimento
della piena eradicazione dei micobatteri.
2.5 Attivazione “immune” dei macrofagi
e nuove acquisizioni funzionali
Un’aumentata suscettibilità a contrarre l’infezione tubercolare, in ambiti ristretti di popolazioni umane10 e in animali
da esperimento (topi knock-out incapaci di
produrre γ-IFN muoiono quando sono infettati con micobatteri), è stata dimostrata
per difetti genetici di componenti coinvolti
nell’attivazione macrofagica T-dipendente
e γ-IFN mediata11 (Tab. 3): è una conferma
indiretta dell’importanza di questa fase
della risposta dell’ospite. La trasmissione
dei messaggi di γ-IFN e la trasduzione
dei segnali avvengono rapidamente dalla
membrana al nucleo; il recettore per la
citochina, sulla superficie dei macrofagi, è
formato da due subunità α che riconoscono
il ligando ed una subunità β essenziale
nella trasduzione del segnale. La cascata
biochimica che segue al legame recettore-citochina culmina nella fosforilazione
del fattore di trascrizione STAT1: questi
migra nel nucleo e attiva la trascrizione
di geni specifici detti “Interferon responce
sequences” 12. γ-IFN, nel macrofago, regola
la trascrizione di geni ed in seguito a ciò
la cellula acquisisce nuove peculiarità funzionali. Tra le principali, citiamo13:
1) Implementazione dell’attività APC a seguito dell’induzione di antigeni MHC di
II classe e di molecole costimolatorie;
2) incremento dell’attività fagocitica per
l’espressione di recettori di membrana
nell’ambito delle funzione opsonizzante;
3) incremento delle capacità battericide
della cellula: γ-IFN regola l’espressione di geni del complesso enzimatico
della NADPH ossidasi e la successiva
produzione di intermedi reattivi dell’ossigeno, nonché la trascrizione dei
geni per iNOS: l’ossido nitrico che ne
deriva è un potente antibatterico, che
si aggiunge all’armamentario costituzionale della cellula (idrolasi, proteasi,
lisozima, H2O2);
4) aumentata produzione di mediatori: citochine proinfiammatorie, tra cui TNF,
decisivo nella granulomatogenesi, IL
12 che sostiene la polarizzazione Th1,
chemochine infiammatorie per il reclutamento di nuovi elementi monocitari.
L’espressione ristretta di recettori per
chemochine, citochine e altre molecole,
specifiche per il fenotipo Th1, dimostra
la polarizzazione in tal senso14 (Tab.
4).
In conclusione, l’interazione del micobatterio con cellule dell’immunità innata
(macrofagi) innesca la cascata di eventi
dell’infiammazione cronica tubercolare; il
successivo intervento di cellule dell’immunità specifica (linfociti T) e il microambiente citochinico polarizzano la reazione
verso il fenotipo Th1. La piena attuazione
di questo programma e il raggiungimento
di una reazione compiuta e matura si traducono nell’evento immuno-istopatologico
tipico dell’infezione tubercolare: il granuloma (Fig. 2).
3. Maturità della risposta: il granuloma. Formazione e sviluppo
I batteri inalati sono fagocitati dai macrofagi alveolari, all’interno dei quali possono sopravvivere e riprodursi inibendo
la formazione dei fagolisosomi15; alla lisi
dei macrofagi, si liberano grandi quantità
di batteri. La risposta infiammatoria mediata dai linfociti T Cd4+ può essere responsabile della maggior parte del danno
tessutale in corso di malattia.
I linfociti CD4+ vengono attivati 2-6
settimane dopo l’infezione ed inducono la
formazione di un fitto infiltrato di macrofagi attivati. Queste cellule circoscrivono
117
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
Tabella 3. Difetti genetici di mediatori e recettori dell'immunità con aumentata suscettibilità alle
infezioni micobatteriche
Molecola
Difetto
Patologia
Istologia e batteriologia
γIFN R1
mutazione
Infezioni disseminate fatali da MOTT
a bassa virulenza
Granulomi
poco
differenziati,
c.epiteliodi e linfociti assenti, numerosi
batteri
γIFN R2
mutazione
Infezioni disseminate fatali da micobatteri ambientali
Granulomi assenti
IL 12 Rβ1
mutazione
Infezioni disseminate da micobatteri
ambientali a bassa virulenza
Granulomi ben organizzati ma con numerosi batteri intracellulari
IL 12 e γIFN
mutazioni
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi e alle micobatteriosi
Granulomi necrotizzanti, elevata crescita batterica
TNFα e TNFαR
assenza
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi, ad andamento fatale
Granulomi piccoli, disorganizzati, paucicellulari; alveolite necrotizzante
IL 6, IL 10, IL
18
assenza
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi, ad andamento fatale
*
IL 1 α o β
assenza
Infezioni tubercolari a rapida evoluzione
Granulomi scarsi, piccoli, paucicellulari
MCP, CCR2
assenza
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi e alle micobatteriosi
Scarso reclutamento cellulare, alterata
granulomatogenesi
STAT-1
mutazione
Micobatteriosi disseminate
*
C3R
assenza
Compromissione della fagocitosi batterica
Granulomi orientati verso il fenotipo
Th2
MR
mutazione
Suscettibilità
M.leprae
*
TLR4
mutazione
Polmonite tubercolare cronica,deficit
di citochine Th1 e chemochine
Granulomi incapaci di eliminare i bacilli
NADPHossidasi
assenza
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi
Malattia granulomatosa cronica
NOS2
assenza
Aumentata suscettibilità alle infezioni micobatteriche
Elevata crescita intracellulare dei batteri
NRAMP1
riduzione
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi
*
Vit D R
mutazione
Aumentata suscettibilità alla tubercolosi
*
osteopontina
assenza
Andamento protratto e sfavorevole
delle infezioni tubercolari
Granulomi piccoli, paucicellulari, assenza di cellule epiteliodi
alle
infezioni
da
118
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
Fig. 2. Reclutamento cellulare e formazione del granuloma tubercolare
Tabella 4. Polarizzazione Th1 della risposta linfocitaria nelle infezioni micobatteriche:
specifici delle cellule Th1 reclutate
Marcatore espresso dalla
cellula Th1
Ligandi
IL 12 Rβ2
IL 18 R
CCR5
IL 12
IL 18
chemochine
CCL3-4-5
chemochine
CXCL9-10-11
chemochina
CXCL16
E-selectine
collagene I e IV
CXCR3
CXCR6
PSGL1
CD49b, CD29: catene delle integrine VLA2
Segnale apoptotico: CD95
Segnale apoptotico: TIM3
CD95L
galectina 9
il microorganismo all’interno di una lesione granulomatosa, formata da linfociti e
da uno strato compatto di macrofagi attivati che si possono differenziare in cellule
epitelioidi e cellule giganti multinucleate.
L’infezione viene contenuta attraverso la
soppressione, da parte dei macrofagi , della proliferazione dei bacilli fagocitati.
Sebbene i batteri intracellulari siano
contenuti all’interno dei granulomi, non
tutti vengono uccisi. Inoltre l’attivazione
massiva dei macrofagi determina il rilascio di enzimi litici che distruggono anche
cellule sane circostanti e provocano una
necrosi tessutale, che conferisce alla lesione la consistenza caseosa ad evoluzione
fibro-calcifica, spontanea o terapeuticamente indotta.
L’accumulo di notevoli quantità di antigeni micobatterici sostiene immunologicamente l’attivazione dei linfociti CD4+ e dei
macrofagi. La colliquazione caseosa delle
lesioni è un fertile terreno extracellulare
che sostiene la proliferazione batterica;
dal dissolvimento tissutale i batteri disseminano nel polmone e, attraverso la
circolazione emo-linfatica, in altri distretti
polmonari e organi a distanza.
La crescita intracellulare del M. tuberculosis rende difficile ai farmaci di
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
raggiungere i bacilli e per tale ragione la
terapia deve essere protratta per mesi; un
trattamento breve o inadeguato non eradica il microrganismo e può provocare la
comparsa di ceppi resistenti. L’ attuazione
di una terapia idonea è uno degli aspetti
più difficili nella gestione del paziente
tubercolotico, tale da compromettere gli
sforzi volti al contenimento della diffusione della malattia.
La scarsa ossigenazione del focolaio
caseoso ostacola e quindi arresta la moltiplicazione dei micobatteri, mentre la
colliquazione del caseum, al contrario,
rappresenta un evento sfavorevole per il
paziente: si modificano infatti le condizioni di ossigenazione a livello del focolaio,
per cui è possibile la moltiplicazione di
micobatteri ancora vitali, nonché il drenaggio del materiale colliquato bacillifero
nei bronchi e nei vasi.
TNFα e, in minor misura, γIFN agiscono
sinergicamente nella formazione del granuloma (16): topi incapaci di utilizzare le due
citochine per assenza o difetto post-mutazionale dei recettori, sviluppano una malattia più destruente con necrosi anche non
caseosa, spiccati fenomeni apoptotici, granulomi piccoli o assenti, pochi macofagi che
non evolvono in cellule giganti e incapaci di
distruggere i batteri fagocitati, abbondanza
di neutrofili ed eosinofili17. Aspetti analoghi
si possono osservare negli HIV+. In altri
ceppi murini infettati, l’inibizione a produrre citochine infiammatorie e Th1 scatena
una malattia interstiziale necrotizzante
senza la formazione di granulomi.
Il ruolo critico di TNFα non è nell’attivazione di linfociti e macrofagi, ma nell’organizzazione del granuloma e nell’orchestrazione di cellule, mediatori e matrice extracellulare: topi privati dei geni codificanti
la citochina, subiscono la disseminazione
bacillifera, la malattia è estesa e letale, i
granulomi sono scarsi o nulli, predomina
l’alveolite neutrofila. I linfociti Cd4+ e
Cd8+ restano confinati nelle aree peribronchiali e perivascolari e non si organizzano
con i macrofagi in granulomi.
TNFα è indotto da complessi proteinepeptidoglicani e dal lipoarabinomanosio di
M.Tuberculosis e Kansasii, meno da antigeni di M.avium complex, poco o nulla
119
da M.leprae; è inibito dal cortisone. Tra le
sue azioni dimostrate in corso di granulomatogenesi18, ricordiamo l’espressione
di ICAM-1 su diverse linee cellulari, più
marcata nelle reinfezioni; l’aggregazione
e la trasformazione dei macrofagi in cellule giganti plurinucleate, assieme a GMCSF, agendo sulla molecola Cd14+ e sul
recettore per le β2integrine; l’espressione
dei geni codificanti per l’osteopontina o
proteina ETA1 di attivazione precoce dei
T, in cellule immuni e non, che favorisce
l’aggregazione cellulare nel granuloma e
probabilmente la sintesi di matrice extracellulare19.
Se il granuloma tubercolare nella sua
forma tipica è caratterizzato da cellule e
mediatori di tipo Th1, giocando γ-IFN e
IL 12 un ruolo fondamentale sull’asse linfociti T-macrofagi, va sottolineata tuttavia
l’ambivalenza di TNFα che da una parte
interviene in meccanismi immuni protettivi (la granulomatogenesi), dall’altra può
essere al centro di eventi infiammatori
che comportano danno tessutale, necrosi
ed effetti tossici; il prevalere dei primi è
connesso allo sviluppo di una risposta immune fenotipicamente orientata in senso
Th1, nell’ambito della quale opera anche
TNFα, mentre l’imponenza di fenomeni
lesivi e tossici accompagna o un deficit di
tipo 1 (anergia) o un prevalere, anche temporaneo, cellulare e citochinico di tipo 2.
Se nei pazienti infettati e non trattati
il granuloma specifico nasce dalla cooperazione di più cellule e citochine capaci di
mediare messaggi di attivazione e reclutamento, nei pazienti trattati e “responders”
all’eclissarsi dello stimolo infettante e antigenico, corrisponde una minor cooperazione cellulare ed una ridotta attivazione e
reclutamento di cellule nonché uno scarso
apporto di citochine: in altre parole l’organizzazione cellulare chiamata granuloma
perde le sue connotazioni perché diminuiscono le ragioni stesse del sue esistere20.
4. Gli antigeni micobatterici e la
stimolazione del sistema immune
Il mosaico di antigeni micobatterici può
così essere schematizzato21:
120
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
1. Ag secreti durante la crescita batterica (proteine 19-32-38 KDa) che determinano una ricognizione precoce dei
micobatteri ad opera dei linfociti T e
attivano memory cells;
2. Ag associati alla parete (peptidoglicani)
che sono tra i più forti stimolanti delle
cellule T;
3. Proteine “DELLO SCHOCK”- di 65
KDa -, liberate in seguito a fenomeni di
stress, come febbre e danno ossidativo;
4. Proteine parieto-citoplasmatiche alcune
delle quali sono comuni a tutti i micobatteri (18-65-70 KDa), altre sono specifiche solo del M.Tubercolosis e Bovis
(38-60 KDa);
5. Polisaccaridi come l’arabinomannosio
che ha azione immunodepressiva;
6. Sulfatidi e cord-factor, fattori di virulenza;
7. Glico-Lipo-Proteine (Wax D) che hanno
un ruolo adiuvante nella risposta immune;
8. Fosfolipidi e Fosfatidi che stimolano
specificamente una risposta umorale.
I polisaccaridi determinano una risposta immune più tardiva rispetto alle proteine. Nelle fasi iniziali il γ-IFN è indotto
da frazioni di 56/44 e 35/28 KDa, da altri
antigeni solo dopo l’acquisizione della memoria immunologica. Proteine di 20-46
KDa inducono maggiormente IL-1 e TNFα dai macrofagi. I linfociti della memoria
sono stimolati da svariate proteine, perlopiù a basso P.M. Nel caso di miscele di
lipo-protido-glicani (Ag 60) si ha una stimolazione sia dell’immunità cellulare che
di quella umorale ed una forte induzione
di γ-IFN ad opera di linfociti T.
Le citochine proinfiammatorie sono
prodotte su stimolo di lipoarabinomannosio (LAM), proteine dello shock di 65-70
KDa e complessi proteine-peptidoglicano
da macrofagi che esprimono Cd14; γ-IFN è
rilasciato su stimolo di complessi proteinepeptidoglicani, antigeni di 10 30 65 e 85
KDa: in particolare Ag di 30 KDa incrementa la sua attività stmolatoria durante
l’evoluzione dell’infezione.
La complessità del quadro antigenico
e stimolatorio è tale che LAM è in grado
di indurre i macrofagi a secernere anche
citochine anti-infiammatorie e inibenti le
funzioni battericide e citotossiche, quali
IL 10 e TGFβ e IL 8 che recluta neutrofili: natura, frequenza e presentazione
degli antigeni condizionano il prevalere
di una risposta pro o anti-infiammatoria
e di fenomeni immuni o dannosi. Anche a
livello cellulare il panorama è variegato:
la proteina dello shock 65 KDa e quella di
38 KDa stimolano cellule Th1 e funzioni
citotossiche, ma la proteina di 16 KDa può
reclutare fenotipi diversi: Th1, mediante
le frazioni p91-110 o Th2, con le frazioni
p21-40, potendo interferire con la polarizzazione della risposta22. Nel decorso dell’infezione, in fasi precoci antigeni a basso
PM stimolano cloni Th1, in fasi avanzate
molecole a PM più alto reclutano cellule
della memoria ed elementi Cd8+.
5. L’armamentario anti-micobatterico
5.1 Cellule
Cellule presentanti l’antigene, cellule
accessorie. Nel polmone le cellule con attività accessoria sono localizzate nel lume
alveolare (macrofagi alveolari) e nell’interstizio (macrofagi interstiziali, cellule
dendritiche). I macrofagi alveolari hanno
tutte le caratteristiche fenotipiche e funzionali di una cellula accessoria: esprimono sulla loro superficie le molecole
dell’ MHC ed alcune molecole di adesione
come l’ICAM-1 e il LFA-1. Sono in grado di fagocitare l’antigene, processarlo,
presentarlo in associazione alle molecole
MHC e produrre una serie di citochine che
modulano l’attivazione e la proliferazione
linfocitaria.
I macrofagi interstiziali sono simili
ai m. alveolari sia fenotipicamente che
funzionalmente, ma hanno una maggiore
capacità accessoria.
Le cellule accessorie più potenti sono
quelle dendritiche: stimolano la risposta
linfocitaria in misura significativamente
superiore ai macrofagi alveolari o tessutali e rivestono un ruolo fondamentale
nella risposta immune; sono situate nei
tessuti linfoidi e in molti organi periferici.
Esprimono l’antigene comune linfocitario
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
ed alti livelli di antigeni MHC di classe II.
Funzionalmente risultano essere le cellule
accessorie più potenti e riescono a stimolare la proliferazione e la differenziazione
dei linfociti T-resting.
Per quanto riguarda le funzioni batteriostatiche e citolitiche del macrofago e dei
mezzi con cui vengono attuate, si rimanda
ai punti 2.1, 2.2 e 2.5.
Linfociti T Il ruolo del linfocita T nella
risposta immune nasce nell’ambito di un
sistema recettoriale di superficie deputato
al riconoscimento specifico di epitopi antigenici. I principali recettori del linfocita T
sono due: alfa-beta e gamma-delta. Il più
comune è il recettore α/β espresso da circa
il 90-95% dei linfociti polmonari mentre il
γ/δ è presente nell’ 1-5%.
La variabilità fenotipica del recettore α/
β, da cui dipende la possibilità da parte dei
linfociti di “riconoscere” la grande variabilità di antigeni che arrivano in contatto
con le vie aeree, come quelli micobatterici,
è legata alla particolare organizzazione
dei geni che codificano per le due catene. Tale organizzazione, in modo simile
a quanto si verifica per la sintesi delle
immunoglobuline, prevede la presenza di
un numero talmente elevato di regioni genomiche variabili (segmenti V, J), che per
le possibili ricombinazioni con le regioni
costanti consegue un numero pressoché
infinito di varietà recettoriali.
Il recettore α/β T-linfocitario riconosce
l’antigene “presentato” sulla superficie
della cellula accessoria in associazione
con le molecole del complesso MHC di
classe I o II. L’organizzazione genomica
del recettore γ/δ è analoga a quella del
recettore α/β, sebbene permetta un minor
numero di diverse combinazioni durante
il riarrangiamento genomico. Inoltre questo recettore riconosce prevalentemente
gli antigeni associati ad alcune molecole
MHC di classe I.
I linfociti γ/δ producono citochine quali
γ-IFN, sia pur con un’efficienza limitata, mostrano un’espansione clonale nelle
fasi d’acuzie in cui l’attività litica verso
microrganismi intracellulari appare circoscritta23.
Linfociti T Cd4+. Gran parte delle
funzioni dei linfociti Cd4+ è legata alla
121
produzione di citochine: IL-2, IL-3, IL-4,
IL-5, IL 6, γ-IFN, TNFα, mediante le quali
regolano la proliferazione e l’attivazione
funzionale di molte cellule (epiteliali, fagociti mononucleati, linfociti B ed NK),
modulano la sintesi di immunoglobuline e
il reclutamento delle cellule infiammatorie. In corso di un’infezione micobatterica
sono attivati da IL 2 e IL 12 prevalentemente in senso Th1: topi KO per IL 12
sono tubercolino negativi.
Alcuni cloni Cd4+ possono essere citotossici verso macrofagi contenenti batteri
o loro frazioni : sono MHC II° classe ristretti, richiedono l’intervento di ICAM-1 e
LFA-1 e lo stimolo è rappresentato dalla
presenza di bacilli in se, come nell’immunità naturale e non da antigeni specifici24.
Interazione macrofago-linfocita T Cd4+
nell’immunità-cellulo mediata in corso di
infezione da micobatteri (Fig. 3). La fagocitosi ha subito un’impressionante evoluzione negli organismi superiori ed ha
acquisito un’elevata specializzazione, diventando un meccanismo complesso di
protezione attiva. Cellula emblematica di
tale processo è il macrofago, a cui si deve
la specificità del meccanismo, in virtù della cooperazione con il linfocita T. Il macrofago quando incontra per la prima volta
un antigene batterico attua una fagocitosi
relativamente efficace, ma si innesca il
processo di riconoscimento e di sviluppo
Fig. 3. Interazione macrofago – linfocita T
122
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
della memoria e neutralizzazione. In un
eventuale secondo incontro, il macrofago è
attivato (macrofago armato) e rende l’antigene innocuo, non lesivo per l’organismo;
in tale situazione coopera con il linfocita
T e si crea una reazione immunitaria
specifica: il macrofago deve far conoscere
l’antigene al linfocita T, deve dargli cioè
informazioni sulla struttura molecolare
tipica di quell’antigene mediante decodifica molecolare. Avviene la così detta presentazione o interazione superficiale del
T con l’antigene, MHC ristretta. A questo
punto si verifica:
1. Acquisizione della memoria da parte
dei T per quel tipo di struttura antigenica;
2. Amplificazione dei linfociti T;
3. Attivazione dei linfociti e produzione di
mediatori che attivano nuovi macrofagi
e stimolano la produzione di enzimi litici che sono necessari alla distruzione
del materiale fagocitato, step γ-IFN
dipendente.
Linfociti T Cd8+. La funzione suppressor dei linfociti Cd8+ è legata alla loro
capacità di inibire la risposta immune. I
cloni citotossici attivati esprimono IL 12
R, sono stimolati dagli stessi antigeni dei
Cd4+, producono γ-IFN e altre citochine
T1 ma con uno spettro più ristretto. Nel
granuloma occupano una sede più eccentrica rispetto i Cd4+, quasi defilata e a
tutt’oggi il loro ruolo nell’infezione tubercolare appare sfumato e mal definito. Di
certa dimostrazione sono questi punti: 1)
sono stimolati soprattutto da antigeni ad
alto PM, ma dopo vaccinazione con BCG
sono fortemente attivati e riconoscono l’
Ag 6 KDa ESAT 6 protein25; 2) riconoscono
antigeni processati e presentati mediante
peptidi MHC 1° classe (MHC 1° classe ristretti); 3) sono citotossici nei confronti di
macrofagi infettati e producono molecole
litiche come la perforina26.
Cellule a fenotipo Th1/Th2. È stato
ampiamente dimostrato che la reazione
immune linfocitaria tipica nell’infezione
tubercolare è prevalentemente a fenotipo
Th1 e tale caratterizza i cloni reattivi, il
profilo citochinico e il tipo di granuloma.
Poiché la risposta ad un mosaico di antigeni non è mai univoca, ci chiediamo se,
quando e con quale peso possa prevalere
o coesistere una reazione mista o Th2
orientata.
Antigeni di 45-60 KDa stimolano cellule Th2 in uno stadio precoce, in coincidenza di quella fase iniziale e fugace
dell’infezione in cui può prevalere questo
fenotipo, a fronte di un’immaturità del sistema cellule-citochine Th1 in cui l’ospite
è più fragile27; dopo 11/2-2 mesi d’infezione
antigeni di 65 KDa selezionano cloni Th2
che producono IL 4, bilanciando un eventuale eccesso di attività delle citochine
Th1. Tuttavia vere funzioni inibenti e
calmieratrici, qualora sia da interrompere
l’iperattività Th1, vanno attribuite alle
molecole antinfiammatorie IL 10 e TGFβ,
che si elevano in coincidenza della negativizzazione dell’espettorato e prevalgono
negli HIV+, come antagoniste di cellule
Th1 e γ-IFN. Ancora da esplorare, nella
tubercolosi, il ruolo delle cellule Treg sulla
cinetica Th1/Th2 28. Un netto prevalere del
fenotipo Th2, nella tubercolosi, può essere
escluso, anche in soggetti allergici (in base
alla “Higiene hypothesis”), in coloro un
tempo etichettati come anergici, in HIV+
e in pazienti co-infettati da parassiti; una
prevalenza relativa può manifestarsi in
tutti quei casi in cui il fenotipo Th1 è
depresso per funzioni e/o numero (i veri
tubercolotici immunodepressi), come nell’apoptosi selettiva di linfociti T e Th1 in
particolare indotta da antigeni micobatterici (iperespressione di Fas – CD95 -)29.
Clinicamente, in questi casi, osserviamo
forme gravi, estese, multiresistenti, i tessuti sede di danno infiammatorio e necrotizzante e il persistere dello shift Th1→
Th2 sostenuto dalla concomitanza di altre
patologie, fattori endocrini, genetici.
5.2 Citochine
Non è questa la sede per addentrarci
nella miriade di funzioni e interconnessioni delle citochine coinvolte, durante
l’infezione tubercolare, nel colloquio tra
cellule immuni e non; anche se la risposta
dell’ospite fondamentalmente verte sul
ruolo di linfociti e macrofagi, le citochine sono essenziali nel portare segnali di
attivazione, inibizione, regolazione. Rias-
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
sumeremo pertanto solo i punti nevralgici
per gruppi, peraltro già delineati nelle
pagine precedenti.
Citochine pro-infiammatorie (Fig. 4).
L’IL-1 è prodotta dai monociti, macrofagi,
cellule di Langhans, attraverso stimoli
induttori portati da γ-IFN, TNF-α, immunocomplessi circolanti, C5a e tossine
batteriche. I recettori per l’IL-1 sono posseduti dai linfociti T e B, dai fibroblasti,
dalle cellule endoteliali ed epiteliali. Concorre alla presentazione dell’antigene ai
linfociti T, regola e trascrive il gene per
l’ IL-2 ed il suo recettore, può amplificare
la risposta dei Th; insieme all’IL-6 ed al
TNF-α stimola la produzione di fattori ad
azione pro-coaugulante e trombogenica.
L’IL-1 agisce stimolando geni delle cellule T a produrre sia IL-2 che il suo recettore
specifico (IL-2R) sulla membrana cellulare:
IL-2, liberata nel microambiente, agisce
come una molecola ormonale autocrina che
stimola le stesse cellule progenitrici con un
meccanismo autoregolante; pertanto IL-1
determina “up regulation“ nei confronti
di IL-2 (e di conseguenza delle cellule
attivate), IL-2 provoca nel tempo “down
regulation” dell’attivazione. L’aumentata
attivazione di una cellula T e/o dei Cd4+ è
segnalata dalla comparsa sulla superficie
di IL-2R. (Cd3+ Cd25+ o Cd45 Ro+; Cd4+
Cd25+ o Cd45 Ro+) e dalla liberazione nel
microambiente o in circolo della frazione
solubile (S.IL-R.), in eccesso o tagliata dopo legame con la citochina.
Fig. 4. Cooperazione IL –1 / IL – 6 / TNF-α
123
L’antagonista recettoriale di IL 1 (IL
1 RA) è un mediatore dell’infiammazione
necessario per la formazione dei granulomi Th1 nell’ambito di un equilibrato
rapporto IL 1/IL 1 RA: topi KO per IL 1
α o β o privi del recettore hanno elevata
crescita batterica e formano granulomi
scarsi e piccoli; alcune famiglie Hindu con
prevalenza di IL 1 sull’antagonista recettoriale, sviluppano forme più attenuate di
tubercolosi30.
Il TNF-α viene prodotto da monociti,
macrofagi e linfociti Th1 dopo stimoli di
attivazione cellulare citochino-dipendente.
Svolge una funzione di attivazione reciproca dei linfociti T ↔ macrofagi e determina
la sintesi di fattori chemiotattici e molecole d’adesione, senza le quali non possono
essere reclutate le cellule infiammatorie.
Inoltre è responsabile dei fenomeni collaterali come anoressia, cachessia, ipotensione, calo ponderale. Comunque l’azione
essenziale del TNF-α è quella di permettere la formazione del granuloma specifico
attraverso il poli-reclutamento cellulare,
l’organizzazione dell’architettura di cellule
e matrice e la batteriostasi.
Il dosaggio nel sangue e nel liquido
di lavaggio broncoalveolare delle citochine proinfiammatorie, mediante ELISA o
sistemi più sensibili (citochine prodotte
da cellule raccolte e stimolate in vitro,
metodi citofluorimetrici sulle stesse cellule, amplificazione degli mRNA specifici)
all’esordio, evidenzia valori superiori alla
media e corrisponde sia all’iperattività immunogenetica di queste molecole che alla
situazione di flogosi acuta accompagnata
da segni sistemici (febbre, astenia e dimagrimento) o bio-umorali (incremento delle
proteine della fase acuta)31.
Nei pazienti responders, in corso di terapia, assistiamo al decremento delle tre
molecole, in coincidenza del miglioramento
clinico e sintomatologico, alla normalizzazione o riduzione degli indici di flogosi, alla
riduzione dello stimolo infettante e della
carica antigenica, situazioni che si traducono in minor reclutamento di cloni T attivati, minor attivazione macrofagica, stasi o
riduzione della granulomatogenesi32.
Citochine anti-infiammatorie. Un vero
sistema antagonista delle citochine infiam-
124
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
matorie, ma anche di IL 12 e γ-IFN è stato
dimostrato nell’attività di IL 10 e TGFβ:
prodotte su stimolo di LAM ed antigeni ad
alto PM, da cellule monocito-macrofagiche,
Langhans, epiteliali, nelle forme ad evoluzione favorevole e responder alla terapia
raggiungono livelli consistenti nei fluidi
biologici in coincidenza del calo di IL 1 e
TNF, neutralizzando le funzioni di queste
in senso granulomatogenetico, nonché i
meccanismi della polarizzazione Th1. A
riprova di ciò sono state trovate elevate
e iperespresse in fasi precoci di infezione
in casi di malattia estesa, pluricavitaria
e nei HIV+, ove antagonizzano i segnali
attivatori di γ-IFN verso i macrofagi e caratterizzano aspetti dannosi e destruenti
dell’infiammazione33.
Nell’ambito delle attività regolatorie
anti-infiammatorie, IL 10 e TGFβ inibiscono alcuni enzimi, come NOsintasi, implicati nella batteriostasi intracellulare e IL
10 neutralizza i segnali anti-micobatterici
inviati da γ-IFN ai macrofagi.
Assumono un ruolo attivo nella fase
fibrogenetica, promuovendo la sintesi di
collagenasi macrofagica e matrice extracellulare.
Citochine Th1-correlate. L’IL-2 è prodotta dalle cellule Th1 attivate, su induzione di IL-1, che codifica e trascrive i geni
per IL-2 e il suo recettore, espresso dalle
stesse cellule Th1 ed altri targets. Di fondamentale importanza sono le sue azioni:
– Determina la crescita e l’amplificazione
clonale dei linfociti T;
– Stimola la produzione di altre citochine
(γ-IFN);
– Recluta e attiva monociti e macrofagi;
– Modula l’attività citotossica Nk.
γ-IFN è prodotto da cellule Th1 e linfociti T della memoria, ma la sua comparsa
è tardiva, quando la sensibilizzazione e
l’acquisizione della memoria sono avvenute. Gli stimoli induttori del γ-IFN sono
Ag-batterici soprattutto di 60 KDa. Nel
corso della risposta immune attiva i macrofagi (fagocitosi e lisi batterica), induce
l’espressione di adesine, di molecole di
MHC e attiva cellule Nk.
Tra le altre citochine Th1-correlate, fondamentale è IL 12, prodotta da cellule
monocito-macrofagiche sia in fasi precoci
d’infezione, con meccanismi dell’immunità
innata in cui l’induzione è la fagocitosi in
se, sia nella fase di sensibilizzazione su
stimolo di antigeni specifici; liberata nel
microambiente, è essenziale per la maturazione e l’amplificazione clonale di Th1, stimola la produzione di γ-IFN con cui attua
una up regulation, incrementa l’attività
citotossica delle cellule NK e antigene-specifica dei Cd8+. Le citochine anti-infiammatorie sono i suoi naturali antagonisti.
All’esordio della malattia, nei campioni
biologici, si ha un cospicuo incremento di
R IL 2 Sol e γ-IFN, mentre sono poco apprezzabili IL 2 e IL 12, molecole difficili da
dosare se non si ricorre a colture cellulari
dopo stimolazione specifica o amplificazione di mRNA.
È importante rilevare tassi elevati di
R IL 2 Sol, marker di attivazione delle
cellule T e γ-IFN nella malattia “vergine”,
all’inizio del trattamento, come indice di
un indirizzo decisamente Th1 orientato34.
Dopo 3-6 mesi, nei pazienti trattati ad
evoluzione favorevole i valori delle due
citochine mostrano un netto decremento:
l’attivazione delle cellule T e macrofagiche
è in fase calante e la granulomatogenesi è
ben controllata dalla terapia35.
Citochine Th2 correlate. In una risposta
immune antitubercolare valida e secondo i
percorsi da noi descritti, nessun mediatore
in quest’ambito ha un ruolo dimostrato; IL
4 e IL 13, con i limiti metodologici di dosaggio segnalati, sono su valori prossimi allo
zero in ogni fase della malattia, mentre IL
5 può essere inizialmente apprezzabile36.
Qualora prevale un profilo Th1 orientato,
il supporto di molecole Th2-correlate è poco
significativo o di interpretazione incerta e
studi con casistiche ampie in pazienti con
risposta prevalente di tipo Th2 presentano
dati contraddittori e non confrontabili.
5.3 Altri fattori (chemochine, adesine,
integrine)
La chemiotassi è il processo che regola
la motilità direzionale delle cellule infiammatorie e immunocompetenti e che ne
permette la migrazione nei focolai di flogosi. Nel polmone vengono prodotti diversi
mediatori ad attività chemiotattica:
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
– prodotti di clivaggio del complemento
C3a e C5a;
– oligopeptidi N-formilati di origine batterica;
– metaboliti dell’acido arachidonico;
– citochine come IL-5, IL-8, GM-CSF,
TNFα, “macrophage inflammatory protein-1” (MIP-1), “neutrophil chemotactic factor”.
Nell’immunità cellulo-mediata, un accenno meritano, infine, molecole che fan capo ai
sistemi delle chemochine, integrine, adesine, che regolano il reclutamento e il traffico
di cellule nonchè interazioni tra esse.
Le chemochine che ci interessano sono
quelle “CC”, che reclutano linfociti e monociti, prodotte da cellule immuni e non
(endoteli, epiteli, fibroblasti), su stimoli
inizialmente rappresentati da antigeni micobatterici, IL 1 e TNF, in seguito da T attivati. Le chemochine inducono migrazione
di leucociti nel focolaio di flogosi, regolano
il traffico linfocitario attraverso i tessuti
linfoidi periferici e tra questi e organi infiammati (polmone), aumentano l’affinità
di legame delle integrine leucocitarie per i
ligandi espressi da un target37.
Le principali integrine espresse dai linfociti T sono: VLA (i cui ligandi sono VCAM
1 sulla membrana della cellula bersaglio,
fibronectina e laminina nella matrice extracellulare) e LFA-1 (ligandi ICAM 1/2/3);
IL 1 e TNF ma anche γ-IFN e antigeni micobatterici aumentano il livello di espressione dei ligandi sulle cellule accessorie,
APC, macrofagi alveolari, mentre l’attivazione dei T e la stimolazione da parte dell’antigene iperesprimono le integrine.
La reazione integrine-ligandi si traduce
nel fenomeno detto “Signaling Inside Out”
38
, ovvero l’ottimizzazione dell’adesione
e dell’interazione delle cellule T con un
target (APC, endotelio, matrice); l’avidità
delle integrine per i loro ligandi aumenta
dopo esposizione dei T alle chemochine e
stimolazione tramite TCR.
6. Aspetti immunologici di alcune
situazioni particolari
Tubercolosi miliare. In questi casi, oggi
rari, sono state riscontrate concentrazioni
125
elevatissime di citochine proinfiammatorie che permangono tali anche per mesi.
Tubercolosi cronica. Può assumere alcuni aspetti tipici delle malattie autoimmuni come:
– attivazione policlonale dei linfociti B
con incremento delle immunoglobuline,
produzione di autoanticorpi generici
(ANA) e/o specifici (anti membrana basale degli alveoli);
– decremento della funzionalità soppressoria dei Cd8+.
Tubercolosi multiresistente. Qualora i
Cd4+ siano < 500 cellule/ml, si accompagna un quadro di severa immunodepressione con deficit di IL 2, IL 12 e γ-IFN39.
Coinfezione tubercolosi-HIV. Si hanno
infiltrati interstiziali tipo polmoniti atipiche, rare cavitazioni con frequenti ed
imponenti adenopatie satelliti, mancata
formazione di tipici granulomi. Dai linfonodi è possibile avere un quadro istologico
di iperplasia aspecifica reattiva.
Il M.Tubercolosis colpisce gli HIV+ ancor
prima la comparsa dell’AIDS, i M.O.T.T. ad
AIDS conclamato o dopo altre infezioni
opportunistiche, presumibilmente poichè
la difesa anti M. Tubercolosis è dovuta
soprattutto alle cellule Cd4+, precocemente infettate e distrutte dal virus, mentre
nella difesa anti-Mott intervengono altri
elementi, Nk e macrofagi il cui calo numerico e funzionale si verifica solo nelle fasi
avanzate dell’infezione HIV.
Le citochine proinfiammatorie sono rilasciate in modo ridotto, il reclutamento
di cellule è deficitario e i granulomi tipici
sono scarsi o assenti; la polarizzazione è
sempre Th1 orientata, anche se numericamente deficitaria e bassa è la produzione
di γ-IFN, specie con valori di Cd4+ < 200
cellule/ml 40.
È stata ipotizzata la presenza di inibitori di IL 2 e γ-IFN, in parte noti
– citochine antinfiammatorie -, in parte
sconosciuti. In rari casi vi può essere uno
switch marcato per la produzione di IgE,
da iperfunzione di IL 4, cui si associa una
tubercolosi disseminata.
Eritema nodoso. È una vera sindrome
tossica, provocata dall’azione cito e vasculolesiva di TNF in eccesso: farmaci come
la talidomide, che ne inibiscono l’ mRNA,
126
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
migliorano il quadro clinico nelle infezioni
in topi di laboratorio (41).
7.Correlazioni cellule - mediatori
A titolo esemplificativo, riportiamo i
grafici e le correlazioni statistiche da noi
Fig. 5. Correlazioni cellule - mediatori
osservate ponendo a confronto una serie
di parametri cellulari e citochinici, in una
casistica di 33 pazienti che furono oggetto
di un ampio studio31,42, a cui si rimanda
per le specifiche del progetto (Fig. 5). In
questa sede desideriamo solo sottolineare
come, all’esordio, la risposta immunitaria
si caratterizza per la piena concertazione
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
di cellule, citochine e altri mediatori, tesi
allo sviluppo della struttura granulomatosa, fase documentata dalle strette correlazioni statistiche osservate di cui riportiamo alcuni esempi; qualora la malattia
evolva favorevolmente, dopo alcuni mesi
di pieno trattamento, al miglioramento
clinico, sintomatologico, radiologico e batteriologico, corrisponde un decremento
dello stimolo immunologico dell’ospite e
pertanto la mobilizzazione delle risorse
immunitarie di questi si eclissa progressivamente: l’orchestrazione di cellule e mediatori al fine di costituire nuove strutture
granulomatose non è più necessaria, cessa
il coordinamento nell’armamentario antimicobatterico e le correlazioni statistiche
osservate non sono più significative.
8. L’ evoluzione delle lesioni:
la fibrosi
La diminuzione della carica infettante
e della stimolazione antigenica evoca una
risposta immune sempre valida ma meno
organizzata: in altre parole sta scemando
il numero di cellule reclutate e attivate
ed il granuloma specifico, pur valido e
attivo, non ha più necessità di essere ulteriormente alimentato. È aperta la strada
verso la guarigione istologica delle lesioni
e verso l’evoluzione terminale: la fibrosi.
L’evoluzione fibrotica o fibro-calcifica
delle lesioni tubercolari, fenomeno anch’esso largamente legato a tappe immunologiche, non è stato studiato con
la stessa profondità delle fasi induttiva,
effettrice e granulomatogenica; sappiamo
che soprattutto i macrofagi attivati e, secondariamente, i linfociti T, sono al centro
dell’organizzazione molecolare e cellulare
che conduce alla formazione di tessuto
fibroriparativo. Questi fattori possono essere ripartiti in quattro gruppi43:
1) Molecole che inducono l’attivazione dei
fibroblasti: PAF, PDGF, AMDGF;
2) Mediatori che inducono nei fibroblasti
la produzione e il deposito di collagene:
IL 10, TGFβ, fibronectina;
3) Mediatori che attivano la sintesi, da
parte dei fibroblasti, di matrice extracellulare: IL 10, TGFβ;
4) Induttori dell’angiogenesi: PAF,VEGF.
127
Sappiamo anche che mediatori come
IL-4, agenti in senso fibrogenetico in altre
patologie, non hanno effetto nella tubercolosi. Tuttavia nel complesso le nostre acquisizioni sono lacunose e dovranno essere
approfonditi i meccanismi che conducono
alla fibrosi, soprattutto l’attivazione dei fibroblasti ad opera di molteplici attivatori,
sia nell’evoluzione naturale della malattia
che in quella modificata dalla terapia.
9. Conclusioni
La clinica della Tubercolosi polmonare
è così strettamente legata all’origine ed
all’evoluzione immunologica, che da lungo
tempo le classificazioni ed i diversi quadri
clinici ne sono profondamente condizionati: pertanto clinica e immunologia formano una unità imprescindibile di cui bisogna tener conto sia nel trattamento del
paziente, sia nell’interpretazione dei dati
di laboratorio che nel giudizio prognostico
che emerge in corso di evoluzione.
La risposta immune si sviluppa mediante una stretta cooperazione tra macrofagi e cellule T, Cd4+ in particolare,
attraverso vie di reciproca coattivazione,
amplificazione clonale, selezione di “memory cells” contemporaneamente al riconoscimento, alla presentazione e all’elaborazione degli antigeni micobatterici; tutte
queste fasi sono mediate da citochine di
produzione linfocitaria e/o macrofagica e
la stretta interdipendenza tra cellule e
mediatori è stata ampiamente documentata anche dalle correlazioni riportate sia
nella fase induttiva che in quella effettrice, che porta alla formazione del granuloma, alla cui evoluzione concorrono cellule
reclutate, attivate e modificate, citochine,
chemochine, molecole di adesione; TNF e
γ-IFN partecipano in vario modo ma risultano fondamentali nell’organizzazione
complessiva delle cellule costituenti. Lo
sviluppo del granuloma è l’atto conclusivo
della serie di eventi immuni descritti e
rappresenta l’epicentro immuno-istologico
di una reazione efficiente dell’ospite verso
l’insulto micobatterico.
Nuovi e recentissimi studi hanno approfondito ulteriormente le conoscenze
sull’interazione micobatteri-ospite nonché
128
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
la formazione e l’evoluzione del granuloma.
Gli aspetti che prossimamente dovranno essere indagati possono essere così
riassunti:
1. Le competenze dell’immunità naturale,
soprattutto nelle fasi iniziali dell’infezione tubercolare, meritano di essere
rivisitate alla luce delle più recenti
conoscenze quali le interazioni tra TLR
e molecole micobatteriche, aspetti genetici dei complessi recettoriali e dei
mediatori, conseguenze individuali e
familiari delle mutazioni di questi, meccanismi di batteriostasi: problematiche
importanti per riprendere, in chiave
moderna, l’antico e sempre arduo problema della recettività e resistenza.
2. Ruolo dei linfociti con recettore γ/δ (soprattutto Vγ9 / Vδ2). Il ruolo di queste
cellule nell’immunità antitubercolare
non è del tutto chiaro: sappiamo che, stimolate, producono chemochine, TNF-α e
γ-IFN e dunque hanno importanza nella
granulomatogenesi e lisano macrofagi
infettati da micobatteri con meccanismi
Fa S / Fa S ligando o producendo sostanze citotossiche. Tuttavia, mancano studi
in vivo conclusivi anche perché il loro
numero nei soggetti infettati è apparentemente disomogeneo. Chiarire il loro
ruolo è uno dei prossimi obiettivi.
3. Ruolo delle chemochine. Queste molecole, il cui compito fondamentale è quello
di reclutare cellule infiammatorie ed immunitarie, intervengono senz’altro nella
formazione e nell’organizzazione del granuloma: studi in quest’ambito sono lacunosi e vanno senza dubbio sviluppati.
4. L’apoptosi è un nuovo filone d’indagine
tutto da esplorare: è stato dimostrato
da diversi Autori un incremento del
fenomeno a carico di cellule Th1 e di
macrofagi, soprattutto basato sull’interazione Fa S / Fa S ligando. Tra l’altro
l’apoptosi di cellule Th1 potrebbe spiegare condizioni d’anergia e immunodepressione che accompagnano alcuni
quadri di infezione tubercolare. Lo studio del fenomeno in vivo e l’attribuzione
di un suo ruolo nella patogenesi della
malattia è dunque un ulteriore campo
d’indagine.
5. L’evoluzione fibrotica o fibro-calcifica
delle lesioni tubercolari: abbiamo citato
mediatori e attivatori dei fibroblasti e
delle diverse tappe della fibrogenesi,
ma sfuggono ancora i meccanismi molecolari innescati nei processi riparativi
delle lesioni tissutali.
Tutte queste indagini necessitano comunque dell’utilizzo delle nuove tecnologie, al fine di aumentare la sensibilità dei
sistemi diagnostici utilizzati e soprattutto
per rendere il risultato dei singoli dosaggi
più aderente alla realtà clinica e patologica
del paziente. Pertanto si potranno applicare anche nel campo dell’immunologia della
tubercolosi questi indirizzi procedurali:
colture cellulari con e senza stimolazione
antigenica; dosaggio di mediatori e recettori solubili nel sovranatante delle stesse
colture; studio delle citochine intracitoplasmatiche o mediante l’analisi dell’mRNA
specifico – ibridizzazione in situ- o mediante citofluorimetria; ampliamento delle
applicazioni della citofluorimetria: studio
dei recettori specifici di superficie per citochine, chemochine o altri mediatori sulle
cellule immuni, tipizzazione Th1 / Th2.
Un ulteriore settore di studio, nell’ambito dell’interazione microrganismo-ospite, riguarda la risposta immune ai diversi
antigeni micobatterici, la regolazione genica di questi e pertanto una conoscenza
più compiuta del genoma batterico: questi
temi saranno in un prossimo futuro prioritari, soprattutto per la preparazione
di nuovi e più efficaci vaccini, rispetto
all’ormai datato BCG, il cui allestimento
non potrà prescindere da conoscenze e
tecniche di genetica e biologia molecolare: un’approccio che è soprattutto una
risposta e una probabile soluzione ad un
problema di salute pubblica ormai “globalizzato”44.
Siamo consapevoli che non tutte queste indagini porteranno contributi validi
ed utilizzabili nella pratica per gestire
il paziente tubercolotico nel suo assetto
immunologico o fare opera di prevenzione:
tuttavia, per rispondere coerentemente
alle domande e alle osservazioni poste
nell’introduzione, la ricerca di base deve
ripercorrere vecchie strade e individuarne
di nuove, tenendo presente la necessità di
F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare
affrontare in pratica un enorme problema
di sanità internazionale con cui noi e chi ci
seguirà avrà a che fare, in futuro, ancora
a lungo: paghiamo a caro prezzo errori di
sottovalutazione compiuti negli ultimi decenni, sia nei paesi cosiddetti evoluti che
in quelli in via di sviluppo (molti dei quali,
anche in campo sanitario, eternamente
tali), nonchè la miopia nel non saper prevedere la diffusione su scala mondiale di
vecchi e nuovi microrganismi.
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Richiesta estratti:
Dr. Francesco Belli
Via F. Massi, 12
00152 - Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
Gestione e organizzazione sanitaria
TRAINING PER MEDICI ED INFERMIERI PER PREVENIRE
LA SINDROME DEL BURNOUT E LO STRESS
INDIVIDUALE: I GRUPPI BALINT
TRAINING FOR HEALTH DOCTORS AND NURSES
TO PREVENT BURNOUT SYNDROME
AND INDIVIDUAL STRESS: BALINT GROUPS
PAOLA CIURLUINI1, DANIELA AIELLO2, ROBERTO BUCCI3
1
U.O. di Psicologia Clinica Area Oncologica, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini;
2
Centro Adolescenti A.I.E.D.; 3Psicoterapia di Gruppo C.O.I.R.A.G, Roma
Parole chiave: Gruppi Balint. Oncologia. Sindrome da burnout
Key words: Balint Groups. Oncology. Burnout syndrome
Introduzione
L’utilizzo di Gruppi Balint nella formazione degli operatori sanitari nasce in
primo luogo per favorire una più facile
comunicazione riguardo i casi di difficile
gestione, in modo da comprendere le ragioni delle difficoltà nel rapporto con il
paziente e favorire l’empatia nella relazione terapeutica. Attualmente questo tipo
di intervento dimostra di essere efficace
nella prevenzione dei disturbi del burnout1
al quale sono significativamente esposti
gli operatori delle cosiddette “professioni
d’aiuto”. Numerose ricerche2,3,4 stimano
attorno al 60% il numero di professionisti,
medici ed infermieri, che nella loro carriera soffrono di disturbi legati a tale sindrome dal momento che si trovano ad operare
a stretto contatto con la malattia. Gli operatori che sono affetti da tale sindrome,
studiata da Maslach5, consistente in una
reazione cronica alla tensione emotiva,
perdita progressiva di energia e scopi nella
loro professione, dichiarano sensazioni di
esaurimento emotivo, spersonalizzazione e
riduzione delle capacità personali. Inoltre
insorgono disturbi del sonno e gastro-intestinali, cefalee, difficoltà sessuali, depressione e in alcuni casi si determina un vero
e proprio abuso di alcool e di psicofarmaci.
Recenti ricerche hanno posto l’accento su
un aumento del rischio di incorrere in disturbi cardiovascolari6.
Come reazione alla sofferenza vengono
messi in atto meccanismi psicologici di difesa che “allontanano” il dolore provocato
dalla relazione con il paziente: un tipo di
reazione è quello della “burocratizzazione”
del proprio lavoro utilizzando un modello lavorativo stereotipato con procedure
standardizzate e rigide; un’altra possibilità è la “fuga” ricorrendo all’aspettativa,
alle ferie, alla malattia. Tali strategie
non sono adeguate in quanto non portano
al superamento delle difficoltà; inoltre,
provocano un peggioramento della prestazione professionale ed una diminuzione
dell’autostima. I professionisti che soffrono di tali disturbi perdono gradualmente i
sentimenti positivi verso la propria utenza
e subentra in loro un atteggiamento cinico
riguardo la sofferenza.
Nei professionisti che lavorano in ambito oncologico, oltre al rischio di burnout,
si segnala anche il rischio di incorrere in
disturbi psichiatrici: la loro prevalenza si
stima attorno al 30% come attestato da
ricerche in Italia7 e nel Regno Unito8.
I Gruppi Balint prendono nome dal
fondatore Michael Balint, medico e psicoanalista di origine ungherese. Essi vennero
132
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
avviati in Ungheria e, successivamente, si
svilupparono a Londra negli anni ‘50 del
secolo scorso attraverso il lavoro congiunto di Balint e di sua moglie Enid. Essi nacquero come seminari di ricerca e di addestramento per sensibilizzare i colleghi alle
componenti interpersonali della terapia
medica e si basavano su due convinzioni
del fondatore:
1) il medico è il farmaco principale del
paziente;
2) nella relazione medico/paziente si producono sofferenze ed irritazioni che
possono essere risolte9.
Balint maturò l’idea che l’incontro in
gruppo tra colleghi potesse essere utile
a condividere l’esperienza lavorativa ed
ottenere un sostegno psicologico.
Il gruppo, come strumento di formazione, permette di convogliare in un luogo
ed in uno spazio definiti, le dinamiche, i
vissuti e le risposte affettive che si sono
verificate nella relazione con il paziente e
ne consente la loro elaborazione: i problemi presentati da un singolo nella gestione
di un caso vengono così chiariti attraverso
l’esperienza degli altri partecipanti.
All’interno del gruppo si partecipa ad
un lavoro comune nell’operare sul controtransfert manifesto dell’operatore, cioè sul
«modo in cui il medico utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, i
suoi modi di reazione automatici»10. Come
riferisce Agresta11, per Balint la crescita
professionale dell’operatore avviene grazie alla comprensione della sua risposta
controtransferale al paziente. Ciò è di centrale importanza al pari della sua capacità
tecnica e delle sue conoscenze scientifiche:
infatti coloro che vengono formati secondo
questi criteri sono in grado di acquisire
nuove capacità professionali nell’utilizzo
della relazione con il paziente migliorando
così la compliance nelle cure mediche.
Le sessioni di un Gruppo Balint durano 90 minuti, costituite da un gruppo
di 10-15 “protagonisti” che siedono in un
cerchio al centro della sala. Uno di loro si
offre di esporre un caso clinico nel quale
ha incontrato delle difficoltà e questo caso
viene discusso insieme agli altri membri
con l’aiuto dei due conduttori del gruppo,
in genere psicologi psicoterapeuti. Al di là
del cerchio dei “protagonisti” ci sono altri
partecipanti che hanno una funzione di
“coro” e possono intervenire nella seconda metà della seduta. In una giornata si
svolgono solitamente quattro sessioni e al
termine viene svolta un’analisi del lavoro
per comprendere le dinamiche che si sono
verificate. Generalmente l’attenzione viene focalizzata su diversi livelli:
a) il genere di difficoltà interiori, relazionali, familiari, sociali che si possono dedurre o interferire con le comunicazioni
del paziente;
b) sulle modalità stesse secondo le quali
egli si presenta e chiede aiuto: atteggiamento, postura, tono della voce, tipo
di linguaggio, capacità di esprimere
emozioni;
c) sul “vissuto”del medico e sulle modalità
con le quali egli risponde al paziente
attraverso modalità inconsce;
d) sui movimenti cognitivo-emozionali che
si attivano nel gruppo dei partecipanti
durante la discussione;
e) il gruppo che si fraziona schierandosi su
diverse posizioni rappresenta le parti diverse della mente del paziente, parti che
possono essere anche non comunicanti
fra loro o in conflitto e che il conduttore
avrà il compito di mettere in evidenza in
quanto dinamiche di gruppo12.
I Gruppi Balint sono gruppi etero-centrati nel senso che il loro focus è “al di fuori”
della situazione formativa stessa, essi sono
orientati verso il paziente e quindi si occupano di comprendere dinamiche esterne al
gruppo (a differenza dei gruppi terapeutici
che invece si focalizzano sulle dinamiche
tra i partecipanti del gruppo). Il “là e allora” della relazione vissuta direttamente
si riattualizza nel “qui ed ora” del gruppo
attraverso il caso presentato: questa creazione di un legame tra passato e presente
genera un flusso dinamico di gruppo che
favorisce il cambiamento intrapsichico di
ogni partecipante. L’operatore acquisisce
uno strumento terapeutico in più in quanto
apprende dall’esperienza quale è la “giusta
distanza emotivo-affettiva” che è utile per
operare efficacemente nel proprio campo:
né “fuso” con i vissuti del paziente né “staccato” difensivamente da essi, ma capace
di identificarsi con l’esperienza di chi si
ha di fronte, riuscendo anche a sottrarsi
all’identificazione per vedere il problema
P.Ciurluini et al.: Training per medici ed infermieri per prevenire la sindrome di burnout
dall’esterno. L’operatore apprende quella
che viene definita una funzione di “Io osservante” la quale aiuta a comprendere cosa sta avvenendo nella relazione per agire
nell’interesse del paziente13.
De Luca14 descrive come la richiesta di
formazione del personale che opera in oncologia sia percepita sempre con maggiore
frequenza in quanto il cancro, con la sua indeterminatezza nelle cause, attiva fantasie
molto primitive e persecutorie che richiedono con urgenza un supporto psicologico per
poter meglio fronteggiare le angosce identificatorie nella relazione. In tale contesto il
rischio di burnout è elevato per il curante
che si trova ad affrontare situazioni-limite
come il rischio di morte del proprio paziente
indipendentemente dalla correttezza del
proprio operare15, condizione che provoca
vissuti di impotenza. Ci si trova a convivere
con il dolore dei pazienti e contemporaneamente si provano forti vissuti di rabbia per
le incertezze riguardo la prognosi o per la
mancata compliance del malato. Questa
situazione espone il curante a ferite narcisistiche e sensi di colpa che risultano di difficile gestione, senza uno spazio adeguato per
la loro condivisione e comprensione.
Secondo Carbone16 e Comazzi17 il Gruppo Balint si pone come strumento appropriato per occuparsi degli aspetti psichici
nella relazione con i pazienti con disturbi
somatici ed è, quindi, un metodo efficace
per l’equipe che lavora in oncologia.
Metodologia e casistica
Le prime esperienze di formazione di
Gruppi Balint all’interno dell’Ospedale
S. Camillo Forlanini iniziano ad essere
realizzate nel 1989 dall’ Unità Operativa
Dipartimentale di Psicologia Oncologica,
diretta dalla Dott.ssa Paola Ciurluini.
I primi destinatari sono stati 14 allievi
infermieri iscritti al Corso Regionale di specializzazione in Oncologia. Tale formazione
era articolata in incontri settimanali di 90
minuti. Successivamente nel 2002 i Gruppi
Balint sono stati attivati per 24 medici ed
infermieri della 5° e 6° Unità Operativa di
Pneumoncologia attraverso incontri settimanali fuori orario di servizio. In seguito,
tali gruppi Balint si sono organizzati per
133
12 volontari dell’ARVAS prima dell’inizio e
durante la loro assistenza volontaria a tali
pazienti. Tutti gli incontri settimanali sono
stati condotti per un anno.
Durante questo percorso sono stati discussi casi clinici al fine di migliorare la
comunicazione e la relazione tra operatori,
il paziente e la sua famiglia, in modo da
realizzare una presa in carico complessiva
dei vari livelli della malattia.
Risultati
Durante gli incontri, grazie all’attivarsi
delle dinamiche di gruppo, sono emerse a
carico degli operatori sanitari emozioni e
sentimenti come la rabbia, la sfiducia e lo
scoraggiamento. Questi nascevano dalla
sensazione di essere incapaci di fornire un’assistenza adeguata per l’eccessivo
coinvolgimento emotivo e dalla difficoltà
che ogni membro incontra nel gestire la
relazione con i malati, dall’incertezza nel
modo di rapportarsi con loro, dalla ricerca
di “conferma” o “disconferma” di qualche
loro atteggiamento assunto. L’aver condiviso tali difficoltà in gruppo ha consentito
la possibilità di “metabolizzare” le ansie,
le fantasie e le angosce di morte portate
dai singoli: il setting del gruppo consente
la formazione di un pensiero partendo da
elementi sensoriali ed emozionali, differenziando il conscio dall’inconscio18.
L’equipe terapeutica prima dell’intervento formativo si è trovata ad esperire
forti frustrazioni dovute alla mancata
compliance da parte di alcuni pazienti che
avevano abbandonato le cure palliative.
La comprensione delle dinamiche emotive che avevano provocato la “rottura”
nel rapporto terapeutico con l’equipe, ha
permesso il ristabilirsi dell’empatia nella
cura del paziente.
Abbiamo osservato che la percentuale di
successo ottenuta nel gestire la relazione
con il malato ottenuta dagli allievi infermieri era nettamente inferiore al 40%, rispetto
all’85% dei medici ed infermieri della V° e
VI° Unità Operativa di Oncopneumologia e
al 75% dei volontari dell’ARVAS.
Questi dati possono trovare la loro spiegazione nel fatto che la giovane età degli
allievi infermieri, e la totale mancanza di
134
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
esperienza in questo campo, rendeva più
arduo l’impatto con tale tipo di malattia.
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Conclusioni
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Br J Cancer 2008; 98: 1046-52.
Come sottolineato da Barbaro e Tafuri e da Ciurluini et al.20,21 i professionisti
che operano in oncologia necessitano di un
training adeguato di formazione e specializzazione in Psiconcologia che consenta
loro di realizzare uno spazio interno per
comprendere gli affetti, riconoscere ed
affrontare il dolore personale, “i costi emotivi” implicati nelle relazioni, gli effetti benevoli o avversi dell’azione d’aiuto. In base
alle esperienze formative effettuate nelle
U.O. dell’ Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini riteniamo che l’utilizzo dei
Gruppi Balint sia una valida modalità per
depotenziare le fonti di stress psicologico e
per incrementare le capacità professionali
dell’equipe curante in merito alla relazione terapeutica con il paziente. Il risultato
considerevole della formazione è stato
quello di prevenire la sindrome di burnout
nel personale attraverso la gestione dello
stress psicofisico e il sostegno realizzato
dal lavoro in gruppo. Con i colleghi è stato
possibile, infatti, continuare a fortificare
l’opera di assistenza al paziente, migliorando la comunicazione verbale e non
verbale e i rapporti interpersonali tra operatori il paziente e la sua famiglia.
8. Ramirez AJ, Graham J, Richards MA, et al.
Burnout and psychiatric disorder among cancer
clinicians. Br J Cancer 1995; 71: 1263-9.
19
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Richiesta estratti:
Dott.ssa Paola Ciurluini - E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008
Recensione
OSSERVAZIONI IN LIBERTÀ SU UN VECCHIO
TESTO DI PNEUMOLOGIA (1938)
Un vecchio testo di Pneumologia, sfuggito al macero durante alcuni lavori di
riorganizzazione della Biblioteca del Forlanini, invita a una revisione critica comparativa con l’attualità di questa branca
specialistica.
Si tratta di “ Quelques vérités premières
(ou soi-disant telles) en Pneumologie clinique” di Emile Sergent autorevole esponente della Pneumologia di quell’epoca (edito
da Masson nel 1938).
Già il titolo appare piuttosto intrigante
in quanto le verità primarie in Pneumologia clinica sono affermate come “sedicenti
tali” cioè di verità primarie per l’oggi (di
allora!) ma destinate ad essere superate
o addirittura negate nel futuro. Non è frequente oggi il richiamo alla “labilità” della
conoscenza scientifica da interpretare più
come un processo in fieri che come un dogma immutabile.
Ovviamente il testo è datato: esso è
ricco di osservazioni comparative e minuziose rispetto alla malattia “monstre”
dell’epoca e cioè alla TBC: tutti gli aspetti
più raffinati delle varianti cliniche, della
diagnosi differenziale, delle complicanze
della terapia pneumotoracica e dei versamenti pleurici tubercolari sono analizzati
in dettaglio e con profondo acume critico
ma sono oggettivamente ridondanti oggi,
tanto più in un testo di sole 81 pagine.
Ma il metodo di analisi critica è affascinante, cosi che, ad un certo punto, fa dire
all’Autore che il problema della diagnosi,
da parte del clinico, è analogo a quello di
un giudice istruttore nel processo penale,
nella cui attività vengono privilegiate le
osservazioni oggettive senza idee preconcette e con una totale imparzialità .....(?).
È abbastanza ovvio, per l’epoca, che la
raccolta dell’anamnesi e l’attento esame
clinico, nonché i dati della radiologia toracica “semplice”, come si andava affermando tra le due guerre, rappresentino il
fulcro delle osservazioni metodologiche e
critiche dell’autore. Molto interessante è
però vedere come siano trattate le grandi sindrome cliniche. Per quanto attiene
l’asma bronchiale il concetto di distonia
neuro vegetativa con alterato rapporto vago/simpatico è alla base della discussione
patogenetica e non viene fatto cenno, come
naturale per l’epoca, della natura flogistica della malattia. È molto interessante
però notare che anche settant’anni fa il
ruolo unitario del sistema respiratorio in
un paziente asmatico o bronchitico cronico
trovava un riflesso nelle osservazioni puntuali e precise dell’Autore quando invocava l’analisi attenta dei disturbi rinitici
e faringei come elementi iniziali e spesso
risolutivi per la diagnosi dei complessi
fenomeni della bronchite e dell’ asma. Si
tratta di una brillante anticipazione dell’
odierna sindrome rino-sinu-tracheo-bronchiale.
Per la bronchite cronica l’Autore identifica come cause primarie la tubercolosi e
la sifilide (?) e come cause meno frequenti
136
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008
le micosi polmonari, l’azione dei gas bellici
e l’esposizione professionale a polveri o
gas irritanti come avveniva nei carbonai,
nei minatori e negli autisti, con una evoluzione frequente verso la silicosi.
È anche piuttosto sorprendente che,
nell’analisi delle cause della bronchite
cronica, non si faccia cenno, neanche di
sfuggita, al fumo di sigaretta: eppure a
quell’epoca il fumo, come possiamo constatare guardando qualche vecchio film degli
anni ‘30, era molto diffuso, non solo tra le
persone abbienti, ma anche nel ceto intermedio e negli operai. Verosimilmente, era
proprio la estrema diffusione di questa
abitudine e a far distogliere l’attenzione
sull’importanza del fumo nella genesi della bronchite cronica e, se mi è consentita
un’ipotesi più maliziosa, riterrei che Ser-
gent, come tanti medici dell’epoca (ma non
solo di allora!), fosse un fumatore.
Per quanto attiene al cancro del polmone l’Autore fa un’osservazione che potremmo ritenere ancora oggi attuale: di
fronte all’aumento dei casi e di fronte alle
obiezioni di coloro che dicevano che non
si trattava di una crescita reale ma di un
fenomeno dovuto all’affinamento delle diagnosi, Sergent obietta che, a suo avviso, si
tratta di una crescita reale in termini assoluti. Ma fra le cause che cita come momenti eziologici del cancro del polmone Sergent
cita solo il pulviscolo delle strade asfaltate
e l’azione dei profumi ... (?); (il fumo di sigaretta è ancora il grande sconosciuto!!)
Giovanni Schmid