ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 Direttore FRANCO SALVATI Comitato di Redazione ALFONSO ALTIERI, FRANCESCO BELLI (Redattore capo), MAURO CALVANI, GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO MATTIA, GIOVANNI MINARDI (Coordinatore), MAURIZIO MORUCCI, FABRIZIO NESI, BRUNO NOTARGIACOMO, SERGIO PILLON, ELIO QUARANTOTTO, MAURIZIO RUSSO, PIETRO SACCUCCI, MICHELE SCOPPIO, GIANDOMENICO SEBASTIANI, ALESSANDRO SEVERINO Segreteria di Redazione: RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA Comitato Scientifico-Editoriale Coordinatore ROBERTO CANOVA LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, DONATO ANTONELLIS, MARCELLO ASSUMMA, GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BIANCO, FRANCO BERTI, PIETRO BORMIOLI, PIO BUONCRISTIANI, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA, ALBERTO CIANETTI, MASSIMO CICCHINELLI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, EUGENIO DEL TOMA, FILIPPO DE MARINIS, LORENZO DE MEDICI, CARLO DE SANCTIS, SALVATORE DI GIULIO, GIUSEPPE DI LASCIO, CLAUDIO DONADIO, VITTORIO DONATO, ALDO FELICI, LAURA GASBARRONE, GIAMPIERO GASPARRO, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, LUCIA GRILLO, MASSIMO LENTINI, ANNA LOCASCIULLI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA, LUCIO MANGO, EMILIO MANNELLA, LAURO MARAZZA, MIRELLA MARIANI, MASSIMO MARTELLI, ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO, FRANCESCO MUSUMECI, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI, VINCENZO PETITTI, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, LUCA PIERELLI, COSIMO PRANTERA, GIOVANNI PUGLISI, GIORGIO RABITTI, SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, EUGENIO SANTORO, GIOVANNI SCHMID, CIRIACO SCOPPETTA, FABRIZIO SOCCORSI, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO, PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, CLAUDIO TONDO, MIRELLA TRONCI, ROBERTO VIOLINI Segreteria: GIOVANNA DE PAOLA Società Editrice Universo R OMA Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma Direttore Generale: Luigi Macchitella Direttore Sanitario: Fulvio Forino Direttore Amministrativo: Roberto Noto Società Editrice Universo R OMA Abbonamenti 2008 Italia: istituzionali € 100,00; privati € 73,00 Estero: istituzionali € 200,00; privati € 146,00 Il prezzo di ogni fascicolo (solo per l'Italia) è di € 20,00, se arretrato € 40,00 Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie rivolgersi a Società Editrice Universo s.r.l., Via G.B. 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Giustino (PG) I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 Contenuto EDITORIALE La migrazione di professionisti della salute dai Paesi poveri ai Paesi ricchi: è possibile fermare il "brain drain"? C. RESTI, V. RACALBUTO Health professionals migration from poor to rich Countries: can we halt the brain drain? ARTICOLI ORIGINALI La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno: analisi epidemiologica di pazienti della U.O. Insufficienza respiratoria e riabilitazione dell'ospedale Forlanini S. CUOZZO, A. PROPATI, M. VITTO, D. NERVINI, C. SCHIAVONI, F. BENASSI Sleep apnea syndrome: epidemiologic analysis of a group of patients of department of respiratory insufficiency and rehabilitation, Carlo Forlanini hospital Analisi dello stress nella professione infermieristica in Unità operative critiche e di emergenza R. GORIO, C. CARDUCCI, E. MENICHETTI, B. MERCURIU, M. MERCURIU Stress and burnout evaluation in nurses involved in critical and emercency units CASO CLINICO Scintigrafia dello scheletro in un caso di sindrome di McCune-Albright A.M. MANGANO, F. FLORE, A. SEMPREBENE, V. MIELE, L. MANGO Scintigraphy whit 99mTc-MDP in McCune-Albright syndrome: case report RASSEGNE Clinical governance dello scompenso cardiaco nell'anziano: approccio multidimensionale a una patologia complessa G. PULIGNANO, D. DEL SINDACO, G. PALOMBARO, M. SORDI, H. PAVACI, G. MINARDI, E. GIOVANNINI Clinical governance for heart failure in elderly patients: multidimensional approach for a complex disease L'evoluzione della risposta immune nel corso della storia naturale o terapeuticamente modificata nell'infezione tubercolare F. BELLI Development of immune reaction during natural history or therapeutic changes in tubercular infection GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA Training per medici ed infermieri per prevenire la sindrome del burnout e lo stress individuale: i gruppi balint P. CIURLUINI, D. AIELLO, R. BUCCI Training for health doctors and nurses to prevent burnout syndrome and individual stress: balint groups RECENSIONE Osservazioni in libertà su un vecchio testo di Pneumologia (1938) G. SCHMID 77 83 90 97 103 113 132 135 “La Rivista è stata selezionata da ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS” COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE, FLUIDEX E WORLD TEXTILES www.scamilloforlanini.rm.it ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 Editoriale LA MIGRAZIONE DI PROFESSIONISTI DELLA SALUTE DAI PAESI POVERI AI PAESI RICCHI: È POSSIBILE FERMARE IL “BRAIN DRAIN”? HEALTH PROFESSIONALS MIGRATION FROM POOR TO RICH COUNTRIES: CAN WE HALT THE BRAIN DRAIN? CARLO RESTI1, VINCENZO RACALBUTO2 U.O. Sanità Internazionale e Cooperazione, Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma; 2UTC DGCS, Ministero degli Esteri 1 Parole chiave: Risorse umane in sanità. Obiettivi di Sviluppo per il Millennio. Salute globale. Brain drain Key words: Human Resources for Health (HRH). Millennium Development Goals (MDG). Global health. Brain drain Le risorse umane in sanità (HRH) rappresentano il cuore dei sistemi sanitari di tutto il mondo ed oltre ad essere il “collante” essenziale che tiene insieme il sistema di erogazione dei servizi, costituiscono la risorsa più preziosa e dispendiosa del sistema, come in tutte le organizzazioni “knowledge-based”. Oggi si parla di “crisi globale” di risorse umane perchè secondo le stime della Joint Learning Initiative, mancano circa 4 milioni di operatori sanitari nel mondo di cui un milione solo nell’Africa Subsahariana, che risulta così essere l’area del pianeta dove vi sono meno operatori sanitari per abitante. L’OMS ha lanciato l’allarme e lo ha fatto dedicando il World Health Report 2006 alla crisi di professionisti della salute nel mondo lanciando la decade 2006-2015 per le risorse umane in sanità1. Oltre al gioco di numerose e complesse forze e fattori che spingono medici ed infermieri a migrare dai paesi poveri a quelli ricchi o più semplicemente ad abbandonare il settore pubblico per quello privato (fenomeno assai evidente anche in Italia ed accentuatosi negli ultimi anni), hanno avuto un ruolo storico alcuni fatti inequivocabili che hanno modellato i sistemi sanitari di tutto il mondo verso il libero mercato e lo smantellamento dei pochi sistemi di “welfare”2. Il numero degli operatori sanitari è sempre stato storicamente inadeguato, anche se negli ultimi anni molti paesi hanno incominciato a registrare carenze di quasi tutte le professionalità (ad es. medici in Africa subsahariana, infermieri in Italia e Regno Unito). In primo luogo la formazione di operatori sanitari non ha tenuto il passo, in generale, con l’aumento della domanda di servizi causata, tra l’altro, dall’invecchiamento della popolazione nei paesi ricchi e da nuove sfide al sistema nei paesi poveri, costituite dal “proclama” dei Millennium Development Goals e dalla necessità di incrementare l’accesso ai trattamenti antiretrovirali nella lotta all’ AIDS. In secondo luogo, le HRH, per tanti anni sono state la “componente negletta” per eccellenza nello sviluppo dei sistemi sanitari, nelle grandi Riforme del sistema in tutti i Paesi del mondo. Basti pensare solo al sottofinanziamento dei sistemi pubblici ed al taglio della spesa 78 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 per il personale causato dai Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAP) che si sono abbattuti su quasi tutti i Paesi a risorse limitate3. Si parla così sempre più spesso di aumento dell’ “attrition rate” del personale sanitario (percentuale di operatori che abbandona il sistema sanitario pubblico) e che oltre alla cause distali sopra citate ha anche cause piùprossimali e spesso “fisiologiche”, come il pensionamento, l’abbandono della professione, la malattia e la morte, sempre di piùcausata da HIV AIDS, nei paesi poveri4. In tutti i paesi del mondo, il reclutamento e la formazione di personale medico avvengono a ondate, non sempre ben sincronizzate. Questi squilibri, più o meno prolungati, creano una pesante disoccupazione in alcuni paesi, mentre in altri le autorità sanitarie utilizzano medici stranieri che vanno a cercare lavoro sempre più lontano. Questa globalizzazione di professionisti della salute si traduce in un trasferimento netto di medici dal Sud al Nord - con un costo annuo valutato intorno ai 500 - 600 milioni di dollari. Una vera e propria forma di apartheid sanitaria Negli Stati Uniti, il 23% della classe medica ha una laurea presa all’estero; nel Regno unito quasi il 20% dei medici è asiatico. I paesi arabi del Golfo contano un pò più di 25.000 medici, provenienti in maggioranza dal subcontinente indiano. Tuttavia le migrazioni Sud-Sud sono, in genere, temporanee e si crea un passaggio di risorse che transita via via 1- dalle aree rurali a quelle urbane, 2- da paesi molto poveri a paesi meno poveri e 3- da questi a paesi industrializzati del mondo occidentale. Si descrive così una immaginaria cinghia di trasmissione (“conveyor belt”) che trasporta, drenandole, risorse professionali partendo dalle aree rurali dei paesi poveri e terminando nella sanità urbana dei paesi ricchi5. Le conseguenze di questi “salassi” sono economicamente rilevanti, ma sfuggono ad un semplice inquadramento del problema che li definisca semplicemente come “fuga” o “furto” di camici bianchi. Ad esempio, dei 1.200 medici formati nello Zimbabwe durante gli anni ‘90, soltanto 360 lavoravano nel loro paese nel 2000; la metà dei medici formati in Etiopia, Ghana e Zambia sono emigrati. Attualmente si formano in Etiopia meno di 200 medici all’anno in solo 5 Università. Ebbene, circa 2/3 abbandonano il paese per cercare “pascoli più verdi”! La carenza di personale infermieristico, anche in alcuni paesi del mondo ricco, è ancora maggiore. Nel 2000, il Ministero della Sanità britannico ha assunto più di 8.000 infermiere e ostetriche non originarie dell’Unione europea, le quali si sono aggiunte alle 30.000 loro colleghe straniere già impiegate negli ospedali pubblici e privati. Le proiezioni fatte negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna per il 2010, parlano di un deficit di svariate decine di migliaia di diplomati. Negli Stati Uniti, ad esempio, si stima il bisogno di assistenza di un milione di infermieri in più entro il 2010. Costituisce già un mercato di grande attrazione in quanto gli infermieri che lavorano negli USA, con un salario annuale medio di 65,000 USD, risultano i meglio pagati nel mondo2. Del resto dobbiamo pensare ed ammettere che la scienza si è sviluppata grazie alla circolazione e alla “cross fertilization” di uomini e di idee; la medicina non fa eccezione. Un tempo, i medici studiavano nelle prestigiose scuole di Alessandria d’Egitto, Bologna e Padova, Montpellier, Heidelberg. Hanno poi viaggiato, un pò come facciamo noi adesso con molta più facilità, in tutto il mondo. A partire dalla rivoluzione microbiologica di Pasteur, hanno percorso il globo da Nord a Sud e hanno dato vita alla medicina tropicale. Ma questa migrazione e globalizzazione di professionisti non nasce solo dalla povertà, da imperativi di sopravvivenza o dall’evoluzione dei comportamenti. Nasce prima di tutto dalla convinzione che i C. Resti, V. Racalbuto: La migrazione di professionisti della salute dai paesi poveri ai paesi ricchi. paesi del Nord siano in grado di offrire ai professionisti qualificati un tenore di vita e possibilità di carriera all’altezza delle loro competenze. C’è forse di che stupirsi se, grazie alla facilità di spostarsi in aereo e di accedere ad internet consentendo di proporre il proprio expertise sul mercato mondiale della salute, molti nostri colleghi africani, cercano migliori opportunità di lavoro e di carriera all’estero? La migrazione di professionisti desiderosi di migliorare la propria professionalità e la propria condizione socioeconomica continuerà ad avvenire, almeno finchè rimarranno discrepanze enormi nei salari (da 10 a 20 volte inferiori, a parità di potere d’acquisto) rispetto a quelli dei paesi sviluppati; finchè rimarranno diffuse pessime condizioni e carichi di lavoro, soprattutto nelle zone rurali e densamente popolate; finchè non migliorerà considerevolmente la gestione del personale e le opportunità di accesso all’aggiornamento e allo sviluppo professionale. In molti casi, al Sud (ad es.Eritrea ed Etiopia, dove la Cooperazione italiana e la Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini sono presenti con programmi di cooperazione ospedaliera e di appoggio al piano sanitario nazionale, non fanno eccezione) vi sono troppi e complessi fattori condizionanti il “brain drain”. “Brain drain”: fuga o furto? L’instabilità del panorama politico e macroeconomico, i pregiudizi etnici, le insoddisfazioni professionali (burocrazia opprimente, ritardi nei pagamenti, isolamento e mancanza di supporto e supervisione), il divario tra ciò che si è imparato (ancora troppo spesso orientato ai problemi e alla cura delle malattie tipiche del mondo occidentale) e ciò che si può e si dovrebbe fare, le preoccupazioni di dare un futuro, non solo d’istruzione, ai propri figli, sono spesso fattori che superano in importanza il mero calcolo economico. I motivi per i quali un medico perde il gusto di esercitare la professione nel proprio paese sono davvero complessi. Uno di questi, spesso ignorato e che riguarda sia il Nord che il Sud, dipende dalla percezione, in crisi 79 persistente, che il medico ha della propria professione. La crisi del NHS inglese e la carenza di “vocazioni” nel sistema è soltanto uno degli esempi. La visione di una medicina vincente e dell’elevato status sociale di cui godeva il medico in passato è sicuramente venuta meno. Questa idea, spesso alla base della scelta professionale, diventa illusoria e genera frustrazione e rabbia quando i mezzi materiali vengono a mancare. Non potersi aiutare con qualche esame di laboratorio per fare una diagnosi, essere impossibilitati a somministrare il farmaco appropriato, non poter soddisfare le più elementari regole igieniche, dover trasferire una donna per un taglio cesareo a piùdi cento chilometri di distanza e senza disporre di un mezzo di trasporto funzionante, etc. è il destino di una buona parte del personale sanitario nei paesi a risorse limitate. Coloro che pensano ad emigrare si trovano quindi di fronte ad un dilemma: restare fedeli al proprio paese, o al loro compito professionale di medici? Risorse umane e MDGs Gli Obiettivi di Sviluppo per il Millennio (MDGs), tanto “globali” e rappresentativi quanto “immisurabili” e difficilmente raggiungibili entro il 2015 da molti paesi dell’Africa Subsahariana, stanno segnando il tempo ed il cammino nello sviluppo dei servizi per la salute nei paesi poveri6. Appare molto difficile che sistemi sanitari deboli, siano in grado di cogliere questi traguardi senza un adeguato numero di operatori sanitari motivati. In questo cambiamento, le risorse umane sono e saranno agenti attivi di cambiamento e vi sono evidenze che le risorse umane in sanità condizionino le performances dei sistemi sanitari. Una maggiore densità di operatori sanitari ed una migliore qualità ed organizzazione del lavoro, insieme ad altri ben noti determinanti della salute, contribuiscono a migliorare le condizioni di salute di una popolazione e la sopravvivenza. E costituiscono interventi prioritari per rafforzare i sistemi sanitari7. Così la densità di operatori sanitari in una popolazione può contribuire significativamente 80 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 nell’efficacia degli interventi per i MDGs. Ad esempio, il raggiungimento di una copertura vaccinale per il morbillo dell’80% ed una assistenza qualificata al parto sono enormemente aumentati quando la densità di lavoratori è superiore a 2,5 operatori sanitari per mille abitanti. Ben 75 paesi al mondo per un totale di 2 miliardi e mezzo di persone si situano al di sotto di questa soglia minima1,3. Al problema della scarsità di risorse si aggiunge quello della loro distribuzione ineguale tra paesi e tra regioni al loro interno. Sempre l’Africa Subsahariana possiede un decimo dei medici e degli infermieri per la sua popolazione rispetto all’Europa. L’Etiopia ha un cinquantesimo dei professionisti sanitari per abitante rispetto all’Italia. Ciascun paese deve adottare la sua strategia per aumentare la produzione di risorse umane adeguatamente formate che devono poi essere nella giusta misura impiegate, motivate ed incentivate a rimanere nel sistema per contribuire ai MDGs. In Etiopia è stata scelta una strategia di produzione e motivazione massiccia (“flooding and retention strategy”) di quadri manageriali / clinici intermedi per i distretti e gli Health Centres (Health Officers) e di operatori di primo livello (Health Extension Workers) entro il 20108. La Banca Mondiale, solitamente prolifica di studi celebrativi dei benefici dell’apertura dei mercati e di studi sul comportamento alla base delle scelte professionali, non ha presentato alcuna valutazione sui flussi finanziari prodotti dagli scambi di capitale umano. Si sa che esistono i flussi finanziari delle rimesse di chi lavora all’estero alle famiglie d’origine e che queste ammontano oggi a più dell’aiuto totale dei paesi donatori ogni anno. Ma quasi nulla di questi flussi (capitali privati) rientra nei servizi sanitari che soffrono così la deprivazione di operatori a causa delle migrazioni internazionali. All’interno di un’analisi critica della globalizzazione, l’Oms ha creato una commissione, «Macroeconomia e salute», destinata a proporre un piano innovati- vo d’investimenti. Sappiamo che nel loro rapporto i commissari hanno respinto l’argomento abituale secondo cui la salute migliora sicuramente grazie alla crescita economica. Investire in risorse umane diventa così una priorità e va ben oltre la dimensione finanziaria coinvolgendo infrastrutture, tecnologie adeguate, miglioramento della qualità delle prestazioni e delle condizioni di lavoro. È ormai convincimento diffuso che per raggiungere gli obiettivi bisogna agire anche sul potenziamento e la motivazione delle risorse umane, sull’armonizzazione ed il coordinamento dei donatori e sul miglioramento dei sistemi informativi sanitari9,10. Per rispondere agli obiettivi prefissati, il Fondo mondiale per la lotta contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi (GFATM) dovrà mantenere o costituire degli inquadramenti socio-sanitari capaci di gestire con efficacia le azioni previste, in particolare il follow up dei soggetti trattati con farmaci antiretrovirali. Il che si dovrebbe tradurre in rafforzamento dei servizi di base e formazione con delega di alcuni compiti chiave a figure intermedie del sistema e più facilmente addestrabili a bassi costi (“task shifting”)11,12. È possibile dunque porre rimedio al “brain drain”? La valutazione dei costi di formazione dei professionisti risulta per molti aspetti difficile e varia significativamente tra le diverse regioni del mondo. Risulta altrettanto difficile, inoltre, misurarne l’impatto sui sistemi sanitari e sullo sviluppo. Tuttavia, se si calcola che la formazione di un medico non specialista in un paese del Sud costa circa 60.000 dollari, circa 5 volte di più di quella del personale paramedico, si può avere una idea sia degli investimenti in formazione che vanno perduti quando il professionista migra, sia della convenienza che si ha nel formare personale paramedico con compiti e deleghe precise e rapportate ai reali bisogni di salute locali12. C. Resti, V. Racalbuto: La migrazione di professionisti della salute dai paesi poveri ai paesi ricchi. Si possono ipotizzare diverse soluzioni. Nessuna potrà però funzionare facilmente senza una strategia specifica per ciascuna realtà. A causa dei flussi transnazionali nel mercato del lavoro, delle conoscenze, dei finanziamenti internazionali, il successo delle diverse strategie nazionali dipende da un corretto rafforzamento delle politiche sanitarie a livello globale (global health). Una soluzione che è stata proposta a livello internazionale consiste in una compensazione economica versata dai paesi di accoglienza ai paesi che hanno garantito la formazione. Va però aggiunto che questa proposta diventa aleatoria in assenza di una legislazione o patto internazionale vincolante. I paesi d’origine possono anche rendere l’emigrazione più difficile, o differirla, imponendo prestazioni professionali obbligatorie prima del conferimento del diploma, oppure proponendo il blocco nel rilascio dei certificati o meccanismi di contratto obbligatorio. Tuttavia, vietare l’emigrazione non evita il degrado dell’assistenza medica e le decisioni legislative degli Stati di solito non incidono per nulla sulla spinta a emigrare. Un’altra soluzione comporta la rivalutazione culturale e sociale della funzione del medico e lo sviluppo di nuovi quadri sanitari adatti al contesto locale e soprattutto “cost-effective”8. La categoria medica, infatti, ha difficoltà a rispondere in modo effettivo alle necessità delle popolazioni del Sud, perché è stata formata secondo il modello universalista di una medicina curativa (modello occidentale o curriculum ospedalocentrico) che, fino a poco tempo fa, considerava ancillari o complementari discipline come l’epidemiologia, l’igiene e sanità pubblica, la gestione ed organizzazione di servizi sanitari, la programmazione sanitaria. Un modello di sanità pubblica privilegia la difesa della salute sulla cura della malattia e rivendica attenzione alle comunità più che all’individuo; prescrive un lavoro di squadra, con modalità multidisciplinari, per conciliare cura e prevenzione. Esige, infine, che l’ospedale - di cui usufruisce solo una minoranza - non venga più considerato l’unico luogo capace di garantire cure mediche di qualità. 81 Dal momento che i paesi del Sud non formano un insieme omogeneo, le strategie e le modalità di cooperazione dovranno tenere conto della diversità delle situazioni e delle necessità a breve o a lungo termine. Così, alcuni paesi (Cuba, Italia, Israele, Filippine) formano più medici di quanti non ne possano assumere. Altri, come USA, Canada, Australia e Regno Unito, ne formano un numero insufficiente rispetto alla proporzione medico/abitanti ritenuta accettabile. La soluzione all’emigrazione del personale sanitario non sta dunque in una limitazione della mobilità individuale. Ma forse in un incoraggiamento a muoversi in senso inverso! Una terza soluzione sembra aprire prospettive più appropriate ed è quella di ricercare il modo di invogliare il personale qualificato a rimanere o a reinserirsi nel proprio paese di origine, per correggere le diseguaglianze nell’accesso alle cure e anche per valorizzare gli investimenti effettuati nell’istruzione e nella sanità. Lo sviluppo delle nuove tecnologie, in particolare dell’informazione e della comunicazione, offre diverse possibilità come, per esempio, la creazione di corsi di formazione a distanza e la costituzione di reti interattive. Queste reti raggruppano gli espatriati e costituiscono una nuova forma di diaspora intellettuale e scientifica, il cui scopo è quello di suscitare collaborazioni NordSud, valorizzare sulla scena internazionale le attività dei colleghi e ricercare occasioni per un ritorno temporaneo o, meglio, permanente. Ristabilendo legami con la loro comunità di origine, gli espatriati, pur restando all’estero, sono in grado di contribuire allo sviluppo del proprio paese. Conclusioni Comunque vada, qualsiasi tipo di supporto o di soluzione presenta un rischio di inappropriatezza se non viene preceduta da una attenta analisi delle condizioni locali. Come da più parti sostenuto, il “brain drain” non può essere fermato, almeno nel breve termine, ma può essere gestito insieme da donatori e paesi beneficiari degli aiuti con interventi su larga scala. 82 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Sembra che nulla che non assomigli ad un “Piano Marshall” per le risorse umane, potrà aiutare davvero ad invertire la rotta e a tamponare la crisi. In Etiopia, negli ultimi due anni, grazie alla creazione di una “joint task force”* a livello ministeriale, con il contributo della Cooperazione italiana**, dell’OMS, della Banca Mondiale e della Johns Hopkins university, èstata condotta una approfondita analisi del problema ed e’stata suggerita una strategia da sviluppare attraverso appositi piani entro il prossimo decennio 2008/2017. La strategia verrà implementata secondo 5 sottoprocessi o aree che riguardano: 1) il management delle risorse umane in sanità, partendo dalla riorganizzazione del Dipartimento ministeriale e dalla ristrutturazione di una nuova base dati (human resources information system); 2) la riorganizzazione dei quadri e la loro distribuzione incluso il bisogno a medio e lungo termine ed il costo che include le proiezioni e tiene conto delle nuove carriere e meccanismi incentivanti; 3) lo sviluppo professionale in termini di strategie di formazione di base e continua , incluse le nuove tecnologie ICT per costruire la formazione a distanza e la telemedicina; 4) i pacchetti incentivanti sia finanziari che non finanziari e la loro applicazione nelle Regioni; 5) il nuovo quadro legislativo ed il meccanismo di mobilizzazione delle risorse per far fronte ai bisogni del Piano strategico per le risorse umane. Concludendo non bisogna dimenticare, che non basta rafforzare la leadership governativa e le scelte locali di governo del sistema di produzione ed impiego dei diversi quadri sanitari, ma occorre anche muovere la cosidetta “global solidarity” in modo coordinato ed efficace. L’OMS, ha suggerito con il Rapporto 20061 alcune linee guida finanziarie per * Human Resources Development Business Process ** Con la presenza di un esperto, dirigente medico dell’A.O. San Camillo - Forlanini, in lunga missione sostenere nel tempo uno sforzo coordinato per il rafforzamento dei sistemi sanitari attraverso la componente HRH. Nel quadro totale dei flussi finanziari relativi all’Aiuto allo Sviluppo, si raccomanda di adottare il principio del 50:50 (“fifty-fifty”). Cioè il 50% almeno degli aiuti volto direttamente al rafforzamento dei sistemi sanitari “in toto”, e di questo una buona metà dedicata al supporto dei piani di emergenza dei governi per lo sviluppo delle risorse umane in sanità. 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Overcoming health-systems constraints to achieve the Millennium Development Goals. Lancet 2004; 364: 900-06. 10. WHO. High level forum on the health MDGs. Geneva, World Health Organization, 2004. 11. Drager S, Gedik G, Dal Poz MR. Health workforce issues and the Global Fund to fight AIDS, Tubercolosis and Malaria: an analytical review. Human Resources for Health 2006; 4: 23. 12. Bluestone J. Task Shifting for a Strategic Skill Mix. The Capacity Project, technical brief June 2006; 5. Per richiesta estratti: Dott. Carlo Resti, Via Cassia, 603 Roma e mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 Articoli originali LA SINDROME DELLE APNEE OSTRUTTIVE NEL SONNO: ANALISI EPIDEMIOLOGICA DI PAZIENTI DELLA U.O. INSUFFICIENZA RESPIRATORIA E RIABILITAZIONE DELL’OSPEDALE FORLANINI SLEEP APNEA SYNDROME: EPIDEMIOLOGIC ANALYSIS OF A GROUP OF PATIENTS OF DEPARTMENT OF RESPIRATORY INSUFFICIENCY AND REHABILITATION, CARLO FORLANINI HOSPITAL STEFANIA CUOZZO1, ARMANDA PROPATI1, MICHELE VITTO1, DOMENICO NERVINI1, CLAUDIA SCHIAVONI2, FULVIO BENASSI1 1 U.O. Insufficienza Respiratoria e Riabilitazione, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini-Roma; 2Società Arkìdion srl, Roma Parole chiave: Apnea ostruttiva. Epidemiologia. Indice di massa corporea. Epworth scale Key words: Obstructive sleep apnea. Epidemiology. Body mass index. Epworth scale Riassunto. La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (OSAS) può essere considerata la più comune forma di disordine respiratorio notturno la cui prevalenza nella popolazione generale varia a seconda delle diverse indagini epidemiologiche riportate in letteratura. Gli autori hanno effettuato un’analisi di tipo osservazionale trasversale su 561 pazienti dell’ambulatorio del sonno della U.O. Insufficienza Respiratoria e Riabilitazione sottoposti a monitoraggio cardio-respiratorio completo al fine di valutare le correlazioni esistenti tra gravità della patologia, età, sesso, indice di massa corporea e sonnolenza diurna e confrontate con i principali lavori epidemiologici nazionali ed esteri. In questo lavoro sono stati analizzati i risultati ottenuti dall’analisi della prevalenza dell’OSAS per età e classi di età, sesso e classi di indice di apnea/ipopnea (AHI); si è inoltre valutata la relazione esistente tra valori di AHI, BMI, sesso e scala di Epwoth. L’analisi dei risultati del lavoro ha mostrato un sostanziale accordo con i principali lavori epidemiologici nazionali ed esteri confermando le principali distribuzioni epidemiologiche ed il ruolo della menopausa nel modulare la prevalenza della patologia e confermando inoltre il legame tra la patologia e la presenza di obesità e la validità della scala della sonnolenza di Epworth come test di screening. Abstract. Obstructive sleep apnea syndrome (OSAS) is the most common form of sleep disordered breathing (SDB). The prevalence of the disease in people depends on the different kind of epidemiological analysis made in international papers. In this paper the authors present their experience on 561 outpatients coming to the Department of Respiratory Insufficiency and Rehabilitation, Carlo Forlanini Hospital and submitted to a complete nocturnal cardiorespiratory monitoring in order to study the correlation among the degree of disease, age, gender, body mass index (BMI) and daily sleepiness and compare them with the main epidemiological national and international papers. The results coming from the analysis of the prevalence of disease according to age gender and different group of AHI, BMI, gender and Epworth scale (degree),were analysed. The results showed a basic agreement with the main epidemiological nationals and international papers confirming the main epidemiological distribution and the importance of menopause in the outcoming of the disease and confirming the link between the disease, obesity and usefulness of the Epworth scale as a screening test. 84 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Introduzione La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (OSAS) è la più comune forma di disordine respiratorio notturno (SDB)1. La sua prevalenza nella popolazione generale varia nelle diverse indagini epidemiologiche riportate in letteratura, probabilmente a causa delle modalità adottate nel selezionare la popolazione da sottoporre ad indagine polisonnografica notturna2,3,4, dal valore di AHI adottato5,6 e dal livello di gravità della sindrome7 e dalla caratteristiche somatiche delle differenti popolazioni8. In generale comunque si ritiene che la patologia interessi il 2% delle donne e il 4% degli uomini5,9,10. Nell’uomo presenta una maggiore incidenza tra i 50 ed i 60 anni5,9,11,12 e nelle donne dopo la menopausa13,16. Lo scopo del nostro studio è stato quello effettuare una analisi di tipo osservazionale trasversale, nell’ambito dei pazienti dell’ ambulatorio del sonno, al fine di valutare le eventuali correlazioni esistenti tra la patologia, età e sesso, indice di massa corporea, e scala della sonnolenza di Epworth e di confrontare i nostri risultati con i principali lavori epidemiologici nazionali ed esteri. ché risultati incoerenti all’arruolamento, 113 in quanto presentavano un valore di AHI inferiore a 5 (negativo); il campione si è quindi ridotto a 438 casi (321 maschi, con età compresa tra 23 e 84 anni; 117 femmine, con età compresa tra 34 e 81 anni). Il software utilizzato per l’analisi statistica è SPSS della SPSS inc.; sono stati utilizzati il test del χ2 di Pearson ed il test di normalità delle distribuzioni di Kolmogorov-Smirnov. Sono stati considerati significativi valori di p<0,05. Risultati Analisi della prevalenza dell’OSAS per età e sesso: l’analisi delle distribuzioni nel campione di riferimento evidenzia che la patologia si presenta prevalentemente dopo i 60 anni in entrambi i sessi (Fig.1, 2). Attraverso una analisi delle frequenze per classi di età, si è evidenziato come nella classe di età 55-75 sono concentrati il 60% dei casi per gli uomini ed il 70% per le donne. Tali valori diminuiscono nella classe di età successiva (Tab. 1 - 2 ). Materiali e Metodi Sono stati raccolti i dati relativi a 561 pazienti consecutivi afferenti, dal Febbraio 2003 al Dicembre 2005, all’ambulatorio del sonno U.O. Insufficienza Respiratoria e Riabilitazione dell’Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini, per effettuare un monitoraggio cardio-respiratorio completo nel sospetto diagnostico della sindrome delle apnee ostruttive nel sonno. Gli strumenti utilizzati sono stati apparecchi per il monitoraggio cardio-respiratorio completo (Poli-Mesam, Embletta, Medic Air, etc.). Per ogni paziente sono stati presi in considerazione i seguenti parametri: età; sesso; indice di massa corporea (BMI); indice apnea/ipopnea (AHI); scala per la sonnolenza di Epwort. Dei 561 casi, 10 sono stati scartati per- Fig. 1. Istogramma delle distribuzioni della prevalenza di OSAS per età negli uomini 85 S. Cuozzo et al.: La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno È stato calcolato il rapporto di mascolinità per classi di età, nella popolazione clinica e rispetto alla popolazione residente italiana al 2005, che nel nostro campione è risultato di 2,74. Dal momento che il rapporto M/F della comunità è risultato minore rispetto a quello clinico, tale valore è da attribuire alla patologia. Distribuzione prevalenza dell’OSAS per classi di AHI e sesso: la distribuzione per gli uomini evidenzia una prevalenza della forma più severa, il 30% dei casi tra la forma molto lieve e lieve e il 70% tra la forma moderata o grave (Tab. 3, Fig.3). Tabella 3. Distribuzione della prevalenza per classi di AHI - Uomini Fig. 2. Istogramma delle distribuzioni della prevalenza di OSAS per età nelle donne Tabella 1. Distribuzione per classi di età Uomini Distribuzione prevalenza Osas per età- Uomini Classi di Freq. Freq. Percent. età Relat. (%) su pop. <35 18 5,6 4,1 35-55 87 27,1 19,9 55-75 195 60,7 44,5 >75 21 6,5 4,8 Total 321 100 73,3 Missing 117 26,7 Total 438 100 Distribuzione prevalenza di OSAS per classi di AHI - Uomini Classi RDI Freq . Freq. Perc.su Rel(%) pop. Molto lieve 48 15,43 Lieve 41 13,18 11,29 9,65 Moderata Grave Molto grave 85 105 32 27,33 33,76 10,29 20,00 24,71 7,53 Total 311 100 73,18 Persi Total 114 425 26,82 100 Tabella 2. Distribuzione per classi di età Donne Distribuzione prevalenza Osas per età – Donne Freq. Classi di Freq. Percent. età Relat.(%) su pop. <35 2 1,7 0,5 35-55 23 19,7 5,3 55-75 82 70,1 18,7 10 8,5 2,3 >75 Total Missing Total 117 321 438 100 26,7 73,3 100 Fig 3. Istogramma della prevalenza per classi di AHI- uomini 86 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Distribuzione prevalenza dell’OSAS per classi di AHI/RDI e classi di età: il test del χ2 di verifica dell’ipotesi di indipendenza delle due variabili mostra un p-value = 0,15 per gli uomini ed un p-value = 0,37 per le donne, che conferma tale ipotesi; il coefficiente di correlazione tra le variabili età-RDI/AHI essendo prossimo allo zero (uomini R=-0,036; donne R=0,125) conferma la non correlazione (Fig. 5). Analisi della relazione tra AHI e BMI per sesso: per queste analisi sono state realizzate tabelle di contingenza tra BMI e AHI, depurate dai valori estremi del BMI, che presentando frequenze molto basse, avrebbero potuto non consentire una corretta analisi. Per quanto riguarda gli uomini si evidenzia una relazione tra la crescita della massa corporea e l’aumento della gravità della patologia (Tab.5, Fig.6). La distribuzione delle donne è più uniforme, infatti circa il 50% dei casi rientra nella forma più lieve, mentre l’altro 50% in quella moderata o grave (Tab.4, Fig.4). Tabella 4. Distribuzione della prevalenza per classi di AHI – Donne Distribuzione prevalenza di OSAS per classi di AHI - Donne Classi RDI Freq. Freq. Perc. Su Rel(%) pop. molto lieve 34 29,82 8,00 Lieve 25 21,93 5,88 moderata 29 25,44 6,82 Grave 20 17,54 4,71 molto grave 6 5,26 1,41 Total Persi 114 311 100 26,82 73,18 Total 425 100 Fig. 5. Diagramma a dispersione, Età-RDI Fig. 4. Istogramma della prevalenza per classi di AHI donne Tabella 5. Tabella di contingenza per classi di BMI e AHI - Uomini (a meno dei valori estremi) Classi AHI Classi BMI molto lieve lieve Mod. grave molto grave Normopeso 8 4 10 3 Tot. Sovrapeso 16 15 44 43 6 124 Obeso 24 22 31 59 26 162 Totale 48 41 85 105 32 311 25 87 S. Cuozzo et al.: La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno Fig. 6. Istogramma delle distribuzioni della prevalenza per classi di BMI e di AHI - Uomini (a meno dei valori estremi) Fig. 7. Istogramma delle distribuzioni della prevalenza per classi di BMI e di RDI - Donne (a meno dei valori estremi) Per valori pari all’obesità diminuisce il valore AHI di tipo moderato per crescere quello di tipo grave e molto grave. Questa tendenza viene confermata dal test di verifica di ipotesi del χ2 che presenta un p-value pari a 0,01 che consente di rigettare l’ipotesi nulla di indipendenza. Il coefficiente di correlazione R=0,181 mostra una correlazione di tipo positivo, anche se molto bassa. Le donne presentano una quadro nettamente differente; più del 60% che presenta la patologia hanno valori della massa corporea equivalenti all’obesità, così come conferma la tabella di contingenza. Quindi già a prima vista l’ipotesi che ci sia una correlazione tra la crescita del BMI e quella dell’RDI potrebbe essere rigettata, ma il test di verifica del χ2, rafforza tale teoria, presentando un p-value superiore a 0,05 che quindi conferma l’ipotesi nulla di indipendenza tra le variabili. (Tab.6, Fig.7) Analisi della relazione tra AHI ed Epworth per sesso Per quanto riguarda gli uomini, si è evidenziato come il valore della scala di Epworth aumenta all’aumentare della gravità della sindrome (Tab. 7, Fig. 8). Quanto osservato risulta confermato dal test del χ2 che presenta un p-value inferiore allo 0,05. Il valore del coefficiente di Pearson pari a R=0,349 evidenzia una correlazione positiva tra le variabili. Analogamente per le donne si è evidenziato come il valore della scala di Epworth aumenti all’aumentare della gravità della sindrome (Fig. 9, Tab. 8). Quanto osservato risulta confermato dal test del χ2 che presenta un p-value inferiore allo 0,05. Il valore del coefficiente di Pearson pari a R=0,468 evidenzia una correlazione positiva tra le variabili. Tabella 6. Tabella di contingenza per classi di BMI e RDI - Donne (a meno dei valori estremi) Classi RDI Classi età molto lieve lieve Mod. grave molto grave Normopeso 2 6 2 2 12 Sovrapeso 13 4 8 2 27 Obeso 19 15 19 16 6 75 Totale 34 25 29 20 6 114 Tot. 88 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Tabella 7. Tabella di contingenza per classi di AHI e Classi della scala di Epworth - uomini Classi di Epworth Tabella 8. Contingenza per classi di AHI e Classi della scala di Epworth – donne Classi AHI <10 >10 Molto lieve 44 6 50 Lieve 29 11 40 Moderata 39 38 77 Grave 48 52 100 Classi RDI Molto lieve Lieve Moderata Grave molto grave Totale Tot. molto grave 9 23 32 Totale 169 130 299 Fig. 8. Istogramma delle distribuzioni della prevalenza di OSAS per classi di AHI e classi di EPW - Uomini Discussione/Conclusioni Dall’analisi dei risultati della nostra esperienza è emerso, in accordo con analoghi lavori nazionali ed esteri, come questa patologia sia di prevalente appannaggio degli uomini con una età di presentazione intorno ai 60 anni5,9,11-12. In particolare una più attenta analisi della frequenza per classi di età ha mostrato delle differenze sostanziali tra i due sessi; nel gruppo di età compresa tra 35-55 anni risultava del 27,1% negli uomini e del 19,7% nelle donne, mentre nel gruppo di età compresa tra i 55-75 anni del 60,7% negli uomini e del 70,1% nelle donne. La grande differenza percentuale nelle donne nei due gruppi, sottolinea come anche nel nostro campione l’età postmenopausale sia stata quella maggiormente <10 28 14 14 4 2 62 Classi di Epworth >10 Totale 4 32 9 23 9 23 15 19 6 8 43 105 Fig. 9. Istogramma delle distribuzioni della prevalenza di OSAS per classi di AHI e classi di EPW – donne interessata dalla patologia e quindi avvalora l’ipotesi di un possibile ruolo protettivo degli estrogeni come suggerito anche da altri autori13-16. Anche nel nostro campione, si è evidenziata una diminuzione della frequenza della patologia sia nei maschi che nelle femmine con età > 75 anni (M. 6,5%; F. 8,5%). Mentre però si è riusciti ad evidenziare una netta differenza di prevalenza negli uomini dato che circa il 30% presenta la forma lieve e il 70% quella moderata e grave, questo non è stato possibile nel campione di sesso femminile che ha mostrato una sostanziale uniformità di distribuzione. Non è stata tuttavia trovata una correlazione tra le singole classi di età e il grado di severità della sindrome (p=0,15 negli uomini; p=0,37 nelle donne). S. Cuozzo et al.: La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno L’obesità, quantificata come BMI>28 Kg/ m2, viene riscontrata nel 60-90% dei pazienti affetti ed inoltre è da sottolineare come il rischio di sviluppare la patologia sia dalle 10 alle 14 volte maggiore nei pazienti obesi15. Sebbene alcuni studi prospettici abbiano evidenziato un legame esistente tra il peso corporeo e la gravità di questa patologia, altri hanno mostrato che i cambiamenti dell’AHI variano con l’età, il sesso e il peso corporeo in modo non uniforme9,14,17-18. Nel nostro campione l’analisi della relazione tra l’indice di massa corporea (BMI) e l’indice di apnea/ipopnea (RDI/AHI) ha mostrato un andamento nettamente differente tra i maschi e le femmine, infatti nei primi si è evidenziata una dipendenza tra queste due variabili, quindi all’aumentare dell’indice di massa corporea si ha un aumento dell’indice di apnea/ipopnea mentre nelle seconde non è stata riscontrata questa dipendenza (p>0,05) nonostante nel campione femminile il 60% delle donne affette avesse dei valori di massa corporea equivalenti all’obesità. L’ultima analisi del nostro studio ha esaminato la relazione esistente tra indice di apnea/ipopnea ed i valori della scala della sonnolenza di Epworth; i risultati hanno mostrato come all’aumentare del valore di RDI/AHI corrispondano valori maggiori del punteggio della scala della sonnolenza sia nel campione maschile che in quello femminile, a confermare quindi come la sonnolenza diurna debba essere considerata un campanello d’allarme per la eventuale presenza di questa patologia e a confermare la validità della scala di Epworth come test di screening. BIBLIOGRAFIA 1. Hoffmann M, Bybee K, et al. Sleep apnea and Hypertension. Minerva Med 2004; 95: 281-90 2. Kump K, Whalen C, Tishler PV, et al. Assessment of the validity and utility of a sleep-symptom questionnaire. Am J Respir Crit Care Med 1994; 150: 735-41 3. Norton PG, Dunn EV. Snoring as a risk factor for disease: an epidemiologic survey. BMJ 1985; 291: 630-3 89 4. Ohayon MM, Guilleminault C, Priest RG, et al. 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Atti Appuntamenti Ternani di medicina respiratoria “I distrurbi cardio-respiratori nel sonno”. Terni 2004 Per richiesta estratti: Dr.ssa Stefania Cuozzo Viale dei Colli Portuensi, 106. 00151 Roma [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 ANALISI DELLO STRESS NELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA IN UNITÀ OPERATIVE CRITICHE E DI EMERGENZA STRESS AND BURNOUT EVALUATION IN NURSES INVOLVED IN CRITICAL AND EMERGENCY UNITS RAFFAELLA GORIO, CHIARA CARDUCCI, EMANUELA MENICHETTI, BARBARA MERCURIU, MONICA MERCURIU Servizio di Psicologia Clinica, Crisi ed Emergenza, Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma Parole chiave: Stress. Emergenza. Infermiere. Strategie di coping Key words: Stress. Emergency. Nurse. Coping Strategies Riassunto. Il presente lavoro approfondisce il fenomeno dello stress all’interno della professione infermieristica e lo studia da vicino attraverso una ricerca effettuata nei reparti di Rianimazione, Pronto Soccorso, Terapia Intensiva degli Ospedali San Camillo, S. Andrea e nell’Agenzia Regionale 118 di Roma, sottoponendo gli infermieri ad un questionario “indicatore dello stress lavorativo” (O.S.I.) con lo scopo di rilevare l’eventuale presenza dello stress, le sue fonti, le strategie per affrontarlo e le caratteristiche dei singoli individui. Questo studio preliminare si propone di descrivere tale fenomeno in modo generale, facendo riferimento alle varie teorie e ricerche e, in particolare, attraverso l’analisi del campione esaminato. Abstract. The main purpose of our study is the evaluation of burnout and stress symptoms in practical nurses. We administer the Occupational Stress Indicator (O.S.I.) to nurses of Resuscitation, Emergency and Intensive Therapy of two of the most important hospitals in Rome: S. Camillo and S. Andrea. We interviewed also the nurses of the emergency of 118. The O.S.I. was administered with the purpose to value a lot of important elements correlated with stress symptoms like the main sources of stress, the strategies of coping but also the personal characteristics that influence the perception of stress. This is a preliminary and descriptive study for evaluating this kind of phenomenon in hospital operators. Introduzione Lo stress influisce non solo sul benessere fisico e psicologico dell’individuo ma anche sulla qualità del lavoro di chi opera all’interno della categoria “professioni d’aiuto”1. Per professionisti dell’aiuto si intendono quei lavoratori che si occupano di cura e di assistenza a soggetti che sono in uno stato di bisogno psicologico o fisico: soggetti deboli e anziani, malati cronici o terminali, pazienti in terapia intensiva, persone con disagi psichici, lungodegenti. Si tratta di psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori di comunità, medici di pronto soccorso, di terapia intensiva e di chirurgia d’urgenza, psichiatri, infermieri ma anche vigili del fuoco e volontari della protezione civile. Su questi operatori si riversano i problemi e il dolore di coloro ai quali gli stessi prestano assistenza2,3. Non a caso i professionisti di aiuto sono considerati i depositari del benessere dell’utente quindi sottoposti a continue richieste di competenza ed efficienza effettuate dal diretto interessato, dai parenti, dai colleghi, dalla società. L’elemento centrale dell’attività del professionista dell’aiuto è R. Gorio et al.: Analisi dello stress nella professione infermieristica la relazione con l’altro nella quale la sfera emotiva è continuamente sollecitata. In queste condizioni, l’esaurimento emozionale, la spersonalizzazione e la ridotta realizzazione del sé sono particolarmente frequenti poiché gli stressor sono maggiormente presenti2. In particolare le manifestazioni sintomatiche degli infermieri in molti paesi occidentali sono indice di una professione ad alto rischio di stress4. L’attività in sé è la prima fonte di stress poiché la relazione d’aiuto risulta impegnativa ed, inoltre, essendo una professione molto richiesta, è facile avere carenza di personale con conseguente sovraccarico di lavoro. In secondo luogo, la natura del lavoro porta ad operare in ambienti dove domina un senso di tristezza e sofferenza. Altre fonti di tensione possono essere la mancanza di attrezzatura e di medicine o l’allontanamento dal ritmo di vita quotidiana dovuto al lavoro a turni e uno stipendio non adeguato4,5. L’incertezza delle situazioni da affrontare (urgenze) e le responsabilità degli infermieri verso i malati sono all’origine di un alto tasso di assenteismo. Anche il rapporto con i malati accresce l’ansia in tale tipo di professione poiché in questo ambito rientrano le differenze culturali e gli aspetti caratteriali sia del paziente sia dell’infermiere. La pressione della famiglia o degli amici del paziente, affinché l’infermiere migliori la qualità delle cure, è una fonte di stress; quest’ ultimo cresce proporzionalmente con l’aggravarsi della malattia, in particolare quando si arriva alla morte del paziente. Il costante spettro della morte crea, poi, uno stress permanente nell’infermiere. A queste fonti di stress va aggiunto anche quello di tipo relazionale dovuto spesso alla mancanza di comunicazione e di aiuto da parte del personale medico e un certo disaccordo con i trattamenti proposti dai colleghi4. Uno studio sullo stress e l’esaurimento professionale (burn out) condotto a Parigi6 ha dimostrato che gli infermieri sono più inariditi a livello emotivo rispetto ai lavoratori impiegati in attività sociali, ai medici e agli insegnanti. In questa ricerca, un’infermiera su quattro avverte un impoverimento professionale che si riflette 91 sul piano emozionale: ciò porta ad un minore impegno nell’accudimento dei malati; inoltre, circa un’infermiera su due si era assentata almeno una volta dal lavoro in un mese4. Scopo della ricerca, da noi condotta è individuare i fattori di stress nella professione infermieristica nelle U.O critiche e di emergenza quali la Rianimazione, il 118, il Pronto Soccorso e la Terapia Intensiva. Metodi e Strumenti Il campione scelto per la nostra ricerca è costituito da infermieri con un’esperienza lavorativa di almeno 2 anni all’interno delle unità operative (U.O.) di Rianimazione, ARES 118, Pronto Soccorso e Terapia Intensiva. La caratteristica comune di questi infermieri è quella di operare in situazioni critiche e di emergenza caratterizzate da un intenso coinvolgimento psicologico. All’inizio della ricerca, il campione prestabilito prevedeva un numero complessivo di 90 infermieri così ripartiti: – 30 infermieri della Rianimazione (CR1) dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo – Forlanini; – 30 infermieri del Pronto Soccorso (P.S.) dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo – Forlanini; – 30 infermieri del Centralino dell’ARES 118. Durante la somministrazione dello strumento utilizzato per la rilevazione dei dati, le adesioni sono andate diminuendo; pertanto il campione selezionato, a cui sono stati somministrati i questionari, è composto da: – 10 infermieri dell’U.O. di CR1 del S. Camillo; – 10 infermieri dell’U.O. di P.S. del S. Camillo; – 20 operatori del centralino del 118 ARES; – 10 infermieri dell’U.O. di Terapia Intensiva dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma, per un totale di 50 soggetti, di cui 20 di sesso maschile e 30 di sesso femminile. La maggior parte dei soggetti esaminati31, corrispondenti ad un numero superio- 92 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 re alla metà del campione, lavora da più di 5 anni nei reparti sopracitati. L’età media dei partecipanti va dai 31 ai 57 anni. Per convenienza, le varie unità operative sono state denominate rispettivamente: Gruppo Gruppo Gruppo Gruppo A – Rianimazione B – Pronto Soccorso C – 118 D – Terapia Intensiva La presente ricerca ha utilizzato l’Occupational Stress Indicator (O.S.I. C. L. Cooper, S. J. Sloan e S. Williams, 1998 7,8 e per la versione italiana S. Sirigatti e C. Stefanile, 2002 9 per valutare i fattori di stress occupazionale. Il modello di stress che sta alla base dell’OSI è il risultato di quattro elementi chiave: 1) Fonti di stress: fattori intrinseci al lavoro, ruolo manageriale, relazione con altre persone, carriera e riuscita lavorativa, clima e struttura organizzativa, interfaccia casa-lavoro. 2) Caratteristiche dell’individuo: fattori biografici e demografici, controllo (forze organizzative, processi di gestione, influenze individuali), atteggiamento verso la vita, stile di comportamento, ambizione. 3) Strategie di coping: supporto sociale, orientamento al compito, logica, relazione casa-lavoro, tempo, coinvolgimento. 4) Effetti dello stress. L’O.S.I. è articolato in sette parti: un questionario biografico da noi modificato per adattarlo alle esigenze del campione e sei sezioni raggruppate in un unico questionario composto da 167 item che prevedono una risposta chiusa valutata su scala Likert a 6 punti. Sia la validità che l’attendibilità dello strumento sono soddisfacenti8,9. Sono state utilizzate due modalità diverse di somministrazione in relazione alle esigenze del campione. Nei reparti di Rianimazione, Pronto Soccorso e Terapia Intensiva è stata effettuata un’auto-somministrazione lasciando la distribuzione dei questionari al caposala delle U.O.; in tal modo, è stato possibile ottenere una buona adesione poiché non necessaria la richiesta di intrattenimento degli operatori oltre l’orario di lavoro. È possibile ipotizzare la presenza di interferenze lavorative e il rischio di perdita dei questionari. Per quanto riguarda, invece, i centralinisti del 118 è stato possibile somministrare e ritirare personalmente i questionari distribuiti ai singoli infermieri; in tal modo, nessun questionario è andato perduto grazie alla rilevazione contestuale degli stessi. Tuttavia, la lunghezza e la durata della somministrazione sono state un elemento critico agli occhi dei partecipanti. È bene sottolineare che tutti i soggetti esaminati si sono dimostrati disponibili a collaborare ad una ricerca riguardante lo stress poiché considerato un argomento interessante e di reale riscontro. Risultati Per verificare l’esistenza di un effetto è necessario confrontare lo stato di salute fisica, psicologica e la soddisfazione lavorativa (grafico 1). Sia il gruppo A che il gruppo B risultano nell’intervallo atteso mentre il gruppo C e D ne sono al di sotto. Punteggi inferiori all’intervallo atteso sono indice di una diminuzione della soddisfazione che può essere sia una conseguenza dello stress sia una causa. Grafico 1. Confronto delle medie (–m) della Soddisfazione lavorativa (ST), Salute psicologica. (PHYT) e della Salute fisica (PHIT) R. Gorio et al.: Analisi dello stress nella professione infermieristica Nel parametro PSYT (Salute psicologica), i gruppi A e C risultano nell’intervallo atteso mentre i gruppi B e D ne sono al di sopra. Il punteggio elevato suggerisce un chiaro inaridimento emozionale. Tutti e quattro i gruppi hanno ottenuto punteggi elevati nella sottoscala PHIT (Salute fisica) suggerendo la presenza di più sintomi fisici dovuti allo stress. Possiamo quindi affermare che in tutti e quattro i gruppi sono presenti effetti fisici dello stress nonostante la maggior parte delle persone abbia affermato, nel questionario biografico, di essere in buona condizione fisica e di non aver avuto seri problemi di salute; questo suggerisce che i soggetti esaminati riescono a convivere con i propri disturbi. Solo in due gruppi (B e D) si hanno sintomi di malessere psicologico e negli altri due gruppi (C e D) è presente un’insoddisfazione lavorativa globale. La soddisfazione lavorativa globale però non è esaustiva. Infatti una scala più accurata misura i vari aspetti della insoddisfazione e ne mette in luce i vari tipi. Nel parametro che misura la Soddisfazione per la Carriera, troviamo dei valori al di sotto dell’intervallo atteso per quel che riguarda i gruppi A, B e C mentre il gruppo D si colloca nell’intervallo stesso. Tutti e quattro i gruppi, inoltre, risultano nella media standard rispetto ai parametri che riguardano la Soddisfazione per il Lavoro stesso; ciò indica che non è la tipologia di professione a creare il disagio ma la frustrazione derivante dalla poca stima che l’Azienda riconosce ai suoi dipendenti; infatti, è importante sottolineare che tutti e tre i gruppi in cui è presente questa insoddisfazione appartengono allo stessa Azienda Ospedaliera, San Camillo - Forlanini mentre il gruppo che risulta nella media attesa è di un altro Ospedale, Sant’Andrea. L’unico punteggio che si trova al di sotto dell’intervallo atteso, nella scala che misura la Soddisfazione per l’impostazione e la struttura organizzativa, è quello del gruppo C; ciò indica che quest’ultimo appare insoddisfatto dei rapporti e/o dei metodi usati per attuare cambiamenti o risolvere conflitti; in sintesi, questo gruppo avverte le caratteristiche dell’organizzazione come limitative. Tre 93 gruppi su quattro (B, C, D) hanno punteggi al di sotto dell’intervallo atteso nella sottoscala che misura la soddisfazione per i processi organizzativi; questo evidenzia che i soggetti non si sentono coinvolti nel prendere decisioni e ritengono di non ricevere un’adeguata supervisione. Un ulteriore parametro da non sottovalutare è la Soddisfazione per le Relazioni Interpersonali, che risulta al di sotto della media attesa solo nel gruppo B. Questi soggetti esaminati avvertono come stressanti le relazioni di lavoro o, più in generale, il clima presente nell’ambiente di lavoro. In modo più estensivo, riferendoci al grafico n° 1, possiamo affermare che nella sezione “Effetti dello stress” il gruppo C, ossia quello che si riferisce al 118-ARES, risulta il più colpito dagli effetti dello stress; per esempio, nella compilazione del questionario nella parte PHIT (Salute fisica), molti degli esaminati hanno affermato di avere frequentemente il “mal di testa” e il valore del punteggio rilevato risulta molto più significativo rispetto a quello degli altri gruppi presi in considerazione. Per verificare se la presenza di questi effetti sia dovuta alle caratteristiche implicite del campione, si è analizzata la sezione del questionario “Caratteristiche dell’individuo” nelle due grandi parti che la compongono, ossia nelle domande, “come si comporta di solito” e “come interpreta gli eventi che accadono intorno a lei”. Nel grafico 2, sono tre le sottoscale più importanti che identificano caratteristiche associate con personalità di “tipo A” e “duro”; entrambi i tipi sono orientati al successo e tendono al conseguimento di risultati; la personalità di tipo A, tuttavia, presenta anche un caratteristico nucleo di impazienza e tendenza all’irritabilità che accresce la vulnerabilità allo stress. Il grado di dedizione al lavoro può essere rilevato osservando i punteggi della scala STA (Stile di comportamento). In questa scala tutti e quattro i gruppi sono nella media; possiamo affermare, quindi, che il gruppo D della Terapia Intensiva, pur essendo fortemente dedito al lavoro, non ne è danneggiato poiché non avverte l’aumento del ritmo di vita e la sensazione di urgenza del tempo. 94 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Grafico 2. Confronto delle medie (–m) della sezione “caratteristiche dell’individuo”, ATT=Atteggiamento verso la vita, STA=Stile di comportamento, AMB=Ambizione, AT=Tipo A Anche per la scala che misura l’ambizione (AMB) è solo il gruppo D ad avere punteggi al di sopra dell’intervallo atteso mentre gli altri sono nella norma; ciò indica che il gruppo dei soggetti esaminati mostra predisposizione all’ambizione ed è per questo che ha un elevato punteggio nella scala ATT (Atteggiamento verso la vita) e ricerca di successo. Infine i gruppi B, C e D sembrano possedere caratteristiche del Tipo A. Per quanto riguarda la sottoscala che controlla le forze organizzative, ossia il grado con il quale il gruppo esaminato sente che le forze all’interno dell’organizzazione reprimono la propria capacità di influenzare gli eventi, tutti e quattro i gruppi si collocano al di sopra dell’intervallo atteso suggerendo, quindi, la percezione di un minor controllo personale nel proprio lavoro. Analizzando lo stress nella professione infermieristica, questo risultato può dipendere dall’incapacità degli infermieri di rendere autonoma la professione che, nella storia, è stata sempre vista come subordinata alla figura del medico e di cui ne viene ribadita l’autonomia nella stesura del profilo professionale. Il punteggio elevato nella scala LOCG (Processi di gestione) per i gruppi A e D indica che i partecipanti percepiscono che sforzo e abilità sono incongruenti con i risultati ottenuti mentre gli altri due gruppi, B e C, risultano nell’intervallo atteso. In generale, analizzando tutti questi fattori possiamo affermare che lo stress percepito, in tutti e quattro i nostri gruppi esaminati, non dipende dalle caratteristiche implicite dei partecipanti. Dall’analisi delle fonti di pressione sul lavoro emergono alcuni dati importanti: gli infermieri esaminati percepiscono stress di tipo relazionale nei rapporti con i colleghi e questo deriva anche da un sentimento di frustrazione dovuto alle caratteristiche dell’organizzazione e dalla mancanza, nell’ambiente familiare, di un apporto nell’acquisizione di nuove risorse. Questo può dipendere dalle caratteristiche dell’ambiente stesso o dalla percezione che il lavoro possa essere intrusivo rispetto alla vita familiare. Solo in due gruppi (A e B) si hanno punteggi elevati nella sottoscala che valuta gli item “Carriera e Riuscita”; questo punteggio indica che i soggetti esaminati hanno un senso di frustrazione riguardo la crescita personale; ciò è da collegarsi con il basso punteggio della “Soddisfazione per la Carriera”. Tra le principali fonti di stress sono state identificate: – ambiguità di ruolo – relazioni interpersonali – clima e struttura organizzativa – interfaccia casa-lavoro. Sono state, quindi, analizzate le strategie di coping utilizzate per fronteggiare lo stress lavorativo nel nostro campione. Dai dati elaborati è possibile rintracciare le strategie di coping più utilizzate dagli infermieri professionali; tra queste emergono la ricerca del supporto sociale ( gruppi B, C, D), il “Coinvolgimento” (CI) che riguarda l’osservazione della situazione nel suo complesso e permette di mettere in atto uno sforzo per cambiare quanto può essere modificato e accettare ciò che non può essere modificato. Quanto da noi rilevato, sembra riferirsi ad un’idea sincera da parte dei soggetti esaminati di quanto e cosa sia realisticamente possibile attuare. Questa strategia è utilizzata da tutti e quattro i gruppi molto frequentemente R. Gorio et al.: Analisi dello stress nella professione infermieristica e risulta un’ottima strategia di coping nella professione infermieristica. Di fatto, le qualità che si richiedono all’infermiere sono quelle dell’empatia, ossia cercare di provare le emozioni del paziente per comprenderne i bisogni fisici, psicologici e sociali. Ma questa empatia deve essere reale e oggettiva, non deve mai perdere il punto di vista personale né tanto meno confonderlo con quello del paziente. La strategia del Coinvolgimento risulta necessaria non solo per garantire un’assistenza infermieristica di qualità ma anche per salvaguardare l’infermiere che, davanti ad eventi come la vita e la morte, deve possedere una giusta consapevolezza di ciò che è possibile realizzare e ciò che non è in grado di raggiungere. Nel nostro caso, i gruppi B, C e D dimostrano di fronteggiare lo stress ricercando il supporto sociale mentre per il gruppo A che risulta nella media, questa non sembra essere una strategia di coping molto utilizzata. Dalla visione più generalizzata consentita dal grafico 3 possiamo osservare che il gruppo A (Rianimazione del S. Camillo) utilizza più degli altri strategie per affrontare lo stress; questo può dipendere dalla tipologia di pazienti e di assistenza infermieristica che questi ultimi richiedono mentre il gruppo D (Terapia Intensiva dell’Ospedale S. Andrea) risulta quello che sa utilizzare minori strategie; ciò è giustificato dal fatto che questo gruppo non ha un’esperienza lavorativa ( all’interno del reparto stesso) superiore a tre anni e che quindi è diversamente colpito e coinvolto rispetto agli altri quattro gruppi che, invece, lavorano da più anni. Discussione La presente ricerca ha analizzato il fenomeno dello stress nelle Unità Operative di Rianimazione, Pronto Soccorso, 118 e Terapia Intensiva che hanno come caratteristica comune la criticità e l’emergenza. Sottoponendo ai partecipanti (50 soggetti: 20 maschi, 30 femmine) il questionario O.S.I. (Occupational Stress Indicator), nella versione italiana9, si è potuto verificare sperimentalmente la presenza 95 Grafico 3. Confronto delle medie (M) della sezione “Strategie di coping” dello stress lavorativo in tutti e quattro i gruppi denominati rispettivamente A (Rianimazione), B (Pronto Soccorso), C (118) e D (Terapia Intensiva). Lo scoring del questionario è stato complesso vista la numerosità degli item che lo compongono. Utilizzando le griglie e i fogli di correzione individuali e di gruppo, che ci hanno permesso di rilevare i punteggi grezzi, si è potuto procedere, successivamente, ad un’analisi più dettagliata estrapolando le medie dei punteggi per ogni sottoscala del questionario. Attraverso l’analisi quantitativa si è giunti alla stesura dei profili e alla valutazione qualitativa degli stessi. I risultati hanno dimostrato che lo stress lavorativo risulta evidente in tutti e quattro i gruppi poiché sono presenti effetti fisici dello stress nonostante la maggior parte dei soggetti esaminati abbia affermato, nel questionario biografico, di essere in buona condizione fisica e di non aver avuto seri problemi di salute; questo suggerisce che gli stessi riescono a convivere con i propri disturbi. Solo in due gruppi (B e D) sono presenti reazioni sintomatologiche da “malessere psicologico” e, in due gruppi, (C e D) è presente un’insoddisfazione lavorativa globale. Inoltre tutti e quattro i gruppi sono risultati nella media standard rispetto ai parametri che riguardano la Soddisfazione per il Lavoro; ciò sta ad indicare che non è la tipologia di professione a creare il disagio ma la frustrazione che può derivare dalla poca stima che l’Azienda stessa mostra ai suoi dipendenti. Il gruppo C avverte le caratteristiche dell’organizzazione come limitative. Tre gruppi su quattro (B, C, D), nella sottoscala che misura la soddisfazione per i processi organizzativi, denunciano una convinzione di non sentirsi coinvolti nel prendere decisioni ritenendo di non 96 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 ricevere un’adeguata supervisione. Solo il gruppo B avverte come stressanti le relazioni di lavoro o, più in generale, il clima dell’U.O. a cui appartiene. In tal senso il gruppo C, ossia il 118-ARES, risulta il più colpito dagli effetti dello stress; infatti, nella compilazione del questionario, nella parte PHIT (Salute Fisica), molti dei soggetti esaminati hanno affermato di avere frequentemente il “mal di testa” e, ampliando il significato del punteggio, si può affermare che esso risulta molto più “insoddisfatto” degli altri gruppi esaminati. In seguito alla verifica della presenza o meno degli effetti dello stress, sono state esaminate le caratteristiche implicite del gruppo per escludere l’ipotesi di uno stress non prettamente lavorativo. La ricerca ha poi approfondito l’individuazione delle “fonti” di stress, verificando che quest’ultimo deriva dal vivere secondo le aspettative ognuno del proprio ruolo; i partecipanti avvertono la responsabilità sbilanciata rispetto al grado di potere e di influenza subito; ciò richiama la presunta mancanza di autonomia. Inoltre gli infermieri esaminati percepiscono uno stress di tipo relazionale con i colleghi e un sentimento di frustrazione dovuto alle caratteristiche dell’organizzazione e alla mancanza, nell’ambiente familiare, di un apporto adeguato nell’acquisizione di nuove risorse. Solo due gruppi (A e B) presentano una frustrazione riguardo la crescita personale che può essere collegata con l’insoddisfazione per la carriera. Le principali fonti di stress identificate sono, dunque: l’ambiguità di ruolo, le relazioni interpersonali, il clima e la struttura organizzativa, l’interfaccia casa-lavoro. La fase finale della ricerca ha analizzato le strategie di coping più utilizzate dal campione ossia il modo di fronteggiare lo stress. I gruppi B, C, D hanno dimostrato di fronteggiare lo stress ricercando il supporto sociale; per il gruppo A, questa risorsa non sembra essere una strategia di coping molto utilizzata. Inoltre i primi tre gruppi affrontano lo stress organizzando personalmente i propri compiti. Solo il gruppo C utilizza la strategia di separare i sentimenti dai fatti oggettivi. La stra- tegia del “Coinvolgimento”, che consiste nell’osservazione della situazione nel suo complesso, facendo uno sforzo per cambiare quanto può essere modificato e accettando ciò che non può essere cambiato, è utilizzata da tutti e quattro i gruppi con molta frequenza. Sintetizzando, il gruppo A (Rianimazione del S. Camillo) utilizza più degli altri strategie per affrontare lo stress; questo può dipendere dalla tipologia di pazienti e di assistenza infermieristica richiesta; mentre il gruppo D (Terapia Intensiva dell’Ospedale S. Andrea) risulta il gruppo che ne utilizza di meno; ciò è giustificato dal fatto che questo gruppo non ha un’esperienza lavorativa superiore a tre anni di attività e che quindi è diversamente coinvolto rispetto agli altri gruppi che lavorano da più tempo. BIBLIOGRAFIA 1. Kalimo R, El-Batawi MA, Cooper cl. Eds. Psychosocial factors at work and their relation to health. Geneva: who, 1987 2. Butera N. Gravi stress, traumi e salute in ambiente ospedaliero, edizioni Kappa, 2000 3. Quick C. Preventive stress management in organizations. Washington, DC: American Psychological Association, 1997 4. Stora JB. Lo stress. 1 ed., Carocci, Roma, 2004 5. Karasek R, Theorrel T. Healthy work - stress, productivity and the reconstruction of working life. Basic Books, New York 1990 6. 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Displasia fibrosa Key words: McCune-Albright syndrome. Bone scanning. Fibrous dysplasia Riassunto. Gli autori descrivono il caso clinico di una paziente affetta da Sindrome di McCune-Albright (fibrodisplasia poliostotica) sottoposta a scintigrafia ossea con 99mTc-MDP, per valutare l’estensione e l’effettiva attività osteometabolica dei segmenti scheletrici interessati, in seguito ad un aggravamento della sintomatologia. Gli Autori inoltre discutono circa altri casi di pazienti affetti dalla Sindrome di McCune-Albright riportati in letteratura. Abstract. The authors report the case of a patient with McCune-Albright’s syndrome (polyostotic fibrous dysplasia) who, after an increase of pain, underwent bone scintigraphy with 99mTc-MDP to evaluate the extension and the degree of osteometabolic activity. They refer the literature about patients affected by McCune-Albright syndrome. Introduzione La sindrome di McCune-Albright è una patologia associata alla presenza di una mutazione che attiva il gene GNSA1. La malattia colpisce prevalentemente le ossa: può interessare un solo osso (displasia fibrosa monostotica), molte ossa diverse (displasia fibrosa poliostotica) o l’intero scheletro (displasia fibrosa panostotica). La malattia ossea può associarsi a macchie della pelle (macchie caffelatte) e disfunzioni di ghiandole endocrine; la disfunzione endocrina più comune è la pubertà precoce, ma sono frequenti anche l’ipertiroidismo, l’eccesso di ormone della crescita e la malattia di Cushing infantile. Raramente sono interessati anche altri organi, come il cuore, il fegato o il muscolo (sindrome di Mazabraud). Quando la malattia ossea si associa a disfunzioni endocrine e macchie cutanee è anche chiamata sindrome di McCuneAlbright. Sia le forme monostotiche, sia le forme poliostotiche e panostotiche, sia la sindrome di McCune-Albright sono causate dalla stessa mutazione dello stesso gene. 98 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 La causa della sindrome è una mutazione post-zigotica (che interviene nelle primissime fasi della vita embrionale). Ogni individuo malato rappresenta una nuova mutazione, non eredita la malattia dai genitori e di norma non la trasmette. Si ritiene che la eventuale trasmissione del genotipo malattia attraverso uno dei gameti, porterebbe alla formazione di un embrione incapace di sopravvivere oltre le primissime fasi della vita embrionale. La natura post-zigotica della malattia dà luogo a un mosaico somatico (ogni paziente ha in tutti i tessuti cellule normali e cellule mutate in proporzioni variabili). La gravità e la manifestazione dei sintomi è molto variabile da caso a caso: dipende dalla precocità di insorgenza della mutazione durante l’embriogenesi, dal numero di cellule mutate presenti nell’organismo e dalla loro distribuzione. La sua esatta incidenza non è nota. Si manifesta più nelle femmine che nei maschi con un rapporto di 3/2 o in soggetti con neoplasie endocrine isolate. La mutazione riguarda il codone 201 nell’esone 8 che codifica per la subunità alfa della proteina Gs, proteina che agisce come mediatore di molti ormoni (LH, FSH, GHRH, ACTH, CRF, TSH, vasopressina, catecolamine, glucagone, PTH, calcitonina); la mutazione sostituisce un solo aminoacido (arginina 201) con un altro (cisteina, istidina, o più raramente glicina o serina), determinando un’eccessiva attività della proteina e un’eccessiva stimolazione autonoma delle cellule colpite nei diversi organi. Come conseguenza si ottiene un’eccessiva produzione di ormoni, un’abnorme proliferazione e un alterato funzionamento e delle cellule che formano l’osso e dei loro progenitori (cellule staminali), che di conseguenza generano un osso patologico, deformabile e fragile. I primi sintomi compaiono nell’infanzia o più raramente nell’adolescenza, e possono riguardare sia le ossa (dolore, fratture per traumi minimi, deformazioni), che le ghiandole endocrine. Di conseguenza il modo in cui la malattia si presenta è variabile e porta i pazienti (per lo più bambini) all’attenzione di specialisti diversi (ortopedici, endocrinologi, chirurghi maxillo-facciali, neurochirurghi ecc.). La malattia ossea è il problema più grave, più difficile da trattare; causa fratture patologiche e deformità che si instaurano nell’infanzia e nell’adolescenza. Il femore e le ossa del cranio sono le sedi più colpite, ma la malattia può interessare qualsiasi osso. La malattia ossea si sviluppa a partire da cellule staminali scheletriche mutate e disfunzionali. È stato identificato recentemente un importante movente patogenetico delle deformità e della fragilità ossea. In particolare, le cellule ossee mutate che si accumulano nella displasia fibrosa producono un fattore circolante, identificato nel FGF-23 (fibroblast growth factor-23) capace di promuovere perdita di fosfati dal rene. Ciò causa una deficiente mineralizzazione (osteomalacia) dell’osso fibrodisplasico che, di conseguenza, è più deformabile e fragile. Il fattore può essere misurato nel siero dei pazienti, fornendo un indice, insieme ai livelli di fosfati, del rischio di osteomalacia. Al momento non esiste una terapia razionale e di provata efficacia per la malattia ossea, l’espressione più grave della malattia, trattabile solo in modo palliativo. Per contrastare la displasia ossea si somministrano bifosfonati, per le deformità ossee importanti si ricorre alla chirurgia. Le alterazioni endocrine si possono trattare, nelle femmine, con medrossiprogesterone, in modo da sopprimere la steroidogenesi gonadica, con testolattone che inibisce la maturazione scheletrica, con LHRH agonisti se si associa una pubertà precoce vera e ovariectomia in caso di progressione rapida; nei maschi con Ketoconazolo, inibitore della steroidogenesi gonadica e surrenale. Per quanto riguarda la diagnosi in molti casi, il quadro clinico-radiologico (RX dello scheletro, TC cranio) è sufficiente. Viene confermata dal dosaggio dei livelli plasmatici di estradiolo e dallo studio molecolare del gene GNSA in cellule o tessuti derivati dagli organi o dalle ossa affette. A.M. Mangano et al.: Un caso di Sindrome di McCune-Albright 99 Caso clinico La paziente L.P. di anni 48 si è presentata nel nostro reparto con diagnosi di Sindrome di McCune-Albright, inviata da uno specialista ortopedico per l’aggravamento della sintomatologia e la presenza di estese multiple alterazioni osteolitiche, con sovvertimento morfologico e strutturale dei segmenti ossei colpiti evidenziate durante esecuzione di indagini radiologiche (Fig. 1) La paziente è stata sottoposta a scintigrafia ossea total body con 99mTc-MDP allo scopo di fornire informazioni sulla diffusione delle alterazioni ossee, e quindi dare indicazioni sul tipo di displasia se monostotica, poliostotica o panostotica. Si possono individuare con tale esame altre sedi di alterata attività non sospettate clinicamente e si possono fornire informazioni relative a segmenti scheletrici a rischio di frattura ossea. Le immagini scintigrafiche hanno evidenziato un esteso, irregolare incremento di attività, diffuso su tutto lo scheletro (Fig. 2). Figura 2. Scintigrafia ossea con 99mTc-MDP della paziente in proiezione anteriore e posteriore Discussione Figura 1. Radiografia digitale del bacino Una volta diagnosticata, la malattia va inquadrata nei suoi diversi aspetti (osseo, endocrino, metabolico) in modo specifico e i pazienti vanno adeguatamente seguiti nel tempo. L’inquadramento della componente ossea della patologia può essere convenientemente effettuata con le varie metodiche di imaging. Le metodiche radiologiche in senso stretto (TC ed RX degli arti) danno ragione dell’aspetto preminentemente anatomico delle eventuali lesioni presenti. La presenza, il numero, le dimensioni e le caratteristiche generali delle aree osteolitiche evidenziate, accompagnate dal riscontro clinico ortopedico, in genere danno un sufficiente inquadramento del coinvolgimento osseo della sindrome. Se però si vuole ottenere l’evidenziazione dell’aspetto più propriamente funzionale delle lesioni in termini di effettiva 100 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 attività osteometabolica e/o esclusivamente osteolitica, occorre avvalersi in maniera esclusiva della tecnica scintigrafica. La scansione Total Body di tutti i distretti ossei del Paziente consente lo studio del grado di coinvolgimento delle lesioni già note e della presenza di lesioni non altrimenti conosciute1,2. Nei bambini è possibile effettuare diagnosi differenziale con altre patologie che mostrano analoga iperfissazione. Infatti le altre cause di aumentato incremento della fissazione del tracciante come i tumori, la M. di Paget e le fratture mostrano quadri di imaging differenti. Le lesioni nella displasia mostrano ossa deformate che non riescono a mantenere il profilo del segmento osseo interessato dalla patologia contrariamente a quanto si ottiene nella M. di Paget3. Le fratture patologiche sono presenti nell’85% dei Pazienti con displasia fibrosa idiopatica, mentre l’incidenza di fratture nei Pazienti con McCune-Albright è più bassa, il 33%4. In un paziente di 66 aa affetto dalla forma poliostotica della displasia fibrosa a causa di una esacerbazione dei sintomi e di un notevole aumento della fosfatasi alcalina e dell’osteocalcina una scintigrafia ossea total body ha dimostrato una patologica concentrazione del radiofarmaco nello scheletro e si è potuto stabilire un coinvolgimento dell’intero scheletro superiore a quello aspettato sulla base dei sintomi e delle indagini radiologiche5. Un paziente di 16 aa ha mostrato alla scintigrafia ossea una inusuale e asimmetrica displasia nel cranio, nella faccia, nelle coste, omeri, femori, tibia, ulna e colonna vertebrale ma prevalentemente sul lato di sinistra mostrando solo pochi foci sul lato di destra. Con lo scopo di un eventuale trattamento, come per esempio la ricostruzione chirurgica di una asimmetria facciale, è stata eseguita una SPECT al fine di confermare l’effettivo coinvolgimento solo di un lato alla base della teca cranica, del massiccio facciale, della mascella e della mandibola. Con la SPECT è stato possibile dimostrare che tutte le lesioni arrivavano fino alla linea mediana6. L’importanza della scintigrafia Total Body e della SPECT è stata dimostrata anche per seguire nel tempo l’evoluzione dell’estensione delle lesioni ossee2. L’indagine scintigrafica risulta giustificata anche da un punto di vista radioprotezionistico: la dose di radiazioni a cui vengono sottoposti i pazienti per un Total Body è inferiore a quella a cui sarebbero sottoposti se dovessero effettuare indagini radiologiche sui singoli segmenti ossei dello scheletro al fine di studiare l’evoluzione della displasia. In letteratura si trovano studi scintigrafici anche con altri radiofarmaci quali 111 In-pentetreotide. Chen e al.7 hanno sottoposto a scintigrafia con 111In-pentetreotide pazienti con Sindrome di McCune-Albright e acromegalia. Non è stata trovata evidenza di malattia della ghiandola pituitaria, ma si è evidenziata un’aumentata captazione di 111In-pentetreotide in alcune aree di displasia fibrosa; gli stessi Pazienti, sottoposti a scintigrafia con 99mTc-MDP, mostravano, oltre le lesioni evidenziate in corso di scintigrafia con 111In-pentetreotide, altri segmenti ossei interessati dalla malattia, mostrando che la captazione di octreoscan non è diffusa a tutti i segmenti ossei interessati da displasia, ma solo ad alcuni. La causa di captazione di 111In-pentetreotide non è chiara: in parte potrebbe essere dovuta ad una maggiore vascolarizzazione presente in queste lesioni, ma potrebbe esserci anche una maggiore espressione di recettori per la somatostatina nelle cellule stesse della displasia fibrosa. Si8 ritiene che le lesioni displasiche derivino da precursori osteoblasti che hanno arrestato il loro sviluppo a causa della attivazione della mutazione della subunità alfa della proteina Gs. I recettori per la somatostatina sono stati trovati nei precursori osteoblastici nelle ossa dei ratti appena nati9 e sono implicati nella regolazione dello sviluppo delle ossa10. Se ci sono recettori per la somatostatina nella displasia fibrosa come dimostrato in alcuni studi11 potrebbe esserci un ruolo per la somatostatina nel trattamento di questa malattia. Gli A.M. Mangano et al.: Un caso di Sindrome di McCune-Albright analoghi della somatostatina potrebbero annullare gli effetti della mutazione della subunità alfa della proteina Gs e bloccare o far regredire la progressione della malattia scheletrica nella sindrome di McCune-Albright. Chen et al. hanno valutato gli effetti di una terapia a base di analoghi della somatostatina nei Pazienti che avevano mostrata aree di ipercaptazione nella scintigrafia con 111In-pentetreotide: dopo 6 mesi di terapia con octreotide queste aree di alterata captazione del radio-farmaco non sono cambiate né hanno manifestato variazioni relative a indici di laboratorio che hanno continuato a fluttuare come prima della terapia. BIBLIOGRAFIA 1. Sisayan R, Lorberboym M, Hermann G: Polyostotic fibrous dysplasia in McCune-Albright Sindrome Diagnosed by Bone Scintigraphy. Clin Nuc Med June 1997; 22: 410-2 2. 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Eur J Nucl Med 1996; 23: 987-90 Richiesta estratti: Prof. Lucio Mango e-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 Rassegne CLINICAL GOVERNANCE DELLO SCOMPENSO CARDIACO NELL’ANZIANO: APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE A UNA PATOLOGIA COMPLESSA CLINICAL GOVERNANCE FOR HEART FAILURE IN ELDERLY PATIENTS: MULTIDIMENSIONAL APPROACH FOR A COMPLEX DISEASE GIOVANNI PULIGNANO1, DONATELLA DEL SINDACO2, GIANLUCA PALOMBARO3, MARTINA SORDI4, HERRIBERT PAVACI4, GIOVANNI MINARDI1, EZIO GIOVANNINI1 1 I U.O. Cardiologia/UTIC, Osp. S.Camillo, Roma; 2Unità Scompenso Cardiaco, U.O. di Card., IRCCS I.N.R.C.A., Roma; 3Dipart. di Scienze Cardiov. e Respir.; 4 II Div.di Cardiologia, Dip. Cuore e Grossi Vasi A. Reale, Univ. “La Sapienza”, Roma Parole chiave: Scompenso cardiaco. Anziano. Governo clinico Key words: Heart Failure. Elderly. Disease management Riassunto. Lo scompenso cardiaco è un problema di sanità pubblica la cui importanza è destinata ad aumentare nei prossimi decenni a causa del processo di invecchiamento della popolazione. L’incidenza dei ricoveri per scompenso degli anziani è in parallelo aumento, fino a superare il 70% dei ricoveri totali per tale patologia. La caratteristica peculiare dello scompensato anziano è rappresentata dalla eterogeneità del quadro clinico, in cui convergono gli effetti del processo di invecchiamento cardiovascolare “fisiologico”, delle cardiopatie, delle comorbidità e, non ultimo, dello stile di vita. La prognosi degli anziani con scompenso è peggiore di quella dei pazienti di mezza età, con una più elevata mortalità ospedaliera e a distanza. Le riospedalizzazioni sono frequenti e causate in metà dei casi da fattori modificabili. Ne derivano qualità e aspettativa di vita scadenti e disabilità. Poiché lo stato di salute dell’anziano dipende da problemi di ordine fisico, psicologico, socio-economico ed ambientale, vi è necessità di un intervento preventivo, curativo e riabilitativo specifico. Chi si occupa di assistenza ad un anziano dovrebbe conoscerne le peculiarità biologiche e utilizzare l’approccio specifico che si chiama valutazione multidimensionale. Tale metodologia è costituita da una valutazione globale, finalizzata all’attuazione di un piano personalizzato di cura a lungo termine. Sul piano terapeutico, negli anziani si riscontra un evidente gap tra conoscenze disponibili e implementazione delle stesse nella pratica clinica che sembra dipendere, oltre che dalla maggiore fragilità e complessità dell’anziano, anche dalla ridotta disponibilità di studi specifici. Pertanto le terapie evidence-based, gli esami strumentali e i trattamenti interventistici a più elevato contenuto tecnologico sono meno utilizzati e la scelta terapeutica sembra essere guidata più dalla facilità di accesso. Occorre quindi mutare atteggiamento nei riguardi dell’anziano, arricchendo il bagaglio professionale e culturale con conoscenze specifiche e ampliando il proprio campo di visione. Abstract. At the dawn of the 21st century, chronic HF has become a major public health problem that threatens to consume increasing resources in the years ahead as the number of older adults at risk of developing HF continues to rise. The challenge for the physicians and the healthcare system generally, in taking care of these complex patients, should not be underestimated. Congestive HF is largely a disorder of elderly persons, and, in light of the high prevalence and poor prognosis, it is evident that targeted clinical trials and rigorous observational studies aimed to develop more effective treatments and to favour the implementation of specific guidelines into clinical practice are needed. However, the presence of multiple comorbidities and age-related impairments in older patients also mandates a multidimensional and multidisciplinary approach to care and, consequently, most of HF elderly patients should be followed by experienced healthcare professionals with a comprehensive – rather than ‘‘one-size-fits-all’’ – approach targeted to identify and address their multiple needs. This means that the greatest challenge in managing elderly patients is the urgent need to extend our conventional approach to the cardiological care from a specialized ‘‘high-tech’’ to a more comprehensive and holistic ‘‘high-touch’’ one. G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano L’invecchiamento della popolazione ha determinato un parallelo aumento dei tassi di incidenza e prevalenza di alcune patologie croniche, che nella popolazione anziana riduzione della qualità della vita, aumento delle ospedalizzazioni e dei costi per le cure e marcate ripercussioni a livello socio-economico-sanitario. In Italia, attualmente il Paese più longevo del mondo, circa il 40% dei ricoveri ospedalieri ordinari e il 50% delle giornate di degenza e dei relativi costi stimati riguarda pazienti anziani. Tra le malattie croniche, lo scompenso cardiaco colpisce oltre il 10% dei soggetti con > 80 anni1,2, al punto da essere definito da alcuni Autori come “la sindrome cardiogeriatrica del 21° secolo”3. Per tale motivo esso rappresenta uno dei maggiori problemi di salute pubblica a livello mondiale e necessita di nuove soluzioni strategiche per cercare di migliorare prognosi e qualità di vita dei pazienti e contenere, se possibile, la spesa sanitaria. In un tale contesto non stupisce che sia sentita la necessità di studi diretti alla popolazione più anziana, finora non adeguatamente studiata. Nonostante il peso epidemiologico, le conoscenze sullo scompenso cardiaco nell’anziano sono ancora abbastanza limitate, sia sul piano clinico che terapeutico e si riscontra un evidente gap tra conoscenze disponibili e implementazione delle stesse nella pratica clinica, con sottoutilizzo di farmaci e terapie potenzialmente efficaci. Caratteristiche cliniche dell’anziano con scompenso La caratteristica peculiare dello scompensato anziano è rappresentata dalla eterogeneità del quadro clinico, in cui convergono dinamicamente gli effetti del processo di invecchiamento cardiovascolare, delle cardiopatie, delle comorbidità e, non ultimo, dello stile di vita e fattori socio-ambientali4. Il “normale” processo di invecchiamento è associato a modificazioni nella struttura e nella funzione cardiovascolare che, pur non rivestendo significato patologico, predispongono l’anziano allo sviluppo di scompenso cardiaco (Tabella 1). Queste si 103 Tabella 1. Principali effetti dell’invecchiamento sulla struttura e funzione cardiovascolare – Ridotta compliance vascolare per aumentata rigidità arteriosa – Aumentata massa ventricolare sinistra – Ridotto rilasciamento e aumentata rigidità miocardica – Degenerazione delle cellule pacemaker del nodo SA e alterata funzione del NSA – Ridotta capacità dei mitocondri a incrementare la produzione di ATP in risposta ad aumentata domanda – Ridotta risposta miocardica e vascolare alla stimolazione beta-adrenergica – Effetto complessivo: ridotta riserva cardiovascolare affiancano a modificazioni età-correlate in altri organi e sistemi che possono ulteriormente incrementare il rischio di scompenso cardiaco e, soprattutto, influenzare la risposta alla terapia. In particolare, la caratteristica principale dell’invecchiamento cardiovascolare sembra essere una ridotta riserva cardiovascolare legata alla perdita o alla riduzione dei meccanismi di correlazione e modulazione tra sistema neuroendocrino e sistema cardiovascolare con una ridotta risposta post-sinaptica alla stimolazione adrenergica. Nell’insieme tali modificazioni non hanno un significato patologico e non richiedono di per se un trattamento, ma possono condizionare presentazione clinica e decorso delle cardiopatie e la risposta ai differenti trattamenti farmacologici5. Per quanto riguarda le caratteristiche cliniche, dati interessanti sono stati forniti dal Registro IN-CHF (Italian NetworkCongestive Heart Failure) dell’ANMCO. In una analisi di questo Registro (6), condotta in una coorte di 3327 pazienti, il 30% aveva un’età >70 anni. Al crescere dell’età, aumentava la percentuale di pazienti di sesso femminile, in classe NYHA avanzata, con fibrillazione atriale, tachicardia ventricolare e disfunzione renale. Negli anziani prevaleva l’eziologia ischemica e ipertensiva e una eziologia multipla era presente nel 22,8% rispetto al 10,2% dei soggetti più giovani. Una funzione sistolica ventricolare sinistra conservata (frazione di eiezione ≥ 40%) era presente nel 32% dei casi. 104 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Tali differenze età-correlate diventano ancor più rilevanti se si focalizza l’attenzione sulle fasce di età più avanzata2-4,7. Oltre gli 80-85 anni la percentuale di donne sale fino al 70%, l’eziologia ipertensiva diventa la più frequente, il 50% di soggetti ha funzione sistolica conservata (2), il 40% fibrillazione atriale e si associano comorbidità multiple. La diagnosi dello scompenso cardiaco negli anziani, può frequentemente rappresentare una sfida ardua per il clinico. I sintomi ed i segni sono spesso aspecifici e le frequenti coesistenti comorbidità, confondendo il quadro clinico, possono rendere difficile la valutazione diagnostica. Per tali motivi, lo scompenso cardiaco nell’anziano è sia sopradiagnosticato sia sottodiagnosticato4. Tale apparente paradosso è causato dal fatto che i sintomi di per sé aspecifici quali l’astenia e la dispnea da sforzo, nell’anziano possono essere causati da condizioni molto frequenti quali l’obesità, il de-condizionamento fisico, la depressione, pneumopatie croniche, distiroidismi. Allo stesso modo segni quali i rantoli polmonari o gli edemi declivi possono essere causati da una pneumopatia cronica, da insufficienza venosa cronica, dall’ipoalbuminemia, dalla sedentarietà8,9. La prognosi degli anziani con scompenso è peggiore di quella dei pazienti di mezza età, con una più elevata mortalità ospedaliera e a distanza. Le riospedalizzazioni sono frequenti e causate in metà dei casi da fattori modificabili. Ne derivano qualità e aspettativa di vita scadenti, con aumento del grado di disabilità. Nel Registro IN-CHF l’età è risultata un potente fattore predittivo indipendente di mortalità, con aumento del rischio del 3% per ogni anno di età. In particolare, negli anziani, i predittori indipendenti di morte sono rappresentati dai ricoveri per SC nell’anno precedente, l’ipotensione, e la classe funzionale NYHA avanzata6. I pazienti anziani presentano nel 60% dei casi una rilevante comorbilità extracardiaca10, ma questa non comprende solo malattie come il diabete, l’insufficienza renale, l’anemia o la BPCO. Si osservano infatti molte condizioni come problemi di deambulazione, rischio di cadute, incon- tinenza, delirio, una prevalenza di quasi il 50% di deficit cognitivo e depressione11. Se a ciò si aggiunge il declino età-correlato dello stato funzionale con il quadro di fragilità, la politerapia, il rischio di reazioni avverse, la disabilità, si configura il profilo di paziente “complesso” con conseguente difficoltà nell’approccio clinico e terapeutico (Tabella 2). La coesistenza nell’anziano di polipatologia, scarsa capacità funzionale, senso di stanchezza, ipotrofia muscolare, problemi di deambulazione e di equilibrio, basso indice di massa corporea (BMI, body mass index), deterioramento cognitivo e problemi socio-ambientali, conferiscono la connotazione di anziano fragile12. La “fragilità” è un’entità multidimensionale ancora non perfettamente delineata che rappresenta la perdita di riserva funzionale in diversi organi e sistemi. Il soggetto fragile, in sintesi, è vulnerabile, presenta una ridotta risposta agli agenti stressogeni e ha quindi un più alto rischio di prognosi avversa e di sviluppo di disabilità . La disabilità rappresenta invece la non autosufficienza nello svolgimento delle attività della vita quotidiana, con conseguente necessità di assistenza nelle stesse e costituisce una enorme fonte di assorbimento di risorse sanitarie e assistenziali per la nostra società. Nello studio ANMCO INCHF-VAS (Valutazione dell’Anziano con Scompenso)11 (Tabella 3), condotto in 205 ultrasettantenni (età media 75,6 ± 4,2 , range 70-92, 68% maschi, 37% in CF-NYHA III-IV e 32% con funzione sistolica ventricolare Tabella 2. Comuni comorbidità nel paziente anziano – Disfunzione cognitiva – Depressione, isolamento sociale – Ipotensione posturale, cadute – Incontinenza urinaria – Deprivazione sensoriale – Disordini nutrizionali – Politerapia – Fragilità – Disfunzione renale – Malattia polmonare cronica G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano 105 quotidiana, il 39% un deficit cognitivo e il 68% sintomi depressivi. Un deficit sensoriale, visivo e/o uditivo, era presente nel 20% dei casi. Le dipendenze nelle attività Età (anni) 75,6 ± 4 strumentali della vita quotidiana riguarMaschi/femmine (%) 68/32 dano la capacità dell’individuo di vivere 69,3% Coniugati in modo indipendente nella comunità e Introito economico inadeguato 24,4% rivestono un ruolo importante nella adeVive da solo 17,6% Assenza di supporto assistenziale 11,2% sione dell’individuo stesso al programma Cardiopatia ischemica 55% terapeutico,quali l’assunzione dei farmaci, 62% Ipertensione il controllo della dieta, l’utilizzo del telefoBroncopneumopatia cronica ostruttiva 31,2% no, delle finanze e dei mezzi di trasporto Diabete mellito 30,2% Creatinina ≥ 2.5 mg/dl 12,2% mentre quelle di base ri guardano l’indi40% Fumo di sigaretta pendenza in attività quali mangiare, laCharlson comorbidity index 1,8 ± 1,4 varsi, vestirsi, utilizzare i servizi igienici, N. comorbidità 2,7 ± 1,4 muoversi dentro casa11. Basic ADL (score ≤ 5) 12,6% 56% IADL (score ≤ 5) Dati più ampi su questi aspetti sono 39% SPMS (score ≤ 7) stati raccolti da un altro studio ANMCO, MLHF (score totale) 34 ± 19 il BRING-UP2 in 1144 ultrasettantenni. In questo studio si confermava la prevalenza particolarmente elevata di disabilità (38,5%), depressione (48%) e deficit cognitivo sinistra conservata), il 56% aveva almeno (40,7%). La prevalenza di sintomi depressiuna dipendenza e il 40,7% almeno 2 divi, identificata con uno score della Geriatric pendenze nelle attività strumentali della Depression Scale ≥ 6, variava tra 34,5% nei vita quotidiana, il 12,6 % almeno una dipazienti in classe funzionale NYHA II al pendenza nelle attività di base della vita 67% dei pazienti in classe IV13. Non sono ancora disponibili studi di questo tipo che confrontino i pazienti delle cardiologie con quelli seguiti da medici di famiglia, internisti o geriatri e con quelli residenti in casa di riposo, che sembrano ancor più compromessi sul piano generale e su quello dell’autosufficienza4,8-9. Per questo motivo è in corso uno studio multicentrico nazionale, l’IMAGE-HF (Italian Multidimensional Assessment Group for Elderly with Heart Failure), che sta arruolando prospetticamente pazienti in diversi centri cardiologici, internistici, geriatrici e di cure primarie e che valuterà i differente profili dei pazienti anziani nei diversi setting clinici (Fig. 1). Figura 1. Centri aderenti allo studio IMAGE-HF Tabella 3. Valutazione multidimensionale dei 205 pazienti con età ≥ 70 anni dello studio IN-CHF-VAS 106 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Qualità delle cure nell’anziano con scompenso Lo scompensato anziano è portatore di una patologia cronica che può peggiorare in mancanza di interventi appropriati e tale quindi da necessitare un costante livello di attenzione per ridurre il rischio di riacutizzazione e di recidive. A questo problema spesso vengono date risposte inappropriate o carenti se si ricorre unicamente al modello convenzionale di cura, ancora troppo incentrato sull’ospedale e sulla prestazione specialistica, per lo più interessato alla risoluzione dell’emergenza-urgenza, spesso impreparato a gestire al meglio le problematiche specifiche della cronicità. Negli ultimi anni numerosi studi clinici hanno dimostrato l’efficacia di trattamenti farmacologici come i beta-bloccanti, gli ACE-inibitori, i Bloccanti recettoriali dell’Angiotensina II e gli antialdosteronici che riducono la mortalità e la necessità di ospedalizzazione nei pazienti con scompenso cardiaco di diversa gravità. Questi farmaci, in assenza di controindicazioni o di documentata intolleranza, sono considerati parte integrante della terapia anche nei soggetti anziani ma, nei trial clinici questo gruppo di pazienti è stato scarsamente rappresentato. Infatti, pochi trials hanno arruolato soggetti >70 anni ed eccezionale è stata l’inclusione di soggetti di età >80 anni (Tabella 4). Ulteriori problematiche sorgono quando si considerano le crescenti indicazioni a impianto di devices -come i defibrillatori o i sistemi di resincronizzazione - o ad altre procedure ad elevato assorbimento di risorse, senza tuttavia disporre di chiare evidenze specifiche per i pazienti molto anziani. Il motivo principale è rappresentato dai rigidi criteri di arruolamento degli studi stessi, che consentono, infatti, solo l’inclusione di individui con funzione sistolica significativamente ridotta, ad alta compliance e senza comorbidità, mentre una funzione sistolica conservata, bassa compliance e patologie associate multiple sono caratteristiche peculiari del soggetto anziano4-7. Queste differenze impongono una certa prudenza quando si intendano applicare le indicazioni derivanti dai trial e delle linee guida a una popolazione di individui di età avanzata. D’altro canto, fino a quando non sono stati resi disponibili risultati di recenti studi clinici condotti specificamente in pazienti anziani, l’impostazione del Tabella 4. Età media e percentuale di donne nei principali trials sulla terapia dello scompenso cardiaco Studio CONSENSUS I SOLVD-P SOLVD-T MDC Carvedilol US CIBIS I DIG ELITE I-II RALES ATLAS MERIT-HF CIBIS II COPERNICUS Val- HeFT CHARM SENIORS PEP-CHF Farmaco Anno Età media Donne % enalapril enalapril enalapril carvedilolo carvedilolo bisoprololo digossina losartan spironolattone lisinopril metoprololo bisoprololo carvedilolo valsartan candesartan nebivololo perindopril 1987 1992 1991 1993 1996 1996 1997 1997-99 1999 1999 1999 1999 2000 2000 2004 2005 2006 70 59 61 49 58 60 64 74 65 64 64 61 63 63 65 75 75 30 11 23 27 23 30 22 33 27 24 23 9 26 20 26 38 56 G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano trattamento di questi pazienti si è basata necessariamente sui dati dei trials condotti su una tipologia diversa di pazienti, metanalisi e analisi per sottogruppi di età, con conseguente tendenza al sottoutilizzo di tali trattamenti6,14-15. Inoltre, nell’anziano è frequente un ridotto impiego di risorse strumentali e gli esami a più elevato contenuto tecnologico sono eseguiti in rari casi6-7,16. È quindi evidente che l’attuale approccio convenzionale alla cura dell’anziano è spesso inadeguato per l’assenza di continuità di cura, insufficiente valutazione iniziale, assenza di programmazione al momento della dimissione e scarsa comunicazione fra i diversi operatori sanitari coinvolti. Ad esempio, quasi la metà delle riospedalizzazioni per scompenso cardiaco degli anziani sembrano dipendere da motivi correlati alla disabilità e a problemi psico-cognitivi e socio-ambientali che compromettono la corretta aderenza al piano terapeutico4. A questi problemi si aggiunge anche la modificazione della struttura sociale, con il venir meno del consueto supporto familiare che non è stato ancora sostituito da forme alternative come l’assistenza sociale e l’assistenza domiciliare che riescono a servire solo una assoluta minoranza di individui. Questa situazione impone la necessità di ridisegnare percorsi sanitari che prevedano soluzioni gestionali più efficaci, senza peraltro diminuire la qualità della prestazione sanitaria. Il miglioramento della qualità delle cure richiede quindi, oltre l’implementazione più ampia possibile delle terapie efficaci, anche la presa in carico del paziente in un modello gestionale di assistenza continuativa personalizzato, in grado di seguirlo durante le diverse fasi evolutive della malattia17. Numerosi studi condotti in altri paesi hanno rilevato, attraverso l’applicazione di questi modelli di cura, una riduzione delle ospedalizzazioni, un miglioramento della qualità della vita e della capacità funzionale e un contenimento della spesa assistenziale18. Anche a livello nazionale cominciano a essere pubblicate le prime esperienze su questi modelli gestionali19- 107 , con risultati promettenti sia riguardo la riduzione delle ri-ospedalizzazioni, sia il miglioramento della qualità delle cure. Tuttavia, gli ostacoli esistenti a livello organizzativo e l’assenza di incentivi concreti all’incremento del livello qualitativo dell’assistenza rendono ancora difficile, al momento, l’implementazione nella pratica clinica quotidiana delle conoscenze disponibili in letteratura. È stato recentemente pubblicato uno studio condotto presso l’Ambulatorio Scompenso Cardiaco della I UO di Cardiologia dell’Ospedale S.Camillo e dell’UO Scompenso Cardiaco dell’IRCCS INRCA di Roma19. La valutazione di efficacia di un modello integrato è stata effettuata mediante uno studio controllato della durata di 24 mesi tra pazienti arruolati nell’Ambulatorio e pazienti dimessi a followup convenzionale. Il modello di intervento era basato sull’attività dell’ Ambulatorio dedicato allo scompenso associato a teleassistenza e in stretta collaborazione col Medico di medicina generale (Fig. 2). È stato arruolato un totale di 173 pazienti di età >70 anni (media 77+6, 51% maschi, prevalentemente in classe NYHA III-IV), 86 nel modello e 87 nel follow-up convenzionale. Al follow-up si è osservata una riduzione altamente significativa del 42% dei ricoveri per scompenso cardiaco e del 36% dell’end-point combinato morteospedalizzazione (Fig. 3). Nel modello di intervento si è osservato anche un miglioramento della classe funzionale, un incremento della percentuale di soggetti in trattamento betabloccante e un miglioramento della qualità della vita. La riduzione delle ri-ospedalizzazioni ha consentito una riduzione netta dei costi di assistenza stimata di 907,98 € per paziente. A questo risparmio di spesa vanno aggiunti i risultati positivi in termini di migliore qualità di vita, autosufficienza e soddisfazione del paziente. Questo modello potrebbe ulteriormente essere potenziato dall’introduzione di metodiche di telemonitoraggio elettrocardiografico domiciliare, in particolare per questi pazienti con limitazioni funzionali e ridotto livello di autosufficienza. 20 108 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Figura 2. Modello integrato di gestione post-dimissione del paziente anziano con scompenso cardiaco utilizzato presso l’Ambulatorio Scompenso della I UO di Cardiologia (19) Gestione multidisciplinare dell’anziano con scompenso Fig. 3. Curve di Kaplan-Meyer che mostrano l’efficacia a due anni del modello di gestione integrato nella riduzione di incidenza dell’endpoint combinato morte e/o ospedalizzazione per scompenso cardiaco. (Modificata da19) L’implementazione efficace di un modello di assistenza all’anziano richiede la definizione di precisi criteri di selezione dei pazienti, di ruoli specifici degli operatori sanitari, di percorsi diagnostico-terapeutici appropriati e condivisi, di modalità di follow-up personalizzate, che tengano conto dello stato funzionale globale, della severità di malattia, della comorbidità e del contesto socio-ambientale del paziente. Basandosi su questi presupposti, il sistema di assistenza al paziente anziano con scompenso dovrebbe possedere i 4 requisiti che riuniscono in sé le caratteristiche fondamentali dell’assistenza geriatrica: 1) la continuità assistenziale; 2) la globalità della valutazione; 3) la multidisciplinarietà; 4) l’organizzazione dei servizi in una rete integrata17-21. La necessità di questo modello concettuale è confermata da uno studio recente G. Pulignano et al.: Clinical Governance dello scompenso cardiaco nell’anziano condotto in due nazioni con servizi sanitari molto differenti, I pazienti anziani scompensati dimessi negli Stati Uniti avevano una mortalità inferiore a 30 giorni, ma simile a un anno rispetto a quelli canadesi, nonostante un approccio più aggressivo con esteso impiego di procedure ad elevato assorbimento di risorse negli Stati Uniti22. Ne consegue che un nuovo approccio impone, ovviamente, oltre alla più estesa applicazione di nuove terapie e tecnologie, anche una riorganizzazione di servizi e il ricorso ad un nuovo atteggiamento culturale. Comorbilità, fragilità e disabilità sono tre entità che condizionano l’approccio al paziente anziano, possono influenzare il decorso della malattia cardiaca e le scelte terapeutiche. La valutazione clinica standard dovrebbe quindi essere completata da una valutazione della capacità del paziente di svolgere autonomamente le attività della vita quotidiana, dello stato cognitivo, emotivo, e socio-ambientale e della qualità della vita. La moderna geriatria chiama questo approccio globale Valutazione Multidimensionale (VMD)11 che impiega scale e tests specifici (Tab. 5) e il cui fine è quello di impostare un percorso diagnostico-terapeutico personalizzato che consente di: a) valutare il rischio e l’entità di non-autosufficienza per stabilire la necessita o meno di assistenza continuativa; b) formulare un piano di terapia e di assistenza in base alla necessità di trattamenti di riabilitazione e di assistenza infermieristica; Tabella 5. Strumenti di più frequente impiego nella VMD Attività del vivere quotidiano (ADL) di Katz Attività strumentali del vivere quotidiano (IADL) Mini Mental State Examination (MMSE) Geriatric Depression Scale (GDS) Valutazione della deambulazione Situazione familiare e socio-ambientale 109 c) decidere la sede di erogazione e l’intensità degli interventi e indirizzare l’anziano al tipo di terapia medica o chirurgica più indicato. In tal modo si possono identificare tre profili principali (e i relativi percorsi diagnostico-terapeutici) che rispecchiano grossolanamente tre diverse modalità di invecchiamento riscontrabili nella pratica clinica quotidiana16 (Fig. 4): a) il paziente “robusto” , espressione dell’invecchiamento di successo, autosufficiente, che conduce una vita pienamente attiva, in cui la cardiopatia rappresenta il problema principale e per il quale possono essere adatte le cure convenzionali valide per i pazienti più giovani; b) il paziente “anziano”, con un quadro di compromissione intermedia, per il quale dovrebbe essere applicato un modello collaborativo in cui siano coinvolte sia competenze specialistiche che cure primarie; c) il paziente “fragile”, vulnerabile , con grave compromissione funzionale e polipatologia, che necessita di un trattamento intensivo multidisciplinare, con assistenza continuativa e, quando necessario, cure palliative. Per la gestione ottimale di questi pazienti più compromessi potrebbe essere particolarmente importante inserire anche i paradigmi tipici della geriatria nella pratica clinica quotidiana del cardiologo e del medico di base. L’ANMCO, consapevole del ruolo centrale, ma non esclusivo, del cardiologo nella cura dello SC, ha promosso alcuni anni or sono una Consensus Conference fra tutte le Società Scientifiche interessate e le Associazioni di volontariato, espressione delle figure professionali coinvolte nell’assistenza a questi pazienti e finalizzata a produrre queste semplici indicazioni percorso assistenziale che rendano le parole appropriatezza e governo clinico più concrete e vicine ai reali bisogni di salute dei cittadini23. Il Documento di Consenso che è stato prodotto riporta l’approccio multidimensionale al paziente anziano con scompenso come un indicatore di qualità dell’assistenza. 110 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Fig. 4. Impiego della valutazione multidimensionale per la selezione del processo diagnostico-terapeutico appropriato nel singolo paziente anziano Conclusioni All’alba del terzo millennio lo scompenso cardiaco cronico rappresenta una sfida e un importante problema sanitario la cui prevalenza aumenta con l’età e che assorbe un sempre maggior quantitativo di risorse sanitarie. I dati disponibili indicano che l’anziano con scompenso cardiaco è spesso un individuo fragile e complesso in cui molteplici elementi, oltre alla severità della cardiopatia, concorrono a condizionare il quadro clinico e la prognosi. Per favorire l’implementazione di terapie efficaci e il raggiungimento di risultati ottimali, i Cardiologi dovrebbero sia lavorare a più stretto contatto con Internisti, Medici di Medicina Generale e Infermieri che si occupano di scompenso cardiaco ma, soprattutto, dovrebbero mutare atteggiamento nei riguardi dell’anziano, arricchendo il bagaglio professionale e culturale con conoscenze specifiche, finalizzate alla messa a punto di una rete assistenziale efficace, basata su modelli di gestione multidisciplinare e su un approccio globale e personalizzato24. BIBLIOGRAFIA 1. Ho KK, Pinsky JL, Kannell WB, Levy D. The epidemiology of heart failure: the Framingham Study. J Am Coll Cardiol 1993; 22: (Suppl A): 6A-14A 2. Senni, M, Tribouilloy CM, Rodeheffer, RJ, et al. Congestive Heart Failure in the Community: A Study of All Incident Cases in Olmsted County, Minnesota, in 1991. Circulation 1998; 98: 2282-9 3. Rich MW. Heart failure in the 21st century: a cardiogeriatric syndrome. 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J Cardiovasc Med 2006; 7: 841-6 Richiesta per estratti: Dr.Giovanni Pulignano Via Giovanni Livraghi 1 00152, Roma e-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 L’EVOLUZIONE DELLA RISPOSTA IMMUNE NEL CORSO DELLA STORIA NATURALE O TERAPEUTICAMENTE MODIFICATA NELL’INFEZIONE TUBERCOLARE DEVELOPMENT OF IMMUNE REACTION DURING NATURAL HISTORY OR THERAPEUTIC CHANGES IN TUBERCULAR INFECTION FRANCESCO BELLI Laboratorio di Microbiologia e Virologia, Azienda 0spedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma Parole chiave: Macrofagi. Cellule Th1 e Th2. Granuloma tubercolare. Citochine e chemochine Key words: Macrophages. Th1, Th2 cells. Tubercular granuloma. Cytokines. Chemokines Riassunto. L’attuale situazione epidemiologica della tubercolosi, nel mondo, impone ulteriori sviluppi negli studi dell’infezione, dal momento che la malattia tubercolare è ben lungi dall’essere eradicata e rappresenta tuttora uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Le finalità di ogni ricerca di base e clinica sono l’incremento e l’ottimizzazione dell’armamentario a disposizione di farmaci antibiotici e l’allestimento di vaccini più efficaci in base alle nuove tecnologie molecolari. L’evoluzione della risposta immune in corso di infezione tubercolare, così come è stato approfondito negli ultimi anni, vede in una prima fase l’intervento di fattori dell’immunità innata, dai complessi recettoriali presenti su cellule fagocitiche ed APC a macrofagi reclutati da chemochine e citochine infiammatorie; la produzione di mediatori da parte dei macrofagi stessi, pur non essendo in questa fase pienamente operativa a causa dell’attivazione limitata e T-indipendente delle cellule, innesca tuttavia quei meccanismi che porteranno all’intervento dei linfociti T (Cd4+ principalmente), alla trasformazione della reazione immune in specifica e mirata, T-dipendente e T-regolata, in un ambiente Th1 polarizzato, alla cooperazione fra le stesse cellule T e i macrofagi attivati da γ-interferon e altre molecole ed infine alla costituzione del granuloma maturo. La dinamica descritta ha ovviamente numerose variabili biologiche che condizionano la stessa risposta immunologica e i quadri clinici: in quest’ambito vanno inquadrate le forme osservabili negli immunodepressi, i casi farmaco-resistenti, le situazioni in cui la risposta Th1 non è efficace o preminente, ma deviata anche per la coesistenza di altre patologie, creando un quadro clinico e immunologico imprevedibile, difficile da inquadrare e talora complesso da trattare. Abstract. The current epidemiologic situation of tuberculosis, in the world, requires further studies of infection, because tubercular disease isn’t quite knocked out and is still a great problem of public health. Aim of immunologic and clinical researches is the development and the optimization in antibiotic instruments and preparation of better vaccines according to new molecular technologies. In the last years the development of immune reaction during tubercular infection has been thoroughly analysed. In an early phase we can note the participation of innate immunity mechanisms (pattern recognition receptors on surface of phagocytic cells and APC, macrophages recruited by chemokines and inflammatory cytokines); cytokines and other molecules production by macrophages in this stage isn’t exhaustive, owing to restricted and T-independent activation of cells, but is able to prime the mechanisms that promote the Cd4+ recruitment, transforming of immune reaction in specific, T-dependent and T-regulated reaction, in Th1-polarized environment, promote cooperation between T cells and γ-interferon activated macrophages and granuloma formation. Delineated performance has many biological variances that influence the same immune reaction and clinic features: in this sphere we frame immunodeficiencies, drug resistant patients, inefficient and not prevailing Th1 cells reaction, for coexistence of other diseases: in these cases we observe clinic and immunologic features that are unforeseeable, hard to manage and care. F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare “Durante le ultime due settimane sono stato malato come un cane. Venni curato da tre medici, i più famosi. Il primo fiutava ciò che avevo sputato, l’altro percuoteva là donde avevo espettorato, il terzo palpava e auscultava mentre espettoravo. Il primo disse che morirò, il secondo che forse morirei, il terzo che ero già morto.” Da una lettera di F.Chopin, 3 dicembre 1838, 11 anni prima di morire per tubercolosi. “Un’angoscia indicibile e un peso enorme sul petto, senza più la forza di alzare le braccia … Malata del male che m’accoppa, l’anima non mi ubbidisce più … La tisi galoppante … già a quarant’anni”. Da una lettera di E. Duse a D’Annunzio, 1900. “Il cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti … Allora si fecero avanti i polmoni, che, tanto, non avevano nulla da perdere. Queste trattative tra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia insaputa, devono essere state spaventevoli”. F. Kafka, “Lettere a Milena”, 1917. 1. Introduzione Trenta anni fa, al termine di un congresso nazionale1, chi scrive, fresco di laurea, udì dai più eminenti tisiologi italiani queste parole: “Fra 25-30 anni avrà ancora un senso organizzare simposi sulla malattia tubercolare o continuare ad investire su di essa cospicue risorse umane, culturali ed economiche?”. Domande che allora sottintendevano, come risposte, una serie di no, che oggi si sono radicalmente e talora drammaticamente convertiti in altrettanti si. La tubercolosi, che almeno nei paesi occidentali, tra gli anni ’70 e ’80 del secolo passato, sembrava epidemiologicamente confinata a nicchie particolari della popolazione – anziani, diabetici, alcoolisti, defedati 113 – ha visto espandere il proprio reservoir tra nuove tipologie di immunodepressi – HIV+, ad esempio – e quindi, soprattutto, per flussi migratori e turistici, tra popolazioni (non parliamo di razze) commiste. Il quadro epidemiologico vede oggi una nuova, diffusa ricircolazione del batterio su scala mondiale, anche di ceppi poli o toti-resistenti agli antibiotici e negli ultimi 30 anni la sanità (anche la nostra!) ha risposto investendo di meno in risorse (nessun nuovo farmaco), organizzazione (ridimensionamento della rete antitubercolare preesistente) e cultura medica (nuovi sanitari non formati all’impatto attuale dell’infezione). I numeri, come sempre, sono eloquenti2: 1/3 della popolazione mondiale è infettata da M.Tuberculosis, 1.600.000 persone/l’anno muoiono di tubercolosi (la più frequente causa di morte per un singolo agente infettante), 200.000 delle quali sono HIV+; nel 2002 sono stati diagnosticati negli USA 16.000 nuovi casi, soprattutto negli stati di frontiera con il Messico (>5 casi/100.000 abitanti), ma il rapporto casi diagnosticati/infezione latente sarebbe 1:500. In Italia l’incidenza è di 7,1 casi/100.000 abitanti, il 43% stranieri3. I nuovi casi/l’anno, nel mondo, sono circa 9 milioni, con un incremento di un punto percentuale ogni anno, dovuto perlopiù all’apporto numerico dell’ Africa. Ma i numeri esemplificano situazioni al limite del flagello, come nell’ Est Europa (150 casi/100.000 abitanti in Romania) e nel corno d’Africa e Africa sub-sahariana: 200 casi/100.000 abitanti tra gli HIV-, 450/600 tra gli HIV+. Nel mondo 14 milioni di persone sono affette da tubercolosi ed AIDS, il 70% di queste vivono in Africa. Riteniamo semplicemente un dovere ed un obbligo continuare a studiare l’infezione tubercolare, ad iniziare dal rapporto microrganismo-ospite e dalla risposta immune di questi, la sua evoluzione nel corso della storia naturale dell’infezione o modificata terapeuticamente, tutti aspetti che non hanno esaurito di presentarci nuovi interrogativi e ulteriori campi d’indagine. 114 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 2. La risposta immune anti-micobatterica La reazione dell’ospite a M. Tuberculosis è stata tradizionalmente suddivisa in due momenti, il primo aspecifico, in cui sono coinvolti principalmente i macrofagi e diversi fattori dell’immunità innata, che si conclude con la formazione di un focolaio infiammatorio (se a livello polmonare, un’alveolite essudativa), il secondo specifico, caratterizzato dall’intervento di linfociti T attivati e dalla cooperazione di questi con macrofagi esprimenti una serie di peculiarità funzionali nuove ed efficienti rispetto ai primi coinvolti; in questo secondo momento sono state individuate due fasi, una induttiva ed una efferente in base ai diversi atteggiamenti funzionali delle due cellule4. La granulomatogenesi è l’apice di questo complesso intreccio immunologico. Oggi questo schema è largamente superato anche perché tiene conto solo in parte delle modalità di collaborazione dei protagonisti cellulari, mediante mediatori quali le citochine e perché negli ultimi tempi si sono andati precisando alcuni meccanismi dell’immunità innata, affatto trascurabili. Distinguiamo pertanto cinque fasi. 2.1 Reclutamento e incremento di monociti-macrofagi Ad un primo intervento dei neutrofili che caratterizza l’alveolite essudativa aspecifica, segue una mobilizzazione vistosa e protratta dei monociti con successiva evoluzione tissutale in macrofagi: i latori del messaggio chemiotattico sono stati individuati in chemochine CC infiammatorie5 dette “primarie” (MCP, MIP, 66CCKS) e, in seconda istanza, IL 1, TNF e fractalchine (CXC3). 2.2 Attivazione “innata” dei macrofagi e produzione di mediatori I macrofagi vanno incontro ad una prima attivazione detta “innata” dallo stato di quiescenza, dovuta soprattutto a mediatori proinfiammatori locali e all’interazione fra molecole micobatteriche e un vasto sistema recettoriale presente sulla superficie dei fagociti, facente capo ai “pattern recognition receptors”6,7 (Tab. 1). L’effetto più eclatante di questa prima attivazione macrofagica, linfocito indipendente, è la secrezione di una serie di prodotti diversificati (Tab. 2): ricordiamo il rilascio di citochine proinfiammatorie, a cui sono attribuibili eventi infiamma- Tabella 1. “Pattern recognition receptors” e micobatteri Recettore Recettori per frazioni del complemento: C1-C2-C4 C3 Recettori per il mannosio Recettori cellulari specifici: CD 14 Scavenger receptors Toll Like Receptors: TLR2 TLR2 + TLR6 TLR4 TLR9 Localizzazione Stimoli induttori Legami molecolari macrofagi, cellule dendritiche macrofagi specifici (microglia) cellule APC di mic.non tubercolari microglia IL4 IL6 γIFN, prostaglandine LAM citochine infiammatorie LAM citochine infiammatorie e Th1 adesione batterica senza opsonizzazione fagocitosi batterica nell’ambito dell’immunità innata mannosio, lipidi macrofagi, cellule endoteliali fagociti “professionali” mannosio, lipidi LAM di M.Bovis e myc. a rapida crescita lipoproteina 19KDa antigene labile non definito complessi citosina-guanina F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare 115 Tabella 2. Mediatori e altre molecole prodotte dai macrofagi Mediatori pro-infiammatori Mediatori anti-infiammatori Modulanti dell’immunità Chemochine e altre molecole chemiotattiche Fattori della coagulazione Fattori del complemento Molecole antibatteriche: Enzimi agenti sulla matrice extracellulare “Colony stimulating factor” Fattori di crescita angiogenetici tori locali e manifestazioni sistemiche, citochine e chemochine che arricchiscono il numero e la tipologia dell’infiltrato cellulare, molecole coinvolte nel remodelling tissutale (matrice extracellulare, vasi), molecole antibatteriche, mediatori antiinfiammatori. 2.3 “Immunizzazione” della risposta: intervento dei linfociti T Il macrofago nelle sue diversificate connotazioni morfologiche: cellule epiteliodi, giganti plurinucleate, elementi di Langhans, ha in questa fase una minima attività fagocitica ma secerne mediatori che reclutano e attivano linfociti T. Le due cellule vanno incontro ad un contatto diretto mediato da molecole di adesione e costimolatorie ed è IL 1 macrofagica che agisce sulle cellule T, promuovendo la produzione di IL 2, fattore di automantenimento e autoamplificazione della risposta specifica T-mediata. La stimolazione e la presentazione degli antigeni micobatterici porta alla selezione di cellule T Cd4+ che, a loro volta, completano il ciclo attuando una piena attivazione dei macrofagi, citochino mediata e linfocito dipendente. Fattori legati al micobatterio (quadro antigenico, vie e modalità di esposizione) e legati all’ospite (presentazione degli antigeni, peculiarità genetiche che si esprimono soprattutto nell’intervento di peptidi Citochine infiammatorie: IL 1, IL 6, TNFα IL 10, TGFβ, prostaglandina E2, Vit. D3 IFNβ, IL 12 MCP-1, RANTES, MIP-1, IL 8, PAF Fattori III, V, VIII, attivatore del plasminogeno C3, properdina, fattore B Idrolasi acide Fosfatasi Fosfolipasi Lisozima Catepsina G Defensine Metaboliti reattivi dell’ossigeno e dell’azoto Elastasi, collagenasi M-CSF, GM-CSF PDGF, EGF, FGF del sistema maggiore di istocompatibilità – MHC- di 2° classe), determinano, nell’infezione tubercolare, un deciso viraggio dei linfociti verso il fenotipo Th18 e un network citochinico orientato in tal senso nel microambiente coinvolto (Fig. 1). 2.4 Polarizzazione della risposta linfocitaria antitubercolare: prevalenza Th1 È dimostrato che a orientare la polarizzazione in senso Th1 sono gli stimoli antigenici di M. Tuberculosis e l’azione di citochine quali IL 12 9, secreta nel mi- Fig. 1. Polarizzazione Th1 della risposta cellulare e citochinica nell’infezione Tubercolare 116 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 croambiente dai macrofagi attivati. La cellula Th1, pienamente operante, secerne γ-IFN, principale induttore dell’attivazione T-dipendente dei macrofagi. L’interazione fra linfociti T a prevalente fenotipo Th1 e macrofagi attivati o “armed” è l’asse attorno al quale ruota tutta la risposta immunitaria antitubercolare specifica, volta alla neutralizzazione del patogeno; questa finalità non sarebbe possibile senza l’intervento di cellule linfocitarie specificamente sensibilizzate e senza la piena maturazione ed attivazione del complesso macrofagico: in altre parole, l’azione delle cellule di cui al punto 2,1 è lontana dal raggiungimento della piena eradicazione dei micobatteri. 2.5 Attivazione “immune” dei macrofagi e nuove acquisizioni funzionali Un’aumentata suscettibilità a contrarre l’infezione tubercolare, in ambiti ristretti di popolazioni umane10 e in animali da esperimento (topi knock-out incapaci di produrre γ-IFN muoiono quando sono infettati con micobatteri), è stata dimostrata per difetti genetici di componenti coinvolti nell’attivazione macrofagica T-dipendente e γ-IFN mediata11 (Tab. 3): è una conferma indiretta dell’importanza di questa fase della risposta dell’ospite. La trasmissione dei messaggi di γ-IFN e la trasduzione dei segnali avvengono rapidamente dalla membrana al nucleo; il recettore per la citochina, sulla superficie dei macrofagi, è formato da due subunità α che riconoscono il ligando ed una subunità β essenziale nella trasduzione del segnale. La cascata biochimica che segue al legame recettore-citochina culmina nella fosforilazione del fattore di trascrizione STAT1: questi migra nel nucleo e attiva la trascrizione di geni specifici detti “Interferon responce sequences” 12. γ-IFN, nel macrofago, regola la trascrizione di geni ed in seguito a ciò la cellula acquisisce nuove peculiarità funzionali. Tra le principali, citiamo13: 1) Implementazione dell’attività APC a seguito dell’induzione di antigeni MHC di II classe e di molecole costimolatorie; 2) incremento dell’attività fagocitica per l’espressione di recettori di membrana nell’ambito delle funzione opsonizzante; 3) incremento delle capacità battericide della cellula: γ-IFN regola l’espressione di geni del complesso enzimatico della NADPH ossidasi e la successiva produzione di intermedi reattivi dell’ossigeno, nonché la trascrizione dei geni per iNOS: l’ossido nitrico che ne deriva è un potente antibatterico, che si aggiunge all’armamentario costituzionale della cellula (idrolasi, proteasi, lisozima, H2O2); 4) aumentata produzione di mediatori: citochine proinfiammatorie, tra cui TNF, decisivo nella granulomatogenesi, IL 12 che sostiene la polarizzazione Th1, chemochine infiammatorie per il reclutamento di nuovi elementi monocitari. L’espressione ristretta di recettori per chemochine, citochine e altre molecole, specifiche per il fenotipo Th1, dimostra la polarizzazione in tal senso14 (Tab. 4). In conclusione, l’interazione del micobatterio con cellule dell’immunità innata (macrofagi) innesca la cascata di eventi dell’infiammazione cronica tubercolare; il successivo intervento di cellule dell’immunità specifica (linfociti T) e il microambiente citochinico polarizzano la reazione verso il fenotipo Th1. La piena attuazione di questo programma e il raggiungimento di una reazione compiuta e matura si traducono nell’evento immuno-istopatologico tipico dell’infezione tubercolare: il granuloma (Fig. 2). 3. Maturità della risposta: il granuloma. Formazione e sviluppo I batteri inalati sono fagocitati dai macrofagi alveolari, all’interno dei quali possono sopravvivere e riprodursi inibendo la formazione dei fagolisosomi15; alla lisi dei macrofagi, si liberano grandi quantità di batteri. La risposta infiammatoria mediata dai linfociti T Cd4+ può essere responsabile della maggior parte del danno tessutale in corso di malattia. I linfociti CD4+ vengono attivati 2-6 settimane dopo l’infezione ed inducono la formazione di un fitto infiltrato di macrofagi attivati. Queste cellule circoscrivono 117 F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare Tabella 3. Difetti genetici di mediatori e recettori dell'immunità con aumentata suscettibilità alle infezioni micobatteriche Molecola Difetto Patologia Istologia e batteriologia γIFN R1 mutazione Infezioni disseminate fatali da MOTT a bassa virulenza Granulomi poco differenziati, c.epiteliodi e linfociti assenti, numerosi batteri γIFN R2 mutazione Infezioni disseminate fatali da micobatteri ambientali Granulomi assenti IL 12 Rβ1 mutazione Infezioni disseminate da micobatteri ambientali a bassa virulenza Granulomi ben organizzati ma con numerosi batteri intracellulari IL 12 e γIFN mutazioni Aumentata suscettibilità alla tubercolosi e alle micobatteriosi Granulomi necrotizzanti, elevata crescita batterica TNFα e TNFαR assenza Aumentata suscettibilità alla tubercolosi, ad andamento fatale Granulomi piccoli, disorganizzati, paucicellulari; alveolite necrotizzante IL 6, IL 10, IL 18 assenza Aumentata suscettibilità alla tubercolosi, ad andamento fatale * IL 1 α o β assenza Infezioni tubercolari a rapida evoluzione Granulomi scarsi, piccoli, paucicellulari MCP, CCR2 assenza Aumentata suscettibilità alla tubercolosi e alle micobatteriosi Scarso reclutamento cellulare, alterata granulomatogenesi STAT-1 mutazione Micobatteriosi disseminate * C3R assenza Compromissione della fagocitosi batterica Granulomi orientati verso il fenotipo Th2 MR mutazione Suscettibilità M.leprae * TLR4 mutazione Polmonite tubercolare cronica,deficit di citochine Th1 e chemochine Granulomi incapaci di eliminare i bacilli NADPHossidasi assenza Aumentata suscettibilità alla tubercolosi Malattia granulomatosa cronica NOS2 assenza Aumentata suscettibilità alle infezioni micobatteriche Elevata crescita intracellulare dei batteri NRAMP1 riduzione Aumentata suscettibilità alla tubercolosi * Vit D R mutazione Aumentata suscettibilità alla tubercolosi * osteopontina assenza Andamento protratto e sfavorevole delle infezioni tubercolari Granulomi piccoli, paucicellulari, assenza di cellule epiteliodi alle infezioni da 118 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 Fig. 2. Reclutamento cellulare e formazione del granuloma tubercolare Tabella 4. Polarizzazione Th1 della risposta linfocitaria nelle infezioni micobatteriche: specifici delle cellule Th1 reclutate Marcatore espresso dalla cellula Th1 Ligandi IL 12 Rβ2 IL 18 R CCR5 IL 12 IL 18 chemochine CCL3-4-5 chemochine CXCL9-10-11 chemochina CXCL16 E-selectine collagene I e IV CXCR3 CXCR6 PSGL1 CD49b, CD29: catene delle integrine VLA2 Segnale apoptotico: CD95 Segnale apoptotico: TIM3 CD95L galectina 9 il microorganismo all’interno di una lesione granulomatosa, formata da linfociti e da uno strato compatto di macrofagi attivati che si possono differenziare in cellule epitelioidi e cellule giganti multinucleate. L’infezione viene contenuta attraverso la soppressione, da parte dei macrofagi , della proliferazione dei bacilli fagocitati. Sebbene i batteri intracellulari siano contenuti all’interno dei granulomi, non tutti vengono uccisi. Inoltre l’attivazione massiva dei macrofagi determina il rilascio di enzimi litici che distruggono anche cellule sane circostanti e provocano una necrosi tessutale, che conferisce alla lesione la consistenza caseosa ad evoluzione fibro-calcifica, spontanea o terapeuticamente indotta. L’accumulo di notevoli quantità di antigeni micobatterici sostiene immunologicamente l’attivazione dei linfociti CD4+ e dei macrofagi. La colliquazione caseosa delle lesioni è un fertile terreno extracellulare che sostiene la proliferazione batterica; dal dissolvimento tissutale i batteri disseminano nel polmone e, attraverso la circolazione emo-linfatica, in altri distretti polmonari e organi a distanza. La crescita intracellulare del M. tuberculosis rende difficile ai farmaci di F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare raggiungere i bacilli e per tale ragione la terapia deve essere protratta per mesi; un trattamento breve o inadeguato non eradica il microrganismo e può provocare la comparsa di ceppi resistenti. L’ attuazione di una terapia idonea è uno degli aspetti più difficili nella gestione del paziente tubercolotico, tale da compromettere gli sforzi volti al contenimento della diffusione della malattia. La scarsa ossigenazione del focolaio caseoso ostacola e quindi arresta la moltiplicazione dei micobatteri, mentre la colliquazione del caseum, al contrario, rappresenta un evento sfavorevole per il paziente: si modificano infatti le condizioni di ossigenazione a livello del focolaio, per cui è possibile la moltiplicazione di micobatteri ancora vitali, nonché il drenaggio del materiale colliquato bacillifero nei bronchi e nei vasi. TNFα e, in minor misura, γIFN agiscono sinergicamente nella formazione del granuloma (16): topi incapaci di utilizzare le due citochine per assenza o difetto post-mutazionale dei recettori, sviluppano una malattia più destruente con necrosi anche non caseosa, spiccati fenomeni apoptotici, granulomi piccoli o assenti, pochi macofagi che non evolvono in cellule giganti e incapaci di distruggere i batteri fagocitati, abbondanza di neutrofili ed eosinofili17. Aspetti analoghi si possono osservare negli HIV+. In altri ceppi murini infettati, l’inibizione a produrre citochine infiammatorie e Th1 scatena una malattia interstiziale necrotizzante senza la formazione di granulomi. Il ruolo critico di TNFα non è nell’attivazione di linfociti e macrofagi, ma nell’organizzazione del granuloma e nell’orchestrazione di cellule, mediatori e matrice extracellulare: topi privati dei geni codificanti la citochina, subiscono la disseminazione bacillifera, la malattia è estesa e letale, i granulomi sono scarsi o nulli, predomina l’alveolite neutrofila. I linfociti Cd4+ e Cd8+ restano confinati nelle aree peribronchiali e perivascolari e non si organizzano con i macrofagi in granulomi. TNFα è indotto da complessi proteinepeptidoglicani e dal lipoarabinomanosio di M.Tuberculosis e Kansasii, meno da antigeni di M.avium complex, poco o nulla 119 da M.leprae; è inibito dal cortisone. Tra le sue azioni dimostrate in corso di granulomatogenesi18, ricordiamo l’espressione di ICAM-1 su diverse linee cellulari, più marcata nelle reinfezioni; l’aggregazione e la trasformazione dei macrofagi in cellule giganti plurinucleate, assieme a GMCSF, agendo sulla molecola Cd14+ e sul recettore per le β2integrine; l’espressione dei geni codificanti per l’osteopontina o proteina ETA1 di attivazione precoce dei T, in cellule immuni e non, che favorisce l’aggregazione cellulare nel granuloma e probabilmente la sintesi di matrice extracellulare19. Se il granuloma tubercolare nella sua forma tipica è caratterizzato da cellule e mediatori di tipo Th1, giocando γ-IFN e IL 12 un ruolo fondamentale sull’asse linfociti T-macrofagi, va sottolineata tuttavia l’ambivalenza di TNFα che da una parte interviene in meccanismi immuni protettivi (la granulomatogenesi), dall’altra può essere al centro di eventi infiammatori che comportano danno tessutale, necrosi ed effetti tossici; il prevalere dei primi è connesso allo sviluppo di una risposta immune fenotipicamente orientata in senso Th1, nell’ambito della quale opera anche TNFα, mentre l’imponenza di fenomeni lesivi e tossici accompagna o un deficit di tipo 1 (anergia) o un prevalere, anche temporaneo, cellulare e citochinico di tipo 2. Se nei pazienti infettati e non trattati il granuloma specifico nasce dalla cooperazione di più cellule e citochine capaci di mediare messaggi di attivazione e reclutamento, nei pazienti trattati e “responders” all’eclissarsi dello stimolo infettante e antigenico, corrisponde una minor cooperazione cellulare ed una ridotta attivazione e reclutamento di cellule nonché uno scarso apporto di citochine: in altre parole l’organizzazione cellulare chiamata granuloma perde le sue connotazioni perché diminuiscono le ragioni stesse del sue esistere20. 4. Gli antigeni micobatterici e la stimolazione del sistema immune Il mosaico di antigeni micobatterici può così essere schematizzato21: 120 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 1. Ag secreti durante la crescita batterica (proteine 19-32-38 KDa) che determinano una ricognizione precoce dei micobatteri ad opera dei linfociti T e attivano memory cells; 2. Ag associati alla parete (peptidoglicani) che sono tra i più forti stimolanti delle cellule T; 3. Proteine “DELLO SCHOCK”- di 65 KDa -, liberate in seguito a fenomeni di stress, come febbre e danno ossidativo; 4. Proteine parieto-citoplasmatiche alcune delle quali sono comuni a tutti i micobatteri (18-65-70 KDa), altre sono specifiche solo del M.Tubercolosis e Bovis (38-60 KDa); 5. Polisaccaridi come l’arabinomannosio che ha azione immunodepressiva; 6. Sulfatidi e cord-factor, fattori di virulenza; 7. Glico-Lipo-Proteine (Wax D) che hanno un ruolo adiuvante nella risposta immune; 8. Fosfolipidi e Fosfatidi che stimolano specificamente una risposta umorale. I polisaccaridi determinano una risposta immune più tardiva rispetto alle proteine. Nelle fasi iniziali il γ-IFN è indotto da frazioni di 56/44 e 35/28 KDa, da altri antigeni solo dopo l’acquisizione della memoria immunologica. Proteine di 20-46 KDa inducono maggiormente IL-1 e TNFα dai macrofagi. I linfociti della memoria sono stimolati da svariate proteine, perlopiù a basso P.M. Nel caso di miscele di lipo-protido-glicani (Ag 60) si ha una stimolazione sia dell’immunità cellulare che di quella umorale ed una forte induzione di γ-IFN ad opera di linfociti T. Le citochine proinfiammatorie sono prodotte su stimolo di lipoarabinomannosio (LAM), proteine dello shock di 65-70 KDa e complessi proteine-peptidoglicano da macrofagi che esprimono Cd14; γ-IFN è rilasciato su stimolo di complessi proteinepeptidoglicani, antigeni di 10 30 65 e 85 KDa: in particolare Ag di 30 KDa incrementa la sua attività stmolatoria durante l’evoluzione dell’infezione. La complessità del quadro antigenico e stimolatorio è tale che LAM è in grado di indurre i macrofagi a secernere anche citochine anti-infiammatorie e inibenti le funzioni battericide e citotossiche, quali IL 10 e TGFβ e IL 8 che recluta neutrofili: natura, frequenza e presentazione degli antigeni condizionano il prevalere di una risposta pro o anti-infiammatoria e di fenomeni immuni o dannosi. Anche a livello cellulare il panorama è variegato: la proteina dello shock 65 KDa e quella di 38 KDa stimolano cellule Th1 e funzioni citotossiche, ma la proteina di 16 KDa può reclutare fenotipi diversi: Th1, mediante le frazioni p91-110 o Th2, con le frazioni p21-40, potendo interferire con la polarizzazione della risposta22. Nel decorso dell’infezione, in fasi precoci antigeni a basso PM stimolano cloni Th1, in fasi avanzate molecole a PM più alto reclutano cellule della memoria ed elementi Cd8+. 5. L’armamentario anti-micobatterico 5.1 Cellule Cellule presentanti l’antigene, cellule accessorie. Nel polmone le cellule con attività accessoria sono localizzate nel lume alveolare (macrofagi alveolari) e nell’interstizio (macrofagi interstiziali, cellule dendritiche). I macrofagi alveolari hanno tutte le caratteristiche fenotipiche e funzionali di una cellula accessoria: esprimono sulla loro superficie le molecole dell’ MHC ed alcune molecole di adesione come l’ICAM-1 e il LFA-1. Sono in grado di fagocitare l’antigene, processarlo, presentarlo in associazione alle molecole MHC e produrre una serie di citochine che modulano l’attivazione e la proliferazione linfocitaria. I macrofagi interstiziali sono simili ai m. alveolari sia fenotipicamente che funzionalmente, ma hanno una maggiore capacità accessoria. Le cellule accessorie più potenti sono quelle dendritiche: stimolano la risposta linfocitaria in misura significativamente superiore ai macrofagi alveolari o tessutali e rivestono un ruolo fondamentale nella risposta immune; sono situate nei tessuti linfoidi e in molti organi periferici. Esprimono l’antigene comune linfocitario F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare ed alti livelli di antigeni MHC di classe II. Funzionalmente risultano essere le cellule accessorie più potenti e riescono a stimolare la proliferazione e la differenziazione dei linfociti T-resting. Per quanto riguarda le funzioni batteriostatiche e citolitiche del macrofago e dei mezzi con cui vengono attuate, si rimanda ai punti 2.1, 2.2 e 2.5. Linfociti T Il ruolo del linfocita T nella risposta immune nasce nell’ambito di un sistema recettoriale di superficie deputato al riconoscimento specifico di epitopi antigenici. I principali recettori del linfocita T sono due: alfa-beta e gamma-delta. Il più comune è il recettore α/β espresso da circa il 90-95% dei linfociti polmonari mentre il γ/δ è presente nell’ 1-5%. La variabilità fenotipica del recettore α/ β, da cui dipende la possibilità da parte dei linfociti di “riconoscere” la grande variabilità di antigeni che arrivano in contatto con le vie aeree, come quelli micobatterici, è legata alla particolare organizzazione dei geni che codificano per le due catene. Tale organizzazione, in modo simile a quanto si verifica per la sintesi delle immunoglobuline, prevede la presenza di un numero talmente elevato di regioni genomiche variabili (segmenti V, J), che per le possibili ricombinazioni con le regioni costanti consegue un numero pressoché infinito di varietà recettoriali. Il recettore α/β T-linfocitario riconosce l’antigene “presentato” sulla superficie della cellula accessoria in associazione con le molecole del complesso MHC di classe I o II. L’organizzazione genomica del recettore γ/δ è analoga a quella del recettore α/β, sebbene permetta un minor numero di diverse combinazioni durante il riarrangiamento genomico. Inoltre questo recettore riconosce prevalentemente gli antigeni associati ad alcune molecole MHC di classe I. I linfociti γ/δ producono citochine quali γ-IFN, sia pur con un’efficienza limitata, mostrano un’espansione clonale nelle fasi d’acuzie in cui l’attività litica verso microrganismi intracellulari appare circoscritta23. Linfociti T Cd4+. Gran parte delle funzioni dei linfociti Cd4+ è legata alla 121 produzione di citochine: IL-2, IL-3, IL-4, IL-5, IL 6, γ-IFN, TNFα, mediante le quali regolano la proliferazione e l’attivazione funzionale di molte cellule (epiteliali, fagociti mononucleati, linfociti B ed NK), modulano la sintesi di immunoglobuline e il reclutamento delle cellule infiammatorie. In corso di un’infezione micobatterica sono attivati da IL 2 e IL 12 prevalentemente in senso Th1: topi KO per IL 12 sono tubercolino negativi. Alcuni cloni Cd4+ possono essere citotossici verso macrofagi contenenti batteri o loro frazioni : sono MHC II° classe ristretti, richiedono l’intervento di ICAM-1 e LFA-1 e lo stimolo è rappresentato dalla presenza di bacilli in se, come nell’immunità naturale e non da antigeni specifici24. Interazione macrofago-linfocita T Cd4+ nell’immunità-cellulo mediata in corso di infezione da micobatteri (Fig. 3). La fagocitosi ha subito un’impressionante evoluzione negli organismi superiori ed ha acquisito un’elevata specializzazione, diventando un meccanismo complesso di protezione attiva. Cellula emblematica di tale processo è il macrofago, a cui si deve la specificità del meccanismo, in virtù della cooperazione con il linfocita T. Il macrofago quando incontra per la prima volta un antigene batterico attua una fagocitosi relativamente efficace, ma si innesca il processo di riconoscimento e di sviluppo Fig. 3. Interazione macrofago – linfocita T 122 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 della memoria e neutralizzazione. In un eventuale secondo incontro, il macrofago è attivato (macrofago armato) e rende l’antigene innocuo, non lesivo per l’organismo; in tale situazione coopera con il linfocita T e si crea una reazione immunitaria specifica: il macrofago deve far conoscere l’antigene al linfocita T, deve dargli cioè informazioni sulla struttura molecolare tipica di quell’antigene mediante decodifica molecolare. Avviene la così detta presentazione o interazione superficiale del T con l’antigene, MHC ristretta. A questo punto si verifica: 1. Acquisizione della memoria da parte dei T per quel tipo di struttura antigenica; 2. Amplificazione dei linfociti T; 3. Attivazione dei linfociti e produzione di mediatori che attivano nuovi macrofagi e stimolano la produzione di enzimi litici che sono necessari alla distruzione del materiale fagocitato, step γ-IFN dipendente. Linfociti T Cd8+. La funzione suppressor dei linfociti Cd8+ è legata alla loro capacità di inibire la risposta immune. I cloni citotossici attivati esprimono IL 12 R, sono stimolati dagli stessi antigeni dei Cd4+, producono γ-IFN e altre citochine T1 ma con uno spettro più ristretto. Nel granuloma occupano una sede più eccentrica rispetto i Cd4+, quasi defilata e a tutt’oggi il loro ruolo nell’infezione tubercolare appare sfumato e mal definito. Di certa dimostrazione sono questi punti: 1) sono stimolati soprattutto da antigeni ad alto PM, ma dopo vaccinazione con BCG sono fortemente attivati e riconoscono l’ Ag 6 KDa ESAT 6 protein25; 2) riconoscono antigeni processati e presentati mediante peptidi MHC 1° classe (MHC 1° classe ristretti); 3) sono citotossici nei confronti di macrofagi infettati e producono molecole litiche come la perforina26. Cellule a fenotipo Th1/Th2. È stato ampiamente dimostrato che la reazione immune linfocitaria tipica nell’infezione tubercolare è prevalentemente a fenotipo Th1 e tale caratterizza i cloni reattivi, il profilo citochinico e il tipo di granuloma. Poiché la risposta ad un mosaico di antigeni non è mai univoca, ci chiediamo se, quando e con quale peso possa prevalere o coesistere una reazione mista o Th2 orientata. Antigeni di 45-60 KDa stimolano cellule Th2 in uno stadio precoce, in coincidenza di quella fase iniziale e fugace dell’infezione in cui può prevalere questo fenotipo, a fronte di un’immaturità del sistema cellule-citochine Th1 in cui l’ospite è più fragile27; dopo 11/2-2 mesi d’infezione antigeni di 65 KDa selezionano cloni Th2 che producono IL 4, bilanciando un eventuale eccesso di attività delle citochine Th1. Tuttavia vere funzioni inibenti e calmieratrici, qualora sia da interrompere l’iperattività Th1, vanno attribuite alle molecole antinfiammatorie IL 10 e TGFβ, che si elevano in coincidenza della negativizzazione dell’espettorato e prevalgono negli HIV+, come antagoniste di cellule Th1 e γ-IFN. Ancora da esplorare, nella tubercolosi, il ruolo delle cellule Treg sulla cinetica Th1/Th2 28. Un netto prevalere del fenotipo Th2, nella tubercolosi, può essere escluso, anche in soggetti allergici (in base alla “Higiene hypothesis”), in coloro un tempo etichettati come anergici, in HIV+ e in pazienti co-infettati da parassiti; una prevalenza relativa può manifestarsi in tutti quei casi in cui il fenotipo Th1 è depresso per funzioni e/o numero (i veri tubercolotici immunodepressi), come nell’apoptosi selettiva di linfociti T e Th1 in particolare indotta da antigeni micobatterici (iperespressione di Fas – CD95 -)29. Clinicamente, in questi casi, osserviamo forme gravi, estese, multiresistenti, i tessuti sede di danno infiammatorio e necrotizzante e il persistere dello shift Th1→ Th2 sostenuto dalla concomitanza di altre patologie, fattori endocrini, genetici. 5.2 Citochine Non è questa la sede per addentrarci nella miriade di funzioni e interconnessioni delle citochine coinvolte, durante l’infezione tubercolare, nel colloquio tra cellule immuni e non; anche se la risposta dell’ospite fondamentalmente verte sul ruolo di linfociti e macrofagi, le citochine sono essenziali nel portare segnali di attivazione, inibizione, regolazione. Rias- F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare sumeremo pertanto solo i punti nevralgici per gruppi, peraltro già delineati nelle pagine precedenti. Citochine pro-infiammatorie (Fig. 4). L’IL-1 è prodotta dai monociti, macrofagi, cellule di Langhans, attraverso stimoli induttori portati da γ-IFN, TNF-α, immunocomplessi circolanti, C5a e tossine batteriche. I recettori per l’IL-1 sono posseduti dai linfociti T e B, dai fibroblasti, dalle cellule endoteliali ed epiteliali. Concorre alla presentazione dell’antigene ai linfociti T, regola e trascrive il gene per l’ IL-2 ed il suo recettore, può amplificare la risposta dei Th; insieme all’IL-6 ed al TNF-α stimola la produzione di fattori ad azione pro-coaugulante e trombogenica. L’IL-1 agisce stimolando geni delle cellule T a produrre sia IL-2 che il suo recettore specifico (IL-2R) sulla membrana cellulare: IL-2, liberata nel microambiente, agisce come una molecola ormonale autocrina che stimola le stesse cellule progenitrici con un meccanismo autoregolante; pertanto IL-1 determina “up regulation“ nei confronti di IL-2 (e di conseguenza delle cellule attivate), IL-2 provoca nel tempo “down regulation” dell’attivazione. L’aumentata attivazione di una cellula T e/o dei Cd4+ è segnalata dalla comparsa sulla superficie di IL-2R. (Cd3+ Cd25+ o Cd45 Ro+; Cd4+ Cd25+ o Cd45 Ro+) e dalla liberazione nel microambiente o in circolo della frazione solubile (S.IL-R.), in eccesso o tagliata dopo legame con la citochina. Fig. 4. Cooperazione IL –1 / IL – 6 / TNF-α 123 L’antagonista recettoriale di IL 1 (IL 1 RA) è un mediatore dell’infiammazione necessario per la formazione dei granulomi Th1 nell’ambito di un equilibrato rapporto IL 1/IL 1 RA: topi KO per IL 1 α o β o privi del recettore hanno elevata crescita batterica e formano granulomi scarsi e piccoli; alcune famiglie Hindu con prevalenza di IL 1 sull’antagonista recettoriale, sviluppano forme più attenuate di tubercolosi30. Il TNF-α viene prodotto da monociti, macrofagi e linfociti Th1 dopo stimoli di attivazione cellulare citochino-dipendente. Svolge una funzione di attivazione reciproca dei linfociti T ↔ macrofagi e determina la sintesi di fattori chemiotattici e molecole d’adesione, senza le quali non possono essere reclutate le cellule infiammatorie. Inoltre è responsabile dei fenomeni collaterali come anoressia, cachessia, ipotensione, calo ponderale. Comunque l’azione essenziale del TNF-α è quella di permettere la formazione del granuloma specifico attraverso il poli-reclutamento cellulare, l’organizzazione dell’architettura di cellule e matrice e la batteriostasi. Il dosaggio nel sangue e nel liquido di lavaggio broncoalveolare delle citochine proinfiammatorie, mediante ELISA o sistemi più sensibili (citochine prodotte da cellule raccolte e stimolate in vitro, metodi citofluorimetrici sulle stesse cellule, amplificazione degli mRNA specifici) all’esordio, evidenzia valori superiori alla media e corrisponde sia all’iperattività immunogenetica di queste molecole che alla situazione di flogosi acuta accompagnata da segni sistemici (febbre, astenia e dimagrimento) o bio-umorali (incremento delle proteine della fase acuta)31. Nei pazienti responders, in corso di terapia, assistiamo al decremento delle tre molecole, in coincidenza del miglioramento clinico e sintomatologico, alla normalizzazione o riduzione degli indici di flogosi, alla riduzione dello stimolo infettante e della carica antigenica, situazioni che si traducono in minor reclutamento di cloni T attivati, minor attivazione macrofagica, stasi o riduzione della granulomatogenesi32. Citochine anti-infiammatorie. Un vero sistema antagonista delle citochine infiam- 124 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 matorie, ma anche di IL 12 e γ-IFN è stato dimostrato nell’attività di IL 10 e TGFβ: prodotte su stimolo di LAM ed antigeni ad alto PM, da cellule monocito-macrofagiche, Langhans, epiteliali, nelle forme ad evoluzione favorevole e responder alla terapia raggiungono livelli consistenti nei fluidi biologici in coincidenza del calo di IL 1 e TNF, neutralizzando le funzioni di queste in senso granulomatogenetico, nonché i meccanismi della polarizzazione Th1. A riprova di ciò sono state trovate elevate e iperespresse in fasi precoci di infezione in casi di malattia estesa, pluricavitaria e nei HIV+, ove antagonizzano i segnali attivatori di γ-IFN verso i macrofagi e caratterizzano aspetti dannosi e destruenti dell’infiammazione33. Nell’ambito delle attività regolatorie anti-infiammatorie, IL 10 e TGFβ inibiscono alcuni enzimi, come NOsintasi, implicati nella batteriostasi intracellulare e IL 10 neutralizza i segnali anti-micobatterici inviati da γ-IFN ai macrofagi. Assumono un ruolo attivo nella fase fibrogenetica, promuovendo la sintesi di collagenasi macrofagica e matrice extracellulare. Citochine Th1-correlate. L’IL-2 è prodotta dalle cellule Th1 attivate, su induzione di IL-1, che codifica e trascrive i geni per IL-2 e il suo recettore, espresso dalle stesse cellule Th1 ed altri targets. Di fondamentale importanza sono le sue azioni: – Determina la crescita e l’amplificazione clonale dei linfociti T; – Stimola la produzione di altre citochine (γ-IFN); – Recluta e attiva monociti e macrofagi; – Modula l’attività citotossica Nk. γ-IFN è prodotto da cellule Th1 e linfociti T della memoria, ma la sua comparsa è tardiva, quando la sensibilizzazione e l’acquisizione della memoria sono avvenute. Gli stimoli induttori del γ-IFN sono Ag-batterici soprattutto di 60 KDa. Nel corso della risposta immune attiva i macrofagi (fagocitosi e lisi batterica), induce l’espressione di adesine, di molecole di MHC e attiva cellule Nk. Tra le altre citochine Th1-correlate, fondamentale è IL 12, prodotta da cellule monocito-macrofagiche sia in fasi precoci d’infezione, con meccanismi dell’immunità innata in cui l’induzione è la fagocitosi in se, sia nella fase di sensibilizzazione su stimolo di antigeni specifici; liberata nel microambiente, è essenziale per la maturazione e l’amplificazione clonale di Th1, stimola la produzione di γ-IFN con cui attua una up regulation, incrementa l’attività citotossica delle cellule NK e antigene-specifica dei Cd8+. Le citochine anti-infiammatorie sono i suoi naturali antagonisti. All’esordio della malattia, nei campioni biologici, si ha un cospicuo incremento di R IL 2 Sol e γ-IFN, mentre sono poco apprezzabili IL 2 e IL 12, molecole difficili da dosare se non si ricorre a colture cellulari dopo stimolazione specifica o amplificazione di mRNA. È importante rilevare tassi elevati di R IL 2 Sol, marker di attivazione delle cellule T e γ-IFN nella malattia “vergine”, all’inizio del trattamento, come indice di un indirizzo decisamente Th1 orientato34. Dopo 3-6 mesi, nei pazienti trattati ad evoluzione favorevole i valori delle due citochine mostrano un netto decremento: l’attivazione delle cellule T e macrofagiche è in fase calante e la granulomatogenesi è ben controllata dalla terapia35. Citochine Th2 correlate. In una risposta immune antitubercolare valida e secondo i percorsi da noi descritti, nessun mediatore in quest’ambito ha un ruolo dimostrato; IL 4 e IL 13, con i limiti metodologici di dosaggio segnalati, sono su valori prossimi allo zero in ogni fase della malattia, mentre IL 5 può essere inizialmente apprezzabile36. Qualora prevale un profilo Th1 orientato, il supporto di molecole Th2-correlate è poco significativo o di interpretazione incerta e studi con casistiche ampie in pazienti con risposta prevalente di tipo Th2 presentano dati contraddittori e non confrontabili. 5.3 Altri fattori (chemochine, adesine, integrine) La chemiotassi è il processo che regola la motilità direzionale delle cellule infiammatorie e immunocompetenti e che ne permette la migrazione nei focolai di flogosi. Nel polmone vengono prodotti diversi mediatori ad attività chemiotattica: F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare – prodotti di clivaggio del complemento C3a e C5a; – oligopeptidi N-formilati di origine batterica; – metaboliti dell’acido arachidonico; – citochine come IL-5, IL-8, GM-CSF, TNFα, “macrophage inflammatory protein-1” (MIP-1), “neutrophil chemotactic factor”. Nell’immunità cellulo-mediata, un accenno meritano, infine, molecole che fan capo ai sistemi delle chemochine, integrine, adesine, che regolano il reclutamento e il traffico di cellule nonchè interazioni tra esse. Le chemochine che ci interessano sono quelle “CC”, che reclutano linfociti e monociti, prodotte da cellule immuni e non (endoteli, epiteli, fibroblasti), su stimoli inizialmente rappresentati da antigeni micobatterici, IL 1 e TNF, in seguito da T attivati. Le chemochine inducono migrazione di leucociti nel focolaio di flogosi, regolano il traffico linfocitario attraverso i tessuti linfoidi periferici e tra questi e organi infiammati (polmone), aumentano l’affinità di legame delle integrine leucocitarie per i ligandi espressi da un target37. Le principali integrine espresse dai linfociti T sono: VLA (i cui ligandi sono VCAM 1 sulla membrana della cellula bersaglio, fibronectina e laminina nella matrice extracellulare) e LFA-1 (ligandi ICAM 1/2/3); IL 1 e TNF ma anche γ-IFN e antigeni micobatterici aumentano il livello di espressione dei ligandi sulle cellule accessorie, APC, macrofagi alveolari, mentre l’attivazione dei T e la stimolazione da parte dell’antigene iperesprimono le integrine. La reazione integrine-ligandi si traduce nel fenomeno detto “Signaling Inside Out” 38 , ovvero l’ottimizzazione dell’adesione e dell’interazione delle cellule T con un target (APC, endotelio, matrice); l’avidità delle integrine per i loro ligandi aumenta dopo esposizione dei T alle chemochine e stimolazione tramite TCR. 6. Aspetti immunologici di alcune situazioni particolari Tubercolosi miliare. In questi casi, oggi rari, sono state riscontrate concentrazioni 125 elevatissime di citochine proinfiammatorie che permangono tali anche per mesi. Tubercolosi cronica. Può assumere alcuni aspetti tipici delle malattie autoimmuni come: – attivazione policlonale dei linfociti B con incremento delle immunoglobuline, produzione di autoanticorpi generici (ANA) e/o specifici (anti membrana basale degli alveoli); – decremento della funzionalità soppressoria dei Cd8+. Tubercolosi multiresistente. Qualora i Cd4+ siano < 500 cellule/ml, si accompagna un quadro di severa immunodepressione con deficit di IL 2, IL 12 e γ-IFN39. Coinfezione tubercolosi-HIV. Si hanno infiltrati interstiziali tipo polmoniti atipiche, rare cavitazioni con frequenti ed imponenti adenopatie satelliti, mancata formazione di tipici granulomi. Dai linfonodi è possibile avere un quadro istologico di iperplasia aspecifica reattiva. Il M.Tubercolosis colpisce gli HIV+ ancor prima la comparsa dell’AIDS, i M.O.T.T. ad AIDS conclamato o dopo altre infezioni opportunistiche, presumibilmente poichè la difesa anti M. Tubercolosis è dovuta soprattutto alle cellule Cd4+, precocemente infettate e distrutte dal virus, mentre nella difesa anti-Mott intervengono altri elementi, Nk e macrofagi il cui calo numerico e funzionale si verifica solo nelle fasi avanzate dell’infezione HIV. Le citochine proinfiammatorie sono rilasciate in modo ridotto, il reclutamento di cellule è deficitario e i granulomi tipici sono scarsi o assenti; la polarizzazione è sempre Th1 orientata, anche se numericamente deficitaria e bassa è la produzione di γ-IFN, specie con valori di Cd4+ < 200 cellule/ml 40. È stata ipotizzata la presenza di inibitori di IL 2 e γ-IFN, in parte noti – citochine antinfiammatorie -, in parte sconosciuti. In rari casi vi può essere uno switch marcato per la produzione di IgE, da iperfunzione di IL 4, cui si associa una tubercolosi disseminata. Eritema nodoso. È una vera sindrome tossica, provocata dall’azione cito e vasculolesiva di TNF in eccesso: farmaci come la talidomide, che ne inibiscono l’ mRNA, 126 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 migliorano il quadro clinico nelle infezioni in topi di laboratorio (41). 7.Correlazioni cellule - mediatori A titolo esemplificativo, riportiamo i grafici e le correlazioni statistiche da noi Fig. 5. Correlazioni cellule - mediatori osservate ponendo a confronto una serie di parametri cellulari e citochinici, in una casistica di 33 pazienti che furono oggetto di un ampio studio31,42, a cui si rimanda per le specifiche del progetto (Fig. 5). In questa sede desideriamo solo sottolineare come, all’esordio, la risposta immunitaria si caratterizza per la piena concertazione F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare di cellule, citochine e altri mediatori, tesi allo sviluppo della struttura granulomatosa, fase documentata dalle strette correlazioni statistiche osservate di cui riportiamo alcuni esempi; qualora la malattia evolva favorevolmente, dopo alcuni mesi di pieno trattamento, al miglioramento clinico, sintomatologico, radiologico e batteriologico, corrisponde un decremento dello stimolo immunologico dell’ospite e pertanto la mobilizzazione delle risorse immunitarie di questi si eclissa progressivamente: l’orchestrazione di cellule e mediatori al fine di costituire nuove strutture granulomatose non è più necessaria, cessa il coordinamento nell’armamentario antimicobatterico e le correlazioni statistiche osservate non sono più significative. 8. L’ evoluzione delle lesioni: la fibrosi La diminuzione della carica infettante e della stimolazione antigenica evoca una risposta immune sempre valida ma meno organizzata: in altre parole sta scemando il numero di cellule reclutate e attivate ed il granuloma specifico, pur valido e attivo, non ha più necessità di essere ulteriormente alimentato. È aperta la strada verso la guarigione istologica delle lesioni e verso l’evoluzione terminale: la fibrosi. L’evoluzione fibrotica o fibro-calcifica delle lesioni tubercolari, fenomeno anch’esso largamente legato a tappe immunologiche, non è stato studiato con la stessa profondità delle fasi induttiva, effettrice e granulomatogenica; sappiamo che soprattutto i macrofagi attivati e, secondariamente, i linfociti T, sono al centro dell’organizzazione molecolare e cellulare che conduce alla formazione di tessuto fibroriparativo. Questi fattori possono essere ripartiti in quattro gruppi43: 1) Molecole che inducono l’attivazione dei fibroblasti: PAF, PDGF, AMDGF; 2) Mediatori che inducono nei fibroblasti la produzione e il deposito di collagene: IL 10, TGFβ, fibronectina; 3) Mediatori che attivano la sintesi, da parte dei fibroblasti, di matrice extracellulare: IL 10, TGFβ; 4) Induttori dell’angiogenesi: PAF,VEGF. 127 Sappiamo anche che mediatori come IL-4, agenti in senso fibrogenetico in altre patologie, non hanno effetto nella tubercolosi. Tuttavia nel complesso le nostre acquisizioni sono lacunose e dovranno essere approfonditi i meccanismi che conducono alla fibrosi, soprattutto l’attivazione dei fibroblasti ad opera di molteplici attivatori, sia nell’evoluzione naturale della malattia che in quella modificata dalla terapia. 9. Conclusioni La clinica della Tubercolosi polmonare è così strettamente legata all’origine ed all’evoluzione immunologica, che da lungo tempo le classificazioni ed i diversi quadri clinici ne sono profondamente condizionati: pertanto clinica e immunologia formano una unità imprescindibile di cui bisogna tener conto sia nel trattamento del paziente, sia nell’interpretazione dei dati di laboratorio che nel giudizio prognostico che emerge in corso di evoluzione. La risposta immune si sviluppa mediante una stretta cooperazione tra macrofagi e cellule T, Cd4+ in particolare, attraverso vie di reciproca coattivazione, amplificazione clonale, selezione di “memory cells” contemporaneamente al riconoscimento, alla presentazione e all’elaborazione degli antigeni micobatterici; tutte queste fasi sono mediate da citochine di produzione linfocitaria e/o macrofagica e la stretta interdipendenza tra cellule e mediatori è stata ampiamente documentata anche dalle correlazioni riportate sia nella fase induttiva che in quella effettrice, che porta alla formazione del granuloma, alla cui evoluzione concorrono cellule reclutate, attivate e modificate, citochine, chemochine, molecole di adesione; TNF e γ-IFN partecipano in vario modo ma risultano fondamentali nell’organizzazione complessiva delle cellule costituenti. Lo sviluppo del granuloma è l’atto conclusivo della serie di eventi immuni descritti e rappresenta l’epicentro immuno-istologico di una reazione efficiente dell’ospite verso l’insulto micobatterico. Nuovi e recentissimi studi hanno approfondito ulteriormente le conoscenze sull’interazione micobatteri-ospite nonché 128 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 la formazione e l’evoluzione del granuloma. Gli aspetti che prossimamente dovranno essere indagati possono essere così riassunti: 1. Le competenze dell’immunità naturale, soprattutto nelle fasi iniziali dell’infezione tubercolare, meritano di essere rivisitate alla luce delle più recenti conoscenze quali le interazioni tra TLR e molecole micobatteriche, aspetti genetici dei complessi recettoriali e dei mediatori, conseguenze individuali e familiari delle mutazioni di questi, meccanismi di batteriostasi: problematiche importanti per riprendere, in chiave moderna, l’antico e sempre arduo problema della recettività e resistenza. 2. Ruolo dei linfociti con recettore γ/δ (soprattutto Vγ9 / Vδ2). Il ruolo di queste cellule nell’immunità antitubercolare non è del tutto chiaro: sappiamo che, stimolate, producono chemochine, TNF-α e γ-IFN e dunque hanno importanza nella granulomatogenesi e lisano macrofagi infettati da micobatteri con meccanismi Fa S / Fa S ligando o producendo sostanze citotossiche. Tuttavia, mancano studi in vivo conclusivi anche perché il loro numero nei soggetti infettati è apparentemente disomogeneo. Chiarire il loro ruolo è uno dei prossimi obiettivi. 3. Ruolo delle chemochine. Queste molecole, il cui compito fondamentale è quello di reclutare cellule infiammatorie ed immunitarie, intervengono senz’altro nella formazione e nell’organizzazione del granuloma: studi in quest’ambito sono lacunosi e vanno senza dubbio sviluppati. 4. L’apoptosi è un nuovo filone d’indagine tutto da esplorare: è stato dimostrato da diversi Autori un incremento del fenomeno a carico di cellule Th1 e di macrofagi, soprattutto basato sull’interazione Fa S / Fa S ligando. Tra l’altro l’apoptosi di cellule Th1 potrebbe spiegare condizioni d’anergia e immunodepressione che accompagnano alcuni quadri di infezione tubercolare. Lo studio del fenomeno in vivo e l’attribuzione di un suo ruolo nella patogenesi della malattia è dunque un ulteriore campo d’indagine. 5. L’evoluzione fibrotica o fibro-calcifica delle lesioni tubercolari: abbiamo citato mediatori e attivatori dei fibroblasti e delle diverse tappe della fibrogenesi, ma sfuggono ancora i meccanismi molecolari innescati nei processi riparativi delle lesioni tissutali. Tutte queste indagini necessitano comunque dell’utilizzo delle nuove tecnologie, al fine di aumentare la sensibilità dei sistemi diagnostici utilizzati e soprattutto per rendere il risultato dei singoli dosaggi più aderente alla realtà clinica e patologica del paziente. Pertanto si potranno applicare anche nel campo dell’immunologia della tubercolosi questi indirizzi procedurali: colture cellulari con e senza stimolazione antigenica; dosaggio di mediatori e recettori solubili nel sovranatante delle stesse colture; studio delle citochine intracitoplasmatiche o mediante l’analisi dell’mRNA specifico – ibridizzazione in situ- o mediante citofluorimetria; ampliamento delle applicazioni della citofluorimetria: studio dei recettori specifici di superficie per citochine, chemochine o altri mediatori sulle cellule immuni, tipizzazione Th1 / Th2. Un ulteriore settore di studio, nell’ambito dell’interazione microrganismo-ospite, riguarda la risposta immune ai diversi antigeni micobatterici, la regolazione genica di questi e pertanto una conoscenza più compiuta del genoma batterico: questi temi saranno in un prossimo futuro prioritari, soprattutto per la preparazione di nuovi e più efficaci vaccini, rispetto all’ormai datato BCG, il cui allestimento non potrà prescindere da conoscenze e tecniche di genetica e biologia molecolare: un’approccio che è soprattutto una risposta e una probabile soluzione ad un problema di salute pubblica ormai “globalizzato”44. Siamo consapevoli che non tutte queste indagini porteranno contributi validi ed utilizzabili nella pratica per gestire il paziente tubercolotico nel suo assetto immunologico o fare opera di prevenzione: tuttavia, per rispondere coerentemente alle domande e alle osservazioni poste nell’introduzione, la ricerca di base deve ripercorrere vecchie strade e individuarne di nuove, tenendo presente la necessità di F. Belli: L’evoluzione della risposta immune e infezione tubercolare affrontare in pratica un enorme problema di sanità internazionale con cui noi e chi ci seguirà avrà a che fare, in futuro, ancora a lungo: paghiamo a caro prezzo errori di sottovalutazione compiuti negli ultimi decenni, sia nei paesi cosiddetti evoluti che in quelli in via di sviluppo (molti dei quali, anche in campo sanitario, eternamente tali), nonchè la miopia nel non saper prevedere la diffusione su scala mondiale di vecchi e nuovi microrganismi. BIBLIOGRAFIA 1. 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Burnout syndrome Introduzione L’utilizzo di Gruppi Balint nella formazione degli operatori sanitari nasce in primo luogo per favorire una più facile comunicazione riguardo i casi di difficile gestione, in modo da comprendere le ragioni delle difficoltà nel rapporto con il paziente e favorire l’empatia nella relazione terapeutica. Attualmente questo tipo di intervento dimostra di essere efficace nella prevenzione dei disturbi del burnout1 al quale sono significativamente esposti gli operatori delle cosiddette “professioni d’aiuto”. Numerose ricerche2,3,4 stimano attorno al 60% il numero di professionisti, medici ed infermieri, che nella loro carriera soffrono di disturbi legati a tale sindrome dal momento che si trovano ad operare a stretto contatto con la malattia. Gli operatori che sono affetti da tale sindrome, studiata da Maslach5, consistente in una reazione cronica alla tensione emotiva, perdita progressiva di energia e scopi nella loro professione, dichiarano sensazioni di esaurimento emotivo, spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali. Inoltre insorgono disturbi del sonno e gastro-intestinali, cefalee, difficoltà sessuali, depressione e in alcuni casi si determina un vero e proprio abuso di alcool e di psicofarmaci. Recenti ricerche hanno posto l’accento su un aumento del rischio di incorrere in disturbi cardiovascolari6. Come reazione alla sofferenza vengono messi in atto meccanismi psicologici di difesa che “allontanano” il dolore provocato dalla relazione con il paziente: un tipo di reazione è quello della “burocratizzazione” del proprio lavoro utilizzando un modello lavorativo stereotipato con procedure standardizzate e rigide; un’altra possibilità è la “fuga” ricorrendo all’aspettativa, alle ferie, alla malattia. Tali strategie non sono adeguate in quanto non portano al superamento delle difficoltà; inoltre, provocano un peggioramento della prestazione professionale ed una diminuzione dell’autostima. I professionisti che soffrono di tali disturbi perdono gradualmente i sentimenti positivi verso la propria utenza e subentra in loro un atteggiamento cinico riguardo la sofferenza. Nei professionisti che lavorano in ambito oncologico, oltre al rischio di burnout, si segnala anche il rischio di incorrere in disturbi psichiatrici: la loro prevalenza si stima attorno al 30% come attestato da ricerche in Italia7 e nel Regno Unito8. I Gruppi Balint prendono nome dal fondatore Michael Balint, medico e psicoanalista di origine ungherese. Essi vennero 132 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 avviati in Ungheria e, successivamente, si svilupparono a Londra negli anni ‘50 del secolo scorso attraverso il lavoro congiunto di Balint e di sua moglie Enid. Essi nacquero come seminari di ricerca e di addestramento per sensibilizzare i colleghi alle componenti interpersonali della terapia medica e si basavano su due convinzioni del fondatore: 1) il medico è il farmaco principale del paziente; 2) nella relazione medico/paziente si producono sofferenze ed irritazioni che possono essere risolte9. Balint maturò l’idea che l’incontro in gruppo tra colleghi potesse essere utile a condividere l’esperienza lavorativa ed ottenere un sostegno psicologico. Il gruppo, come strumento di formazione, permette di convogliare in un luogo ed in uno spazio definiti, le dinamiche, i vissuti e le risposte affettive che si sono verificate nella relazione con il paziente e ne consente la loro elaborazione: i problemi presentati da un singolo nella gestione di un caso vengono così chiariti attraverso l’esperienza degli altri partecipanti. All’interno del gruppo si partecipa ad un lavoro comune nell’operare sul controtransfert manifesto dell’operatore, cioè sul «modo in cui il medico utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, i suoi modi di reazione automatici»10. Come riferisce Agresta11, per Balint la crescita professionale dell’operatore avviene grazie alla comprensione della sua risposta controtransferale al paziente. Ciò è di centrale importanza al pari della sua capacità tecnica e delle sue conoscenze scientifiche: infatti coloro che vengono formati secondo questi criteri sono in grado di acquisire nuove capacità professionali nell’utilizzo della relazione con il paziente migliorando così la compliance nelle cure mediche. Le sessioni di un Gruppo Balint durano 90 minuti, costituite da un gruppo di 10-15 “protagonisti” che siedono in un cerchio al centro della sala. Uno di loro si offre di esporre un caso clinico nel quale ha incontrato delle difficoltà e questo caso viene discusso insieme agli altri membri con l’aiuto dei due conduttori del gruppo, in genere psicologi psicoterapeuti. Al di là del cerchio dei “protagonisti” ci sono altri partecipanti che hanno una funzione di “coro” e possono intervenire nella seconda metà della seduta. In una giornata si svolgono solitamente quattro sessioni e al termine viene svolta un’analisi del lavoro per comprendere le dinamiche che si sono verificate. Generalmente l’attenzione viene focalizzata su diversi livelli: a) il genere di difficoltà interiori, relazionali, familiari, sociali che si possono dedurre o interferire con le comunicazioni del paziente; b) sulle modalità stesse secondo le quali egli si presenta e chiede aiuto: atteggiamento, postura, tono della voce, tipo di linguaggio, capacità di esprimere emozioni; c) sul “vissuto”del medico e sulle modalità con le quali egli risponde al paziente attraverso modalità inconsce; d) sui movimenti cognitivo-emozionali che si attivano nel gruppo dei partecipanti durante la discussione; e) il gruppo che si fraziona schierandosi su diverse posizioni rappresenta le parti diverse della mente del paziente, parti che possono essere anche non comunicanti fra loro o in conflitto e che il conduttore avrà il compito di mettere in evidenza in quanto dinamiche di gruppo12. I Gruppi Balint sono gruppi etero-centrati nel senso che il loro focus è “al di fuori” della situazione formativa stessa, essi sono orientati verso il paziente e quindi si occupano di comprendere dinamiche esterne al gruppo (a differenza dei gruppi terapeutici che invece si focalizzano sulle dinamiche tra i partecipanti del gruppo). Il “là e allora” della relazione vissuta direttamente si riattualizza nel “qui ed ora” del gruppo attraverso il caso presentato: questa creazione di un legame tra passato e presente genera un flusso dinamico di gruppo che favorisce il cambiamento intrapsichico di ogni partecipante. L’operatore acquisisce uno strumento terapeutico in più in quanto apprende dall’esperienza quale è la “giusta distanza emotivo-affettiva” che è utile per operare efficacemente nel proprio campo: né “fuso” con i vissuti del paziente né “staccato” difensivamente da essi, ma capace di identificarsi con l’esperienza di chi si ha di fronte, riuscendo anche a sottrarsi all’identificazione per vedere il problema P.Ciurluini et al.: Training per medici ed infermieri per prevenire la sindrome di burnout dall’esterno. L’operatore apprende quella che viene definita una funzione di “Io osservante” la quale aiuta a comprendere cosa sta avvenendo nella relazione per agire nell’interesse del paziente13. De Luca14 descrive come la richiesta di formazione del personale che opera in oncologia sia percepita sempre con maggiore frequenza in quanto il cancro, con la sua indeterminatezza nelle cause, attiva fantasie molto primitive e persecutorie che richiedono con urgenza un supporto psicologico per poter meglio fronteggiare le angosce identificatorie nella relazione. In tale contesto il rischio di burnout è elevato per il curante che si trova ad affrontare situazioni-limite come il rischio di morte del proprio paziente indipendentemente dalla correttezza del proprio operare15, condizione che provoca vissuti di impotenza. Ci si trova a convivere con il dolore dei pazienti e contemporaneamente si provano forti vissuti di rabbia per le incertezze riguardo la prognosi o per la mancata compliance del malato. Questa situazione espone il curante a ferite narcisistiche e sensi di colpa che risultano di difficile gestione, senza uno spazio adeguato per la loro condivisione e comprensione. Secondo Carbone16 e Comazzi17 il Gruppo Balint si pone come strumento appropriato per occuparsi degli aspetti psichici nella relazione con i pazienti con disturbi somatici ed è, quindi, un metodo efficace per l’equipe che lavora in oncologia. Metodologia e casistica Le prime esperienze di formazione di Gruppi Balint all’interno dell’Ospedale S. Camillo Forlanini iniziano ad essere realizzate nel 1989 dall’ Unità Operativa Dipartimentale di Psicologia Oncologica, diretta dalla Dott.ssa Paola Ciurluini. I primi destinatari sono stati 14 allievi infermieri iscritti al Corso Regionale di specializzazione in Oncologia. Tale formazione era articolata in incontri settimanali di 90 minuti. Successivamente nel 2002 i Gruppi Balint sono stati attivati per 24 medici ed infermieri della 5° e 6° Unità Operativa di Pneumoncologia attraverso incontri settimanali fuori orario di servizio. In seguito, tali gruppi Balint si sono organizzati per 133 12 volontari dell’ARVAS prima dell’inizio e durante la loro assistenza volontaria a tali pazienti. Tutti gli incontri settimanali sono stati condotti per un anno. Durante questo percorso sono stati discussi casi clinici al fine di migliorare la comunicazione e la relazione tra operatori, il paziente e la sua famiglia, in modo da realizzare una presa in carico complessiva dei vari livelli della malattia. Risultati Durante gli incontri, grazie all’attivarsi delle dinamiche di gruppo, sono emerse a carico degli operatori sanitari emozioni e sentimenti come la rabbia, la sfiducia e lo scoraggiamento. Questi nascevano dalla sensazione di essere incapaci di fornire un’assistenza adeguata per l’eccessivo coinvolgimento emotivo e dalla difficoltà che ogni membro incontra nel gestire la relazione con i malati, dall’incertezza nel modo di rapportarsi con loro, dalla ricerca di “conferma” o “disconferma” di qualche loro atteggiamento assunto. L’aver condiviso tali difficoltà in gruppo ha consentito la possibilità di “metabolizzare” le ansie, le fantasie e le angosce di morte portate dai singoli: il setting del gruppo consente la formazione di un pensiero partendo da elementi sensoriali ed emozionali, differenziando il conscio dall’inconscio18. L’equipe terapeutica prima dell’intervento formativo si è trovata ad esperire forti frustrazioni dovute alla mancata compliance da parte di alcuni pazienti che avevano abbandonato le cure palliative. La comprensione delle dinamiche emotive che avevano provocato la “rottura” nel rapporto terapeutico con l’equipe, ha permesso il ristabilirsi dell’empatia nella cura del paziente. Abbiamo osservato che la percentuale di successo ottenuta nel gestire la relazione con il malato ottenuta dagli allievi infermieri era nettamente inferiore al 40%, rispetto all’85% dei medici ed infermieri della V° e VI° Unità Operativa di Oncopneumologia e al 75% dei volontari dell’ARVAS. Questi dati possono trovare la loro spiegazione nel fatto che la giovane età degli allievi infermieri, e la totale mancanza di 134 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 esperienza in questo campo, rendeva più arduo l’impatto con tale tipo di malattia. 6. Melamed S, Shirom A, Toker S, et al. Burnout and risk of cardiovascular disease; evidence, possible causal paths, and promising research directions. Psychol Bull 2006; 132: 327-53. Conclusioni 7. Bressi C, Manenti S, Porcellana M, et al. Haemato-oncology and burnout: an Italian survey. Br J Cancer 2008; 98: 1046-52. Come sottolineato da Barbaro e Tafuri e da Ciurluini et al.20,21 i professionisti che operano in oncologia necessitano di un training adeguato di formazione e specializzazione in Psiconcologia che consenta loro di realizzare uno spazio interno per comprendere gli affetti, riconoscere ed affrontare il dolore personale, “i costi emotivi” implicati nelle relazioni, gli effetti benevoli o avversi dell’azione d’aiuto. In base alle esperienze formative effettuate nelle U.O. dell’ Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini riteniamo che l’utilizzo dei Gruppi Balint sia una valida modalità per depotenziare le fonti di stress psicologico e per incrementare le capacità professionali dell’equipe curante in merito alla relazione terapeutica con il paziente. Il risultato considerevole della formazione è stato quello di prevenire la sindrome di burnout nel personale attraverso la gestione dello stress psicofisico e il sostegno realizzato dal lavoro in gruppo. Con i colleghi è stato possibile, infatti, continuare a fortificare l’opera di assistenza al paziente, migliorando la comunicazione verbale e non verbale e i rapporti interpersonali tra operatori il paziente e la sua famiglia. 8. Ramirez AJ, Graham J, Richards MA, et al. Burnout and psychiatric disorder among cancer clinicians. Br J Cancer 1995; 71: 1263-9. 19 BIBLIOGRAFIA 1. Rabinowitz S, Kushnir T, Ribac J. Preventing burnout: increasing professional self efficacy in primary care nurses in a Balint Group AAOHN J 1996; 44: 28-32. 2. Allegra CJ, Hall R, Yothers G. Prevalence of burnout in the U.S. Oncology Community: Results of a 2003 Survey J Oncol Practice 2005; 1: 140-7. 3. Glasberg J, Horiuti L, Novais M, et al. The burnout syndrome among Brazilian medical oncologists. 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Ciurluini P, De Angelis G, Pallotta G. Il contributo psicologico nella comunicazione tra medico e paziente oncologico:una proposta di intervento dalla diagnosi al trattamento. Ann Ist C Forlanini 1995; 15: 95-102. Richiesta estratti: Dott.ssa Paola Ciurluini - E-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 10, Numero 2, Aprile - Giugno 2008 Recensione OSSERVAZIONI IN LIBERTÀ SU UN VECCHIO TESTO DI PNEUMOLOGIA (1938) Un vecchio testo di Pneumologia, sfuggito al macero durante alcuni lavori di riorganizzazione della Biblioteca del Forlanini, invita a una revisione critica comparativa con l’attualità di questa branca specialistica. Si tratta di “ Quelques vérités premières (ou soi-disant telles) en Pneumologie clinique” di Emile Sergent autorevole esponente della Pneumologia di quell’epoca (edito da Masson nel 1938). Già il titolo appare piuttosto intrigante in quanto le verità primarie in Pneumologia clinica sono affermate come “sedicenti tali” cioè di verità primarie per l’oggi (di allora!) ma destinate ad essere superate o addirittura negate nel futuro. Non è frequente oggi il richiamo alla “labilità” della conoscenza scientifica da interpretare più come un processo in fieri che come un dogma immutabile. Ovviamente il testo è datato: esso è ricco di osservazioni comparative e minuziose rispetto alla malattia “monstre” dell’epoca e cioè alla TBC: tutti gli aspetti più raffinati delle varianti cliniche, della diagnosi differenziale, delle complicanze della terapia pneumotoracica e dei versamenti pleurici tubercolari sono analizzati in dettaglio e con profondo acume critico ma sono oggettivamente ridondanti oggi, tanto più in un testo di sole 81 pagine. Ma il metodo di analisi critica è affascinante, cosi che, ad un certo punto, fa dire all’Autore che il problema della diagnosi, da parte del clinico, è analogo a quello di un giudice istruttore nel processo penale, nella cui attività vengono privilegiate le osservazioni oggettive senza idee preconcette e con una totale imparzialità .....(?). È abbastanza ovvio, per l’epoca, che la raccolta dell’anamnesi e l’attento esame clinico, nonché i dati della radiologia toracica “semplice”, come si andava affermando tra le due guerre, rappresentino il fulcro delle osservazioni metodologiche e critiche dell’autore. Molto interessante è però vedere come siano trattate le grandi sindrome cliniche. Per quanto attiene l’asma bronchiale il concetto di distonia neuro vegetativa con alterato rapporto vago/simpatico è alla base della discussione patogenetica e non viene fatto cenno, come naturale per l’epoca, della natura flogistica della malattia. È molto interessante però notare che anche settant’anni fa il ruolo unitario del sistema respiratorio in un paziente asmatico o bronchitico cronico trovava un riflesso nelle osservazioni puntuali e precise dell’Autore quando invocava l’analisi attenta dei disturbi rinitici e faringei come elementi iniziali e spesso risolutivi per la diagnosi dei complessi fenomeni della bronchite e dell’ asma. Si tratta di una brillante anticipazione dell’ odierna sindrome rino-sinu-tracheo-bronchiale. Per la bronchite cronica l’Autore identifica come cause primarie la tubercolosi e la sifilide (?) e come cause meno frequenti 136 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 10, 2, 2008 le micosi polmonari, l’azione dei gas bellici e l’esposizione professionale a polveri o gas irritanti come avveniva nei carbonai, nei minatori e negli autisti, con una evoluzione frequente verso la silicosi. È anche piuttosto sorprendente che, nell’analisi delle cause della bronchite cronica, non si faccia cenno, neanche di sfuggita, al fumo di sigaretta: eppure a quell’epoca il fumo, come possiamo constatare guardando qualche vecchio film degli anni ‘30, era molto diffuso, non solo tra le persone abbienti, ma anche nel ceto intermedio e negli operai. Verosimilmente, era proprio la estrema diffusione di questa abitudine e a far distogliere l’attenzione sull’importanza del fumo nella genesi della bronchite cronica e, se mi è consentita un’ipotesi più maliziosa, riterrei che Ser- gent, come tanti medici dell’epoca (ma non solo di allora!), fosse un fumatore. Per quanto attiene al cancro del polmone l’Autore fa un’osservazione che potremmo ritenere ancora oggi attuale: di fronte all’aumento dei casi e di fronte alle obiezioni di coloro che dicevano che non si trattava di una crescita reale ma di un fenomeno dovuto all’affinamento delle diagnosi, Sergent obietta che, a suo avviso, si tratta di una crescita reale in termini assoluti. Ma fra le cause che cita come momenti eziologici del cancro del polmone Sergent cita solo il pulviscolo delle strade asfaltate e l’azione dei profumi ... (?); (il fumo di sigaretta è ancora il grande sconosciuto!!) Giovanni Schmid