Gazzetta Forense n. 5 del 2010

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Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 4 – Settembre-Ottobre 2010
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
comitato di direzione
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Corrado d’ambrosio
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capo redattore
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redazione gazzetta forense
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Giuseppe Tesauro
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n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
Max 3 - Roma
nel novembre del 2010
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
La parabola di Pomigliano d’Arco tra occupazione e diritti
9
Giuseppe Ferraro
La legittimazione processuale passiva dell’amministratore del condominio
12
Nota a Corte di Cassazione, sez. un., sent. 6 aprile 2010, n. 18331
Giovanni Gravina di Ramacca
Lineamenti del contratto autonomo di garanzia e inquadramento della fattispecie
della polizza fideiussoria
18
Nota a Corte di Cassazione, sez. un., sent. 18 febbraio 2010, n. 3947
Alessandro de Notaristefani
Principio di accessione per costruzione sul suolo di proprietà esclusiva del coniuge
in comunione legale
34
Nota a Corte di Cassazione, sez. I civ., sent. 30 settembre 2010, n. 2050
Antonio Piccolo
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
39
A cura di Mario de Bellis e Donato Palmieri ]
43
In evidenza
[ Nota redazionale a cura di Pietro d'Alessandro ]
Tribunale di Napoli, sezione lavoro, sentenza 26 maggio 2010, n. 14458 [ Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo ]
Tribunale di Napoli, sez. dist. Pozzuoli, sentenza 19 febbraio 2010, n. 112 [ Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto ]
Tribunale di Napoli, sezione X civile, sentenza 21 ottobre 2010, n. 10683
45
50
56
Diritto e procedura penale
La responsabilità penale del consiglio di amministrazione della S.p.A. e il ruolo
dei modelli organizzativi nell’adempimento degli obblighi in materia antinfortunistica
61
Alberto De Vita
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
65
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
70
73
Diritto amministrativo
Un codice per il processo amministrativo
85
Daniele Marrama
L’autodichia, una prerogativa ormai quasi invulnerabile delle Camere parlamentari
90
Pasquale, Pierluigi Bufo
Corrispettivo a base d’asta negli appalti di lavori pubblici e buon andamento della P.A.
104
Nota a Consiglio di Stato, sentenza 16 agosto 2010, n. 5702
Enzo Napolano
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
[ A cura di Almerina Bove ]
110
Diritto tributario
L’affitto di azienda: recenti orientamenti in tema di detrazione dell’imposta
sul valore aggiunto
115
Maria Pia Nastri
Le targhe degli studi professionali sono esenti dall’imposta
e dal canone sulla pubblicità
Nota a Corte di Cassazione, ord. int. 16 luglio 2010, n. 16722
Raffaele Cantone
119
Diritto internazionale
Rassegna di diritto internazionale [
A cura di Francesco Romanelli ]
127
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
diritto processuale civile
Opposizione al decreto ingiuntivo / Francesca Bonito
131
diritto penale
Riciclaggio / Andrea Alberico
132
diritto amministrativo
Diritto alle ore di insegnamento di sostegno per gli alunni disabili / Ida Sorrentino
134
Recensioni
[ A cura di Ermanno Restucci ]
Responsabilità civile e risarcibilità del danno
di Gaetano Annunziata, Padova, 2010
139
Gazzetta
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●
Sempre più spazio
per approfondimenti
di novità legislative
e giurisprudenziali
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
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Anche questo numero di Gazzetta Forense viene chiuso
sperando di aver racchiuso nelle tre branche di maggiore approfondimento le maggiori novità che in questo autunno si
affacciano sulla scrivania del giurista e che soprattutto troveranno nei prossimi mesi enormi riscontri tra gli addetti ai
lavori.
In primis un approfondito commento al nuovo codice del
processo amministrativo che dalla scorsa estate ha trovato
applicazione nel nostro panorama processuale. Si tratta di una
grande novità che va a disciplinare in un unico contenitore i
procedimenti dinanzi ai Tar e al Consiglio di Stato. Allo
stesso tempo il commento di un autorevole giuslavorista ci
porta a riflettere sulle recentissime novità in tema di contrattazione collettiva; con gli strappi di una delle maggiori organizzazioni sindacali agli accordi Fiat di Pomigliano. In particolare si cerca di fare luce in un mondo quello della contrattazione collettiva in continuo fermento e dove la stessa giurisprudenza delle sezioni lavoro dei Tribunali ha negli ultimi
tempi modificato gli storici orientamenti ipergarantisti pro
lavoratori. Infine autorevole professore universitario analizza
la sempre più interessante materia delle responsabilità penali
degli amministratori e degli organi di controllo di società per
azioni. Qui sono richiamate recenti decisioni giurisprudenziali che sulle orme delle novità legislative hanno innovato
sensibilmente questa branca del diritto societario, per anni
relegata alla sola sfera civilistica della responsabiltà.
Non mancano le consuete rassegne di merito ed interessanti note redazionali in tema di responsabilità civile per cose in
custodia della P.A. (Trib. Napoli, sez. X civ., sent. 21.10.2010,
n. 10683); di tempestività della contestazione nell'ipotesi di
licenziamento disciplinare (Trib. Napoli, sez. lavoro, sent.
26.05.2010, n. 14458) e, infine, di risarcimento del danno
patrimoniale per l'attività di casalinga (Trib. Napoli, sez. dist.
Pozzuoli, sent. 19.02.2010, n. 112). Note che sono un utilissimo strumento per avvocati e studiosi che in poche righe si
trovano a dover riassumere gli sviluppi della giurisprudenza e
della dottrina in quella determinata materia.
Infine in materia tributaria si offre ai lettori una prima
analisi di una recentissima sentenza della Suprema Corte in
tema di esenzione da imposte della targa degli studi professionali.
Diritto e procedura civile
La parabola di Pomigliano d’Arco tra occupazione e diritti
9
Giuseppe Ferraro
La legittimazione processuale passiva dell’amministratore del condominio
12
Nota a Corte di Cassazione, sez. un., sent. 6 aprile 2010, n. 18331
Giovanni Gravina di Ramacca
Lineamenti del contratto autonomo di garanzia e inquadramento della fattispecie
della polizza fideiussoria
18
Nota a Corte di Cassazione, sez. un., sent. 18 febbraio 2010, n. 3947
Alessandro de Notaristefani
Principio di accessione per costruzione sul suolo di proprietà esclusiva del coniuge
in comunione legale
34
Nota a Corte di Cassazione, sez. I civ., sent. 30 settembre 2010, n. 2050
Antonio Piccolo
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
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A cura di Mario de Bellis e Donato Palmieri ]
In evidenza
Tribunale di Napoli, sezione X civile, sentenza 21 ottobre 2010, n. 10683
[ Nota redazionale a cura di Pietro d'Alessandro ]
Tribunale di Napoli, sezione lavoro, sentenza 26 maggio 2010, n. 14458 [ Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo ]
Tribunale di Napoli, sez. dist. Pozzuoli, sentenza 19 febbraio 2010, n. 112 [ Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto ]
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civile
Rassegna di legittimità [
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●
La parabola
di Pomigliano d’Arco
tra occupazione
e diritti
● Giuseppe Ferraro
Ordinario di diritto del lavoro
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
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9
1. La vicenda dello stabilimento Gianbattista Vico di Pomigliano d’Arco, nelle sue molte sfaccettature, è emblematica
di complessi processi che attraversano la società contemporanea
di cui due particolarmente vanno evidenziati: costituisce una
metafora efficace dell’attuale stadio del fenomeno della globalizzazione dell’economia industriale, e consente altresì di registrare la più recente evoluzione del nostro sistema di relazioni
industriali, con tutte le sue disfunzioni e carenze regolative.
Sotto il primo profilo la ristrutturazione dello stabilimento di Pomigliano si inquadra in una operazione più ampia di
riassetto produttivo di una impresa multinazionale che opera
ormai in una logica planetaria secondo regole di pura convenienza economica, eppure con un forte ed antico radicamento
in una realtà nazionale. Di qui la tendenza a privilegiare gli
insediamenti nazionali, per quanto economicamente praticabile, ma in un quadro di regole fortemente dinamiche che
ormai travalicano i singoli Stati nazionali e vengono in gran
parte imposte dalle nuove tecniche di organizzazione e di
produzione sempre più sofisticate.
Sotto il secondo profilo la vicenda mette a nudo le difficoltà di un sistema di relazioni industriali che, dal periodo post
costituzionale in poi, si è retto su un patto di unità di azione
delle principali Confederazioni sindacali, che ha consentito di
assicurare un equilibrio regolamentare, apparentemente precario, ma in realtà alquanto efficiente e suscettibile di mantenere sotto controllo gli ambiti inevitabili di dissenso.
La rottura di quell’equilibrio politico-sindacale compromette l’intero apparato di regole su cui si era andato sviluppando il sistema di relazioni industriali e lo proietta in uno
stato di anomia di cui è al momento difficile prevedere gli
sviluppi futuri.
2. Sul piano contenutistico, il centro focale dell’accordo è
rappresentato dal significativo cambiamento delle condizioni
di lavoro indotto da un nuovo modello di organizzazione del
lavoro basato sulla razionalizzazione spinta del processo produttivo secondo i canoni organizzativi, di matrice giapponese,
della WCM (World Class Manifacturing). Tali criteri organizzativi sono orientati all’obiettivo della flessibilità della struttura produttiva e della massima saturazione degli impianti,
secondo un processo continuo e ininterrotto che non può
tollerare pause o interruzioni.
L’implementazione del nuovo modello organizzativo è
pertanto accompagnata da una manovra sui tempi di lavoro
nella prospettiva di aumentarne la produttività: l’orario di
lavoro diventa più flessibile ed elastico, più concentrato ed
anche meno programmabile. Infatti, fermo restando l’orario
normale di 40 ore settimanali per ciascun lavoratore, è prevista una articolazione dell’attività produttiva su sei giorni la
settimana, con copertura giornaliera di tre turni di otto ore
ciascuno a rotazione, per un totale di 18 turni settimanali. Si
prevede inoltre la possibilità di alternare settimane lunghe di
48 ore e settimane corte con 32 ore, o addirittura talvolta
cortissime di 24 ore, con un orario multiperiodale spalmato
appunto su una media plurisettimanale di 40 ore. In questo
quadro, l’azienda si riserva la facoltà di richiedere un incremento del lavoro straordinario per 80 ore individuali che
vanno ad aggiungersi alle 40 ore prefigurate dal contratto
collettivo per un totale di 120 ore pro capite.
Innovazioni altrettanto rilevanti si registrano poi sulle
pause di lavoro, sulle sospensioni delle attività produttive,
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ancorché finanziate con la cassa integrazione, e sulla flessibilità nell’impiego dei lavoratori con una maggiore mobilità
professionale suscettibile in vario modo di riverberarsi anche
sui trattamenti retributivi.
3. Ma le novità più problematiche su cui si è accesa la
polemica sono concentrate nel punto 8 dell’Accordo, in materia di assenteismo, e nel punto 14 sulla cd. clausola di responsabilità.
Con riguardo all’assenteismo, è prevista, in presenza di
forme anomale di assenteismo, “significativamente superiori
alla media”, la facoltà dell’azienda di non dare corso alla
“copertura retributiva a carico dell’azienda dei periodi di
malattia correlati al periodo dell’evento”. Inoltre, considerato l’elevato livello di assenteismo che si è registrato in passato
in concomitanza con le varie tornate elettorali, le parti “convengono che in tali occasioni lo stabilimento potrà essere
chiuso per il tempo necessario e la copertura retributiva sarà
effettuata con il ricorso a istituti collettivi (permessi residui
e/o ferie) e che l’eventuale recupero della produzione sarà
effettuata senza oneri aggiuntivi a carico dell’azienda e secondo le modalità definite dalla presente intesa per i recuperi produttivi”. Per di più l’indennità elettorale viene riservata
“esclusivamente nei confronti dei presidenti, dei segretari e
degli scrutatori di seggio regolarmente nominati e dietro
presentazione di regolare certificazione” con esclusione quindi della pletora dei rappresentanti di lista.
Altrettanto importante è la clausola contenuta nel punto
14, con la quale si vorrebbero responsabilizzare le OO.SS. e
le RSU del mancato rispetto degli impegni assunti con l’accordo, sino al punto di prevedere persino un meccanismo
sanzionatorio costituito dalla perdita dei contributi sindacali
e dei permessi sindacali, di matrice contrattuale, nei confronti dei vari organi direttivi delle OO.SS.. Inoltre, per rafforzare la vincolatività dell’intesa, le parti, al punto 15, “convengono che le parti del presente accordo integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno
sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce
infrazione disciplinare” con tutti gli effetti sanzionatori che
vi sono correlati che possono arrivare sino al licenziamento.
4. Sul piano dell’analisi strettamente giuridica, alcuni
giudizi critici sul contenuto dell’accordo sono sembrati eccessivamente severi ed ispirati da valutazioni prevalentemente
politico-ideologiche. Ed invero la maggior parte delle clausole richiamate si muove su una linea di accentuata flessibilità
organizzativa ormai da tempo recepita nei principali contratti collettivi e avallata da una legislazione sempre più remissiva nell’assecondare i cambiamenti del sistema produttivo.
Certamente i ritmi di lavoro previsti sono alquanto impegnativi, ma niente affatto drammatici, come si è voluto fare
intendere. Il lavoro alla catena di montaggio è intrinsecamente gravoso e logorante, ma una diversa distribuzione delle
pause di lavoro e una limitata monetizzazione delle stesse non
determina effetti sensibilmente peggiorativi. Peraltro la turnazione a ciclo continuo è da tempo diffusa in molti settori
produttivi e in alcuni casi persino nel settore terziario.
La stessa facoltà di richiedere un maggiore impegno di
lavoro straordinario è in linea con una tendenza nazionale a
valorizzare una tale forma di impiego della manodopera
quale fattore di produttività aziendale e di incremento delle
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retribuzioni, tant’è vero che la relativa quota retributiva è
sottoposta ad una tassazione di favore con riflessi non trascurabili persino sul piano contributivo-previdenziale. Per non
dire che molto spesso lo straordinario è rivendicato dagli
stessi lavoratori per ottenere un significativo incremento dei
(sin troppo bassi) trattamenti salariali.
Ciò non toglie che in alcune previsioni contrattuali siano
registrabili delle forzature, per esempio in materia di riposo
giornaliero, oppure con riferimento alle pause di lavoro, istituti che in alcuni casi vengono stravolti nella loro funzione
naturale. E tuttavia non è detto che tutte le ipotesi prefigurate debbano trovare costante attuazione tanto più se impattano con disposizioni legislative inderogabili che potrebbero
alimentare un complesso contenzioso giudiziario.
5. Le due novità più rilevanti attengono, come già detto,
all’assenteismo ed alle clausole di responsabilità.
Con riguardo al primo profilo, non c’è dubbio che il problema sollevato dalla Fiat sia autentico e consistente: forme
anomale di assenteismo, sotto ogni profilo deprecabili, sono
fortemente diffuse negli stabilimenti meridionali e costituiscono un ostacolo serio alla organizzazione del lavoro ed al
normale funzionamento degli impianti. Tuttavia si tratta di
un fenomeno difficile da contrastare anche per l’eccessiva
disinvoltura dei medici a rilasciare i certificati di malattia in
presenza di eventi e situazioni che dovrebbero destare un
naturale sospetto. Del resto il fenomeno non riguarda soltanto la realtà industriale meridionale, come ben evidenziato
dalla recente riforma Brunetta della pubblica amministrazione, che contiene un intero capitolo orientato a contrastare
l’assenteismo nelle pubbliche amministrazioni ed a colpire sia
i fannulloni, sia i medici sin troppo compiacenti.
E tuttavia il rimedio adottato nell’accordo in esame non
sembra affatto convincente sul piano tecnico-giuridico, giacché demanda ad una valutazione aziendale di stabilire se
l’erogazione dei trattamenti integrativi di malattia debba avvenire o meno in presenza di un tasso di assenteismo unilateralmente giudicato anomalo. La disciplina protettiva, codificata negli accordi sindacali, ha una sua valenza generale e
inderogabile che non può essere condizionata nella fase applicativa ad eventi esterni per lo più imponderabili, peraltro valutabili unilateralmente e utilitaristicamente dalla controparte datoriale. Di tutto ciò deve essere ben consapevole persino
l’azienda che ha voluto le clausole in questione, con ogni probabilità, più per un effetto moralizzatore e dissuasivo che non
per finalità autenticamente operative giacché, ove mai la clausola in questione dovesse essere azionata, ne deriverebbe un
contenzioso giudiziario dagli esiti abbastanza prevedibili.
È superfluo aggiungere poi che alcune garanzie in materia
di aspettativa per ragioni elettorali sono assicurate da una
normativa inderogabile di legge e quindi come tali insuscettibili di essere derogate da una contrattazione collettiva specie
aziendale.
6. Anche le clausole di responsabilità, attraverso le quali
si vorrebbero responsabilizzare le OO.SS. sino al punto di
privarle dei permessi sindacali di matrice contrattuale, sembrano concepite con un tasso eccessivo di approssimazione
tecnica e difficilmente potrebbero reggere nell’agone giudiziario. Intendiamoci, la contrattazione collettiva ha da tempo
incorporato clausole di garanzia più o meno affini essendo
ormai riconosciuta la validità e vincolatività dell’obbligo a
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carico delle OO.SS. di assicurare periodi di tregua sindacale
e di influenzare gli iscritti al fine di consentire la stabilità
degli impegni assunti. Qui il salto di qualità è rappresentato
dall’apparato sanzionatorio concepito in termini sin troppo
indifferenziati sino al punto da prefigurare una sorta di responsabilità oggettiva a carico delle OO.SS. per comportamenti difformi ad esse non imputabili, e ciò indipendentemente dai soggetti che li abbiano posti in essere, ancorché del
tutto estranei alla loro sfera di influenza.
Persino l’incorporazione del contenuto dell’accordo nei
contratti individuali non è di per sé stravolgente, se non nella
parte in cui si pretende di trasferire automaticamente clausole sindacali spesso approssimative all’interno della struttura
obbligatoria del contratto individuale di lavoro sino a configurare adempimenti puntualmente vincolanti a carico del
singolo lavoratore come tali suscettibili, in caso di trasgressione, di essere perseguiti con provvedimenti disciplinari.
7. Da una visione distaccata dell’accordo in questione, due
valutazioni di sintesi sembrano opportune.
La prima. Un accordo come quello descritto, pur problematico ed innovativo, sarebbe stato facilmente metabolizzato
se fosse stato condiviso da tutti i sindacati maggiormente
rappresentativi. In tal caso sarebbe stato difficile metterne in
discussione “la tenuta” in termini di validità e di efficacia
soggettiva generalizzata, tanto più se convalidata da un referendum con esito nettamente favorevole. Ed invece un dato
storico lo ha reso esplosivo: l’accordo si è inserito nella fase
più acuta di polemiche interne al movimento sindacale, per lo
più successive all’Accordo Quadro del gennaio 2009 (e del
successivo Accordo Interconfederale dell’aprile 2009), che ha
avuto la singolare pretesa di definire nuove regole di relazioni
industriali senza l’adesione della principale confederazione
sindacale. Di qui una radicale contrapposizione: da una parte i sindacati firmatari del predetto accordo-quadro che avevano tutto l’interesse di dimostrare la validità della struttura
tecnica dello stesso nella parte in cui consentiva un maggior
dinamismo della contrattazione aziendale in presenza di situazioni locali di espansione del sistema produttivo, che andavano assecondate attraverso l’accettazione di “clausole di
uscita” parzialmente derogative del contratto nazionale; da
un’altra parte la posizione opposta espressa dal sindacato
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dissenziente pronto a ricorrere a qualsiasi artificio dialettico
pur di mettere in discussione la validità di tale impianto regolatore che avrebbe compromesso valori e diritti considerati
indisponibili.
Sta di fatto che il contrasto tra le principali Confederazioni ha reso quanto mai precario l’accordo costringendo così la
Fiat a rincorrere, scompostamente, una serie di espedienti
tecnici, – quali la disdetta del contratto dei metalmeccanici
del 2008 sottoscritto da tutte le OO.SS., (per valorizzare
quello del 2009 in linea con l’Accordo Quadro), ovvero la
costituzione di una new company, – che nelle aspettative dei
suoi consulenti dovrebbero miracolosamente liberare l’azienda del peso dei contratti collettivi preesistenti. In realtà si
tratta di espedienti rocamboleschi che difficilmente consentiranno di realizzare gli obiettivi prefigurati.
8. La seconda. Per una singolare ironia della sorte, l’accordo riguarda una realtà produttiva e territoriale che presenta problematiche del tutto peculiari, molto più drammatiche
di quelle riscontrabili in altre aree del paese. Sicché la prima
esperienza di rilievo, applicativa del nuovo sistema di relazioni industriali introdotta dall’Accordo Quadro del 2009, si è
andata realizzando in un contesto eccezionalmente anomalo
che ha appesantito l’accordo di questioni e significati che non
attengono alla sua struttura regolamentare. È incontestabile
che in una realtà degradata quale quella dell’entroterra napoletano, ove da tempo si registra un processo di deindustrializzazione del tessuto produttivo in uno con l’occupazione del
territorio da parte della malavita organizzata (con tutto il
seguito di attività illecite che solitamente l’accompagna: lavoro nero, precario, riciclaggio, etc.), l’investimento industriale
della Fiat rappresenta una svolta provvidenziale, in qualche
modo inaspettata, che può giustificare sacrifici e rinunce,
probabilmente non del tutto tollerabili in altre parti d’Italia.
Questo ha consentito ad alcuni sindacalisti di sostenere “ben
vengano 10, 100, 1000 Pomigliano” (Bonanni) se in questo
modo si mette in moto un processo di ripresa produttiva, che
è assolutamente vitale per uscire dal degrado in cui il territorio
è precipitato, anche per l’insipienza di una classe politica incolta, folcloristica e demagogica, a volte addirittura collusa.
E su queste valutazioni sociologiche e politiche sembra
francamente difficile dissentire.
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CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite civili,
sentenza 06 agosto 2010, n. 18331;
Pres. Carbone, Est. Elefante
●
La legittimazione
processuale passiva
dell’amministratore
del condominio
● Giovanni Gravina di Ramacca
Avvocato
Condominio – Rappresentanza del condominio in giudizio – Legittimazione dell’amministratore
L’amministratore può comunque agire per la tutela degli
interessi dei condomini, anche nel caso in cui l’assemblea di
condominio non lo abbia autorizzato preventivamente ad
impugnare una sentenza sfavorevole per il condominio. In
ogni caso l’amministratore dovrà ottenere la ratifica al suo
operato, al fine di evitare la pronuncia di inammissibilità
dell’atto di costituzione o di impugnazione.
(Omissis)
Svolgimento del processo
In seguito a infiltrazioni d’acqua verificatesi (nel 1994) nel
proprio appartamento sito all’ultimo piano di un fabbricato
condominiale, R.S. (nel 1996) conveniva davanti al tribunale
di Roma il condominio di via Omissis, e la P. s.r.l., proprietaria del lastrico solare dal quale erano provenute le infiltrazioni,
al fine di ottenerne la condanna alla esecuzione delle opere
dirette alla eliminazione delle infiltrazioni e al risarcimento
dei danni subiti. L’attore ascriveva al condominio di non avere
provveduto alla ordinaria manutenzione; alla P. s.r.l. di avere
eseguito lavori di ristrutturazione che, danneggiando l’impermeabilizzazione, erano stati la causa delle infiltrazioni.
I convenuti, costituitisi, chiedevano il rigetto della domanda.
Con sentenza 5/6/2000 l’adito tribunale di Roma - esperita
istruttoria ed espletata c.t.u. - condannava la P. s.r.l. ad effettuare le opere indicate dal c.t.u. e a pagare al R. L. 3.640.000
a titolo di risarcimento. Anche il condominio veniva condannato a pagare all’attore, a titolo risarcitorio, L. 123.000.
Rilevava il tribunale che, come accertato dal c.t.u., la non
perfetta tenuta del manto impermeabilizzante del terrazzo
dell’appartamento di proprietà della P. s.r.l. aveva determinato, e poteva determinare ancora, macchie di umidità nell’appartamento del R., mentre era da ascrivere alla responsabilità
del condominio la macchia di umidità nel bagno. Pertanto,
secondo il tribunale, essendo pacifico che la P. s.r.l. aveva effettuato lavori di sistemazione dei terrazzi previa rimozione
delle mattonelle e rimozione del massetto sottostante, potevano essere ritenute accertate le rispettive responsabilità dei
convenuti.
Avverso la detta sentenza la P. s.r.l. proponeva appello al
quale resistevano il condominio ed il R. che spiegava appello
incidentale.
Con sentenza n. 76/08 del 9/1/2008 la Corte d’appello di
Roma riteneva che i danni causati dalle infiltrazioni, in quanto
provenienti da un lastrico solare da presumersi comune, dovevano essere risarciti dal condominio. Conseguentemente condannava quest’ultimo a rifondere alla P. s.r.l. le somme da questa
versate, in esecuzione della sentenza di primo grado, al R..
La corte d’appello rigettava poi l’appello incidentale del R.
sia nella parte in cui chiedeva la condanna della P. s.r.l. all’esecuzione dei lavori di impermeabilizzazione, in quanto questi
risultavano essere stati già effettuati a regola d’arte; sia nella
parte in cui chiedeva la liquidazione del danno non patrimoniale, trattandosi di domanda inammissibile perché preposta
per la prima volta in grado di appello.
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
La cassazione della sentenza della Corte di appello di
Roma è stata chiesta dal condominio di via omissis con ricorso affidato a sei motivi. Hanno resistito con separati controricorsi la P. s.r.l. e R.S. il quale ha proposto ricorso incidentale sorretto da undici motivi. Il condomino ha resistito con
controricorso al ricorso incidentale del R..
Il ricorso è stato assegnato a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, essendo stato registrato, a
seguito dell’eccezione di inammissibilità sollevata dalla P.
s.r.l., un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla
questione se l’amministratore condominiale, per resistere alla
lite proposta nei confronti del condominio, ovvero per impugnare la sentenza a questo sfavorevole, debba o meno essere
autorizzato dall’assemblea.
Tutte le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Il ricorso principale e quello incidentale devono essere
riuniti perché relativi ad impugnazioni proposte avverso la
stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).
1. La resistente P. s.r.l. in via preliminare ha eccepito
l’inammissibilità del ricorso principale sotto due profili.
1.1. Il primo profilo di inammissibilità si basa sull’asserita nullità della procura alle liti conferita dall’amministratore
del condominio (la detta questione ha determinato la rimessione del ricorso a queste Sezioni Unite).
Osserva la P. s.r.l. che l’amministratore non è stato autorizzato a proporre l’impugnazione dinanzi la S.C. da alcuna
assemblea condominiale, e quelle indicate al riguardo nell’epigrafe del ricorso (l’assemblea del 7 novembre 2007 e quella
del 5 marzo 2008) in realtà si sono occupate di tutt’altro.
Soggiunge che l’amministratore, ai sensi dell’art. 1131 c.c.,
non può stare in giudizio senza l’autorizzazione dell’assemblea, e l’autorizzazione conferita per un grado di giudizio non
legittima l’amministratore a proporre l’impugnazione, ovvero
resistere ad essa.
Conclude, quindi, la P. s.r.l. che l’amministratore del condominio ricorrente non è stato autorizzato dall’assemblea
condominiale a proporre il ricorso per cui la procura speciale al difensore rilasciata a margine del ricorso è stata conferita da organo privo di tale potere appartenendo questo solo
all’organo collegiale (assemblea) al quale è affidata la valutazione in ordine alla proposizione o meno di detto ricorso.
2. La dedotta eccezione di inammissibilità è fondata.
2.1. Preliminarmente va osservato che le due deliberazioni condominiali richiamate dal ricorrente (7.11.2003 e
5.3.2008) risultano inidonee a costituire valida autorizzazione alla proposizione del ricorso per cassazione.
Quanto alla prima (Delib. 7 novembre 2003) è sufficiente
rilevare che la stessa è precedente alla sentenza da impugnare
e, quindi, non poteva che essere riferita tuttalpiù al precedente
grado di giudizio e, giammai, ad un futuro ricorso per cassazione del quale non era dato ancora conoscere neppure l’oggetto (v. Cass. 25.1.2006, n. 1422; 26.11.2004, n. 22294).
Quanto alla seconda (Delib. 5 marzo 2008) essa non contiene alcun mandato all’amministratore di impugnare la sentenza della Corte d’appello di Roma e, quindi, di conferire la
relativa autorizzazione, essendosi l’organo assembleare espressamente riservato di valutare successivamente la possibilità di
proporre (“eventualmente”) una futura impugnazione.
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2.2. Va poi osservato che la presente controversia esula da
quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1131 c.c., comma 1. Tale norma, infatti, conferisce una rappresentanza di diritto all’amministratore, il
quale è legittimato ad agire (e a resistere) in giudizio (nonchè
a proporre impugnazione) senza alcuna autorizzazione, nei
limiti delle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c., quando
cioè si tratta: a) di eseguire le deliberazioni dell’assemblea e
di curare l’osservanza dei regolamenti di condominio; b) di
disciplinare l’uso delle cose comuni, così da assicurarne il
miglior godimento a tutti i condomini; c) di riscuotere dai
condomini inadempienti il pagamento dei contributi determinati in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea;
d) di compiere, infine, gli atti conservativi dei diritti inerenti
alle parti comuni dell’edificio.
3. Sulla questione sottoposta all’esame di queste Sezioni
Unite esistono nella giurisprudenza di legittimità due diversi
orientamenti: il primo (maggioritario) afferma che l’amministratore può costituirsi nel giudizio promosso nei confronti
del condominio e può impugnare la sentenza sfavorevole al
condominio pur se a tanto non autorizzato dall’assemblea
condominiale; il secondo (minoritario) sostiene, invece, che
in assenza di tale deliberazione assembleare l’amministratore
è privo di legittimazione a costituirsi e ad impugnare.
3.1. Il primo (prevalente) orientamento sostiene che l’amministratore è titolare di una rappresentanza processuale passiva
generale che non incontra limiti, posto che l’art. 1131 c.c., prevedendo che l’amministratore “può essere convenuto in giudizio
per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio”,
deve essere interpretato nel senso che l’amministratore non necessita di alcuna autorizzazione dell’assemblea per resistere in
giudizio e per proporre le impugnazioni che si rendessero necessarie, compreso il ricorso per cassazione, in relazione al quale è
legittimato a conferire procura speciale all’avvocato iscritto
nell’apposito albo speciale (v., tra le tante, Cass. 20/4/2005, n.
8286; 21/5/2003, n. 7958; 15/3/2001, n. 3773).
3.2. Non sussiste quindi alcuna distinzione tra la capacità
dell’amministratore di essere convenuto e quella di costituirsi
nel giudizio che riguardi una materia non ricompressa nelle
sue attribuzioni: l’amministratore che sia stato convenuto in
giudizio, quale rappresentante della comunità dei condomini,
può sempre impugnare e proporre ricorso in cassazione avverso la sentenza sfavorevole al condominio senza bisogno di
autorizzazione dell’assemblea.
L’amministratore ha il solo obbligo, di mera rilevanza interna e non incidente sui suoi poteri rappresentativi processuali, di darne senza indugio notizia all’assemblea: obbligo
sanzionato dalla possibile revoca del mandato e con il risarcimento del danno (Cfr. ex multis Cass. 16/4/2007, n. 9093).
4. Il secondo indirizzo evidenzia che la “ratio” dell’art.
1131 c.c., comma 2, - che consente di convenire in giudizio
l’amministratore del condominio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio - è quella di favorire il
terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del
condominio, consentendogli di poter notificare la citazione al
solo amministratore anziché a tutti i condomini. Nulla, invece, nella stessa norma, giustifica la conclusione secondo cui
l’amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio e a impugnare senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea (Cass. 26/11/ 2004, n. 22294; 25/1/2006, n. 1422).
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4.1. Inoltre, secondo tale indirizzo, poiché l’autorizzazione
dell’assemblea a resistere in giudizio in sostanza altro non è che
un mandato all’amministratore a conferire la procura “ad litem” al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, l’amministratore, in definitiva, non svolge che una funzione di mero “nuncius” e tale autorizzazione non può valere
che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata. Deriva, da quanto precede, pertanto, che è inammissibile il
ricorso per cassazione, avverso sentenza sfavorevole al condominio, proposto dall’amministratore di questo senza espressa
autorizzazione dell’assemblea (Cass. 20.1.2009, n. 1381).
In sintesi: a) l’amministratore deve munirsi di autorizzazione dell’assemblea per resistere in giudizio atteso che la
rappresentanza passiva dell’amministratore riguarda solo la
notificazione degli atti e non la gestione della controversia; b)
la concessa autorizzazione assembleare non legittima l’amministratore ad impugnare spettando tale legittimazione solo
all’assemblea.
5. Anche in dottrina, specularmente agli orientamenti
della giurisprudenza, si sono affermati due diversi indirizzi
culturali.
5.1. L’indirizzo dottrinario maggioritario sostiene che
l’amministratore è un rappresentante “ex lege” del condominio nelle liti contro quest’ultimo proposte da un condomino
o da un terzo ed ha “ex lege” una rappresentanza generale
passiva del condominio in virtù della quale può resistere in
giudizio ed impugnare eventuali decisioni sfavorevoli senza
l’autorizzazione dell’assemblea. L’art. 1131 c.c., comma 2, - in
quanto finalizzato, in base al principio del “minimo impatto”,
a facilitare al massimo la vita del condominio e quella di chi
deve avere rapporti giuridici con esso - deve essere interpretato in senso ampio allargando al massimo i poteri rappresentativi sostanziali e processuali dell’amministratore, tenendo
conto anche delle due diverse espressioni usate (“può essere
convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le
parti comuni dell’edificio” e “a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa”).
Da questo ampio potere rappresentativo - e dalla conseguente legittimazione passiva generale dell’amministratore l’orientamento dottrinario prevalente fa discendere come
conseguenza: a) il potere dell’amministratore di impugnare la
sentenza sfavorevole senza autorizzazione dell’assemblea; b)
l’eventuale inadempimento dell’amministratore all’obbligo di
riferire all’assemblea, ovvero di attenersi alle determinazioni
di questa, ha rilievo esclusivamente interno, con la conseguenza (art. 1131 c.c., comma 4) che l’amministratore inadempiente può essere revocato e tenuto al risarcimento dei danni
provocati al condominio per la propria scelta processuale
inopportuna o dannosa, ma rispetto a colui che ha promosso
il giudizio resta ferma la legittimazione passiva dell’amministratore e l’opponibilità della sentenza al condominio.
5.1.2. Tale indirizzo culturale pone in evidenza che - una
volta configurato l’amministratore quale ufficio di diritto
privato assimilabile al “mandatario ex lege” e, quindi, soggetto individuale al quale
sono attribuite particolari funzioni (difesa “necessaria”)
a tutela delle parti comuni dell’edificio - la dissociazione tra
i due momenti processuali del perfezionamento della notificazione e della costituzione in giudizio, connaturale alle
persone giuridiche ed a un rapporto organico, appare conte-
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stabile in ragione proprio dell’insussistenza della personalità
giuridica, perché prefigura una differenziazione, nell’ambito
della “eccezionale” legittimazione processuale riconosciuta
all’amministratore del condominio, che non trova riscontro
nella normativa speciale dettata per il condominio: la rappresentanza legale e la legittimazione processuale concernenti le
parti comuni dell’edificio devono ritenersi estese, in mancanza di contraria espressa previsione normativa, a tutti gli effetti tipici connessi perché coessenziale alla ratio dell’istituto ed
alla figura dell’amministratore-mandatario speciale.
5.1.3. Pertanto, conclude tale indirizzo dottrinario, l’amministratore, ex art. 1131 c.c., comma 2, primo periodo, è
deputato ex lege, non solo a ricevere l’atto di citazione in
giudizio, bensì a costituirsi, tempestivamente, in giudizio e a
proporre validamente tutte le eventuali impugnazioni, senza
la necessità di alcuna preventiva deliberazione autorizzativa
– limitatamente alle azioni concernenti le parti comuni
dell’edificio promosse nei confronti del condominio – con il
solo onere di “darne senza indugio notizia all’assemblea dei
condomini”.
5.2. Il diverso indirizzo culturale rileva che l’amministratore è un mandatario del condominio, ed il mandatario non
può resistere in giudizio per conto del mandante senza l’autorizzazione di quest’ultimo. Diversamente il condominio sarebbe esposto al rischio di vedersi coinvolto, suo malgrado, in
liti giudiziarie resistite avventurosamente dall’amministratore, il quale non può, con la propria scelta, imporre ai condomini una linea di condotta da costoro non condivisa.
5.2.1. È stato pure evidenziato che la decisione se resistere
in giudizio o impugnare la sentenza sfavorevole non può che
competere alla parte in senso sostanziale. Né esiste nel nostro
ordinamento un principio generale secondo il quale il destinatario di una notifica è sempre anche titolare di un autonomo
potere di iniziativa processuale. Al riguardo, con riferimento
all’ipotesi più vicina al condominio, cioè alle associazioni non
riconosciute, si evidenzia che altro è la rappresentanza nel
processo, altro il potere di decidere come vada condotto; il
primo punto concerne i rapporti esterni, il secondo i rapporti e le competenze interne fra i vari organi sociali. Il potere di
rappresentanza processuale del presidente è solo un mezzo
tecnico per agevolare i rapporti processuali esterni; ma nei
rapporti interni anche le decisioni sulla linea di condotta da
tenere nel processo rientrano fra le funzioni degli amministratori e non del presidente in quanto tale.
Parimenti nel campo delle società gestite da un consiglio
di amministrazione, il presidente ha la rappresentanza processuale, nel senso che è destinatario della notifica di atti
processuali e conferisce il mandato ad litem, ma non è titolare di un autonomo potere di iniziativa processuale. Fino alle
recenti riforme, sotto il vigore della precedente normativa
(R.D. 4 febbraio 1915, n. 148), il Sindaco era destinatario
della notifica di atti processuali e conferiva il mandato ad litem, ma a tanto doveva essere autorizzato dal consiglio o
dalla giunta.
5.2.3. Pertanto, l’autorizzazione dell’assemblea a resistere
si pone quale conditio sine qua non affinché l’amministratore,
nella propria vesta di mandatario, possa conferire il mandato
difensivo ad un legale e sottoscrivere la relativa procura alle
liti. In mancanza, non potrà che concludersi per l’inammissibilità della costituzione in giudizio del condominio.
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6. Considerata la criticità del contrasto e i rilevanti risvolti operativi, appare opportuno esaminare ex funditus la
questione.
6.1. Come è noto il codice civile del 1865 non dedicava
alcuna norma espressa né all’amministrazione dei condomini
di edifici, né alla legittimazione dell’amministratore. Fu soltanto il del D.L. 15 gennaio 1934, n. 56, art. 20, commi 2 e ss., a
dettare una disciplina in materia, stabilendo che l’amministratore “può essere convenuto in giudizio per qualsiasi oggetto” e
“Qualora la citazione ... abbia un contenuto che esorbiti dalle
attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza
indugio notizia all’assemblea dei condomini, la quale delibera
se resistere nel giudizio o conciliare la vertenza”.
La disciplina di cui al D.L. n. 56 del 1934, art. 20, fu
trasfusa negli artt. 320 e 321 del progetto preliminare del
Libro della proprietà e, quindi, nel testo definitivo degli artt.
1131 e 1132 c.c., ma con alcune modifiche, nel senso che
l’amministratore può essere convento in giudizio “per qualunque azione concernente le parti comuni” e “Qualora la citazione ... abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni
dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio
notizia all’assemblea dei condomini.” La relazione del Ministro Guardasigilli al Re, mentre giustifica la prima modifica
(affermando “nel riprodurre le disposizioni del R.D.L. 15
gennaio 1934, art. 20, circa la rappresentanza dei condomini
ho sostituito alla formula del comma 2 una formula che amplia l’ambito della rappresentanza conferita all’amministratore nelle liti promosse contro i partecipanti. La rappresentanza
passiva è infatti estesa a qualunque azione proposta contro i
condomini, e pertanto anche alle azioni di carattere reale,
purché si riferiscano alle parti comuni dell’edificio”), nulla
dice in ordine alla seconda modifica, lasciando incerta la
giustificazione: intenzione di eliminare l’intervento deliberativo dell’assemblea di condominio, ovvero inutilità di ribadire la necessità, fino allora pacifica, di una delibera dell’assemblea in ordine alla resistenza o meno nel giudizio.
L’art. 65 disp. att. c.c. dopo aver previsto, al primo comma, che “Quando per qualsiasi causa manca il legale rappresentante dei condomini, chi intende iniziare o promuovere una
lite contro i partecipanti a un condominio può richiedere la
nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 80 c.p.c.”,
stabilisce, al comma 2, che “Il curatore speciale deve convocare l’assemblea dei condomini per avere istruzioni sulla
condotta della lite.”.
6.2. Dal sistema normativo emerge che l’amministratore
di condominio non è un organo necessario del condominio.
L’art. 1129 c.c. espressamente richiede la nomina di un amministratore solo quando il numero di condomini sia superiore a quattro. Ne consegue che in materia di condominio negli
edifici, l’organo principale, depositario del potere decisionale,
è l’assemblea dei condomini, così come in materia di comunione in generale il potere decisionale e di amministrazione
della cosa comune, spetta solo ed esclusivamente ai comunisti
(art. 1105 c.c.) e la nomina di un amministratore cui “delegare” l’esercizio del potere di amministrazione è ipotesi meramente eventuale (art. 1106 c.c.).
La prima, fondamentale, competenza dell’amministratore
consiste nell’“eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei
condomini” (art. 1130 c.c., comma 1, n. 1). Da tale disposto
si evince che l’essenza delle funzioni dell’amministratore è
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imprescindibilmente legata al potere decisionale dell’assemblea: è l’assemblea l’organo deliberativo del condominio e
l’organo cui compete l’adozione di decisioni in materia di
amministrazione dello stesso, mentre l’amministratore riveste
un ruolo di mero esecutore materiale delle deliberazioni adottate in seno all’assemblea. Nessun potere decisionale o gestorio compete all’amministratore di condominio in quanto tale
(e ciò a differenza di quanto accade nelle società, sia di persone che di capitali, dove all’amministratore competono poteri propriamente gestionali). Anche l’art. 1131 c.c., nell’attribuire all’amministratore di condominio un potere di rappresentanza dei condomini e di azione in giudizio, chiarisce che
tale potere è conferito “Nei limiti delle attribuzioni stabilite
dall’articolo precedente o dei maggiori poteri conferitigli dal
regolamento di condominio o dall’assemblea”. Ancora una
volta, quindi, si legano i poteri dell’amministratore di condominio alle deliberazioni dell’assemblea, proprio a voler sottolineare la derivazione e subordinazione degli stessi alle decisioni dell’organo assembleare.
6.3. L’art. 1131 c.c., comma 2, prevede poi che l’amministratore possa essere convenuto in giudizio per qualunque
azione concernente le parti comuni dell’edificio. Mentre il
comma terzo aggiunge che qualora la citazione abbia contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è
tenuto a darne senza indugio comunicazione all’assemblea.
Detta normativa è stata interpretata, secondo prevalente e
risalente orientamento, come affermazione di un autonomo
potere dell’amministratore di essere destinatario di atti processuali, nonché del potere di costituirsi in giudizio e di impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente, se rientranti nelle sue attribuzioni, posto che la norma
dell’art. 1131, comma 3, sembrerebbe richiedere la necessità di
una comunicazione all’assemblea solo nel caso di materie non
rientranti nelle attribuzioni dell’amministratore. Secondo altri,
va intesa come espressione dell’esigenza di facilitazione dei
rapporti tra terzi e condominio. La citazione notificata all’amministratore consente di risolvere le problematiche connesse
ad una eventuale notificazione individuale ai singoli condomini, soprattutto nei condomini di notevoli dimensioni.
7. Tale normativa deve essere tuttavia correttamente interpretata alla luce dei principi generali e, soprattutto, del
ruolo e delle competenze dell’amministratore di condominio,
nonché in base al diritto di dissenso dei condomini rispetto
alle liti (art. 1132 c.c.). L’amministratore, come detto, non ha
autonomi poteri, ma si limita ad eseguire le deliberazioni
dell’assemblea ovvero a compiere atti conservativi dei diritti
inerenti alle parti comuni dell’edificio (art. 1130 c.c.).
Ne consegue che, anche in materia di azioni processuali il
potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea
che dovrà deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale ma meramente esecutivo del condominio.
7.1. Ove tale potere spettasse all’amministratore, questi
potrebbe anche autonomamente non solo costituirsi in giudizio ma anche impugnare un provvedimento senza il consenso
dell’assemblea e, in caso di ulteriore soccombenza, far sì che
il condominio sia tenuto a pagare le spese processuali, senza
aver in alcun modo assunto decisioni al riguardo.
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Tale soluzione non solo contrasta con il principio che
unico organo decisionale nel condominio è l’assemblea, ma
conculca anche il diritto dei condomini di dissentire rispetto
alle liti (art. 1132 c.c.). La mancata convocazione dell’assemblea per l’autorizzazione ovvero per la ratifica dell’operato
dell’amministratore vanifica ogni possibilità di esercizio del
diritto al dissenso alla lite che la legge espressamente riconosce ai condomini.
8. L’attribuzione in capo all’assemblea di condominio del
potere gestorio e, quindi, della decisione se resistere in giudizio
o impugnare la sentenza sfavorevole, per cui occorre che l’amministratore sia autorizzato a tanto, va tuttavia raccordata con
la legittimazione passiva generale attribuita all’amministratore dall’art. 1131 c.c., comma 2. Invero, tale legittimazione
rappresenta il mezzo procedimentale per il bilanciamento tra
l’esigenza di agevolare i terzi e la necessità di tempestiva (urgente) difesa (onde evitare decadenze e preclusioni) dei diritti
inerenti le parti comuni dell’edificio, che deve ritenersi immanente al complessivo assetto normativo condominiale.
Pertanto, l’amministratore convenuto può anche autonomamente costituirsi in giudizio ovvero impugnare la sentenza
sfavorevole, nel quadro generale di tutela (in via d’urgenza) di
quell’interesse comune che integra la ratio della figura dell’amministratore di condominio e della legittimazione passiva
generale, ma il suo operato deve essere ratificato dall’assemblea, titolare del relativo potere.
La ratifica, che vale a sanare con effetti ex tunc l’operato
dell’amministratore che abbia agito senza autorizzazione
dell’assemblea, è necessaria sia per paralizzare la dedotta
eccezione di inammissibilità della costituzione in giudizio o
dell’impugnazione, sia per ottemperare al rilievo ufficioso del
giudice che, in tal caso, dovrà assegnare, ex art. 182 c.p.c., un
termine all’amministratore per provvedere.
9. Alla luce delle considerazioni svolte va enunciato il seguente principio di diritto: “L’amministratore di condominio,
in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche
costituirsi in giudizio e impugnare al sentenza sfavorevole
senza previa autorizzazione a tanto dall’assemblea, ma dovrà,
in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da
parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità
dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione”.
10. Nel caso specifico risulta che il ricorso per cassazione
da parte dell’amministratore è stato proposto senza autorizzazione dell’assemblea di condominio. Di fronte all’eccezione,
dedotta dalla P. s.r.l., di inammissibilità del ricorso, l’amministratore non ha provveduto a munirsi della necessaria ratifica. Ne consegue che il ricorso principale del condominio va
dichiarato inammissibile.
Il ricorso incidentale tardivo del R. perde, ai sensi, dell’art.
334, comma 2, c.p.c. ogni efficacia.
In considerazione della complessità e particolarità delle
questioni trattate sussistono giusti motivi per compensare
interamente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
(Omissis)
••• Nota a sentenza
Con due sentenze a sezioni unite, la 18331/10 e 18332/10,
depositate entrambe in data 06 agosto 2010, la Corte di cas-
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sazione ha, finalmente, chiarito che l’amministratore di un
condominio ha facoltà di resistere in giudizio per il condominio o impugnare la sentenza allo stesso sfavorevole, attraverso l’affidamento dell’incarico ad un legale ma non senza ricevere una ratifica del mandato conferito da parte dell’assemblea
dei condomini, pena l’inammissibilità dell’atto di costituzione
o, in caso di notifica di sentenza di appello, dell’atto di impugnazione della stessa.
Finalmente, la Suprema Corte fissa un punto dibattuto
negli ultimi anni e rispetto al quale molti, tra cui lo stesso
scrivente, chiedevano chiarimenti proprio sulla scorta del
fatto che l’art. 1131 comma 3, c.c. recita: “Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle
attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini”, escludendo,
chiaramente, un potere dell’amministratore di resistere alle
liti senza informare l’assemblea.
Purtroppo, anche complice un orientamento giurisprudenziale contrario, i giudici di merito hanno sempre, forse a volte
con eccessiva superficialità per le questioni trattate, rigettato
le eccezioni circa l’assenza di potere dell’amministratore rispetto al conferimento dell’incarico al legale di fiducia e, con
ciò, a volte, pure danneggiando l’assemblea dei condomini che
spesso si trovava a subire provvedimenti esecutivi o pagare
spese legali per liti di cui mai aveva avuto conoscenza.
Con le due sentenze sopra citate le sezioni unite hanno
stabilito il seguente principio: “L’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può
anche costituirsi in giudizio e impugnare al sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione a tanto dall’assemblea, ma
dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione”.
Ancora le sezioni unite della Corte hanno precisato che la
controversia su cui le stesse sono state chiamate a pronunciarsi “esula da quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1131 c.c., comma 1. Tale norma,
infatti, conferisce una rappresentanza di diritto all’amministratore, il quale è legittimato ad agire (e a resistere) in giudizio
(nonchè a proporre impugnazione) senza alcuna autorizzazione, nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c.”.
È opportuno, a tal punto, riprendere dal passato il filo del
discorso per arrivare alla soluzione oggi individuata e comprendere, dunque, l’orientamento precedente.
Due erano gli orientamenti:
- il primo, maggioritario, secondo cui l’amministratore di
condominio aveva ampie facoltà di resistere in giudizio,
anche per le materie esorbitanti dalle proprie attribuzioni
e, dunque, a non essere un mero destinatario dell’atto
notificato. Secondo tale orientamento, dunque, l’amministratore di condominio aveva pieni poteri di resistere
giudizialmente senza alcun obbligo, né preventivo né successivo, di informazione nei confronti dell’assemblea dei
condomini rimanendo, tale obbligo, questione interna tra
l’amministratore e l’assemblea che, al più, avrebbe potuto
chiedere la revoca giudiziale dello stesso ed un eventuale
risarcimento del danno (come disposto dall’art. 1131
comma 4, c.c.);
- il secondo, minoritario, secondo cui il potere dell’amministratore di resistere in giudizio era direttamente collega-
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to e limitato alle proprie attribuzioni e dovendo, per tutti
quegli atti esorbitanti i suoi poteri, informare l’assemblea
ed ottenere l’autorizzazione, preventiva o successiva, al
conferimento dell’incarico nei confronti del legale al fine
di resistere in giudizio.
La soluzione della Corte, in accoglimento della tesa minoritaria, è stata proprio quella di limitare i poteri dell’amministratore attraverso una lettura ed un’interpretazione della norma
aderenti al dettato letterale della stessa e sancendo, così, a tutela dei condomini, l’obbligo di informativa degli stessi. Difatti,
l’art. 1131 comma 3, c.c. chiaramente afferma che “Qualora la
citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita
dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne
senza indugio notizia all’assemblea dei condomini”.
Come si è detto, la sanzione riconnessa alla mancanza
dell’autorizzazione assembleare è quella della inammissibilità
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dell’atto di impugnazione o di costituzione.
Tale conseguenza, però, tenuto conto della modifica
dell’art. 182, comma 2, c.p.c. che ha previsto la sanabilità del
difetto di procura con effetti non ex nunc, come previsto nel
testo antecedente alla riforma, bensì ex tunc, dovrà dunque
essere ridimensionata per i giudizi futuri.
Infatti, tenuto conto della decisione a sezioni unite e del
citato articolo, il giudice, qualora rilevasse la mancanza della
delibera assembleare di autorizzazione dell’amministratore
alla nomina di un legale, chiaramente solo per le materie
esorbitanti le sue attribuzioni, dovrà concedere un termine
perentorio affinché sia prodotta la delibera assembleare tale
da sanare, appunto ex tunc, la validità degli atti fino a quel
momento compiuti. In mancanza di rispetto del termine,
ovviamente, potrà aversi la dichiarazione di inammissibilità
degli atti difensivi depositati nell’interesse del condominio.
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CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite civili,
sentenza 18 febbraio 2010, n. 3947;
Pres. Est. Carbone
Lineamenti del contratto
autonomo di garanzia
e inquadramento
della fattispecie
della polizza fideiussoria
● Alessandro de Notaristefani
Avvocato
Fideiussione – Contratto autonomo di garanzia – Caratteri – Polizza fideiussoria in materia di appalto – Clausola «a prima richiesta»
e «senza eccezioni»
La polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a
cagione dell’insostituibilità della obbligazione principale, onde
il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento,
prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto.
(Omissis)
1. La giurisprudenza di questa Corte ha seguito, nel tempo,
itinerari interpretativi non sempre univoci sul tema dei rapporti tra fideiussione cd. Garantievertrag, pur avendo di recente manifestato una sempre maggiore consonanza di pensiero nella strutturazione di una sempre più indispensabile
actio finium regundorum tra le due fattispecie.
Già all’indomani della pronuncia di Cass., sez. un., n. 7341
del 1987, nella quale ancora nebulosa apparve, ai commentatori e agli interpreti più accorti, la distinzione tra contratto
autonomo di garanzia e fideiussione con clausola solve et repete, le linee portanti dei due istituti verranno più pensosamente esplorate al sempre più nitido delinearsi dei caratteri
tipici del contratto autonomo di garanzia, che (sorto alla fine
dell’800 in Inghilterra e in Germania per soddisfare evidenti
e pressanti esigenze di semplificazione del commercio internazionale), approda, non senza contrasti, nel nostro Paese con
indiscutibile ritardo, attesa la problematica compatibilità
della nuova fattispecie con i tradizionali parametri cui dottrina prevalente e giurisprudenza pressochè unanime erano avvezzi a far riferimento in materia negoziale: da un lato, il
dogma della accessorietà “necessaria” del negozio di garanzia
titolato, dall’altro, il requisito della causa negotii tralaticiamente intesa come funzione “economico sociale” del negozio
- quantomeno fino alla recente svolta di questa corte di legittimità di cui alla sentenza 10490/2006, autorevolmente confermata dalle sezioni unite, con la sentenza n. 26972/2008.
Incertezze e disarmonie interpretative trassero linfa dalla
peculiarità di una fattispecie felicemente definita (Trib. Torino,
29 agosto 2002), come “un articolato coacervo di rapporti
nascenti da autonome pattuizioni tra il destinatario della
prestazione (e beneficiario della garanzia), il garante (sovente
una istituto di credito), e il debitore della prestazione (ordinante la garanzia atipica)”, in attuazione di una complessa operazione economica destinata a dipanarsi, sotto il profilo della
struttura negoziale, attraverso una scansione diacronica di
rapporti, il primo (di valuta), corrente tra debitore e creditore,
tra cui viene originariamente pattuito l’adempimento di una
certa prestazione del primo nei confronti dell’altro, il secondo
(di provvista), destinato a intervenire tra debitore e futuro
garante, con esso pattuendosi l’impegno di quest’ultimo a
garantire il creditore del primo rapporto, il terzo nascente,
infine, tra creditore e garante, con quest’ultimo senz’altro
obbligato ad adempiere alla prestazione del debitore a semplice richiesta del primo nel caso di inadempimento del secondo
(rapporti ai quali non risulterà poi inusuale l’aggiunta di una
quarta convenzione negoziale collegata, quella tra un secondo
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istituto di credito controgarante e banca prima garante, avente lo stesso contenuto del primo rapporto di garanzia).
L’elemento caratterizzante della fattispecie in esame viene
individuato nell’impegno del garante a pagare illico et immediate, senza alcuna facoltà di opporre al creditore/beneficiario
le eccezioni relative ai rapporti di valuta e di provvista, in
deroga agli artt. 1936, 1941 e 1945 c.c., caratterizzanti, di
converso, la garanzia fideiussoria.
Elisione del vincolo di accessorietà e scissione della garanzia dal rapporto di valuta caratterizzano sul piano funzionale
il Garantievertrag, la cui causa concreta viene correttamente
individuata in quella di assicurare la libera circolazione dei
capitali e il pronto soddisfacimento dell’interesse del beneficiario (ovvero ancora in quella di sottrarre il creditore al rischio dell’inadempimento, trasferito nei fatti su di un altro
soggetto, “istituzionalmente” solvibile), il quale può così porre affidamento su di una rapida e sollecita escussione di una
controparte affidabile, senza il rischio di vedersi opporre, in
sede processuale, il regime tipico delle eccezioni fideiussorie.
È in tali sensi che par lecito discorrere, a proposito del
contratto atipico di garanzia, di una funzione di tipo “cauzionale” – mentre la sua più frequente utilizzazione rispetto
al deposito di una vera e propria cauzione trae linfa proprio
in ragione della sua minore onerosità e della possibilità di
evitare una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali (conseguenza ineludibile del deposito cauzionale): è in
conseguenza di tali aspetti funzionali che la garanzia muta
“geneticamente” da vicenda lato sensu fideiussoria in fattispecie atipica che, ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2, persegue un interesse certamente “meritevole di tutela”, identificabile nell’esigenza condivisa di assicurare l’integrale soddisfacimento dell’interesse economico del beneficiario vulnerato dall’inadempimento del debitore originario e, di conseguenza, di conferire maggiore certezza allo scorrere dei rapporti
economici (specie transnazionali).
2. Emerge così, in via definitiva, sotto il profilo causale,
la disarmonia morfologica e funzionale con la fideiussione
(volta a garantire l’adempimento di un debito altrui), sopravvivendo resti di omogeneità tra i due “tipi” negoziali soltanto
nella misura in cui, attorno alle due le fattispecie, orbiti ancora il concetto di garanzia, pur nelle non riconciliabili differenze di gradazioni “che il rapporto con la garanzia stessa può
assumere lungo lo spettro, unico, che conduce dalla accessorietà alla autonomia e che delinea il Garantievertrag entro ben
determinati limiti di operatività: da un lato, un limite iniziale, costituito (soltanto) dalla illiceità della causa del rapporto
di valuta, dall’altro, un limite funzionale, rappresentato
dall’abuso del diritto da parte del beneficiario, la cd. exceptio
doli generalis seu presentis, che si verifica qualora la richiesta
appaia fraudolenta e con esclusione della buona fede del beneficiario”, come, di recente, un’attenta dottrina non ha
mancato di osservare, aggiungendo ancora come l’indagine
sulla volontà dei contraenti andrebbe più propriamente condotta lungo il sentiero ermeneutico dell’accertamento della
carenza dell’elemento dell’accessorietà, destinato ad emergere,
in concreto, attraverso l’adozione di un complesso di regole
interpretative, testuali ed extratestuali, ritenendosi, in particolare, che la clausola “a prima richiesta” o “a semplice richiesta” possa alternativamente rappresentare diversi “tipi”
funzionali, a grado di intensità crescente: il primo, rigorosa-
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mente procedimentale, volto alla sola inversione dell’onere
probatorio; il secondo, determinativo dell’effetto di solve et
repete, per ciò solo del tutto inscritto (ancora) nell’orbita del
negozio fideiussorio; il terzo, di sostanziale separazione del
diritto all’adempimento della autonoma obbligazione di garanzia rispetto al contratto sottostante.
Largamente prevalente, in proposito, appare l’orientamento giurisprudenziale (avallato dalla dottrina maggioritaria),
predicativo della decisiva rilevanza di clausole che sanciscano
l’impossibilità, per il garante, di opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base che spettano al debitore
principale (così, tra le altre, Cass. 31 luglio 2002, n. 11368;
Cass. 20 luglio 2002, n. 10637; Cass. 7 marzo 2002, n. 3326;
Cass. 19 giugno 2001, n. 8324; Cass. 17 maggio 2001, n.
6757; Cass. 1 ottobre 1999, n. 10684; Cass. 21 aprile 1999,
n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, n. 3552), mentre alcune pronunce di merito fondano la ricostruzione del Garantievertrag su
altri elementi del tessuto negoziale, quali la previsione di un
termine breve entro cui il garante è obbligato al pagamento,
la decorrenza di tale termine dal ricevimento della richiesta
del beneficiario, l’espressa esclusione del beneficio della preventiva escussione (ex aliis, Trib. Milano 22 ottobre 2001).
Criterio interpretativo utile ad orientare l’interprete verso
l’autonomia della vicenda di garanzia divisata dalle parti riposa ancora sull’individuazione – nell’ambito di una lettura
complessiva delle singole convenzioni negoziali - di una sua
eventuale funzione “cauzionale”: la peculiarità propria del
Garantievertrag è difatti quella di consentire al creditore di
escutere il garante con la stessa, tempestiva efficacia con cui
egli potrebbe far proprio un versamento cauzionale. La funzione cauzionale sarebbe soddisfatta, e l’autonomia della garanzia sarebbe conseguentemente rinvenuta, secondo alcune
pronunce di questa corte, tutte le volte che la relativa convenzione attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere dal rapporto
garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a
quella dell’incameramento di una somma di denaro a titolo
di cauzione (Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 21 aprile
1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, predicative di un principio
di diritto condiviso da autorevole dottrina).
Con particolare riguardo alle polizze fideiussorie (sulle
quali, funditus, tra le altre, Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295,
pres. Rossi, rel. Bibolini, mentre l’orientamento tradizionale,
che le inquadrava tout court nell’ambito della fideiussione,
sembra risalire a Cass. 17 giugno 1957, n. 2299), si è più
volte sottolineato come esse concretino un rapporto di un
soggetto (una compagnia di assicurazioni o un istituto bancario) che, dietro pagamento di un corrispettivo, si impegna
a garantire in favore di altro soggetto l’adempimento di una
determinata obbligazione assunta dal contraente della polizza, strumento contrattuale che, pur non essendo espressamente disciplinato dal codice del ‘42, è menzionato in molte leggi
speciali che lo prevedono come forma di garanzia sostitutiva
della cauzione reale, normalmente richiesta per chi stipula come nel caso di specie - contratti con la P.A..
Disattesa pressochè unanimemente la ricostruzione volta
a riconoscere natura essenzialmente assicurativa alla fattispecie (risulta essersi pronunciata in tal senso la sola, peraltro
assai risalente, Cass. 9 luglio 1943), la giurisprudenza di
questa corte, sia pure nell’ambito dell’orientamento (che ap-
civile
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pare ormai minoritario) applicativo delle norme di cui agli
artt. 1936 e ss. c.c. ha in passato ritenuto che la polizza de
qua costituisse un sottotipo innominato di fideiussione, giudicando decisivo a tal fine il permanere della funzione di
garanzia dell’adempimento di una altrui obbligazione, pur in
presenza di elementi caratteristici idonei a distinguerla all’interno della fattispecie tipica della fideiussione come disciplinata dal codice (l’assunzione, cioè, della garanzia secondo
modalità tecnico-economiche dell’assicurazione: tra le meno
recenti, Cass. 8 febbraio 1963, n. 221; 9 giugno 1975, n. 2297;
17 novembre 1982, n. 6155). La maggior parte delle pronunzie, di converso (Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, poc’anzi
citata; Cass. 9 gennaio 1975, n. 1709, in Giust. civ. Mass.,
1975; Cass. 14 marzo 1978, n. 1292, ivi, 1978; Cass. 25 ottobre 1984, n. 5450) avrebbe viceversa posto l’accento sul
carattere decisamente atipico della polizza, separando la
questione della determinazione della disciplina applicabile al
contratto da quella dell’individuazione del tipo nominato cui
la polizza stessa appaia in sè riconducibile - ma circoscrivendo pur sempre il tema della atipicità alla alternativa tra causa
assicurativa e causa fideiussoria (entrambe compenetrate in
parte qua nel contratto); gli aspetti prevalenti, e tendenzialmente assorbenti resteranno, però, quelli tipici della fideiussione, con conseguente applicazione delle norme di cui agli
artt. 1936 e ss. c.c..
La dottrina, dal suo canto, ha ritenuto di poter individuare tre tipi di polizze fideiussorie: quelle in cui l’obbligo del
garante dipende dall’esistenza dell’obbligo del debitore principale; quelle in cui l’obbligo del garante è indipendente da
quello del debitore principale; quelle, infine, in cui il beneficiario, per ottenere il pagamento della garanzia, deve provare,
in genere mediante documenti indicati nella polizza stessa,
alcuni fatti attinenti al rapporto principale (in tal guisa ritenendo applicabile la disciplina della fideiussione alle sole
polizze del primo tipo, per effetto della permanenza del carattere accessorio dell’obbligo assunto dal garante, e iscrivendo le altre nell’orbita dei contratti autonomi di garanzia).
Quanto alla giurisprudenza più recente, va in limine osservato come, tra le sentenze citate dall’odierno controricorrente, quelle di cui a Cass. 4 luglio 2003, 10574 (Pres. Genghini, rel. Marziale) e a Cass. 7.1.2004, n. 52 (Pres. Fiducia,
est. Finocchiaro), pur contenendo alcune tra le più chiare
distinzioni tra le fattispecie della fideiussione e del contratto
autonomo di garanzia, non esplorino specificamente il terreno
delle polizze fideiussorie: nella prima pronuncia si legge, difatti, che la deroga all’art. 1957 cod. civ. non può ritenersi
implicita nell’inserimento, nella fideiussione, di una clausola
di “pagamento a prima richiesta” o di altra equivalente, sia
perchè detta norma è espressione di un’esigenza di protezione
del fideiussore, che prescinde dall’esistenza di un vincolo di
accessorietà tra l’obbligazione di garanzia e quella del debitore principale e può essere considerata meritevole di tutela
anche nelle ipotesi in cui tale collegamento sia assente, sia
perchè, comunque, la presenza di una clausola siffatta non
assume rilievo decisivo ai fini della qualificazione di un negozio come “contratto autonomo di garanzia” o come “fideiussione”, potendo tali espressioni riferirsi sia a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome) sia
a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un
vincolo di accessorietà, più o meno accentuato, nei riguardi
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dell’obbligazione garantita, sia infine a clausole, il cui inserimento nel contratto di garanzia è finalizzato, nella comune
intenzione dei contraenti, (non all’esclusione, ma) a una deroga parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957, ad
esempio limitata alla previsione che una semplice richiesta
scritta sia sufficiente ad escludere l’estinzione della garanzia,
esonerando il creditore dall’onere di proporre azione giudiziaria. Ne consegue che, non essendo la clausola di pagamento
a prima richiesta di per sè incompatibile con l’applicazione
della citata norma codicistica, spetta al giudice di merito accertare, di volta in volta, la volontà in concreto manifestata
dalle parti con la stipulazione della detta clausola; nella seconda, ancora, che, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo di garanzia oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l’impiego o meno delle espressioni “a
semplice richiesta” o “a prima richiesta” del creditore, ma la
relazione in cui le parti hanno inteso porre l’obbligazione
principale e l’obbligazione di garanzia. Ne consegue che la
carenza dell’elemento dell’accessorietà, che caratterizza il
contratto autonomo di garanzia (“performance bond”) e lo
differenzia dalla fideiussione, deve necessariamente essere
esplicitata nel contratto con l’impiego di specifica, clausola
idonea ad indicare l’esclusione della facoltà del garante di
opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, ivi compresa l’estinzione del rapporto (con riguardo,
peraltro, a vicenda inerente ad un preliminare di vendita con
fideiussione bancaria).
3. Passando, allora, alla analisi specifica dei più significativi, precedenti di legittimità in subiecta materia, deve essere
considerato:
- Da un canto:
1) il dictum di cui a Cass. 2 aprile 2002, n. 4637 (Pres.
Giustiniani, rel. Di Nanni), la quale, dopo la generale premessa secondo cui il contratto atipico di garanzia autonoma si
differenzia dalla fideiussione per la mancanza dell’elemento
dell’accessorietà, nel senso che il garante si impegna a pagare
al beneficiario, senza opporre eccezioni fondate sulla validità
o efficacia del rapporto di base, ha poi escluso, nella specie,
che valessero a snaturare il contratto tipico di fideiussione ed
a qualificarlo come garanzia autonoma le diverse previsioni
contrattuali di un termine per il pagamento decorrente dalla
richiesta, dell’esclusione del beneficio della preventiva escussione del debitore principale, della non necessità del consenso
di quest’ultimo al pagamento da parte del garante, del divieto per il garantito a sollevare obiezioni sullo stesso pagamento (nella motivazione della sentenza, si legge ancora che in
particolari rapporti, specie quelli di appalto, nella pratica da
tempo è invalso l’uso che l’appaltatore, per evitare l’immobilizzazione di somme dovute a scopo cauzionale, presti al
committente garanzie bancarie o assicurative di pagamento
incondizionato ed irrevocabile di quanto è da lui dovuto: ciò
consente all’appaltatore di non versare la cauzione e garantisce l’appaltante che conseguirà le sonane a semplice richiesta,
purchè siano rispettate le forme previste, specificandosi, subito dopo, che questo risultato, peraltro, può essere realizzato anche attraverso una fideiussione, quando il contratto è
articolato in modo atipico, prevedendo, ad esempio, deroghe
diverse rispetto alla disciplina della fideiussione, come quella
dell’esclusione del beneficio della preventiva escussione, ex
art. 1944 cod. civ., oppure quella dell’esclusione per il fideius-
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sore di opporre al creditore principale le eccezioni appartenenti al debitore principale, ex art. 1945 c.c.);
2) Le affermazioni di cui a Cass. 6 aprile 1998, n. 3552
(pres. Iannotta, rel. Preden), ove si legge che, al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria
o assicurazione cauzionale), caratterizzato dall’assunzione di
un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di
assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizione
della fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto
dalle parti. Riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione, la clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il pagamento immediato del credito “a semplice richiesta” o “senza eccezioni”. In tal caso, in deroga
all’art. 1945, è preclusa al fideiussore l’opponibilità delle eccezioni che potrebbero essere sollevate dal debitore principale,
restando in ogni caso consentito al garante di opporre al beneficiario “l’exceptio doli”, nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti “prima facie” abusiva o fraudolenta.
3) I principi di cui a Cass. 18 maggio 2001 n. 6823 (Pres.
Fiducia, rel. Manzo), secondo cui la cosiddetta assicurazione
fideiussoria costituisce una figura contrattuale intermedia tra
il versamento cauzionale e la fideiussione ed è contraddistinta
dall’assunzione dell’impegno, da parte (di una banca o) di una
compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento
della prestazione a lui dovuta dal contraente. È, poi, caratterizzata, dalla stessa funzione di garanzia del contratto di fideiussione, per cui è ad essa applicabile la disciplina legale
tipica di questo contratto, ove non derogata dalle parti;
Dall’altro:
1) I principi di diritto affermati da Cass. 21 aprile 1999,
n. 3964 (pres. Iannotta, rel. Lupo) e 19 giugno 2001, n. 8324
(pres. Greco, rel. Macioce), a mente della quali, ai fini della
configurabilità di un contratto autonomo di garanzia, oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l’impiego o
meno delle espressioni “a semplice richiesta” o a “prima richiesta del creditore”, ma la relazione in cui le parti hanno
inteso porre l’obbligazione principale e l’obbligazione di garanzia. Infatti la caratteristica fondamentale che distingue il
contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione è l’assenza
dell’elemento dell’accessorietà della garanzia, insito nel fatto
che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore
le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla
regola essenziale della fideiussione, posta dall’art. 1945 cod.
civ. (in entrambi i casi la fattispecie, analoga a quella oggetto
del presente ricorso, aveva a sua volta ad oggetto una polizza
fideiussoria cauzionale: i giudici di merito, con consonanti
decisioni, confermate in punto di diritto da questa corte, ritennero di dover qualificato in termini di autonomia la convenzione di garanzia stipulata, valorizzando la clausola secondo cui la società garante avrebbe dovuto pagare entro un
breve termine dalla richiesta del creditore, dopo semplice
avviso al debitore principale, di cui non era richiesto il consenso e che nulla avrebbe potuto eccepire in merito al pagamento, anche in sede di rivalsa del garante, e opinando, in
particolare, che la stessa apposizione di un termine breve
precludesse a priori qualsiasi possibilità, per il garante, di
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sollevare eccezioni in ordine al rapporto sottostante, non essendo immaginabile, in tempi estremamente ristretti, lo svolgimento delle necessarie indagini per l’accertamento in concreto dell’inadempimento dell’appaltatore e della legittimità
della richiesta dell’amministrazione garantita).
2) Il recente dictum di cui a Cass. 2008, n. 2377, ove si
legge che la polizza fideiussoria prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore costituisce una garanzia atipica in
quanto essa, non potendo garantire l’adempimento di detta
obbligazione, perchè connotata dal carattere dell’insostituibilità, può semplicemente assicurare la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento, risultando, quindi, estranea all’ambito delle garanzie
di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni fungibili, caratterizzate dall’identità della prestazione, dal vincolo della solidarietà e dall’accessorietà, ed essendo, invece, riconducibile
alla figura della garanzia di tipo indennitario - cosiddetta
“fideiussio indemnitatis” -, in forza della quale il garante è
tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza
impugnata che aveva ritenuto che la polizza fideiussoria oggetto di controversia dovesse qualificarsi come garanzia atipica
in quanto non finalizzata a garantire la restituzione di un
credito erogato dalla Provincia autonoma di Bolzano a fondo
perduto per un progetto di riconversione industriale finalizzato al raggiungimento dei livelli occupazionali ed economici
preventivati, giacchè detta restituzione sarebbe stata richiesta
dalla medesima Provincia unicamente nel caso in cui il mutuatario non fosse stato in grado di adempiere al promesso piano
di riconversione industriale).
Un ulteriore passo avanti verso la automaticità dell’equazione Polizza fideiussoria dell’appaltatore=Garantievertrag
sembrerebbe implicitamente potersi rinvenire nella sentenza
(ritenuta, in dottrina, “una inspiegabile rottura, o quantomeno una forzatura, rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale”) di cui a Cass. 27.5.2002, n. 7712 (pres. Giuliano,
est. Durante), a niente della quale, ove sia prestata a garanzia
dell’obbligazione dell’appaltatore, la polizza fideiussoria non
è configurabile come fideiussione, bensì come garanzia atipica, in quanto l’insostituibilità della prestazione fa venire
meno la solidarietà dell’obbligazione del garante e comporta
che il creditore possa pretendere da lui soltanto un indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla
quale aveva diritto (nella specie la Suprema Corte riconoscerà
la validità della polizza fideiussoria, a mezzo della quale una
società assicuratrice aveva garantito l’adempimento delle
obbligazioni dell’appaltatore, sebbene la sua stipulazione
fosse stata addirittura posteriore al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligazione garantita. In sede di commento alla
pronuncia, non si è mancato di osservare come quest’ultima
ancori la propria ratio decidendi al sillogismo per cui: 1) la
polizza fideiussoria – a garanzia delle obbligazioni assunte da
un appaltatore – assurge a garanzia atipica, a cagione dell’insostituibilità della obbligazione principale (premessa maggiore); 2) il creditore può pretendere dal garante solo un indennizzo o risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale
aveva diritto (premessa minore); 3) la polizza fideiussoria è
valida anche se intervenuta successivamente rispetto all’inadempimento delle obbligazioni garantite (conclusione), sillogismo del quale si dicono condivisibili le premesse (sia quella
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maggiore che quella minore), ma non la conclusione.
Va infine ricordato come, ancora più di recente, Cass. 21
febbraio 2008, n, 4446 (pres. Velia, rel. Mensitieri), abbia
avuto modo di operare una sorta di “sintesi” riepilogativa
delle posizioni assunte da questa corte in tema di polizze fideiussorie, alla luce della quale: al contratto cosiddetto di
assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato dall’assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde
garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui
dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizioni della fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti.
La clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il
pagamento immediato del credito “a semplice richiesta” o
“senza eccezioni” riveste carattere derogatorio rispetto alla
disciplina della fideiussione. Siffatta clausola, risultando incompatibile con detta disciplina, comporta l’inapplicabilità
delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle
fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c., consentendo l’applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass. 1/6/2004 n. 10486); in tema di garanzia personale,
la cosiddetta assicurazione fideiussoria o cauzione fideiussoria
o assicurazione cauzionale, è una figura intermedia tra il
versamento cauzionale e la fideiussione ed è caratterizzata
dall’assunzione dell’impegno, da parte di una banca o di una
compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo in caso di inadempimento
della prestazione a lui dovuta dal terzo.
Poichè infatti le norme contenenti la disciplina legale tipica della fideiussione sono applicabili se non sono espressamente derogate dalle parti, portata derogatoria deve riconoscersi alla clausola legittima in virtù del principio di autonomia negoziale - con cui le parti abbiano previsto la possibilità
per il creditore garantito di esigere dal garante il pagamento
immediato del credito “a semplice richiesta” o “senza eccezioni”, in quanto preclude al garante l’opponibilità al beneficiario delle eccezioni altrimenti spettanti al debitore principale ai sensi dell’art. 1945 c.c.. Siffatta clausola, risultando
incompatibile con la disciplina della fideiussione, comporta
l’inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad
esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c., consentendo l’applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto
garante/beneficiario (Cass. 14/2/2007. n. 3257); nella ipotesi
in cui la durata di una fideiussione sia correlata non alla scadenza della obbligazione principale ma al suo integrale adempimento, l’azione del creditore nei confronti del fideiussore
non è soggetta al termine di decadenza previsto dall’art. 1957
c.c., (Cass. 27/11/2002 n. 16758; 19/7/1996 n. 6520; 24/3/1994
n. 2827); la clausola con la quale il fideiussore si impegni a
soddisfare il creditore a semplice richiesta del medesimo configura una valida espressione di autonomia negoziale e da
vita ad un contratto atipico di garanzia, che pur derogando
al principio dell’accessorietà, non fa venir meno la connessione tra rapporto fideiussorio e quello principale (Cass.
12/1/2007 n. 412).
4. Sulla scorta di tali premesse, l’intervento delle sezioni
unite deve, da un canto, definitivamente chiarire i tratti differenziali, sul piano morfologico, funzionale e interpretativo,
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tra le fattispecie della fideiussione e del contratto autonomo
di garanzia; dall’altro, risolvere il contrasto circa la natura
delle polizze assicurative cd. “fideiussorie”, sia su di un piano
generale, sia nella specifica dimensione, più propriamente
oggetto di dubbi ermeneutici, delle convenzioni negoziali
stipulate dall’appaltatore di opere pubbliche, con particolare
riguardo, in quest’ultima ipotesi, e per quanto di interesse a
fini interpretativi.
Alla disciplina normativa speciale abrogata, di cui, tra
l’altro, al D.P.R. n. 1063 del 1962 - oggi abrogato dal D.P.R.
n. 544 del 1999, art. 231 - il cui art. 3 disponeva che la cauzione cui è tenuto l’aggiudicatario deve essere prestata in numerario o in titoli di Stato, e può essere costituita, da fideiussione bancaria; alla L. n. 348 del 1982 - a sua volta abrogata
dal D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 354, comma 1, - il
cui art. 1 prevedeva che la costituzione di una cauzione a favore dello Stato o altro Ente pubblico potesse prestarsi, tra
l’altro, con polizza assicurativa rilasciata da imprese di assicurazione debitamente autorizzata all’esercizio del ramo
cauzioni; alla L. n. 109 del 1994 (con riferimento alla quale
la garanzia fideiussoria contemplata all’art. 30 è stata assimilata ad una vera e propria caparra confirmatoria dalla 4^ sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 29 marzo 2001,
n. 1840) - anch’essa abrogata dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art.
256, comma 1, recante il cd. “nuovo codice dei contratti pubblici” -; alle circolari ministeriali autorizzative (la n. 145 del
7.1.1960 e la n. 433 del 16.11.1979, ove si legge che le assicurazioni cauzionali assolvono alla stessa funzione giuridicoeconomica di una cauzione in denaro o in altri beni reali);
Alla disciplina attualmente vigente, in particolare all’art.
75 del nuovo codice dei contratti pubblici, a mente del quale
la garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato nel
bando o nell’invito, va prestata sotto forma di cauzione o di
fideiussione, a scelta dell’offerente. La cauzione può essere
costituita in contanti o in titoli del debito pubblico garantiti
dallo Stato al corso del giorno del deposito, presso una sezione di tesoreria provinciale o presso le aziende autorizzate, a
titolo di pegno a favore dell’amministrazione aggiudicatrice,
mentre la fideiussione può essere bancaria o assicurativa o
rilasciata dagli intermediari finanziari, e deve prevedere
espressamente tanto la rinuncia al beneficio della preventiva
escussione del debitore principale, quanto la rinuncia, all’eccezione di cui all’art. 1957 c.c., comma 2, nonchè l’operatività della garanzia medesima entro quindici giorni, a semplice
richiesta scritta della stazione appaltante.
Anche alla luce di tale plesso normativo potrà essere, così,
efficacemente verificata la esattezza, o meno, della tesi secondo cui, ove la cauzione sia sostituita da altra forma di garanzia prevista per legge (nella specie, quella che il codice del
2006 espressamente qualifica come “fideiussione”), questa
debba offrire, o meno, alla P.A. un analogo risultato sul piano funzionale, e cioè l’incondizionato e pressochè automatico
incameramento della somma in caso di inadempimento
dell’aggiudicatario”. 5. Il ricorso è fondato.
Avverso la sentenza della corte d’appello di Perugia la
ATER propone quattro motivi di impugnazione, chiedendo
all’adita corte di legittimità di interpretare la convenzione
negoziale per la quale è processo in termini di contratto autonomo di garanzia alla luce sia della previsione di un obbligo
di pagamento entro un breve termine (dalla richiesta scritta)
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- non rilevando, in senso contrario, il mancato uso di espressioni quali “a semplice” o “a prima richiesta”, atteso che
l’interpretazione della convenzione negoziale de qua andrebbe
viceversa desunta dalla relazione in cui le parti hanno inteso
porre l’obbligazione principale e quella di garanzia -; sia
dell’impegno assunto dalla ditta debitrice di rimborsare al
garante tutte le somme versate, con espressa rinuncia a sollevare qualsiasi eccezione; sia della normativa pubblicistica
all’uopo richiamata - che considera(va) la polizza come sostitutiva di una cauzione dovuta dall’appaltatore in favore dello
Stato o di altro ente pubblico.
La ricorrente deduce, di conseguenza, l’inapplicabilità,
alla fattispecie, della decadenza di cui all’art. 1957 c.c., ovvero la deroga a tale disposizione, dovendo ritenersi che la
proposizione dell’istanza scritta di pagamento sia indice inequivoco della volontà dell’ente creditore di avvalersi della
garanzia.
I motivi di ricorso appaiono meritevoli di accoglimento,
per quanto di ragione.
È opportuno premettere, ad avviso del collegio, alcune più
generali premesse in ordine ai rapporti tra negozio tipico di
fideiussione e negozio atipico di garanzia (cd. Garantievertrag) che consentano di pervenire a soddisfacente soluzione in
diritto con riguardo alla vicenda processuale di cui queste
sezioni unite risultano oggi investite.
6. È prassi ormai sempre più frequente, nel sottosistema
civilistico delle garanzie personali, che contratti di identico
contenuto siano indicati con nomi diversi, come accade, in
particolare, in tema di polizza fideiussoria, denominata, di
volta in volta, “assicurazione cauzionale”, “cauzione fideiussoria”, “polizza cauzionale”, “fideiussione assicurativa”.
La polizza fideiussoria è, sotto il profilo genetico, un negozio stipulato dall’appaltatore su richiesta del committente
e in suo favore, strutturalmente articolato secondo lo schema
del contratto a favore di terzo, funzionalmente caratterizzato
dall’assunzione dell’impegno, da parte di una banca o di una
compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento
della prestazione a lui dovuta dal contraente (così, ex aliis,
Cass. n. 11261/2005); il terzo non è parte, nè in senso sostanziale nè in senso formale, del rapporto, e si limita a ricevere
gli effetti di una convenzione già costituita ed operante, sicchè
la sua adesione si configura quale mera condicio iuris sospensiva dell’acquisizione del diritto, rilevabile per facta concludentia, risultando la dichiarazione di volerne profittare necessaria soltanto per renderla irrevocabile ed immodificabile ex
art. 1411 c.c., comma 3 (Cass. n. 23708/2008 e n. 13661/1992);
non rileva, difatti, che il contratto sia stato eventualmente
stipulato anche con la partecipazione del creditore garantito,
derivandone l’esclusivo effetto di obbligare direttamente la
compagnia assicuratrice nei confronti del creditore stesso ed
impedire che quest’ultimo, quale beneficiario della prestazione negoziata a suo favore dal debitore, possa dichiarare di non
aderire alla stipulazione secondo la disciplina del contratto a
favore del terzo (Cass. n. 7766/1990), anche se, alla forma
giuridica bilaterale della stipulazione – in relazione alla quale
il committente è terzo – corrisponde un’operazione economica sostanzialmente trilatera, in cui l’unica parte effettivamente interessata alla validità del contratto è il beneficiario della
polizza, che ad essa condiziona l’erogazione delle sue presta-
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zioni, potendo lo stipulante appaltatore anche non avere interesse all’effettiva validità ed efficacia dell’assicurazione (così,
ancora, Cass. n. 23708/2008).
Deve, pertanto, convenirsi con la più attenta dottrina che
ricostruisce la fattispecie riconoscendo al debitore principale
la qualità di parte del contratto - per assumerne la veste di
stipulante -, al garante la veste di promittente, al creditore
principale quella di (terzo) beneficiario (con la precisazione
che, nella normalità dei casi, il testo della garanzia viene in
realtà imposto dal beneficiario, il quale non lascia al debitore
ordinante margini di negoziazione in ordine alle condizioni
contrattuali: nè è escluso che il garante, su incarico del clientedebitore, stipuli il contratto direttamente con il creditore).
E’ questa una prima, essenziale differenza morfologica
rispetto allo schema tipico delle convenzioni fideiussorie, che,
caratterizzate dalla funzione di garantire un’obbligazione
altrui, intercorrono esclusivamente tra il fideiussore e il creditore (così, tra le tante, Cass. n. 1525/1984, che non manca
di sottolineare come, ai sensi dell’art. 1936 c.c., comma 2, la
fideiussione sia efficace anche se il debitore non ne ha conoscenza: la differenza parrebbe attenuarsi nel dictum di cui a
Cass. n. 3940/1995, a mente della quale la fideiussione “può
anche essere stipulata con l’intervento del debitore o tra
quest’ultimo ed il garante, in modo da configurare un contratto a favore del terzo creditore che, dichiarando di voler
profittarne, rende irrevocabile la stipulazione, ai sensi dell’art.
1411 c.c.”, secondo una ricostruzione strutturale della fattispecie che parrebbe peraltro evocare, più propriamente,
l’istituto dell’accollo cumulativo esterno, oltre che confliggere
con il preciso dictum normativo di cui all’art. 1936 c.c., che
identifica le parti del contratto nel creditore e nel garante).
Altra differenza funzionale rispetto alla fideiussione è
costituita dall’essere la polizza o assicurazione fideiussoria
“necessariamente onerosa” in quanto assunta dall’assicuratore in corrispettivo del pagamento di un premio (Cass. n.
221/1963), mentre la fideiussione può essere anche a titolo
gratuito (nel qual caso il contratto, ponendo obbligazioni a
carico di una sola parte, si perfeziona in forza del disposto
dell’art. 1333 c.c.: Cass. n. 9468/1987).
7. Quanto alla natura giuridica delle polizze, la giurisprudenza di questa corte le ha diacronicamente considerate,
sotto l’aspetto tipologico, di volta in volta come sottotipo
innominato di fideiussione (Cass. n. 221/1963), come figura
contrattuale intermedia fra il versamento cauzionale e la fideiussione, come contratto atipico, come contratto misto risultante dalla fusione di elementi propri di vari contratti (tra
le tante: Cass. n. 2899/1968; n. 1292/1978; n. 6155/1982; n.
5981/1986; n. 6499/1990; n. 13661/1992; n. 3940/1995; n.
6823/2001; n. 11261/2005; n. 3257/2007; n. 14853/2007; n.
11890/2008, in motivazione; n. 12871/2009).
In particolare, diversamente dalla cauzione, la prestazione
viene assunta da un terzo (garante) e non dallo stesso debitore
obbligato, mentre manca il versamento anticipato di una somma di denaro, così evitandosi l’effetto negativo di una lunga e
improduttiva immobilizzazione di capitali; diversamente dalla
fideiussione, l’impegno del garante è di estensione tale da consentire al creditore principale di soddisfarsi in via di autotutela, cioè di realizzare il suo credito sui beni oggetto della garanzia (seppur non tramite l’incameramento della cauzione ma)
mediante un atto unilaterale costituito da una richiesta della
civile
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somma assicurata (in caso di inserimento della clausola “a
semplice” o “prima richiesta”), all’esito di un accertamento
unilaterale ed insindacabile dello stesso creditore in ordine
alla ricorrenza delle condizioni previste per l’escussione.
Va altresì sottolineato che, pur essendo prestata spesso da
un’impresa di assicurazione, la funzione della polizza non consiste nel trasferimento o nella copertura di un rischio - che assume un rilievo assai marginale, essendo la prestazione del garante svincolata da un preciso ed obiettivo accertamento del suo
presupposto (il quale è demandato allo stesso beneficiario) - ma
in quella di garantire al beneficiario l’adempimento di obblighi
assunti dallo stesso contraente, anche quando l’inadempimento
sia dovuto a volontà dello stesso e questi sia solvibile.
8. Secondo un primo orientamento della giurisprudenza
di questa corte, poichè la causa del negozio de quo consiste
sostanzialmente nel garantire l’adempimento (“sostitutivo o
di regresso”: Cass. n. 1292/1978 cit.) della prestazione dovuta al creditore da un terzo, troverebbe applicazione la disciplina legale tipica della fideiussione, ove non espressamente
derogata, potendo le parti, nella loro autonomia contrattuale,
richiamare le norme sull’assicurazione per quanto riguarda i
rapporti tra il debitore contraente e l’assicuratore (Cass. n.
5450/1984 ritiene, pertanto, applicabili le norme sulla fideiussione, considerata come rapporto tipico “prevalente”, e in
particolare l’art. 1941 c.c. secondo cui la fideiussione non può
eccedere ciò che è dovuto dal debitore nè può essere prestata
a condizioni più onerose; mentre Cass. n. 11038/1991 e n.
6757/2001 si esprimono nel senso che, nelle ipotesi di dichiarazioni inesatte o reticenti del contraente-debitore in ordine
alla formazione del rapporto principale, non trovi applicazione la disciplina dell’art. 1892 c.c. sull’assicurazione, dovendo
la validità del contratto essere piuttosto valutata alla stregua
delle regole dell’annullabilità per errore o dolo.
Peraltro, in senso opposto, Cass. n. 2297/1975, n.
3457/1981, n. 7028/1983, n. 14656/2002 si esprimono nel
senso dell’applicabilità della normativa sull’assicurazione, in
particolare dell’art. 2952 c.c., comma 1, quanto alla prescrizione annuale delle rate di premio).
8.1. - Di segno speculare, invece, l’orientamento secondo
il quale (pur ritenendosi la convenzione in parola - tanto se
diretta a garantire al beneficiario l’adempimento dell’obbligazione originariamente assunta verso di lui dal contraente
della polizza quanto se volta ad assicurargli la somma dovuta
per inadempimento o inesatto adempimento funzionale a
garantire un obbligo altrui secondo lo schema previsto
dall’art. 1936 cod. civ., affiancando al primo un secondo
debitore di pari o diverso grado), la polizza fideiussoria, se
prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore, non
ripete i caratteri morfologici della fideiussione, ma si configura come garanzia atipica (cd. fideiussio indemnitatis), in
quanto l’infungibilità della prestazione dell’appaltatore fa
venir meno la solidarietà dell’obbligazione del garante e comporta che il creditore può pretendere da lui solo un indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla
quale aveva diritto (così, tra le altre, Cass. n. 7712/2002; Cass.
n. 2377/2008).
Questo secondo orientamento trae linfa dalla considerazione per cui elemento “normale ed essenziale” del vincolo
fideiussorio è pur sempre l’identità con l’obbligazione principale nella sua stessa quantità e nelle sue stesse condizioni. Dal
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suo canto, autorevole dottrina evidenzia che la polizza non
mira a garantire l’adempimento dell’obbligazione del debitore
principale (come accade nella fideiussione), ma ad assicurare
al creditore la presenza di un soggetto solvibile in grado di
tenerlo indenne dall’eventuale inadempimento del medesimo,
ciò che dimostrerebbe il venir meno di uno degli elementi
strutturali della fideiussione, vale a dire l’accessorietà dell’obbligazione del garante rispetto a quella del debitore principale,
con conseguente slittamento verso il modello del contratto
autonomo di garanzia e inadeguatezza del modello legale fideiussorio (erroneamente applicato secondo la teoria della
prevalenza o dell’assorbimento, ove la disciplina normativa
viene individuata attraverso l’incorporazione del contratto nel
tipo prevalente o che più gli assomiglia). La medesima dottrina propone, così, l’applicazione del cd. metodo “tipologico”,
che consentirebbe di rintracciare, nella trama del contratto in
questione, sotto - strutture negoziali differenti mediante
un’opera di destrutturazione del contratto che offra all’interprete l’opportunità di individuare diverse caratteristiche tipologiche che solo successivamente verranno utilizzate al fine di
determinare (sempre senza valicare i limiti dell’incompatibilità) il mix disciplinare che meglio risponde all’esigenza di regolare il rapporto (mentre da altra parte si invita a considerare la naturale propensione delle polizze a modellarsi in funzione delle diverse esigenze di garanzia di volta in volta soddisfatte e a cogliere e valorizzare il quid proprium delle diverse configurazioni assunte nella prassi, rifuggendo da aprioristici tentativi di generalizzazione e di riduzione a un “tipo”).
Sulla polizza fideiussoria si riverbera così l’eco del dibattito sul contratto autonomo di garanzia (Garantievertrag) e
sulla sua causa.
8.2. Pur non essendo questa la sede per approfondire gli
esiti di tale questione, pare sufficiente considerare che, secondo una diffusa opinione, la funzione del Garantievertrag è
quella di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del
mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che non sempre consiste in un dare ma può
anche riguardare un fare infungibile, contrariamente a quanto accade per il fideiussore, il quale garantisce l’adempimento
della medesima obbligazione principale altrui (attesa l’identità tra prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante). In altri termini, mentre con la fideiussione è
tutelato l’interesse all’esatto adempimento dell’(unica) prestazione principale - per cui il fideiussore è un “vicario” del debitore -, l’obbligazione del garante autonomo è qualitativamente altra rispetto a quella dell’ordinante - sia perchè non
necessariamente sovrapponibile ad essa, sia perchè non rivolta al pagamento del debito principale, bensì ad indennizzare
il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento
di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della
mancata o inesatta prestazione del debitore.
Ne consegue che polizze fideiussorie e fideiussione, pur
accomunate dal medesimo (generico) scopo di offrire al creditore-beneficiario la garanzia dell’esito positivo di una determinata operazione economica, si distinguono perchè le prime
(se prestate a garanzia di obbligazioni infungibili) appartengono alla categoria delle cd. garanzie di tipo indennitario,
potendo il creditore tutelarsi (rispetto all’inadempimento del
debitore) soltanto tramite il risarcimento del danno, mentre
la fideiussione appartiene alle cd. garanzie di tipo satisfattorio,
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caratterizzate dal rafforzamento del potere del creditore di
conseguire il medesimo bene dovuto, cioè di realizzare specificamente il soddisfacimento del proprio diritto.
8.3 Ancora con specifico riguardo alle polizze fideiussorie,
l’introduzione, nelle condizioni generali di contratto, di clausole di pagamento con diciture “a semplice” o “a prima richiesta (o domanda)”, “senza eccezioni” o analoghe (“incondizionatamente”, “a insindacabile giudizio del beneficiario”
e così via), se ne ha di fatto evidenziato l’impredicabilità di
qualsivoglia natura assicurativa e l’indiscutibile avvicinamento al modello cauzionale, ne ha specularmente posto il problema della compatibilità con il modello tipico fideiussorio.
La previsione di siffatte clausole di pagamento manifesta,
difatti, una rilevante deroga alla disciplina legale della fideiussione, che si sostanzia nell’attribuzione, al creditore-beneficiario, del potere di esigere dal garante il pagamento immediato, a prescindere da qualsiasi accertamento (e dalla prova
da parte del creditore) in ordine all’effettiva sussistenza di un
inadempimento del debitore principale (ciò vale, in particolare, per l’incameramento della cauzione da parte dell’ente appaltatore di opere pubbliche, il quale non è tenuto a dimostrare la sussistenza di un danno in concreto, proprio in ragione
della determinazione forfettaria dello stesso che consegue
alla previsione della cauzione: così Cass. n. 8295 del 1994, in
motivazione). A tale riguardo, questa corte ha avuto modo di
affermare che, se è consentito alle parti di concedere (o far
concedere da un terzo) una somma di denaro al creditore a
garanzia dell’adempimento della prestazione dovutagli, allo
stesso modo deve poter rientrare nei poteri riconosciuti all’autonomia negoziale la sostituzione della somma di denaro con
l’impegno di un terzo di provvedere a quella prestazione o a
quel pagamento a semplice richiesta del creditore, dovendosi
pertanto riconoscere in dette clausole una “una valida espressione di autonomia negoziale”. 9. Di tali clausole, secondo un
primo orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass.
n. 6499/1990, n. 10486/2004, n. 4446/2008 in motivazione),
si predica la incompatibilità con la disciplina della fideiussione, e la conseguente inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali quelle fondate sull’art. 1947 c.c. (compensazione opposta dal garante con un debito del creditore verso il
debitore principale), art. 1956 (liberazione del fideiussore per
obbligazione futura assunta dal creditore), art. 1957 (decadenza prevista per l’ipotesi che il creditore non coltivi dopo la
scadenza dell’obbligazione la propria pretesa nei confronti del
debitore principale).
9.1. Secondo un diverso orientamento, dette clausole sarebbero invece idonee a valere anche come osservanza
dell’onere di cui all’art. 1957 prescindendo dalla proposizione
dell’azione giudiziaria (Cass. n. 7345/1995, cit.), sicchè non si
tratterebbe di un’esclusione ma di una deroga parziale della
disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata
alla previsione che una semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l’estinzione della garanzia, esonerando il creditore dall’onere di proporre azione giudiziaria (Cass. n.
10574/2003, n. 27333/2005, n. 13078/2008, quest’ultima
sulla limitata funzione, che può essere svolta da una clausola
di pagamento a prima richiesta, di evitare al creditore la decadenza di cui all’art. 1957 non solo iniziando l’azione giudiziaria verso il debitore principale, ma anche soltanto rivolgendo al fideiussore la richiesta di adempimento).
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9.2. E’ dunque opportuno approfondire le ragioni che
hanno indotto la giurisprudenza di questa corte a ravvisare
nelle clausole di pagamento in oggetto una deroga (seppur
variamente atteggiata) alla disciplina legale della fideiussione
onde chiarire se di semplice deroga si tratti, ovvero di una
così rilevante alterazione del “tipo” negoziale fideiussorio
tale da provocarne un exodus che conduca all’approdo al
modello del Garantievertrag così come comunemente praticato nel commercio internazionale e, di recente, anche nazionale (nelle forme del Bid Bond o Bietungsgarantie, a garanzia
del rispetto o del mantenimento di un’offerta contrattuale; del
Performance Bond o Leistungsgarantie e del Vertragserfullungsgarantie, quale garanzia di buona esecuzione di un
contratto; del Repayment Bond e dell’Advance payment Bond
o Anzahlungsgarantie, a copertura del rischio che l’appaltatore non rimborsi al committente il pagamento degli anticipi
ricevuti in caso di mancata esecuzione dei lavori; del Retention money Bond, la cui origine è nella prassi in base alla
quale il committente trattiene una parte dei pagamenti in
occasione dei diversi stati di avanzamento dei lavori, al fine
di costituire un fondo di copertura per le spese eventuali da
sostenere per riparare errori dell’appaltatore nell’esecuzione
dei lavori).
Quelle ragioni risiedono nell’essere le suddette clausole
volte a precludere al garante l’opponibilità al creditore garantito delle eccezioni spettanti al debitore principale (siano esse
relative al rapporto di valuta tra quest’ultimo e il creditore o
al rapporto di provvista tra il debitore principale e il garante),
in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dagli
artt. 1945 e 1941 c.c., con l’effetto di svincolare (in tutto o in
parte) la garanzia dalle vicende del rapporto principale e di
precludere la proponibilità delle eccezioni fideiussorie.
9.3. Sotto l’aspetto morfologico, il contratto autonomo di
garanzia costituisce espressione di quella autonomia negoziale riconosciuta alle parti dall’art. 1322 c.c., comma 2, che si
configura come un coacervo di rapporti nascenti da autonome
pattuizioni fra il destinatario della prestazione (beneficiario
della garanzia), il garante (di solito una banca straniera),
l’eventuale controgarante (soggetto non necessario, che solitamente si identifica in una banca nazionale che copre la garanzia assunta da quella straniera) e il debitore della prestazione (l’ordinante). Caratteristica fondamentale di tale contratto, che vale a distinguerlo da quello di fideiussione di cui
agli artt. 1936 e seguenti cod. civ., è la carenza dell’elemento
dell’accessorietà: il garante s’impegna a pagare al beneficiario,
senza opporre eccezioni in ordine alla validità e/o all’efficacia
del rapporto di base, e identico impegno assume il controgarante nei confronti del garante (così Cass. n. 1420/1998; sulla
controgaranzia autonoma, Cass. n. 12341/1992 specifica che
l’obbligo di pagamento del garante secondo il meccanismo
dell’adempimento “a prima richiesta”, tanto della “garanzia”
che della “controgaranzia”, si attiva a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale, restando irrilevante l’avvenuto adempimento del contratto collegato a catena).
La diversità di struttura e di effetti rispetto alla fideiussione si riflette sulla causa concreta (in argomento, funditus,
Cass. 10490/06) del Garantievertrag, la quale risulta essere
quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione
contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
oppure no: infatti, la prestazione dovuta dal garante è qualitativamente diversa da quella dovuta dal debitore principale,
essendo (non quella di assicurare l’adempimento della prestazione dedotta in contratto ma) semplicemente quella di assicurare la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento (Cass. n. 2377/2008
cit., proprio con riguardo alle polizze fideiussorie); per la sua
indipendenza dall’obbligazione principale, esso si distingue,
pertanto, dalla fideiussione, giacchè mentre il fideiussore è
debitore allo stesso modo del debitore principale e si obbliga
direttamente ad adempiere, il garante si obbliga (non tanto a
garantire l’adempimento, quanto piuttosto) a tenere indenne
il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del
debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non
necessariamente corrispondente a quella dovuta (Cass. n.
27333/2005; n. 4661/2007): ne consegue, in definitiva, la sua
fuoriuscita dal modello fideiussorio, essendo il rapporto affidato per intero all’autonomia privata nei limiti fissati dall’art.
1322 c.c., comma 2 ed essendo la causa del contratto quella
di coprire il rischio del beneficiario mediante il trasferimento
dello stesso sul garante.
Il riferimento, come oggetto della garanzia de qua, al rischio contrattuale da preservare (ovvero all’interesse economico sotteso all’obbligazione principale) ha rappresentato una
soluzione funzionale a superare l’apparente ossimoro celato
nel sintagma “garanzia autonoma” (atteso che il concetto di
garanzia presuppone ontologicamente una relazione di accessorietà con un quid che dev’essere garantito), con la conseguenza che la garanzia sarebbe autonoma rispetto all’obbligazione principale ma pur sempre accessoria rispetto all’interesse economico ad essa sottostante, così evitandosi la (preoccupante) conseguenza di individuare nel rapporto principale il termine della relatio e di assimilare in tal modo la garanzia autonoma a quella accessoria.
9.4. Sotto il profilo funzionale, il regime “autonomo” del
Garantievertrag trova un limite quando:
le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto
di garanzia (Cass. n. 3326/2002 cit.) ovvero al rapporto garante/beneficiario (Cass. n. 6728/2002, sul diritto del garante di opporre al beneficiario la compensazione legale per un
credito vantato direttamente nei suoi confronti); il garante
faccia valere l’inesistenza del rapporto garantito (Cass. n.
10652/2008, in motivazione, “trattandosi pur sempre di un
contratto (di garanzia) la cui essenziale - quindi inderogabile
- funzione è quella di garantire un determinato adempimento”); la nullità del contratto- base dipenda da contrarietà a
norme imperative o illiceità della causa ed attraverso il contratto di garanzia si tenda ad assicurare il risultato che l’ordinamento vieta (Cass. n. 3326/2002; n. 26262/2007; n.
5044/2009); sia proponibile la cd. exceptio doli generalis seu
presentis, perchè risulta evidente, certo ed incontestabile il
venir meno del debito garantito per pregressa estinzione
dell’obbligazione principale per adempimento o per altra
causa (nel senso che il garante non è autorizzato ad effettuare
pagamenti arbitrariamente intimatigli, a pena di perdita del
regresso nei confronti del debitore principale: Cass. n.
10864/1999; n. 917/1999; n. 5997/2006; in generale, sull’obbligo del garante di opporre l’exceptio doli a protezione del
garantito dai possibili abusi del beneficiario, Cass. n.
10864/1999; n. 5997/2006; n. 23786/2007; n. 26262/2007;
c i v i l e
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F O R E N S E
sull’obbligo del garante di fornire la prova certa ed incontestata dell’esatto adempimento del debitore ovvero della nullità del contratto garantito o illiceità della sua causa: Cass. n.
3964/1999; n. 10652/2008), mentre discussa è la conseguenza della impossibilità sopravvenuta della prestazione principale non imputabile al debitore (che, secondo una recente
giurisprudenza di merito - App. Genova 25 luglio 2003 - sarebbe a sua volta causa di estinzione della garanzia).
La più rilevante differenza operativa tra la fideiussione e
il contratto autonomo di garanzia non riguarda, peraltro, il
momento del pagamento - cui (anche) il fideiussore “atipico”
può essere tenuto immediatamente a semplice richiesta del
creditore -, ma attiene soprattutto al regime delle azioni di
rivalsa dopo l’avvenuto pagamento.
9.5. Se, difatti, il pagamento non risulti dovuto per motivi attinenti al rapporto di base, il garante (dopo aver pagato
a prima/semplice richiesta) che agisce in ripetizione con l’actio
indebiti ex art. 2033 c.c. nei confronti dell’accipiens, cioè del
creditore beneficiario, facendo valere le eccezioni di cui dispone il debitore principale, risponde in realtà come un fideiussore, atteggiandosi la clausola di pagamento in questione
come una ordinaria clausola solve et repete ex art. 1462 c.c..
Il garante “autonomo”, invece, una volta che abbia pagato
nelle mani del creditore beneficiario, non potrà agire in ripetizione nei confronti di quest’ultimo (salvo nel caso di escussione fraudolenta), rinunciando, per l’effetto, anche alla
possibilità di chiedere la restituzione di quanto pagato all’accipiens nel caso di escussione illegittima della garanzia, ma
potrà esperire l’azione di regresso ex art. 1950 c.c. unicamente nei confronti del debitore garantito (il più delle volte mediante il cosiddetto “conteggio automatico” a carico del debitore, quando questi ha anticipato alla banca le somme necessarie per il pagamento o quando sussista la possibilità di
addebitare le somme su un conto corrente), senza possibilità
per il debitore di opporsi al pagamento richiesto dal garante
nè di eccepire alcunché, in sede di rivalsa, in merito all’avvenuto pagamento (così Cass. n. 8324/2001; n. 7502/2004; n.
14853/2007).
L’effetto è di “autonomizzare” il rapporto di garanzia rispetto al rapporto base, contrariamente a quanto accade per
la fideiussione tipica: è a quest’ultima, infatti, che si riferisce
il principio secondo il quale “quando si estingue l’obbligazione principale, si estingue anche quella accessoria di garanzia.
Pertanto, se il fideiussore paga un debito già estinto, per remissione, per pagamento o per altra causa, non può esercitare azione di regresso nei confronti del debitore principale”
(così Cass. n. 2334/1967).
Sarà il debitore principale ordinante, vittoriosamente
escusso dal garante che abbia pagato al beneficiario, ad agire
in rivalsa, se il pagamento non era dovuto alla stregua del
rapporto di base (ad esempio, per il pregresso e puntuale
adempimento della medesima obbligazione), sulla base del
rapporto di valuta, nei confronti del beneficiario, il quale ha
ricevuto dal garante una prestazione non dovuta, mentre la
stessa azione di rivalsa del garante verso il debitore-ordinante
viene esclusa quando il primo abbia adempiuto nonostante
disponesse di prove evidenti della malafede del beneficiario,
salva in tal caso la possibilità di agire contro il beneficiario
stesso con la condictio indebiti, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (Va
in proposito ricordato che l’art. 20 della Convenzione UNCI-
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TRAL, sulle garanzie autonome e sulle lettere di credito,
elaborata dalla Commissione delle Nazioni Unite sul commercio internazionale, tra le alternative riconosciute all’ordinante
per neutralizzare il pericolo di un’abusiva escussione, prevede
sia la possibilità di inibire al garante di trattenere o recuperare presso l’ordinante le somme pagate in base alla garanzia sia
la possibilità di richiedere un provvedimento giudiziario che
impedisca al beneficiario di riscuotere la garanzia).
10. Chiarite così le differenze operative tra fideiussione
(eventualmente resa atipica dall’inserimento delle clausole in
questione) e Garantievertrag, va affrontato e risolta la speculare questione dell’idoneità o sufficienza della clausola di pagamento a prima o semplice richiesta (o senza eccezioni) a
trasformare un contratto di fideiussione (pur atipico) in un
Garantievertrag. A tale riguardo, si segnalano due non omogenei orientamenti della giurisprudenza di questa Corte che pur nella consonanza delle affermazioni secondo cui, da un
lato, la qualificazione della garanzia come contratto autonomo
di garanzia o di fideiussione (eventualmente atipica) si risolve
in un apprezzamento dei fatti e delle prove da parte del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 4981/2001; n. 10637/2002; n.
11368/2002; n. 13001/2006; n. 2464/2004), essendo privo di
valore il nomen iuris utilizzato dalle parti per designare la
garanzia; dall’altro, a fronte della qualificazione della garanzia
come fideiussoria, soggetta, in quanto tale, alla sorte del debito principale, la parte che faccia valere la diversa configurazione di detta garanzia come autonoma, e, quindi, svincolata dal
debito principale, ha l’onere di dedurre gli elementi oggettivi
sui quali tale configurazione si fonda (Cass. n. 8540/2000) appare, sul punto, contrastante: - un primo indirizzo è nel
senso che l’inserimento di clausole del genere valga di per sè a
qualificare il negozio de quo come contratto autonomo di
garanzia, essendo incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza la fideiussione (Cass. n. 3552/1998, in
motivazione; n. 6757/2001; n. 3257/2007 cit.; n. 14853/2007;
n. 11890/2008, in motivazione; in particolare, Cass. n.
8248/1998 ha qualificato la garanzia come autonoma in presenza di una clausola di pagamento “a prima richiesta”, con
esclusione del beneficium excussionis e dell’accertamento
dell’inadempienza da parte dello stesso creditore garantito
sulla base della contabilità dell’appalto); - un secondo filone
interpretativo è invece nel senso che il contratto non assume i
connotati del contratto autonomo di garanzia per il solo fatto
di presentare un patto che obblighi il garante a pagare, sulla
richiesta del beneficiario, il quale gli dichiari essersi verificati
i presupposti per l’esigibilità della garanzia, e senza poter opporre eccezioni attinenti al rapporto di base: la distinzione tra
fideiussione e Garantievertrag andrebbe tratta, infatti, anche
dalla considerazione dei profili funzionali della garanzia, e nel
secondo caso la funzione sarebbe non già quella di garantire
l’adempimento dell’obbligazione altrui o l’integrale soddisfacimento della pretesa risarcitoria traente origine dall’inadempimento del debitore, quanto quella, prossima a quella della
cauzione, di assicurare al beneficiario la disponibilità almeno
di una determinata somma di danaro, a bilanciamento di rischi
tipici di determinati contratti. Un patto di rinunzia del fideiussore a far valere subito determinate eccezioni non altererebbe,
peraltro, il tipo contrattuale, che resta caratterizzato, come la
fideiussione, dal principio di accessorietà (artt. 1939 e 1945
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cod. civ.): la clausola è dunque in sè valida, giacchè, pur con
riguardo alla causa del contratto di fideiussione ed alla relativa disciplina, essa costituisce una manifestazione di autonomia
contrattuale, che resta nei limiti imposti dalla legge (art. 1322
cod. civ.), dalla quale si trae, insieme, che clausole limitative
della possibilità di proporre eccezioni sono in certa misura ed
a determinate condizioni consentite dall’ordinamento (art.
1341 c.c., comma 2), e che una clausola del tipo di quella di
cui si discute non è in contrasto con l’aspetto essenziale del
contratto di fideiussione, aspetto rappresentato dall’accessorietà (così Cass. n. 2909/1996, in motivazione; nel senso che,
ai fini della distinzione del contratto autonomo di garanzia
dalla fideiussione, non è decisivo l’impiego o meno di espressioni quali “a prima richiesta” o “a semplice richiesta scritta”,
ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l’obbligazione principale e quella di garanzia, ancora di recente, Cass. n.
5044/2009 cit.).
Pur se non direttamente investite della questione, vertendo
il contrasto di giurisprudenza oggi sotto posto all’esame del
collegio sulla natura e sulla disciplina applicabile alle polizze
fideiussorie, queste sezioni unite ritengono che debba essere
data continuità al primo degli orientamenti citati, che ha
l’ineliminabile pregio di consentire, ex ante, la necessaria
prevedibilità della decisione giudiziaria in caso di controversia, restringendo le maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente forieri di poco comprensibili disparità di decisioni a parità
di situazioni esaminate, così che la clausola “a prima richiesta
e senza eccezioni” dovrebbe di per sè orientare l’interprete
verso l’approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag,
salva evidente, patente, irredimibile discrasia con l’intero
contenuto “altro” della convenzione negoziale.
10.1. Così ricostruiti i caratteri strutturali ed effettuali del
contratto autonomo di garanzia, pare innegabile che, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, ad esso non
possa applicarsi la norma dell’art. 1957 cod. civ. sull’onere del
creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, poichè tale disposizione, collegata al carattere accessorio della obbligazione fideiussoria (così Cass. n. 3964/1999 cit., ancora in tema di
polizza fideiussoria; Cass. n. 11368/2002, in motivazione)
instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione
principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l’accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile
ad un’obbligazione di garanzia autonoma.
10.2. Per ciò che più specificamente concerne l’oggetto
della questione sottoposta al collegio, è opportuno ripercorrere, in sintesi, le divergenze manifestatesi nella giurisprudenza di questa corte sui profili di seguito indicati.
10.3. Quanto ai caratteri morfologici della polizza fideiussoria, prevalente appare l’orientamento predicativo della
sua natura fideiussoria, con conseguente applicazione della
disciplina legale tipica ex art. 1936 ss. c.c. ove non derogata
dalle parti; un diverso, minoritario indirizzo, ne esclude, viceversa, la configurabilità in termini di fideiussione laddove
essa sia prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore:
in tal caso, la convenzione integrerebbe gli estremi della garanzia atipica in quanto, non potendo surrogare l’adempimento “specifico” di detta obbligazione (connotata dal carattere
dell’insostituibilità), ha la funzione di assicurare, sic et sim-
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pliciter, il soddisfacimento dell’interesse economico del beneficiario, compromesso dall’inadempimento. Essa risulta,
pertanto, vicenda del tutto disomogenea rispetto al sistema
delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni
fungibili caratterizzate dall’identità della prestazione e dal
vincolo della solidarietà (sussidiarietà)/accessorietà -, riconducibile di converso alla figura della garanzia di tipo indennitario, in forza della quale il garante è tenuto soltanto ad
indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto (Cass. n.
2377/2008 cit.; n. 7712/2002).
10.4. Queste sezioni unite intendono dare continuità al
secondo degli orientamenti poc’anzi ricordati.
Non appaiono decisive, difatti, le riserve che dottrina e
giurisprudenza attestate sul fronte dell’equiparazione della
polizza de qua alla convenzione fideiussoria (quantunque
atipica) hanno diacronicamente manifestato in subiecta materia. Si obbietta, difatti, che la banca garantisce non già la
prestazione primaria (cioè l’esecuzione dell’opera o della fornitura), bensì quella secondaria, che consiste nel pagamento
di una somma di denaro prestabilita (la quale spesso assume
i caratteri della clausola penale): ciò consentirebbe di ritenere
che vi sia identità tra l’oggetto della prestazione garantita e
quello dell’obbligazione di garanzia, trattandosi in entrambi i
casi di una (anzi della stessa) somma di denaro. Si è anche
osservato che, da questo punto di vista, la differenza con la
fideiussione è meno marcata, giacchè l’indennità non solo può
essere in certi casi omogenea alla prestazione pecuniaria ed
originaria del debitore, ma è comunque omogenea rispetto
alle prestazioni pecuniarie secondarie del debitore (derivino
esse da un risarcimento del danno o da una clausola penale).
Con specifico riguardo alla garanzia (cd. definitiva) dovuta
all’Amministrazione appaltante, ai sensi della L. n. 109 del
1994, art. 30, comma 2, si è poi rilevato che, se è vero che la
garanzia ha carattere indennitario, in quanto il fideiussore non
è obbligato ad adempiere in luogo del debitore principale, essendo tenuto a rifondere il creditore degli oneri affrontati in
conseguenza del mancato o inesatto adempimento del debitore, è altrettanto vero che la diversità della prestazione dell’assicuratore non esclude la funzione di garanzia in quanto la
fideiussione sostituisce non la esecuzione dell’obbligazione
principale ma la cauzione, cioè la garanzìa reale dell’obbligazione dell’esecutore: ad essere garantito non sarebbe tanto un
qualsiasi adempimento, bensì la prestazione della cauzione.
Non si è mancato poi di sottolineare, per altro verso, che
il concetto di fungibilità e infungibilità della prestazione appare qualificazione giuridica tra le più sfuggenti, cui, del resto,
non sempre è riconosciuto un autonomo significato, trattandosi di un problema di interpretazione in senso lato, di talchè
la fungibilità di un’obbligazione non dipenderebbe tanto dal
tipo di prestazione o dalla natura del suo oggetto secondo
criteri astratti, ma avrebbe da esser valutata in concreto, tenuto conto anche dell’interesse del creditore, ex art. 1173 c.c.
(ciò che ha consentito alla moderna dottrina di considerare
fungibile anche l’adempimento delle obbligazioni di fare - così superandosi la tradizionale impostazione, figlia del codice
del 1865, propensa a ritenere che soltanto l’obbligazione pecuniaria potesse essere garantita da fideiussione -, coerentemente con il disposto dell’attuale art. 1936 c.c. - il cui pendant
è costituito dal 765, comma 1, del BGB -, il quale non contiene alcuna distinzione esplicita in argomento, indicando solo
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che la fideiussione garantisce “l’adempimento di un’obbligazione altrui”, così venendo meno qualsivoglia argomento
letterale a favore dell’idea di un’identità di contenuto dell’obbligazione principale e dell’obbligazione fideiussoria, mutando il precedente richiamo dell’art. 1898 c.c. abrogato alla
“stessa obbligazione”). Si è infine rilevato che l’accessorietà
dell’obbligazione fideiussoria non implicherebbe una assoluta
ed univoca dipendenza del rapporto di garanzia dal rapporto
garantito, in quanto la fideiussione, al pari di qualsiasi altro
rapporto obbligatorio, vive e si mantiene in questa relazione
funzionale con una individualità propria, e che il nostro ordinamento non conosce una nozione tecnica di accessorietà,
ossia una disciplina unitaria del fenomeno, onde la “relativizzazione” del requisito in parola, intesa come conseguenza
dell’acquisita autonomia causale della fideiussione, manifestandosi nell’ordinamento il riconoscimento di una certa indipendenza dell’obbligazione di garanzia rispetto a quella
garantita, con un’implicita retrocessione del requisito dell’accessorietà a un livello non essenziale.
11. Le considerazioni che precedono non appaiono decisive al fine di predicare una non realistica consonanza tra polizza fideiussoria e convenzione di garanzia tipica ex art. 1936
c.c.. Al di là della osservazione (di per sè decisiva) secondo la
quale esse non appaiono sufficienti a far superare il principio
secondo cui rimangono fuori dalla possibilità di essere garantite per il tramite di una fideiussione le obbligazioni di fare
infungibile, nelle quali c’è comunque un interesse del creditore alla personale esecuzione del debitore - non potendosi, in
questo caso, realizzarsi in alcun modo la sostituzione del fideiussore al debitore principale, poichè il garante non deve (nè
può) adempiere, in rapporto di solidarietà con il debitore
principale, un debito identico a quello su di lui gravante - non
sembra seriamente contestabile che si discorra di fideiussio
indemnitatis con riferimento a fattispecie nella quale la funzione di garanzia viene piuttosto a porsi in via (succedanea e
secondaria sì, ma) del tutto autonoma rispetto all’obbligo
primario di prestazione, onde garantire il risarcimento del
danno dovuto al creditore per l’inadempimento dell’obbligato
principale e, quindi, per un’obbligazione non soltanto futura
ed eventuale (ciò che non costituirebbe di per sè ostacolo alla
configurabilità di una fideiussione, avendo l’attuale art. 1938
c.c. posto termine ad un dibattito dottrinale e giurisprudenziale formatosi nel vigore del precedente codice con l’ammettere esplicitamente la legittimità della fideiussione “anche per
un’obbligazione condizionale o futura”), ma essenzialmente
diversa rispetto a quella garantita, con l’ulteriore conseguenza che l’obbligazione del garante non diviene attuale prima
dell’inadempimento della (diversa) obbligazione principale,
verificatosi il quale sorge l’obbligo secondario del “risarcimento” del danno (rectius, dell’indennizzo conseguente all’inadempimento): viene irredimibilmente vulnerato, in tal guisa,
proprio quel meccanismo della solidarietà che attribuisce al
creditore la libera electio, cioè la possibilità di chiedere l’adempimento così al debitore come al fideiussore, a partire dal
momento in cui il credito è esigibile.
Venendo così meno la funzione di garantire, in senso
preventivo, l’adempimento, la cd. fideiussio indemnitatis
pare definitivamente espunta dall’orbita della garanzia fideiussoria, per acquisire una funzione reintegratoria (non del
tutto aliena da un modello assicurativo).
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Nè decisiva appare, ancora, l’obiezione secondo la quale, nel
nostro ordinamento, un’astrazione assoluta dell’elemento causale, in cui la sorte o i difetti dell’obbligazione sottostante non
abbiano mai alcuna ripercussione sull’obbligazione astratta di
garanzia, non pare a tutt’oggi legittimamente predicabile.
Va premesso, in proposito, che, tra astrazione assoluta e
accessorietà (intesa nel senso tradizionale) si stagliano orizzonti che abbracciano diverse gradazioni di strutture negoziali che il legislatore di volta in volta legittima, secondo un
giudizio di valore rispetto ai vari interessi coinvolti: l’accessorietà dell’obbligazione autonoma di garanzia rispetto al rapporto debitorio principale assume un carattere certamente più
elastico, di semplice collegamento/coordinamento tra obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare, come dimostrato,
da un lato, dalla rilevanza delle ipotesi in cui il garante è
esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il rapporto sottostante (supra, sub 6.2); dall’altro, dal
meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema delle rivalse.
Va inoltre considerato che, come condivisibilmente affermato dalla terza sezione di questa corte con la sentenza
10490/06 (e poi ribadito, sia pur in obiter, da queste stesse
sezioni unite con le 4 pronunce dell’11 novembre del 2008,
rese in tema di danno non patrimoniale), appaia oggi predicabile una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo della sua utilità sociale,
affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria
della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer
d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi
degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato).
Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa,
dunque, ancora oggettivamente iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, secondo un iter evolutivo
del concetto di funzione economico-sociale del negozio che,
muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi
hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.
E’ innegabile, pertanto, che di causa negotii sia lecito discorrere, in termini di sua concreta esistenza, anche con riferimento al contratto autonomo di garanzia e alla polizza fideiussoria, ad esso assimilabile quoad effecta. E’ altresì innegabile, nel caso di specie, che la forma di garanzia prescelta
dalle parti, in alternativa al deposito cauzionale in denaro o
titoli, non sia stata quella della fideiussione, bensì quella della polizza fideiussoria, alternativa e, per l’effetto, sostituiva
forma di prestazione della cauzione stessa, “consentita” (così,
letteralmente, il testo negoziale rilevante in parte qua) dall’amministrazione appaltante senza essere accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri poteri e facoltà
spettatile sulla base della normativa di settore vigente ratione
temporis. La funzione individuale del singolo, specifico negozio (id est della polizza fideiussoria) è stata dunque quella di
sostituire la traditio del denaro tipica della cauzione con
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l’obbligazione di corrispondere una somma di denaro, da
parte del garante, a richiesta del creditore, senza alcuna possibilità, per il primo, di invocare il meccanismo, tipicamente
fideiussorio, di cui all’art. 1957 c.c..
Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: la
polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni
assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell’insostituibilità della obbligazione principale, onde il
creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento,
prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la
precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se
intervenuta successivamente rispetto all’inadempimento delle
obbligazioni garantite.
(Omissis)
••• Nota a sentenza
L’incremento dei traffici internazionali verificatosi verso
la fine dell’800 in Europa ha spinto gli operatori del settore
e, in particolare, la classe mercantile, ad adoperarsi allo scopo di realizzare meccanismi contrattuali più snelli e maggiormente adatti alla realtà degli scambi commerciali in rapido
divenire, caratterizzata dalla presenza di interlocutori provenienti da diversi paesi che identificavano come priorità assoluta la celerità e la semplicità d’attuazione delle transazioni.
Ciò ha gradualmente condotto alla creazione di una serie di
regole, per quanto possibile condivise dai più, che potessero
velocizzare il settore degli scambi evitando intoppi burocratici e problemi di armonizzazione delle norme giuridiche
promananti dagli ordinamenti delle singole parti contraenti.
In questo contesto si sviluppa quell’insieme di regole universalmente riconosciute nell’ambito del commercio internazionale che viene chiamata lex mercatoria1 la quale si definisce
come «l’ordinamento dei rapporti commerciali internazionali ascrivibili alla societas mercatorum – intendendo quest’ultima come un corpo sociale unitario ed individualizzato che
detta da sé le regole della propria organizzazione – dotato di
effettività applicativa (effectiveness) per la spontanea osservanza delle sue regole da parte dei consociati oppure per
l’applicazione in sede di arbitrato, che è pur sempre una forma
di “giustizia privata”, e di un apparato sanzionatorio autonomo (self-enforcing) di tipo sociale»2.
La tendenza crescente alla creazione di sistemi giuridici
nuovi, volti dunque a rendere più rapide ed efficaci le transa-
1 Per approfondimenti sulla lex mercatoria si veda F. Sbordone, Contratti internazionali e lex mercatoria, Napoli 2008, p. 61 e ss.; F. Marrella, La nuova
lex mercatoria. Principi Unidroit e usi del commercio internazionale, in Tratt.
dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ. Galgano, XXX, Padova, p. 1 e ss.; P. Lagarde, Approche critique de la Lex Mercatoria, in Le droit des relations économiques internationales: études offertes à Berthold Goldman, Paris, 1982, p. 125
ss.; K. P. Berger, The Creeping Codification of the Lex Mercatoria, L’Aja, 1999,
passim; L. Franzese, Contratto negozio e lex mercatoria tra autonomia ed
eteronomia, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 779 ss; F. Osman, Les Principes
Généraux de la lex Mercatoria, Paris, 1992, passim.
2 F. Sbordone, op. cit., p. 99. Riguardo alla gènesi della lex mercatoria l’autore
opportunamente ne sintetizza il procedimento chiarendo che «la formazione
della lex mercatoria è comunemente ascritta: a) alla diffusione internazionale
delle pratiche contrattuali del mondo degli affari.. b) alla ripetuta osservanza
di usi e pratiche in particolari settori imprenditoriali nella convinzione di rispettare un precetto giuridico; c) alla giurisprudenza delle camere arbitrali internazionali».
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p r o c e d u r a
zioni economiche tra le parti contraenti, spesso tra loro distanti sia dal punto di vista territoriale che degli ordinamenti
giuridici, non ha risparmiato il settore delle garanzie. Proprio
nei primi decenni del secolo scorso cominciava ad affermarsi
la prassi dell’utilizzazione dei comunemente definiti “contratti autonomi di garanzia” i quali potessero assicurare in una
maniera più rapida e flessibile l’adempimento di una obbligazione permettendo al creditore di ottenere quanto dallo stesso
preteso con una semplice richiesta fatta al garante3.
In ambito internazionale il contratto autonomo di garanzia fu teorizzato in Germania da Rudolf Stammler4, il quale
dettò i principi del Garantievertrag, secondo il quale una
parte assumeva contrattualmente e ordinariamente, senza
corrispettivo, il rischio collegato ad un’impresa, alla cui realizzazione il garante era in un certo qual modo interessato5.
Nella prassi anglosassone, viceversa, il contratto autonomo
di garanzia è conosciuto come bid bond, quale garanzia del
mantenimento dell’offerta6, performance bond, con cui il
garante si obbliga al pagamento di una detta somma al creditore, su richiesta, nel caso in cui il debitore non adempia
esattamente7 o repayment bond, garanzia per la restituzione
di somme anticipate a titolo di pagamento parziale.
Sorto, dunque, in Inghilterra e in Germania prima dell’inizio del secolo scorso, il contratto autonomo di garanzia lentamente ha cominciato ad essere utilizzato nel nostro paese8
vincendo le diffidenze di dottrina e giurisprudenza legate,
soprattutto, ad un concetto della garanzia strettamente connesso a quello della accessorietà9, ovvero della stretta dipen-
3Nei primi decenni del 900 contratti di tal genere venivano utilizzati per far
fronte ai c.d. rischi contrattuali atipici, quali i rischi derivanti da normative
valutarie restrittive, da provvedimenti di embargo nei confronti di alcuni stati
o più genericamente da ostilità commerciali nei confronti di operatori stranieri.
Vedi F. Spagnoli, Il contratto autonomo di garanzia: una figura atipica tra
sicurezza dei traffici ed abuso di diritto, in http://oec. giulianoedigravio.it/
dmdocuments/ 4Capitol_104.pdf, p.55.
4 Stammler R., Der Garantievertrag, AcP 69 (1886), p.1 e ss. Per un maggiore
approfondimento vedi Förster C., Die fusion von bürgschaft und garantie.
Eine Neusystematisierung aus rechtsvergleichender Perspektive, Tübingen
2009, p. 52 e ss.
5Vedi F. Spagnoli, op. cit., p. 62, il quale delinea anche il contratto c.d. di
Bankgarantie il quale consisterebbe nell’applicazione dei principi del Garantievertrag alle esigenze di banche ed assicurazioni che garantiscono operazioni
commerciali con l’estero, diventando lo strumento per garantire una prestazione “indipendentemente dal fatto che essa sia dovuta o meno, sia suscettibile o
meno di esecuzione forzata”.
6Il bid bond è rilasciato soprattutto in sede di gara d’appalto per garantire al
committente che l’aggiudicatario concluda successivamente il contratto nei
termini dell’offerta da esso stesso presentata. L’ammontare della garanzia viene
normalmente fissata nella misura dell’1-5% del valore del contratto, e serve a
tenere indenne il committente dalle spese necessarie a rinnovare la gara per
procedere a nuova aggiudicazione, oltre a rifondere l’eventuale danno subito
per il ritardo. Vedi F. Spagnoli, op. cit., p. 60.
7Il performance bond «ha la finalità di garantire il beneficiario contro i rischi
d’inadempimento, totale o parziale, o di ritardo nell’adempimento del contratto
principale. Il garante si obbliga nei confronti del beneficiario a pagargli un importo determinato sulla base della semplice dichiarazione che si sia verificato l’inadempimento del contratto principale. La somma dovuta in genere è fissata
nell’ammontare in funzione percentuale al valore delle opere o forniture». Vedi S.
Monticelli, Garanzie autonome e tutela dell’ordinante, Napoli, 2003, p. 12.
8Vedi F. Cortez, A garantia bancária autónoma - alguns problemas, in, R.OA,
Ano 52º, II, Julho, 1992, p. 3, secondo il quale «E se na Alemanha o tratamento científico do tema, cujo início se confunde com o princípio deste século, se
tem mantido constante, nos países latinos como a França e a Itália, foi nas últimas duas décadas que se assistiu a uma verdadeira explosão de interesse sobre
a garantia bancária autónoma».
9 Sul collegamento di accessorietà, vedi P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli,
2006, p. 698, secondo il quale «ad un rapporto principale (ad esempio l’obbligazione di pagamento di una somma di denaro) si collega un rapporto di ga-
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denza dell’obbligazione del garante da quella del debitore
garantito.
Nella recente pronunzia oggetto del presente lavoro, la
Suprema Corte di legittimità, con la sentenza n. 3947/2010,
chiamata a pronunciarsi sulla natura delle polizze fideiussorie,
ha ritenuto opportuno fugare i dubbi imperanti in dottrina e
in giurisprudenza rispetto alla figura del contratto autonomo
di garanzia, nell’ambito del quale, come si dirà in seguito, le
dette polizze si ritiene rifluiscano.
Il contratto autonomo di garanzia costituisce espressione
della autonomia negoziale che il codice civile riconosce alle
parti contrattuali al secondo comma dell’art. 132210; la possibilità di concludere accordi contrattuali che non appartengano a tipi nominati è riconosciuta dunque anche nell’ambito
delle garanzie rendendo la giusta causa e la meritevolezza11
degli interessi possibile il riconoscimento di un contratto di
garanzia atipico anche nel nostro ordinamento.
Volendo dare una definizione del contratto autonomo di
garanzia si potrebbe dire che tale è “il negozio in base al quale una parte si obbliga a titolo di garanzia ad eseguire, a prima
richiesta, la prestazione dovuta dal debitore, indipendentemente dall’esistenza, validità ed efficacia del rapporto di base
con l’impossibilità per il garante di sollevare eccezioni”12
La struttura del suddetto contratto si presenta, dunque,
nel modo che segue: un rapporto di valuta, tra creditore e
debitore, i quali concordano una prestazione che il secondo
deve nei confronti del primo, un rapporto di provvista, che
interviene tra il debitore e il garante, il quale ultimo assume
l’obbligo di garantire il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento da parte del debitore, un rapporto garantecreditore secondo il quale il garante si obbliga a prestare, a
semplice richiesta, la propria garanzia al creditore in seguito
al mancato soddisfacimento di quest’ultimo13.
ranzia reale (pegno, ipoteca) o personale (fideiussione tipica o atipica). Le vicende del rapporto principale (il debito garantito) incidono sull’esistenza o
sull’entità del rapporto accessorio»
10L’art. 1322, secondo comma, c.c. così recita testualmente: «Le parti possono
anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina
particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico».
11 Sulla meritevolezza vedi P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli, 2007,
p. 445. Secondo l’autore «meritevole di tutela va qualificato non l’interesse, ma
la causa, sì che in quest’ultima, e non nel primo, deve essere individuato quel
grado di apprezzabilità sociale necessario ai fini del riconoscimento dell’atto di
autonomia da parte dell’ordinamento». Sul dibattito dottrinale e le posizioni
giurisprudenziali relative alla meritevolezza e alla liceità della causa vedi F.
Sbordone, Illiceità e immeritevolezza della causa nel recente orientamento
della Cassazione, nota a Cass., 19 febbraio 2000, n. 1898, in Rass. Dir. Civ.,
2001, p. 849 ss.
12 Cfr. Cass. 99/920 e 92/12431. Vedi anche Cass., 98/1420, BBTC, 1999, II, 269,
riportata da A. Tencati, Cass. sez. Un., 18.02.2010, n. 3947 - Garanzie a
prima domanda ed eccezioni opponibili, in http:// www.personaedanno.it/ cms
/data/articoli/017787.aspx secondo cui tali contratti sono «espressione di
quella autonomia negoziale riconosciuta alle parti dall’art. 1322, comma 2 °,
c.c. ... si configurano come una relazione tri o quadrilaterale fra il destinatario
della prestazione (beneficiario della garanzia); la garante (di solito una banca
straniera); la controgarante (soggetto non necessario e che solitamente si identifica in una banca nazionale che copre la garanzia assunta da quella straniera);
e il debitore della prestazione (l’ordinante)». Sul Garantievertrag si veda anche
l’importante contributo di R. Cicala, Espromissione, Napoli, 1995, p. 139 s.
il quale, oltre a operare una chiara distinzione tra il contratto autonomo di
garanzia e la fideiussione, pone a confronto il medesimo istituto con le fattispecie dell’espromissione e della delegazione.
13In non poche ipotesi vi sarà la presenza di una quarta convenzione negoziale
strettamente collegata alle altre posta in essere da un controgarante, di solito
un ulteriore istituto di credito, ed il primo garante, avente il medesimo contenuto del primo rapporto di garanzia.
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
Definita in tal modo la garanzia autonoma va ora necessariamente e in via preliminare tracciata la differenza tra il
Garantievertrag e il più diffuso strumento della fideiussione14
disciplinato nel codice civile agli articoli 1936-1957: la fideiussione è un contratto di garanzia avente come principali
caratteristiche la solidarietà della prestazione del debitore con
quella del garante e il vincolo di accessorietà tra il rapporto
garante-creditore e quello creditore-debitore; al venir meno
del secondo, ad esempio per una causa di invalidità, decade
automaticamente l’obbligo di prestare la garanzia: il fideiussore, infatti, può paralizzare la richiesta creditoria di adempimento opponendo le eccezioni che derivano sia dal contratto di garanzia sia dal rapporto di valuta15.
Nel contratto autonomo di garanzia, invece, manca del
tutto l’elemento dell’accessorietà caratterizzante la fideiussione: il garante, dunque, si impegna a pagare il creditore rinunciando a ricorrere al rimedio delle eccezioni circa la validità
del rapporto di base. Secondo quanto esplicitato dalla Suprema Corte, infatti, «con la fideiussione è tutelato l’interesse
all’esatto adempimento della prestazione principale; invece
l’obbligazione del garante autonomo è qualitativamente altra
rispetto a quella dell’ordinante, sia perché non necessariamente sovrapponibile ad essa, sia perché non rivolta al pagamento del debito principale, bensì a indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma
di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore».
Da ciò emerge chiaramente la differenza tra la funzione
del negozio autonomo rispetto a quello fideiussorio. La fideiussione ha infatti una funzione satisfattoria: il creditore
viene soddisfatto con l’adempimento della obbligazione che
aveva contratto con il debitore ad opera di un altro soggetto
il quale gli rende la medesima prestazione16; tale funzione è
assente nel contratto autonomo di garanzia poiché il garante
si limita ad indennizzare il creditore non con la medesima
prestazione bensì anche con altra equivalente e diversa da
quella dedotta in contratto, facendo salvo l’interesse economico del creditore17.
14 Per un maggiore approfondimento sul tema della fideiussione si vedano: G. Bo,
Contributo alla dottrina dell’obbligazione fideiussoria, Milano, 1934; A. Ravazzoni, La fideiussione, Milano, 1957; E. Briganti, Fideiussione e promessa
del fatto altrui, Napoli, 1981; G. Bozzi, La fideiussione, Milano, 1995.
15 Sovente, nella pratica, assistiamo al caso dell’apposizione, al contratto di fideiussione, di una clausola c.d. solve et repete. Sul punto vedi M. Melandri, Del
contratto di fideiussione con clausola “solve et repete”, in Foro pad., 1996; M.
Monticelli, La tutela ex art. 1957 codice civile tra fideiussione, clausola
solve et repete e garanzia atipica, in I Contratti, 2004, II; L. Cameriero, Definiti i confini del contratto autonomo di garanzia, in http:// static.ilsole24ore.
com/D/diravvocati24/binary/11777599.4/11777599.pdf. Secondo l’autore in
virtù della detta clausola «il garante è tenuto a eseguire la propria prestazione
potendo successivamente sollevare le eccezioni relative al rapporto garantito
solo per ripetere quanto indebitamente prestato».
16Vedi F. Bonelli, Le garanzie bancarie nel commercio internazionale, in DCI,
1987, p. 141 il quale, in ordine alla funzione della fideiussione, afferma che la
stessa crea un «rafforzamento del vincolo nascente dall’obbligazione principale ottenuto mediante l’aggiunta del patrimonio del fideiussore a quello del debitore principale, mediante cioè il raddoppio dei soggetti debitori» e che l’obbligato nella fideiussione garantisce l’adempimento di una prestazione avente
identico contenuto di quella spettante al debitore nell’obbligazione principale.
V’è, dunque, responsabilità solidale.
17Vedi F. Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, 179 e ss., il quale
afferma che il garante nel contratto autonomo si obbliga non tanto a garantire
l’adempimento, ma piuttosto a tenere indenne il beneficiario dal nocumento
per la mancata prestazione del debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non corrispondente a quella dovuta.
2 0 1 0
31
Le sezioni unite, nella loro ampia ricostruzione in diritto,
argomentano anche circa la configurabilità di una vera e
propria funzione cauzionale, poiché la garanzia si atteggia
come una cauzione della quale il creditore può beneficiare
laddove l’obbligazione principale non sia adempiuta ed egli
non venga soddisfatto; lo stesso creditore può dunque escutere tempestivamente ed efficacemente la garanzia come fosse
un vero e proprio versamento cauzionale18. La Corte sottolinea
come la più frequente utilizzazione rispetto al deposito di una
cauzione vera e propria sarebbe giustificata in ragione della
sua minore onerosità e della volontà di evitare una lunga e
improduttiva immobilizzazione di capitali. Il supremo Collegio afferma come «la peculiarità propria del garantievertrag
è difatti quella di consentire al creditore di escutere il garante
con la stessa, tempestiva efficacia con cui egli potrebbe far
proprio un versamento cauzionale. La funzione cauzionale
sarebbe soddisfatta, e l’autonomia della garanzia sarebbe
conseguentemente rinvenuta, secondo alcune pronunce di
questa corte, tutte le volte che la relativa convenzione attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere dal rapporto garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a quella dell’incameramento di una somma di denaro a titolo di cauzione».
Analizzando il profilo causale19 del contratto autonomo di
garanzia si è, inoltre, ampiamente discusso in dottrina di
astrattezza della causa: alla teoria che riteneva sussistente una
causa di tipo esterno, in quanto il fondamento e la giustificazione dello spostamento patrimoniale sarebbero stati rinvenibili al di fuori del negozio di garanzia20, si opponeva la teoria
la quale identificava la causa del garantievertrag nel riferimento all’intera operazione economica21. In rapporto all’istituto
della fideiussione va ad ogni modo precisato che mentre
quest’ultima trova la sua causa nella garanzia dell’inadempimento dell’obbligazione, come esplicitato dalle stesse sezioni
unite, il contratto autonomo di garanzia assicura la libera
circolazione dei capitali e il pronto soddisfacimento dell’interesse del creditore nonché la sottrazione del rischio di inadempimento a carico dello stesso creditore trasferito su di un soggetto solvibile quale un istituto di credito o un’assicurazione.
Una chiara differenza tra i due istituti si rinviene anche
nella disciplina della ripetizione dell’indebito: nella fideiussione infatti accade che il garante, dopo aver adempiuto al proprio obbligo nei confronti del creditore, laddove il pagamento
non risulti dovuto poiché, ad esempio, il rapporto di base è
viziato, può esperire l’azione ex art. 2033 c.c. nei confronti
18 Sul tema della relazione fra deposito cauzionale e garantievertrag si veda F.
Benatti, Il contratto autonomo di garanzia, in Banca, borsa tit. cred., 1982, I,
p. 173 e si legga inoltre il pregevole contributo di M. Lobuono, La natura
giuridica della polizza fideiussoria: l’intervento delle sezioni unite, in I contratti, 2005 n. 10, il quale, a proposito della differenza tra contratti autonomi e
cauzione basata sulla possibilità concessa all’impresa ordinante di non immobilizzare una porzione del proprio capitale, afferma che «In tale senso emerge
un’altra utilità perseguita dal debitore-ordinante attraverso questa figura contrattuale, vale a dire... il conseguimento di un finanziamento attraverso l’intervento del garante. Un simile risultato è reso possibile dalle caratteristiche professionali dei soggetti che assumono il ruolo di garante in queste fattispecie
negoziali».
19 Per un’ampia ed accurata analisi circa il problema della causa nel contratto
autonomo di garanzia si veda F. Valenza, La causa nel contratto autonomo di
garanzia, in Vit. Not. n. 2-3/98, passim.
20 Sul punto vedi Portale, Banca, borsa, titoli di credito, 85, I, 169.
21 Sul punto vedi Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, 320.
civile
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del beneficiario; nel contratto autonomo di garanzia, invece,
al garante non spetta il potere di agire nei confronti del beneficiario per la ripetizione di quanto prestato bensì unicamente di esperire azione di regresso ex art. 1950 nei confronti del
debitore garantito22. Costituiscono eccezione a tale disciplina
il caso di illiceità del contratto garantito e frode da parte del
creditore23.
Passando all’analisi del caso in questione va detto che la
pronuncia delle sezioni unite della Corte di Cassazione muove da una domanda presentata da un ente al Tribunale di
Perugia richiedente il pagamento di una somma di denaro
oggetto della polizza fideiussoria costituita in suo favore
dall’impresa di costruzioni incaricata di eseguire i lavori che
il medesimo ente aveva commissionato. L’appaltante domandava il riconoscimento del proprio diritto alla somma in
questione per aver dichiarato risolto il contratto di appalto a
causa dell’inadempimento dell’ente appaltatore. La domanda
veniva respinta dal Tribunale adito il quale, avendo configurato la convenzione in esame come una fideiussione e non
come una garanzia atipica, affermava che il diritto di rivalsa
del creditore garantito dovesse ritenersi estinto per non avere
lo stesso proposto tempestivamente domanda contro il debitore principale ex art. 1957 c.c. Alla medesima conclusione
giungeva la Corte d’Appello di Perugia 24.
22 Si veda sull’argomento anche l’ottimo contributo di G. Travaglino, Natura
giuridica della polizza fideiussoria stipulata dall’appaltatore a garanzia delle
obbligazioni verso la p.a., in Corriere Merito, n. 5, 2010, il quale sottolinea che
«l’effetto (il vero peculiare effetto della garanzia autonoma) è quello di “autonomizzare” il rapporto di garanzia rispetto al rapporto base, contrariamente a
quanto accade per la fideiussione tipica».
23Nelle ipotesi di illiceità del contratto garantito e frode da parte del creditore,
infatti, il garante ha diritto di astenersi dal pagamento, poiché non è possibile
pensare che il Garantievertrag non venga inficiato dall’illiceità del contratto
principale in quanto tende a realizzare il soddisfacimento della pretesa creditoria che nasce da un contratto stipulato precedentemente con il debitore. Sul
punto cfr. Giusti, La fideiussione e il mandato di credito, Tr. CM, p. 346. Il
comportamento fraudolento del creditore-beneficiario, che viola in tal senso i
principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e nell’adempimento delle obbligazioni, consente al garante di rifiutare il pagamento dovuto opponendo al creditore un’exceptio doli generalis, così come previsto dagli
artt. 1175 e 1375 c.c.; pertanto, qualora il creditore escuta abusivamente la
garanzia e vi siano prove documentali in tal senso, il garante e lo stesso debitore principale possono ottenere un provvedimento ex art. 700 c.p.c. che inibisca
l’adempimento della prestazione di garanzia. Sul punto si veda ancora F. Valenza, op. cit., CCIII.
24 Questo il fatto su cui è chiamata a pronunciarsi la Suprema Corte: «… con
atto di appello del 2.11.2001 , ha impugnato la sentenza con la quale il locale
tribunale ne aveva respinto la domanda di pagamento di denaro, oggetto di
polizza fideiussoria costituita in suo favore dall’ appaltatore… (cui… appellante aveva commissionato lavori edili) presso la …, somma alla cui corresponsione da parte dell’assicuratore lo… affermava di aver diritto per aver dichiarato
unilateralmente risolto – in conseguenza dell’ inadempimento dell’appaltatore
– il contratto di appalto ai sensi dell’art. 10, sesto comma, del DPR 1063/1962,
applicabile alla vicenda processuale ratione temporis. Il giudice di primo grado,
qualificato la convenzione di garanzia in termini di fideiussione stricto sensu, e
non di contratto autonomo – come viceversa postulato dall’ attore -, respinse
la domanda, ritenendo che il diritto di rivalsa si fosse estinto, ai sensi dell’ art.
1957 c.c., per non avere il creditore proposto tempestiva domanda contro il
debitore principale. La sentenza è stata confermata dalla corte territoriale
adita, cha ha escluso a sua volta la configurabilità, nel caso di specie, di un
contratto autonomo di garanzia, sulla base di una interpretazione delle clausole negoziali in atti del tutto speculare rispetto a quella auspicata dall’appellante.
La sentenza della corte d’ appello di Perugia è stata impugnata dalla… (succeduta nelle more del giudizio all’ originario attore) con ricorso per cassazione
sorretto da 4 motivi di gravame. Resiste con controricorso la… Le parti hanno
depositato tempestive memorie. La ricorrente ha, altresì, depositato, all’ esito
delle richieste formulate dal P.G., rituali note di udienza. In via preliminare, il
P.G. ha chiesto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’ eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite di questa corte, poiché la questione che
ne forme oggetto risulta, a suo giudizio, a tutt’ oggi fonte di contrasto tra le
sezioni semplici. A tale richiesta ha aderito la difesa della… nelle note di udien-
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Le sezioni unite erano dunque chiamate ad affrontare nel
dettaglio il tema della natura giuridica delle c.d. polizze fideiussorie25 allo scopo di stabilire se nel caso di specie un tale
strumento dovesse essere configurato o meno contratto autonomo di garanzia con conseguente eventuale diseguaglianza
normativa rispetto all’istituto della fideiussione.
Secondo una definizione contenuta nella stessa pronuncia
in esame le polizze fideiussorie «concreterebbero un rapporto
di un soggetto (una compagnia di assicurazioni o un istituto
bancario) che, dietro pagamento di un corrispettivo, si impegna a garantire in favore di altro soggetto l’adempimento di
una determinata obbligazione assunta dal contraente della
polizza». Tale strumento costituirebbe un negozio di garanzia
articolato secondo lo schema del contratto a favore di terzo26
funzionalmente caratterizzato dall’assunzione di un impegno
da parte di una banca od un assicurazione a pagare una certa
somma ad un beneficiario in caso di mancato adempimento
della prestazione a lui dovuta dal contraente27.
La Cassazione, in seguito ad un’accurata revisione della
questione28, è giunta ad affermare il principio secondo cui la
polizza fideiussoria non può essere riconducibile alla fideiussione ma costituisce garanzia atipica con obbligazione da
parte del garante di indennizzare il creditore insoddisfatto
laddove essa venga prestata a garanzia dell’obbligazione
dell’appaltatore29.
Nell’analisi delle Sezioni Unite decisiva risulta la valutazione delle clausole di pagamento «a prima domanda», che obbligano il garante all’adempimento sulla base di una mera richiesta da parte del creditore, e «senza eccezioni», che privano il
za di cui è cenno in narrativa. La valutazione circa l’opportunità dell’invocata
rimessione alle sezioni unite è stata demandata, come di rito, al Primo Presidente dal collegio della terza sezione con ordinanza interlocutoria 5326/09».
25 Nella prassi la polizza fideiussoria è sovente indicata con nomi diversi quali
“assicurazione cauzionale”, “cauzione fideiussoria”, “polizza cauzionale” e
“fideiussione assicurativa”. Secondo quanto esplicitato dalla stessa Corte di
legittimità, in dottrina sono state individuate tre tipologie di polizze fideiussorie:
«quelle in cui l’obbligo del garante dipende dall’esistenza dell’obbligo del debitore principale; quelle in cui l’obbligo del garante è indipendente da quello del
debitore principale; quelle, infine, in cui il beneficiario, per ottenere il pagamento della garanzia, deve provare, in genere mediante documenti indicati nella
polizza stessa, alcuni fatti attinenti al rapporto principale».
26 Per approfondimenti in ordine al contratto a favore di terzo, vedi G. Pacchioni, I contratti a favore di terzi, Padova, 1933; L. V. Moscarini, Il contratto a
favore di terzi, in Cod. civ. Comm. Schlesinger, Milano, 1997; F.Angeloni,
Contratto a favore di terzi, in Cod. civ. Comm. Scialoja-Branca, a cura di F.
Galgano, Bologna-Roma, 2004;
27 A parere della Corte il terzo creditore non è parte del rapporto né in senso
formale né in senso sostanziale e si limita a ricevere gli effetti di una convenzione già perfezionata ed operativa e «la sua adesione, dunque, è soltanto una
mera condicio iuris sospensiva dell’acquisizione del diritto, rilevabile per facta
concludentia, risultando la dichiarazione di volerne profittare necessaria soltanto per renderla irrevocabile ed immodificabile ex art. 1411 c.c., comma 3».
Vedi R. Troiano e T. Luciani, Orrick Herrington & Sutcliffe, Newsletter,
Italian Litigation Department, in http: //www.orrick.com /fileupload/2578.pdf.
Il debitore dunque avrà il ruolo di stipulante, il garante la veste di promittente
ed il creditore sarà, appunto, il terzo beneficiario.
28 Cfr., ad esempio, Cass. 632/1995; Cass. 4637/2002; Cass. 6728/2002; Cass.
11261/2005 e, più di recente, Cass. 12871/2009.
29 Sul tema vedi anche Cass. 2377/2008 ove si legge che «la polizza fideiussoria
prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore costituisce una garanzia
atipica in quanto essa, non potendo garantire l’adempimento di detta obbligazione, perché connotata dal carattere dell’insostituibilità, può semplicemente
assicurare la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento, risultando, quindi, estranea all’ambito delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni fungibili, caratterizzate
dall’identità della prestazione, dal vincolo della solidarietà e dell’accessorietà,
ed essendo, invece, riconducibile alla figura della garanzia di tipo indennitario
- cosiddetta “fideiussio indemnitatis” - in forza della quale il garante è tenuto
soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto».
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garante stesso della possibilità di porre in essere le eccezioni
relative al rapporto di base. La dottrina e, in special modo, la
giurisprudenza30, infatti, hanno sempre distinto chiaramente
il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione a prima
richiesta ritenendo che l’apposizione di una detta clausola non
sarebbe valsa di per sé a sconfessare la collocazione nel ramo
della fideiussione di un siffatto negozio.
Secondo quanto di recente espresso dalla Suprema Corte,
invece, il principio di accessorietà caratterizzante la fideiussione non consentirebbe di apporre una simile clausola la cui
presenza giustificherebbe, da sé, l’inclusione del detto negozio
nel novero delle garanzie atipiche31.
Dunque, sebbene lo scopo della fideiussione e quello della
polizza fideiussoria siano entrambi costituiti dal garantire il
creditore da un danno economico proveniente dal mancato
adempimento dell’obbligazione del debitore, le medesime
trovano la propria distinzione nel fatto che la fideiussione è
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una garanzia di tipo satisfattorio che garantisce al creditore il
medesimo bene che lo stesso doveva ottenere dal debitore
inadempiente, mentre la polizza fideiussoria reintegra il patrimonio del creditore dell’equivalente del danno subito dall’inadempimento per cui, dal punto di vista causale, non si ha
garanzia di inadempimento dell’obbligazione, come accade
tipicamente nella fideiussione, bensì trasferimento del rischio
economico connesso al mancato adempimento della prestazione da un soggetto ad un altro (banca o assicurazione).
La mancanza del legame tra le due prestazioni, dunque,
dal punto di vista della accessorietà, fa sì che la polizza fideiussoria prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore
non possa essere inserita nel genus della fideiussione e la
presenza di una clausola di pagamento a prima richiesta, incompatibile con lo stesso elemento dell’accessorietà tipico
della fideiussione, consente l’inserimento di detto strumento
nel novero delle garanzie autonome.
civile
30 Si veda Cass. 10574/2003, secondo la quale «la deroga all’art. 1957 cod. civ.
non può ritenersi implicita nell’inserimento, nella fideiussione, di una clausola
di “pagamento a prima richiesta” o di altra equivalente, sia perché detta norma
è espressione di un’esigenza di protezione del fideiussore, che prescinde dall’esistenza di un vincolo di accessorietà tra l’obbligazione di garanzia e quella del
debitore principale e può essere considerata meritevole di tutela anche nelle
ipotesi in cui tale collegamento sia assente, sia perché, comunque, la presenza
di una clausola siffatta non assume rilievo decisivo ai fini della qualificazione
di un negozio come “contratto autonomo di garanzia” o come “fideiussione”...». Si leggano inoltre Cass. 3964/99; Cass. 8324/01; Cass. 19300/05 e, da
ultima, Cass. 5044/09.
31 Queste le parole contenute nella pronuncia della Corte di legittimità: «La polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell’insostituibilità della obbligazione
principale, onde il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento,
prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto all’inadempimento delle obbligazioni». Per un’analisi critica circa la soluzione adottata dalle sezioni unite si veda ancora M. Lobuono, La natura giuridica della polizza fideiussoria: l’intervento delle sezioni unite, cit., il quale ritiene,
tra l’altro, che «la soluzione a cui perviene la sentenza in esame, cristallizzata
nel principio di diritto formulato al termine della motivazione, appare eccessivamente riduttiva rispetto al modo di operare dell’autonomia privata, in particolare al modo di atteggiarsi delle polizze fideiussorie, tanto sul piano morfologico, quanto su quello funzionale».
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D i r i t t o
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CORTE DI CASSAZIONE, sezione I civile,
sentenza 30 settembre 2010, n. 2050;
Pres. Luccioli, Est. Cultrera
Principio di accessione
per costruzione sul suolo
di proprietà esclusiva
del coniuge
in comunione legale
● Antonio Piccolo
Costruzione realizzata su suolo di proprietà esclusiva di uno dei
coniugi – Applicabilità delle norme sulla comunione legale - Esclusione – Accessione – Diritti del coniuge non proprietario – Natura
– Onere della prova
La costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in
regime di comunione legale sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno dei coniugi è di proprietà personale ed
esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione. L’altro coniuge, che pretenda di ripetere
le somme spese, è onerato della prova d’aver conferito il proprio apporto economico per la realizzazione della costruzione
attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni; di contro il coniuge proprietario non è tenuto a dimostrare d’aver
impiegato denaro personale nè personalissimo.
Notaio
(Omissis)
Svolgimento del processo
D.A. con citazione del 20 maggio 1998 ha convenuto in
giudizio innanzi al Tribunale di Terni il coniuge divorziato
C.L. per ottenere, per quel che ancora rileva, previa declaratoria del regime di comunione legale in relazione ad immobile
in Terni edificato dal C. in costanza di matrimonio su terreno
di sua proprietà esclusiva, la condanna di quest’ultimo al pagamento del valore della metà del manufatto ovvero delle
somme occorse per edificarlo.
Il convenuto, ritualmente costituito, ha dedotto l’infondatezza della domanda. In particolare ha eccepito d’aver costruito l’immobile con mezzi propri, senza l’apporto della moglie.
Il Tribunale di Terni ha respinto la domanda sull’assunto
che la proprietà esclusiva del cespite si apparteneva al C. in
virtù del principio dell’accessione, nè la D. aveva assolto all’onere di provare che la costruzione fosse stata realizzata anche col
suo contributo economico, personale ovvero proveniente dalla
comunione legale. Il significato prevalente dell’istruttoria
espletata deponeva, al contrario, per l’ipotesi che i materiali
erano stati acquistati dalla famiglia del C. e la manodopera era
stata fornita da quest’ultimo e dai suoi familiari.
La decisione è stata impugnata dalla D. innanzi alla Corte
d’appello di Perugia, lamentando errata interpretazione delle
risultanze probatorie ed omesso rilievo della nullità delle eventuali donazioni fatte al C. dai suoi familiari siccome prive del
requisito della forma, e del fatto che comunque i materiali erano entrati nella comunione legale ed il loro impiego nella costruzione le dava diritto a ripetere la sua quota in sede di scioglimento della comunione. Ha altresì prodotto copia di contratto di mutuo ipotecario, congiuntamente stipulato il (…).
La Corte territoriale con sentenza n. 76 depositata il 9
marzo 2006 ha respinto il gravame.
Avverso questa statuizione la D. ha proposto il presente
ricorso per cassazione che ha affidato a tre motivi resistiti
dall’intimato con controricorso illustrato altresì con memoria
difensiva depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
La ricorrente:
1.- Col primo motivo denuncia violazione degli artt. 177
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
e 179 c.c.
Ascrive alla Corte territoriale errore consistito nell’aver
ritenuto che ella dovesse giustificare il proprio credito alla
metà del valore del cespite, provando d’aver contribuito con
denaro proprio e per la metà alle spese di costruzione, incorrendo in ulteriore errore nel valutare gli apporti in termini
solo di denaro, anziché nel quadro delle rispettive sostanze e
capacità di lavoro. La fondamentale distinzione fra denaro
personale e denaro personalissimo, non percepita dal giudice
di merito, poneva a carico dell’ex coniuge l’onere di provare
d’aver realizzato la costruzione con denaro personalissimo.
Formula a conclusione quesito di diritto con cui chiede se,
nel caso in esame, è sufficiente dar la prova che il manufatto è
stato realizzato nel vigore del regime di comunione legale o se
spetta al coniuge proprietario esclusivo la dimostrazione della
realizzazione del manufatto con denaro personalissimo.
2.- Col secondo motivo denuncia violazione degli artt. 2,
3 e 39 Cost., e degli artt. 143, 177 e 179 c.c., con riferimento
al principio costituzionale della parità morale e giuridica fra
coniugi, e si duole dell’omesso rilievo che avrebbe dovuto
essere attribuito agli apporti al menage familiare da essa
forniti in corso di costruzione.
Ascrive ai giudici di merito errata considerazione del contributo alle spese, siccome valutato solo in termini di erogazione di denaro, senza tener conto della sostanza dell’aiuto da
essa prestato in cantiere ed in famiglia. Tale errata prospettiva ha orientato la valutazione delle risultanze istruttorie.
Ribadisce infine che la donazione dei familiari del C. è affetta da nullità, sicchè i materiali non possono ritenersi beni
personali.
Formula quesito di diritto con cui chiede se in ragione del
principio costituzionale di uguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, che parifica il lavoro casalingo a quello professionale, assuma rilievo nella previsione dell’art. 177 c.c., il lavoro
manageriale del coniuge diretto alla cura dei figli.
Col terzo motivo denuncia violazione dell’art. 935 c.p.c.,
e, con richiamo al principio enunciato nella sentenza n.
651/1996, ne deduce travisamento, rivendicando il suo diritto di credito in forza dell’accessione.
Formula quesito di diritto, con cui chiede se il fondamento del diritto di credito alla metà del valore della costruzione
discenda dal principio dell’accessione e se si presuma di tale
entità salva la prova del coniuge proprietario d’aver impiegato denaro personalissimo.
I tre motivi, logicamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
Riconosciuta all’attrice la sola tutela obbligatoria subordinata alla dimostrazione dell’impiego del patrimonio comune nell’edificazione del manufatto di proprietà del marito, la
Corte territoriale ha escluso che gli apporti parentali di cui
ha beneficiato il C. rappresentassero donazioni indirette che,
affette da nullità in assenza della forma prescritta, potessero
costituire attribuzioni patrimoniali ricadenti nel regime di
comunione legale radicando il diritto di credito dell’attrice
quanto meno alla metà delle spese. Le ha qualificate donazioni manuali rivolte al solo familiare, che non concorrono a
formare il diritto di credito dell’altro coniuge. Premesso che
il C. non era tenuto a dimostrare d’aver costruito con denaro
proprio, ma piuttosto la D. aveva l’onere di provare l’impiego
nella costruzione di denaro suo o comune, ha ritenuto la
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35
prova offerta dall’attrice in ordine al suo apporto di denaro
impiegato per la costruzione del manufatto contraddittoria e
poco credibile. Il contratto di mutuo prodotto è posteriore
alla realizzazione dell’immobile.
Tale decisione, corretta nella sua premessa, conforme ad
interpretazione consolidatasi in materia sul solco della pronuncia delle sezioni unite n. 651/1996, nonché nella sua
conclusione, va rettificata nella parte motivazionale. Per costante giurisprudenza, il principio dell’accessione sancito
nell’art. 934 c.c., secondo cui il proprietario del suolo acquista
al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione
su di esso edificata, opera, salvo deroga pattizia o legale,
ancorché la costruzione sia stata realizzata in costanza di
matrimonio e nella vigenza del regime di comunione legale.
“L’acquisto della proprietà per accessione, infatti, avviene a
titolo originario senza la necessità di apposita manifestazione
di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177
c.c., comma 1, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è
a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo”
(Cass. n. 7060/2004). L’esigenza di deroga espressa posta
dall’art. 934 c.c., esclude che possa attribuirsi tale natura al
disposto dell’art. 177, lett. a), che, nulla prevedendo a riguardo, regolamenta in via generale gli acquisti del singolo coniuge in regime di comunione legale.
La tutela del coniuge non proprietario del suolo non opera perciò sul piano del diritto reale, ma su quello obbligatorio
del diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le spese
affrontate per la costruzione medesima (Cass. citata nonché
nn. 8585/1999, 4076/1998, 2354/2005).
Nel caso di specie, indiscusso che la costruzione venne
realizzata su suolo di proprietà personale del C.***, questi pur
non essendone onerato, ha dedotto e provato d’aver impiegato
per la realizzazione del manufatto esclusivamente beni personali, ovvero provenienti da apporti dei familiari, che di certo
non entrarono a far parte della comunione legale. L’altro coniuge, odierna ricorrente, onerata della prova d’aver prestato
il suo personale sostegno economico alla costruzione, non
solo non ha contestato la circostanza di fatto addotta dal
convenuto, ma non ha né allegato né dimostrato una sua prestazione, diversa dall’assistenza e dal sostegno morale, affettivo e manageriale che assume d’aver fornito alla famiglia con
allegazione del tutto ininfluente e peraltro inammissibile perché dedotta solo in questa sede, il suo diritto alla tutela obbligatoria, consistente come rilevato nel riconoscimento del diritto di credito pari alla metà del valore dei materiali e della
manodopera impiegati nella costruzione, postulava la dimostrazione del suo contributo economico agli esborsi sostenuti
per la costruzione dell’immobile, proveniente da risorse personali ovvero ricadenti in comunione, che la predetta non ha
dedotto in sede di merito, né tanto meno ha tentato di fornire.
Nessuno dei motivi in esame censura l’omessa valutazione di
fatti e circostanze che dimostrassero il suo esborso economico
di cui si fosse giovato il coniuge per sostenere l’onere della
costruzione. Piuttosto si prospetta l’avvenuto acquisto degli
apporti parentali offerti al C. dai suoi familiari, che rappresenta, alla luce dei principi enunciati, un dato irrilevante.
civile
Gazzetta
36
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Ai quesiti di diritto formulati nel ricorso deve rispondersi
che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in
regime di comunione legale sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno dei coniugi è di proprietà personale ed
esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione. L’altro coniuge, che pretenda di ripetere le
somme spese, è onerato della prova d’aver conferito il proprio
apporto economico per la realizzazione della costruzione attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni; di contro
il coniuge proprietario non è tenuto a dimostrare d’aver impiegato denaro personale né personalissimo.
Le considerazioni che precedono comportano il rigetto del
ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.
(Omissis)
••• Nota a sentenza
La sentenza in commento interviene sulla nota questione
della titolarità della costruzione realizzata da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno di essi, durante il
matrimonio e nel regime di comunione legale dei beni1. La
tematica risulta fra le più controverse nell’ambito della comunione legale, per il difetto di coordinamento delle norme di
questo istituto, introdotto con la riforma del diritto di famiglia
del 1975, con le altre disposizioni contenute nel codice civile
del 19422. Il dibattito vede contrapposti due orientamenti3.
Una prima tesi, sostenuta soprattutto in dottrina4, ritiene
1 Per un’ampia ricostruzione della questione e per riferimenti bibliografici e
giurisprudenziali si vedano, fra molti, i seguenti contributi: E. Briganti, Il
problema della proprietà dell’edificio realizzato su suolo personale di uno dei
coniugi in regime di comunione legale, in Notariato, 1995, 69 ss.; C. Dalia,
L’accessione per inaedificatio come acquisto dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, in Rass. dir. civ., 1-2, 2002, 66 ss.; G. Iorio, Costruzioni
realizzate sul suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi e comunione legale, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 193 ss.
2 Preliminarmente, occorre isolare dall’ipotesi da trattare quella nella quale sia
stato utilizzato, per realizzare la costruzione, denaro o materiale personale del
coniuge proprietario del suolo. In questa fattispecie, infatti, dottrina e giurisprudenza sono in gran parte concordi nel ritenere che, operando il principio di
accessione, il cespite sia di proprietà esclusiva del titolare del suolo. Sul punto
A. Gentili, Acquisti per accessione e comunione legale dei beni tra i coniugi,
in Giur. it., 1984, I, 2, c. 695.
3 Vi è da segnalare l’esistenza di una terza opinione, minoritaria, che ritiene operativo
il principio di accessione soltanto al momento dello scioglimento della comunione
legale: così P. Di Martino, Gli acquisti a titolo originario in regime di comunione
legale tra i coniugi, in Studi in onore di C. Grassetti, Milano, 1980, 591 ss.
4Fra i sostenitori: V. De Paola, A. Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della
famiglia, Milano, 1978, p. 112; M. Comporti, Gli acquisti dei coniugi in regime di comunione legale, in Riv. not., 5, 1979, I, p. 59; F. Corsi, Il regime
patrimoniale della famiglia, in Trattato dir. civ. comm. Cicu-Messineo, Milano,
1979, p. 87, nota 19; M. Finocchiaro, Regime di comunione tra coniugi e
costruzione di edificio su suolo di proprietà esclusiva di uno di essi, in Giust.
civ., 1991, I, p. 2953 ss; M. Finocchiaro, Acquisti a titolo originario e comunione legale dei beni (ancora sui rapporti tra accessione e comunione legale), in
Giust. civ., 1992, I, p. 1734 s.; M. Nuzzo, L’oggetto della comunione legale
tra coniugi, Milano, 1984, p. 116 ss.; A. Gentili, Acquisti per accessione e
comunione legale dei beni tra coniugi, in Giur. it., 1984, p. 701 ss.; A. e M.
Finocchiaro, Diritto di famiglia, Milano, 1984, 865 e 885; F. Gerbo, Chiose
minime in ordine alle interferenze tra il regime patrimoniale tra i coniugi ed il
principio dell’accessione, in Riv. not., 1985, II, p. 431; C.M. Bianca, Diritto
civile, La famiglia e le successioni, Milano, 1989, p. 72 ss.; T. Auletta, Accessione e comunione legale: ancora una pronuncia della Suprema Corte a favore
del coniuge proprietario del suolo, in Giust. civ., 1998, I, p. 2842; F. Ansalone,
Comunione legale tra coniugi, acquisti a titolo originario e accessione, in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, p. 213 ss., F. Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, in Giur. sist. Civ. e comm. Bigiavi, Torino, 1995, p. 80
ss.; P. M. Di Giovanni, Accessione e comunione legale dei beni tra coniugi, una
c i v i l e
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che la costruzione costituisca oggetto della comunione legale
fra i coniugi. Ciò perché, in primo luogo, affrontando la problematica dei rapporti fra accessione e comunione legale nella
tradizionale ottica della prevalenza delle norme di uno dei due
istituti sull’altro, l’art. 177, comma 1, lettera a) c.c. sarebbe
disposizione speciale in deroga al principio generale dell’accessione “quod solo inaedificatur, solo cedit” espresso dall’art.
934 c.c.. Anche da un punto di vista cronologico, ai sensi
dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, le norme
sulla comunione legale derogherebbero a quelle sull’accessione
in quanto posteriori ed incompatibili con queste ultime. In
secondo luogo, ammettendo la contemporanea operatività dei
due gruppi di norme, in quanto ciascuno con uno spazio di
applicazione autonomo, e rifiutando l’ottica della prevalenza
nell’interpretazione dei rapporti fra i due istituti, ne discenderebbe che “il coniuge proprietario del suolo diviene proprietario della costruzione realizzata su di esso per effetto delle regole sull’accessione e che tale nuovo acquisto, per le regole
della comunione legale, diviene comune”5. In terzo luogo, respingendo ogni interpretazione strettamente letterale dell’art.
177, comma 1, lett. a) c.c. volta a ricomprendere fra gli “acquisti compiuti” solo quelli a titolo derivativo e con genesi
negoziale6, ne discenderebbe l’onnicomprensività del termine
“acquisti”, come riferito ad ogni ipotesi di incremento patrimoniale apportato alla comunione legale, salve le eccezioni
tassativamente individuate dal legislatore. La locuzione “acquisti compiuti” deve essere letta alla luce dello spirito della
riforma del diritto di famiglia del 1975, che è diretta a realizzare il principio costituzionale di solidarietà e di uguaglianza
fra i coniugi espresso dagli artt. 3 e 29 Cost., attraverso la
reciproca partecipazione degli stessi alle vicende economiche
della famiglia. L’attuazione di questo principio comporta, per
questa linea di pensiero, un’interpretazione delle norme ispirata al cosiddetto “favor communionis”, portando a ricomprendere fra gli oggetti della comunione legale ogni ipotesi di
acquisto di un bene nuovo dal punto di vista giuridico ed economico. La costruzione realizzata sul suolo rappresenterebbe
un’entità funzionalmente ed economicamente distinta ed autonoma dal fondo stesso, e pertanto, rientrerebbe nell’ampia
formulazione dell’art. 177, comma, 1 lett. a) c.c., che comprenderebbe ogni tipo di acquisto, a qualunque titolo effettuato,
costruzione realizzata su suolo di proprietà esclusiva di uno di essi, in Giur.
merito, 1992, I, p. 1107 ss.; L. Bottazzi, Acquisti per accessione e comunione
legale tra coniugi, in Corriere giur., 1992, p. 793 ss.; G. Buta, Acquisti per
accessione e comunione legale tra coniugi, in Giust. civ., 1994, II, p. 632; P.
Lorusso, Costruzione su suolo di un coniuge, accessione, comunione legale,
in Foro it., 1994, p. 1896 ss.; F. Regine, Acquisti per accessione e comunione
legale dei beni fra coniugi, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 777; E. Briganti, Il problema della proprietà dell’edificio realizzato su suolo personale di uno
dei coniugi in regime di comunione legale, cit.; E. Quadri, Commento a Cass.,
sez. un., 27 gennaio 1996, n. 651, in Corriere giur., 1996, 558 ss.; E. Emiliozzi, Il problema dell’acquisto dell’edificio costruito sul suolo di proprietà di un
soggetto coniugato in regime di comunione legale, in Dir. fam. e pers., 1996, I,
p. 797; C. Dalia, L’accessione per inaedificatio come acquisto dei coniugi in
regime di comunione legale dei beni, cit. Favorevoli alla caduta in comunione
legale, nella giurisprudenza di merito: Trib. Rieti, 27 marzo 1986, in Giur.
merito, 1988, p. 89; Trib. Lucca, 24 febbraio 1990, in Giust. civ., 1990, I, p.
1618; App. L’Aquila, 18 giugno 1991, in Giur. merito, 1993, p. 1032; Trib.
Fermo, 5 settembre 1994, in Foro it., 1995, I, c. 2297.
5 Così Trib. Lucca 24 febbraio 1990, cit..
6 Questa linea di pensiero è, invece, quella seguita dalla giurisprudenza di legittimità ed in particolare da Cass., 14 marzo 1992 n. 3141, in Giur. it., 1992, I,
1, 2139, in Giust. civ., 1992, I, 1731 ed in Riv. not., 1992, 848 e da Cass. 14
aprile 2004 n. 7060 in Riv. not., 2004, II, p. 1483.
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
ad eccezione di quelli tassativamente elencati dalla legge.
Infine, si sostiene che verrebbe a configurarsi sull’edificio
costruito la costituzione, ex lege, di un diritto di superficie a
favore dei due coniugi in regime di comunione legale, con la
conseguenza che quello tra i due già proprietario esclusivo del
suolo, diverrebbe, in tal modo, anche contitolare di un diritto
reale di godimento sulla cosa propria7. L’ipotesi in esame sarebbe non solo consentita dall’art. 934 c.c., che consente deroghe al principio dell’accessione (come le norme sulla comunione legale), ma non sarebbe neppure contraria ai principi
del diritto in quanto, si osserva, anche nella comunione ordinaria vi sarebbero altre fattispecie nelle quali un soggetto è
contemporaneamente comproprietario di un bene e titolare di
un diritto di superficie sul suolo stesso8.
La giurisprudenza dominante9, nella quale si inserisce anche
la Cass. 20508/2010, ritiene, invece, che la costruzione, sebbene realizzata da entrambi i coniugi, costituisca bene personale
del coniuge proprietario esclusivo del suolo, in virtù del principio di accessione ex art. 934 c.c., e che, quindi, non cada in
comunione legale. A sostegno di questa opinione vi è, innanzitutto, la convinzione della prevalenza della norma di cui all’art.
934 c.c. su quella dell’art. 177, comma 1, lett. a) c.c.. L’art. 934
ammette sì deroghe al principio di accessione, ma solo per effetto di un titolo negoziale o di una norma espressa di legge.
Questa deroga non potrebbe ravvisarsi per effetto di una norma
generale, priva di contenuto precettivo, quale l’art. 177 lett. a).
7 Così Trib. Rieti 27 marzo 1986, in Foro it., 1988, I, c. 257.
8 Così A. Gentili, Acquisti per accessione e comunione legale dei beni tra i coniugi, in Giur. it., 1984, I, 2, c. 695.
9La prima decisione della giurisprudenza di legittimità, successiva alla riforma
del diritto di famiglia del 1975, che esclude la costruzione realizzata dalla comunione legale è di Cass., 11 giugno 1991 n. 6622, in Riv. not., 1991, 1001 ed
in Giur. it., 1992, I, 1, 108. Seguono questo orientamento: Cass., 14 marzo
1992 n. 3141, cit.; Cass., 16 febbraio 1993, n. 1921, in Giur. it., 1993, I, 1,
1902; Cass., 25 novembre 1993, n. 11663, in Giust. civ., 1994, I, 676; Cass.
Sez. un., 27 gennaio 1996, n. 651, in Riv. not., 1996, 545 e in Notariato, 1996,
427; Cass., 8 maggio 1996, n. 4273, in Nuova giur. civ. commentata, 1997, I,
394; Cass., 22 aprile 1998, n. 4076, in Giust. civ., 1998, I, 2831; Cass., 12
maggio 1999, n. 4716, in Riv. not., 2000, 347; Cass., 11 agosto 1999, n. 8585,
in Riv. not., 2000, 347; Cass., 9 marzo 2000, n. 2680, in Foro it., 2000, I, 3551;
Cass., 14 aprile 2004 n. 7060, cit.; Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354, in Foro it.,
2005, I, c. 1735; Cass., 3 aprile 2008, n. 8662 in Giust. civ., 2008, 4. In dottrina qualificano la costruzione realizzata come bene personale, in virtù dell’operatività del principio dell’accessione: A. Ruotolo, Comunione legale, acquisto
per accessione e diritti del coniuge del dominus soli, in Riv. not., 2000, II, p.
363; M.L. Cenni, Operatività dell’accessione nella comunione legale e proprietà della costruzione, in Notariato, 1996, 434; L. Coco, Le sezioni unite della
Cassazione confermano: l’accessione prevale sulla comunione legale, in Vita
not., 1996, I, p. 754; R. Serino, Comunione legale ed accessione: la seconda
volta della cassazione, in Riv. not., 1992, II, p. 853 ss., A Corsi, Accessione e
comunione legale, in Riv. not., 1992, I, p. 1391 ss.; P. D’armi, L’accessione e il
regime di comunione legale tra i coniugi nella giurisprudenza della cassazione,
in Giust. civ., 1995, I, p. 246; G. Tripoli, Ancora sulla costruzione realizzata
dal coniuge in regime di comunione su suolo di proprietà esclusiva, in Vita not.,
1993, p. 721; N. Di Mauro, Comunione legale tra coniugi e costruzione realizzata sul suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi, in Giust. civ., 1992,
I, p. 769 ss.; V. Colapietro, L’accessione nel nuovo diritto di famiglia, in Riv.
not., 1992, II, 1505; F. Cimei, In tema di costruzione realizzata sul suolo di
proprietà personale di uno dei coniugi in regime di comunione legale, in Giur.
it., 1991, I, c. 2144; D. Mammarella, Acquisti per accessione in regime di
comunione legale fra coniugi e diritto di superficie, in Giur. merito, 1988, I, p.
89 ss.; M. Ieva, Ancora in tema di conflitto fra il principio di accessione e gli
acquisti dei coniugi in regime di comunione legale, in Riv. not., 1984, II, p.
1195; S. Tondo, Sugli acquisti originari nel regime di comunione coniugale, in
Foro it., 1981, V, c. 161 ss.; F. Parente, Le sezioni unite imputano al patrimonio personale la costruzione realizzata su suolo del coniuge durante la comunione coniugale, in Dir. fam. e pers., 1997, I, p. 117 ss.; G. Di Transo, Comunione legale tra coniugi e acquisto per accessione, in Vita not., 1978, p. 1269
ss.; M. Fragali, La comunione, in Trattato di dir. civ. e comm. Cicu-Messineo,
II, Milano, 1978, p. 180 ss.
2 0 1 0
37
In secondo luogo, la locuzione “acquisti compiuti” dell’art.
177 lett. a) farebbe intendere che costituiscano oggetto della
comunione legale soltanto gli acquisti a titolo derivativo che
comportino un’attività negoziale di almeno uno dei coniugi.
Il legislatore non sarebbe stato atecnico, come ritiene l’opinione avversa, nel formulare l’art. 177 lett. a). Anzi, procedendo
ad una ricostruzione storico-comparatistica dell’istituto e
guardando all’art. 217 c.c. del 1942, che comprendeva nell’oggetto della comunione convenzionale gli acquisti fatti a qualunque titolo, il legislatore del 1975 avrebbe avuto proprio
l’intento di comprendere nella comunione legale gli acquisti
comportanti “il pregresso espletamento di un’attività negoziale da parte del coniuge”10, escludendo gli acquisti a titolo
originario come l’accessione.
In terzo luogo, vi sarebbe la prevalenza del principio costituzionale di tutela della proprietà ex art. 42 Cost. su quello di solidarietà ed uguaglianza fra i coniugi sancito dall’art.
29 Cost.11.
Ancora, si ritiene che per costituire un diritto di superficie
sulla costruzione, ai sensi dell’art. 952 c.c., occorra necessariamente ed esclusivamente un titolo negoziale, non essendo
configurabile, nel nostro ordinamento, la costituzione ex lege
di tale diritto12.
Inoltre, l’automatica costituzione di un diritto di proprietà superficiaria sulla costruzione a favore dei coniugi in comunione legale sarebbe inconciliabile con il principio che
esclude che uno stesso soggetto sia contemporaneamente
dominus soli e superficiario sullo stesso bene13.
Sottesa a questo ragionamento è la concezione della costruzione come bene non autonomo rispetto al suolo sul quale viene
realizzata, e dell’accessione come mero fatto modificativo del
diritto dominante e non come un nuovo modo di acquisto della
proprietà. In sostanza, secondo questo indirizzo, l’accessione
darebbe luogo ad un incremento del bene preesistente, che resterebbe lo stesso da un punto di vista giuridico. Non vi sarebbe
la creazione di un nuovo cespite ed il conseguente acquisto ai
sensi dell’art. 177 lettera a), trattandosi dello stesso bene, soltanto più esteso rispetto a prima della costruzione, conseguentemente soggetto al medesimo regime giuridico del suolo14.
Tuttavia, anche la giurisprudenza non può rimanere indifferente di fronte alle esigenze di giustizia sostanziale ispiratrici della riforma del diritto di famiglia del 1975, che valorizza l’uguaglianza dei coniugi. Pertanto, per tutelare il coniuge non proprietario ma che comunque abbia partecipato
all’edificazione della costruzione sul suolo, si è sempre attribuito a quest’ultimo un diritto di credito corrispondente alla
metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati
nella costruzione.
Questo diritto di credito è sempre stato riconosciuto dalla giurisprudenza che ha ritenuto prevalente il principio di
accessione e finanche dalla sentenza in commento.
Gli ermellini, nel caso di specie, erano appunto chiamati a
stabilire se al coniuge non proprietario del suolo spettasse il
10 Così Cass., 14 marzo 1992 n. 3141, cit.; nello stesso senso Cass., 14 aprile 2004
n. 7060, cit.
11 Così N. Di Mauro, Comunione legale tra coniugi e costruzione realizzata su
suolo di proprietà esclusiva, in Giust. civ., 1992, I, 770 ss.
12 Cass., 11 giugno 1991 n. 6622, cit.
13 Cass., 14 marzo 1992 n. 3141, cit.
14 A. Corsi, Accessione e comunione legale, in Riv. not., 1992, I, 1391 ss.
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
suddetto diritto di credito. La pronuncia parte, infatti, dal presupposto che la proprietà della costruzione effettuata sul suolo
di proprietà esclusiva di un coniuge spetti a quest’ultimo in virtù
del principio di accessione, a prescindere dall’eventuale contributo patrimoniale apportato dall’altro coniuge. Non occorrono
alla Corte particolari approfondimenti di questo assunto tralatizio, conforme all’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi con
la sentenza n. 651 delle sezioni unite della Cassazione del 1996
e ribadito nella massima della Cass. n. 7060/2004, citata nella
motivazione della sentenza. Dato per risolto il problema della
titolarità sulla costruzione, i giudici si soffermano sull’onere
probatorio gravante sul coniuge non proprietario, aggiungendo
un ulteriore punto a sfavore di quest’ultimo rispetto alle pronunce di legittimità degli anni novanta. In queste ultime sentenze,
infatti, riconosciuto che “nel regime di comunione legale la costruzione realizzata, in pendenza di matrimonio, su suolo di
proprietà esclusiva di uno dei coniugi, non costituisce oggetto
della comunione ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. a), c.c.”,
si presumeva ex lege il diritto di credito del coniuge non proprietario asserendo che “gli apporti alla realizzazione della costruzione, che per legge si presumono resi dal coniuge non proprietario, trovano corrispettivo in un suo credito verso l’altro”15.
La sentenza in commento, invece, aggrava la posizione del
coniuge non proprietario, stabilendo che non è sufficiente che
lo stesso adduca un suo generico apporto alla realizzazione
della costruzione e che in ogni caso non basta il mero sostegno
morale, affettivo e manageriale, ma è necessario fornire la
prova di aver conferito il proprio apporto economico per la
realizzazione della costruzione attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni.
La novità di questa pronuncia sta, quindi, nell’affermazione dell’onere della prova.
L’impostazione seguita dalla pronuncia in commento non
sembra condivisibile sia riguardo alla titolarità della costruzione realizzata sia per quanto concerne l’onere probatorio.
Riguardo al profilo della titolarità, se si parte dalla prevalenza del principio costituzionale della parità fra i coniugi su
quello della proprietà e se si guarda al sistema della comunione legale come un complesso rigido di norme che, tuttavia,
viene scelto liberamente dai coniugi, è inevitabile concludere
non solo per la caduta in comunione di una simile costruzione, ma anche respingere ogni altro tentativo di compressione
dei diritti del coniuge non proprietario, il cui apporto, sovente, è di natura non patrimoniale, esplicantesi nel contributo
alla buona riuscita del menage familiare. D’altronde, la stessa
comunione legale sembra essere stata ideata proprio per favorire il coniuge meno abbiente e che spesso è dedito al lavoro
casalingo, per sua natura non quantificabile in termini patrimoniali. Negare l’operatività delle regole del regime patrimoniale legale, laddove non lo dica espressamente la legge,
sembra costituire un tradimento alla ratio legis. Difatti, è
noto che il regime di comunione legale (il cui sistema di norme
è stato, in altre occasioni, interpretato in modo rigido come,
ad esempio, nel caso del rifiuto del coacquisto16) costituisca
15 Cass., 14 marzo 1992, n. 3141, cit.; Cass., 16 febbraio 1993, n. 1921, cit.;
Cass., 25 novembre 1993, n. 11663, cit.; Cass., 11 giugno 1991 n. 6622, cit.;
Cass., 12 maggio 1999 n. 4716, cit.
16 Per la negazione del rifiuto del coacquisto, si veda Cass., 27 febbraio 2003, n.
2954, in Giust. civ., 2003, 10, 2113.
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un sistema immodificabile nella sua operatività generale,
salvo che si scelgano altri regimi patrimoniali. Se i coniugi
vogliono privilegiare la propria libertà, evitando di far cadere
in comunione tutti gli acquisti non esclusi tassativamente ed
espressamente dal legislatore dal regime legale, possono scegliere la separazione dei beni. Se si sceglie la comunione legale, sembra invece inevitabile l’applicazione rigida delle sue
regole, che non sembrano ammettere deroghe se non quelle
sancite dal legislatore e non dall’interprete.
L’assunto, oramai prevalente in giurisprudenza, secondo il
quale il principio di accessione prevale sulla comunione legale
non tiene conto degli interessi sostanziali che il legislatore ha
inteso proteggere mediante l’introduzione del nuovo regime legale della famiglia. Un’impostazione che tenda a far prevalere il
valore costituzionale della proprietà su quello dell’uguaglianza
e solidarietà fra i coniugi, è comunque costretta a ricorrere allo
strumento della tutela obbligatoria al fine di garantire un minimo di protezione anche all’altro coniuge. La giurisprudenza
tenta, inoltre, nella medesima ottica di tutela del coniuge non
proprietario, di giustificare in vari modi il fondamento del diritto di credito di quest’ultimo, rinvenendolo ora nell’art. 192,
comma 1, (quando vi sia l’impiego di denaro comune) ora
nell’art. 2033 (quando il denaro impiegato appartenga in via
esclusiva all’altro coniuge)17, ora nell’art. 93518, invocato anche
dall’odierna ricorrente. Ma pur volendo ammettere una tutela
esclusivamente obbligatoria per il coniuge non proprietario,
sembra non condivisibile l’ulteriore aggravamento della sua
posizione probatoria stabilito dalla Suprema Corte in commento. Nella prospettiva della pronuncia de quo, il coniuge proprietario del suolo non deve provare di aver impiegato beni né
personali né personalissimi per negare all’altro coniuge il diritto di credito sui materiali e sulla manodopera impiegati. Questa
conclusione sembra contrastare con il sistema generale della
comunione legale configurato dal legislatore del 1975. Il complesso di norme in materia di comunione legale pare infatti
presumere, salvo prova contraria, l’uguaglianza degli apporti
dei coniugi (sia patrimoniali che non). Sembrano costituire riprova della presunzione di uguaglianza degli apporti le norme
di cui agli artt. 192, comma 3, c.c. (che onera il coniuge che
pretenda la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio
personale di provare la personalità dell’apporto19), 194 (che
prevede la ripartizione in parti uguali dell’attivo e del passivo),
195 (che presume la titolarità comune dei beni mobili, in assenza di prova contraria), 197 (che richiede la prova certa della titolarità esclusiva dei beni) e 210, comma 3, c.c. (che stabilisce
l’inderogabilità dell’uguaglianza delle quote). Pertanto, alla luce
della ratio legis, ispirata al favor communionis, sembra non
solo che la costruzione realizzata da entrambi i coniugi sul
suolo di proprietà esclusiva di uno di essi cada in comunione
legale, ma che sia onere del coniuge proprietario del suolo, che
abbia apportato nella realizzazione della costruzione esclusivamente beni personali, provare questa circostanza al fine di
escludere l’altro da eventuali diritti di credito.
17 Cass., 14 marzo 1992, n. 3141, cit.
18 Cass., sez. un., 27 gennaio 1996, n. 651, cit.
19In tal senso Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, in Guida al diritto, n. 29 del 23
luglio 2005, p. 65.
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Rassegna
di legittimità
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A cura di Corrado d'Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
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Avvocati – Onorario – Ricorso
Il giudice non può ridurre l’onorario dell’avvocato quando il cliente ne contesta l’intera esistenza. In particolare,
qualora la sentenza di primo grado relativa al pagamento di
una somma sia appellata limitatamente all’an debeatur, il
giudice di appello non ha il potere di riesaminare anche la
quantificazione del credito, stante l’autonomia esistente tra
la pronuncia sull’an e quella sul quantum.
Cass. civ., sez. II, ordinanza 4 novembre 2010, n. 22478
Pres. Settimj, Est. De Chiara
Condominio negli edifici – Azioni giudiziarie – Rappresentanza
giudiziale del condominio – Legittimazione del condomino – Limiti – Controversie relative alla gestione di un servizio comune –
Legittimazione esclusiva all’amministratore – Fondamento – Fattispecie relativa ad impugnazione di sentenza contenente la statuizione di annullamento della delibera assembleare di nomina
dell’amministratore
Il condomino che intenda evitare gli effetti della sentenza
sfavorevole pronunciata nel giudizio cui egli ha preso parte
attraverso l’amministratore può valersi dei mezzi di impugnazione concessi alla parte. Configurandosi, infatti, il Condominio quale ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini, l’esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l’amministratore, non
priva il singolo partecipante della facoltà di agire a difesa dei
diritti, esclusivi e comuni, inerenti all’edificio condominiale,
con la conseguenza che egli è legittimato ad impugnare personalmente, anche per cassazione, la sentenza sfavorevole
emessa nei confronti della collettività condominiale, non
spiegando influenza alcuna, in contrario, la circostanza della
mancata impugnazione di tale sentenza da parte dell’amministratore. Tale principio, tuttavia, non trova applicazione
riguardo alle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione
di deliberazione dell’assemblea condominiale che, come quella relativa alla gestione di un servizio comune, tenda a soddisfare esigenze soltanto collettive della gestione stessa, senza
attinenza diretta all’interesse esclusivo di uno o più partecipanti, con la conseguenza che, in tali controversie, la legittimazione ad agire – e quindi anche ad impugnare – spetta in
via esclusiva all’amministratore, la cui acquiescenza alla sentenza esclude la possibilità di impugnazione da parte del
singolo condomino. Ne consegue che spetta in via esclusiva
all’amministratore non anche ai singoli condomini la legittimazione ad impugnare la sentenza sfavorevole al condominio
avente ad oggetto l’impugnazione della delibera di nomina
dell’amministratore, essendo quest’ultima diretta a soddisfare le esigenze della gestione collettiva e solo indirettamente
l’interesse del singolo al funzionamento corretto della vita
condominiale (Nel caso di specie, applicando i principi espressi, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile, per difetto
di legittimazione ad impugnare, il ricorso per cassazione
proposto da alcuni condomini avverso la sentenza con la
quale la corte del merito, riformando la statuizione del giudice di prime cure, aveva annullato, in sede di impugnazione
da parte di un condomino, la delibera assembleare di nomina
dell’amministratore).
Cass. civ., sez. II, sentenza 19 ottobre 2010, n. 21444
Pres. Settimj, Est. Giusti
civile
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D i r i t t o
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Contratto – Assicurazione – Prescrizione – Decorrenza – Danno
coperto da assicurazione – Indennizzo – Diritto – Prescrizione –
Decorso – Procedimento penale
La pendenza di un procedimento penale per fatti che
hanno dato luogo ad un danno coperto da assicurazione
(nella specie, procedimento per incendio doloso a carico
dell’assicurato contro i danni derivanti dall’incendio) non
costituisce, di per sè, fatto impeditivo del decorso della prescrizione del diritto all’indennizzo, salvo che le parti, nella
loro autonomia contrattuale, non lo abbiano espressamente
elevato a condizione sospensiva, perché, in tal caso, la pendenza del giudizio penale rappresenta un ostacolo giuridico
all’esercizio del diritto, che, a norma dell’art. 2935 c.c., impedisce il decorso della prescrizione.
Cass. civ., sez. III, sentenza 21 ottobre 2010, n. 21601
Pres. Morelli, Est. Spagna Musso
Contratto in genere – Efficacia del contratto – Rappresentanza e
procura – Ratifica – Effetti prima della ratifica – Inefficacia – Sussistenza – Rilevabilità d’ufficio – Esclusione – Eccezione di parte
– Necessità – Legittimazione – In capo al solo “pseudo rappresentato” – Sussistenza
Il negozio concluso dal “falsus procurator” costituisce
una fattispecie soggettivamente complessa a formazione
successiva, la quale si perfeziona con la ratifica del “dominus”, e, come negozio “in itinere” o in stato di pendenza
(però suscettibile di perfezionamento attraverso detta ratifica), non è nullo, e neppure annullabile, bensì inefficace nei
confronti del “dominus” sino alla ratifica di questi; tale (temporanea) inefficacia non è rilevabile d’ufficio, ma solo su
eccezione di parte e la relativa legittimazione spetta esclusivamente allo “pseudo-rappresentato”, e non già all’altro
contraente, il quale, ai sensi dell’art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al “falsus procurator” il risarcimento dei
danni sofferti per aver confidato senza propria colpa nella
operatività del contratto.
Cass. civ., sez. II, sentenza 19 ottobre 2010, n. 21441
Pres. Triola, Est. Mensitieri
Danno e risarcimento – Licenziamento – Tarda impugnazione –
Colpa professionale dell’avvocato
L’avvocato è tenuto a risarcire il cliente se tarda a riassumere la causa contro il licenziamento dopo la sospensione
dovuta allo svolgimento di un procedimento penale. Va pertanto riconosciuta la colpa professionale dell’avvocato, in
quanto l’azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo si prescrive nel termine di cinque anni, con la
conseguenza che l’avvocato era tenuto al risarcimento dal
momento che il ricorrente non poteva più agire in giudizio.
Cass. civ., sez. III, sentenza 2 novembre 2010, n. 22274
Pres. Varrone, Est. Urban
Famiglia e minori – Ammonimento al genitore – Ricorso in cassazione – Inammissibile
La sanzione dell’ammonimento comminata a uno dei
genitori che non si attiene alle modalità di gestione dell’affidamento del figlio non può essere impugnata in Cassazione.
Questi provvedimenti non sono infatti suscettibili d’impugnazione in quanto meramente sanzionatori e privi del carattere della decisorietà.
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Cass. civ., sez. I, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21718
Pres. Luccioli, Est. Dogliotti
Guida in stato di ebbrezza – Sospensione patente
La sospensione della patente per chi guida in stato di
ebbrezza non sempre si può considerare un atto dovuto. La
contestazione della violazione dell’allora art. 186 del codice
della strada prevedeva la sospensione come sanzione accessoria nei confronti di chi avesse un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro. Ne consegue che, in caso di riscontro di un valore minore, la sospensione della patente non è
obbligatoria. Né ai fini della sospensione si può applicare
l’art. 223 dello stesso codice della strada, perché si tratta di
una fattispecie diversa da quella originariamente contestata
al trasgressore.
Cass. civ., sez. II, sentenza 19 ottobre 2010, n. 21447
Pres. Oddo, Est. Mazzacane
Immigrazione e stranieri – Immigrato irregolare – Provvedimento
di espulsione – Figli minori – Tutela – Deroga alle regole in materia di immigrazione – Nozione di gravi motivi – interpretazione
restrittiva – Contrarietà alla costituzione e al diritto internazionale – valutazione caso per caso – Conseguenze sull’integrità psicofisica del minore – Necessità
L’immigrato irregolare, destinatario di un provvedimento
di espulsione, ha diritto a rimanere sul territorio italiano nei
casi in cui i figli, che vivono abitualmente in Italia, possano
incorrere in un rischio di subire un danno psicofisico dall’allontanamento del genitore. Nell’interpretare la deroga prevista dall’articolo 31 del testo unico in materia di immigrazione, il giudice di merito è tenuto a procedere a un’analisi
caso per caso e non limitarsi a prendere in considerazione
solo la sussistenza di condizioni eccezionali legate alla salute
fisica del minore.
Cass. civ., sez. un., sentenza 25 ottobre 2010, n. 21799
Pres. Carbone, Est. Salvago
Immigrazione e stranieri – Permanenza di familiare di minore
Il genitore clandestino può rimanere in Italia per accudire
il figlio minore anche in assenza di situazioni di emergenza o
di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute. La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31
del d.lgs. n. 286 del 1998 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non postula infatti necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile e
obiettivamente grave che, in considerazione dell’età o delle
condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio
psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare. Si tratta di situazioni di durata limitata la cui valutazione è rimessa al giudizio del magistrato.
Cass. civ., sez. un., sentenza 25 ottobre 2010, n. 21799
Pres. Carbone, Est. Salvago
Immigrazione e stranieri – Rinnovo del permesso di soggiorno –
Detenzione
Il permesso di soggiorno deve essere rinnovato nei tempi
previsti, anche se il richiedente è agli arresti. Il detenuto,
infatti, anche non avendo la possibilità di recarsi di persona
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presso gli uffici competenti, può attivare privati o istituzioni
pubbliche che collaborano alla sua rieducazione, il centro di
servizio sociale presso l’amministrazione penitenziaria e lo
stesso direttore dell’istituto penitenziario; è pertanto da
escludere la sussistenza di una causa di forza maggiore tale
da giustificare la mancata richiesta.
Cass. civ., sez. I, ordinanza 20 ottobre 2010, n. 21554
Pres. Salme’, Est. Didone
Lavoro – Abbandono del servizio per motivi di salute – Licenziamento
Non può essere licenziato il lavoratore che abbandona il
posto di lavoro avvisando i colleghi della propria malattia.
Il comportamento del dipendente di abbandono del servizio
per motivi di salute e di prolungamento dell’assenza anche
nei giorni seguenti si può infatti ritenere giustificato, su di un
piano di buona fede, dal fatto che l’interessato era reduce da
un grave infortunio e al momento del suo allontanamento
aveva denunciato disturbi tali che i suoi stessi colleghi, seppure non autorizzati a concedergli permessi, lo avevano invitato a tornare a casa.
Cass. civ., sez. lav., sentenza 14 ottobre 2010, n. 21215
Pres. Sciarelli, Est. Ianniello
Lavoro subordinato – Estinzione del rapporto – Licenziamento individuale – Per giusta causa – Presupposti – Valutazione – Apprezzamento di fatto – Configurabilità – Censurabilità in cassazione – Limiti – Fattispecie relativa a assenza prolungata dal posto di lavoro
Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di
licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la
gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle
quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione
inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui
si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un
apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.
Cass. civ., sez. lav., sentenza 14 ottobre 2010, n. 21215
Pres. Sciarelli, Est. Ianniello
Lavoro subordinato – Orario di lavoro – Costituzione del rapporto
– Durata del rapporto – In genere – Contratto di lavoro a tempo
parziale – Trasformazione in contratto a tempo indeterminato –
Presupposti – Fatti concludenti – Sufficienza
In base alla continua prestazione di un orario di lavoro
pari a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro nato come a tempo parziale può trasformarsi in
un rapporto di lavoro a tempo pieno, nonostante la difforme,
iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno.
Il rapporto a tempo parziale si trasforma in rapporto a
tempo pieno per fatti concludenti, in relazione alla prestazione lavorativa resa, costantemente, secondo l’orario normale,
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o addirittura con orario superiore.
Cass. civ., sez. lav., sentenza 13 ottobre 2010, n. 21160
Pres. Sciarelli, Est. Morcavallo
Mediazione – Mediatore – Nozione – Rapporto di mediazione –
Costituzione – Condizioni – Preventivo accordo delle parti circa la
persona del mediatore – Necessità – Esclusione – Materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano anche soltanto
tacitamente – Idoneità – Rapporto di mediazione sorto per incarico di una delle parti – Acquiescenza dell’altra parte – Vincolo per
entrambi i contraenti – Sussistenza – Mediazione cd. atipica –
configurabilità – Condizioni
L’art. 1754 c.c., disposizione che fissa la nozione di mediatore, lungi dall’affermare che quest’ultimo deve essere
incaricato da entrambe le parti, precisa che è tale “colui che
mette in relazione due o più parti per la conclusione di un
affare senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di
collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”. Il rapporto di mediazione, inteso come interposizione neutrale tra
due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare, non postula necessariamente un preventivo
accordo delle parti sulla persona del mediatore, ma è configurabile pure in relazione ad una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano anche soltanto tacitamente, utilizzandone i risultati ai fini della stipula del contratto.
Ed ove il rapporto di mediazione sia sorto per incarico di una
delle parti ma abbia avuto poi l’acquiescenza dell’altra,
quest’ultima resta del pari vincolata verso il mediatore, onde
un eventuale successivo suo rifiuto non sarebbe idoneo a
rompere il nesso di causalità tra la conclusione dell’affare,
effettuata in seguito direttamente tra le parti, e l’opera mediatrice precedentemente esplicata. In altri termini, la mediazione tipica, disciplinata dagli artt. 1754 e seguenti del c.c.,
è soltanto quella svolta dal mediatore in modo autonomo,
senza essere legato alle parti da un vincolo di mandato o di
altro tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un’attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla
provvigione. Tuttavia, in virtù del “contatto sociale” che si
crea tra il mediatore professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente, trovano applicazione le norme sui contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente
da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma,
c.c., e di non aver agito in posizione di mandatario (Alla luce
di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha ritenuto immune
da censure la sentenza impugnata con la quale il giudice del
merito aveva confermato, anche in sede di appello, la condanna di due società al pagamento, in favore di altra società di
mediazione, di una somma di danaro quale provvigione dovuta per l’attività di intermediazione svolta in sede di acquisto
di un capannone edificato da una delle predette società).
Cass. civ., sez. III, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21737
Pres. Trifone, Est. D’Amico
Stranieri – Minori stranieri soggiornanti in Italia – Affidamento
part time famiglia italiana –genitore clandestino – Permanenza
in Italia – Autorizzazione temporanea ex art. 31 d.lgs. n.286 del
1998 – Condizioni – Gravi motivi – Situazioni di emergenza o di
salute – Esclusione – allontanamento familiare – Equilibrio psico
civile
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– Fisico del minore – Lesione – Rilevanza – Giudice – Indagine
individuale – Interesse pubblico – Bilanciamento – Necessità –
Accoglimento – Rinvio
La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia
del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d. lgs. n. 286
del 1998 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo
psico–fisico, non postula necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed
obiettivamente grave che in considerazione dell’età o delle
condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio
psico–fisico deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Trattasi di situazioni di
per sé non di lunga o indeterminabile durata e non aventi
tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si concretano in
eventi traumatici e non prevedibili nella vita del fanciullo che
necessariamente trascendono il normale e comprensibile
disagio del rimpatrio suo o del suo familiare.
Cass. civ., sez. un., sentenza 25 ottobre 2010, n. 21799
Pres. Carbone, Est. Salvago
Titoli di credito – Assegni – Assegno bancario – Rilascio senza
indicazione del nome del prenditore – Invalidità – Esclusione
L’assegno bancario rilasciato senza indicazione del nome
del prenditore non è invalido, ma vale come assegno bancario
al portatore e, di conseguenza, può essere convertito dal
possessore in titolo all’ordine o riempiendolo con il proprio
nome e trasferendolo mediante girata, ovvero riempiendolo
con il nome di un terzo e consegnandogli il titolo.
Cass. civ., sez. I, sentenza 21 ottobre 2010, n. 21644
Pres. Proto, Est. Ragonesi
Vendita – Oggetto del contratto – Vendita di cosa futura – Contratto preliminare di vendita di cosa futura – Distinzione – Effetti
Il contratto preliminare di vendita di cosa futura ha come
contenuto soltanto la stipulazione di un successivo contratto
definitivo e costituisce, pertanto, un contratto in via di for-
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mazione idoneo a produrre, dal momento in cui si perfeziona,
semplici effetti obbligatori preliminari, distinguendosi dal
contratto di vendita di cosa futura che costituisce vicenda
negoziale conchiusa “ab initio” direttamente attributiva dello “ius ad habendam rem” nel momento in cui la cosa venga
ad esistenza giusta il disposto dell’art. 1472 c.c. Tuttavia,
anche se è innegabile che la vendita del bene futuro costituisca
contratto ad effetti obbligatori, piuttosto che reali, in quanto
la sua ricostruzione in termini di vendita soggetta alla “condicio iuris” della venuta ad esistenza della res, non elide il
fatto che, potendo formare oggetto di proprietà o di diritti
reali solo beni già esistenti in natura, la condizione cui essa è
sottoposta ha carattere sospensivo, di talché il trasferimento
non si produce immediatamente, in virtù del puro e semplice
consenso, dirimente, ai fini della distinzione tra le due figure
negoziali, è che, mentre nella vendita di cosa futura non occorre un successivo atto di trasferimento, contenuto del
preliminare di vendita di cosa futura è pur sempre l’obbligazione delle parti di stipulare il successivo contratto definitivo,
obbligazione alla quale può aggiungersi, ove si tratti di cosa
da costruire, quella – a carico del promittente venditore –
avente ad oggetto la realizzazione del bene, obbligazione del
cui adempimento lo stesso risponde secondo la comune disciplina in materia di responsabilità contrattuale.
Cass. civ., sez. III, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21739
Pres. Trifone, Est. Amendola
Vendita – Prezzo – Pagamento – Trasferimento del possesso della
cosa e pagamento del prezzo – Manifestazione di volontà di immediato trasferimento della proprietà in esecuzione di un contratto definitivo di compravendita – Configurabilità – Limiti
Il trasferimento del possesso della cosa ed il pagamento
del prezzo non comportano sempre e necessariamente che le
parti abbiano voluto l’immediato trasferimento della proprietà in esecuzione di un contratto definitivo di compravendita,
ben potendo rappresentare un’esecuzione anticipata di una
futura vendita, da stipularsi in adempimento degli obblighi
assunti in sede di contratto preliminare.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21739
Pres. Trifone, Est. Amendola
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Rassegna di merito
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A cura di Mario de Bellis e Donato Palmieri
Avvocati
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Assistenza sanitaria e farmaceutica – Convenzioni sanitarie e accreditamenti – Giurisdizione civile
Le controversie in materia di concessioni, ad esclusione
di quelle relative ad indennità, canoni ed altri corrispettivi,
per le quali rivive il tradizionale riparto di giurisdizione, e
che, quindi, attenendo alla sfera privatistica -patrimoniale
delle parti, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario,
competente a conoscere i diritti soggettivi derivanti dal rapporto in contestazione.
Trib. Napoli, sez. X civ., ordinanza 29 luglio 2010
Giud. d’Ambrosio
Azione cautelare – Sussistenza requisiti – Aiuti di Stato
In materia di aiuti di Stato si applica la regola secondo cui
il danno patrimoniale, essendo per sua natura ristorabile, non
è di norma irreparabile, né irreversibile. La sospensione
dell’esecuzione e gli altri provvedimenti provvisori possono
essere adottati dal giudice solo se viene dimostrato che la
loro concessione è giustificata a prima vista in fatto e in diritto (fumus boni iuris) e che essi sono necessari per evitare
un danno grave e irreparabile (periculum in mora) agli interessi del richiedente che verrebbe prodotto già prima della
decisione sulla causa principale; il giudice dell’urgenza procede altresì alla ponderazione degli interessi in gioco, verificando altresì quali siano le conseguenze dannose per gli interessi della Comunità europea e se questi possano essere pregiudicati in maniera irreversibile.
Trib. Napoli, sez. feriale, ordinanza 27 settembre 2010
Pres. Cioffi
Decreto ingiuntivo – Condominio
Il ricorso per decreto ingiuntivo non è strumento idoneo
a soddisfare la pretesa creditoria allorquando il creditore
chieda all’amministratore di un condominio la consegna
delle tabelle millesimali e della documentazione comprovante eventuali pagamenti “pro quota” da parte di taluni condomini: in realtà, la prestazione riferibile all’amministratore non
riguarda tanto la consegna della predetta documentazione
“hic et nunc” considerata, in sé oggettivamente non rimettibile in originale a terzi perché indispensabile per un ordinato
svolgimento della vita condominiale (sarebbe quindi possibile solo farne oggetto di estrazione di copia) ma semplicemente l’obbligo dello stesso di conferire al creditore le informazioni ricavabili dalla documentazione in suo possesso,
quanto alle generalità dei condomini (notizia comunque ricavabile a mezzo della consultazione dei pubblici registri
immobiliari) e soprattutto quanto alle quote millesimali di
spettanza di ciascun condomino.
Trib. Napoli, sez. III civ., decreto 08 luglio 2010
Giud. Troncone
Fideiussione – Garanzia – Escussione – Exceptio doli
In presenza di una pretestuosa escussione di una garanzia
bancaria a prima richiesta, laddove la condotta del beneficiario si appalesi come abusiva-fraudolenta, il garante ha
l’obbligo di proporre l’exceptio doli, nell’ambito dei dovere
di protezione del garantito da possibili abusi del beneficiario,
pena la perdita del diritto di rivalsa.
Trib. Napoli, sez. X civ., ordinanza 08 ottobre 2010
Giud. d’Ambrosio
civile
Gazzetta
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Libertà di stampa – Limiti
Il divieto di ulteriore diffusione o commercializzazione
di un libro già edito incide pur sempre, sotto il profilo effettuale del risultato finale, sulla libertà di stampa e, quindi, pur
non essendo formalmente qualificabile come sequestro, deve
considerarsi del tutto assimilabile a quest’ultimo. L’opinione
contraria si risolverebbe in un aggiramento della finalità
ispiratrice e dello scopo del divieto imposto della norma
costituzionale che, nel contemperamento dei contrapposti
interessi, ha ritenuto prevalente la libertà di manifestazione
e di circolazione del pensiero a mezzo stampa.
Trib. Napoli, sez. X civ., ordinanza 2 novembre 2010
Giud. Magliulo
Spoglio (azione di) – Convivenza
Il convivente, anche se sprovvisto di altro titolo, può agire in sede possessoria, allorché il conflitto tra i due conviven-
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ti si innesti in una situazione caratterizzata da una pregressa
convivenza stabile e duratura, alla presenza di figli nati dalla
relazione non occasionale, dalla condivisione di onere e responsabilità nell’educazione dei figli e nella gestione del mènage in un modo sostanzialmente coincidente con la comunità familiare conseguente ad un’unione anche formalizzata.
Trib. Napoli, sez. feriale, ordinanza 15 ottobre 2010
Giud. d’Ambrosio
Spoglio – Sussistenza
Lo spoglio violento si attua non solo con la violenza
materiale ma che mediante qualsiasi azione con la quale taluni si impossessi dell’altrui cosa o alteri lo stato di fatto in
cui si trova il possessore, in contrasto con la volontà espressa,
o anche presunta, del medesimo.
Trib. Napoli, sez. feriale, ordinanza 15 ottobre 2010
Giud. d’Ambrosio
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
In evidenza
Tribunale di Napoli, sezione X civile,
sentenza 21 ottobre 2010, n. 10683;
Giud. d’Ambrosio
Responsabilità civile – Extracontrattuale – Danni da cose in custodia – Non idonea manutenzione del manto stradale – Obbligo di
custodia gravante sulla P.A. – Responsabilità – Sussistenza
Nel caso di non corretta manutenzione stradale, alla Pubblica amministrazione è applicabile il regime di responsabilità
per danni da cose in custodia stabilito dall’art. 2051 c.c. [1].
Responsabilità civile - Danni - Patrimoniali e non patrimoniali Danno non patrimoniale – Danno biologico e danno morale –
Danno morale – Dolore e sofferenza - Liquidazione autonoma –
Ammissibilità – Duplicazioni risarcitorie – Insussistenza
Il danneggiato da un fatto costituente reato ha diritto al
risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale soggettivo, inteso quale sofferenza o dolore patiti.
Il danno morale non costituisce necessariamente una
componente del danno biologico se la sofferenza non si traduce in forme di degenerazione patologica.
Il danno morale integra nocumento non patrimoniale risarcibile che non costituisce però una autonoma sottocategoria di
danno ma una forma descrittiva di un tipo di pregiudizio [2].
Nota redazionale a cura di Pietro D'alessandro
[1] Tradizionalmente la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni subiti dal cittadino in occasione o durante l’utilizzo di un bene demaniale è
stata ricondotta all’art. 2043 c.c.
[Cass. 27 novembre 2006, n. 25140, Guida al Dir., 2007, 2, 61; Cass., sez. III, 4
giugno 2004, n. 10654, in La responsabilità civile, 2005, 241; Cass., sez. III, 16
giugno 1998, n. 5989, in Danno e resp., 1998, 1093; Cass., sez. III, 24 gennaio
1995, n. 809, in Foro it. Mass., 1995; Cass., 18 settembre 1986, n. 5677, in Foro
it. Mass., 1986]. Più precisamente, per quanto riguarda i danni derivanti da omessa o insufficiente manutenzione, la giurisprudenza, attraverso il richiamo al generale principio del neminem laedere, individuava i limiti che la pubblica amministrazione incontra nell’esercizio del suo potere di disposizione e di vigilanza sul
demanio, in applicazione dei quali essa è tenuta a far sì che non si presenti per
l’utente di un bene demaniale una situazione di pericolo occulto.
Inizialmente il trabocchetto o l’insidia costituivano soltanto indici sintomatici
della responsabilità dell’amministrazione.
In seguito sono divenuti elementi necessari dello stesso fatto dannoso, tanto che la
responsabilità della pubblica amministrazione veniva subordinata alla prova, con
onere a carico del danneggiato, dell’esistenza di una situazione di insidia, cioè di
un pericolo non visibile né prevedibile [Cass., sez. III, 12 novembre 1997, n. 11162,
in Arch. giur. opere pubbl., 1997, 924].
Talvolta, va rilevato, detto principio è stato interpretato in maniera meno rigida
[Cass., sez. III, 8 marzo 2007, n. 5308, in Danno e resp., 2008, 449] nel senso che
le figure dell’insidia o del trabocchetto sono state considerate elementi sintomatici,
la cui assenza non esclude altre ipotesi di responsabilità colposa della medesima.
Secondo diverso indirizzo, la responsabilità della P.A. per omessa o insufficiente
manutenzione della strada va anche inquadrata nella disciplina della responsabilità per cose in custodia prevista dall’art. 2051 c.c., sia pure con la limitazione che
la vigilanza sul bene sia concretamente possibile.
La norma dunque non è stata ritenuta applicabile ai beni demaniali, se la loro estensione territoriale e il loro uso generale e diretto da parte degli utenti non rende possibile una vigilanza idonea ad evitare l’insorgere di situazioni di pericolo [Cass., 26
gennaio 1999, n. 674, in Giust. civ., 1999, 159; Cass., 2 aprile 2004, n. 6515]
Con la conseguenza che la responsabilità è esclusa in presenza anche solo di una
delle due caratteristiche testé enunciate.
La giurisprudenza più recente [ad es. Cass., sez. III, 6 luglio 2006, n. 15384, in
Foro it., 2006, I, 3358] ha invece chiarito che i requisiti della estensione del
bene e dell’uso generale e diretto da parte degli utenti costituiscono meri indici
dell’impossibilità di un controllo concreto sul bene, ma non attestano automaticamente l’impossibilità della custodia.
L’accertamento dell’effettivo e concreto controllo sul bene da parte della pubblica
amministrazione non deve dunque fermarsi all’analisi di alcune peculiarità della
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(Omissis)
Motivi della decisione
La domanda è fondata e va, pertanto, accolta nei termini
di seguito indicati.
È noto che, nell’ipotesi in cui l’utente della strada subisca
danni dovuti all’omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, i referenti normativi ai quali occorre far riferimento, ai fini di un corretto inquadramento della responsabilità in capo alla Pubblica Amministrazione, sono rappresentati da due disposizioni codicistiche: l’art. 2043 c.c. e l’art.
2051 c.c.
Tra i numerosi problemi che il tema solleva, due si sono
posti con particolare evidenza all’attenzione degli operatori
anche per gli evidenti riflessi pratici che essi determinano
soprattutto sul terreno strettamente probatorio: in primo
luogo, se, in tali ipotesi, alla P.A. sia o meno applicabile il
regime di responsabilità per danni da cose in custodia fissato
dal legislatore nell’art. 2051 c.c.; in secondo luogo, quali
siano i caratteri che l’insidia stradale deve presentare per affermare la responsabilità aquiliana della P.A. ai sensi dell’art.
2043 c.c.
Infatti, chi riconduce la tutela del danneggiato in tale
ambito, muove dal rilievo che la P.A. incontra nell’esercizio
del suo potere discrezionale, anche nella vigilanza e nel controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle
norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche
cosa custodita, ma deve fondarsi su un esame di tutte le caratteristiche del bene
[Cass., sez. III, 25 luglio 2008, n. 20427, in Foro it., 2008, I, 3461; Cass., sez.
III, 26 settembre 2006, n. 20823, in Foro it. Mass., 2007, 212; in tema di le
strade urbane: Cass., sez. III, 23 gennaio 2009, n. 1691, in Resp. civ., 2009,
1300; Cass., sez. III, 15 settembre 2008, n. 23680, in Giust. civ. Mass., 2008,
9, 1364; Cass., sez. III, 20 novembre 1998, n. 11749, in Resp. civ. e prev., 1999,
153 ss.: Cass., sez. III, 21 maggio 1996, in Foro it., 1997, I, 1597].
Può aggiungersi che la giurisprudenza chiarisce che qualora non sia applicabile
la disciplina della responsabilità ex art 2051 cc , per impossibilità in concreto
della effettiva custodia, la P.A. risponde comunque dei danni subiti dagli utenti,
secondo la generale regola dell’art 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto [Cass. 8 marzo 2007, n. 5308; Cass.
6 luglio 2006, 15383, in Giust. civ. Mass., 2006, 7-8].
In questo caso il danneggiato ha l’onere di dimostrare la sussistenza di una
anomalia del bene, che va considerata fatto di per se idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A.; mentre su quest’ultima ricade l’onere della prova di fatti impeditivi della propria responsabilità ,
quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere la suddetta anomalia con l’ordinaria diligenza.
[2] Per lungo tempo la giurisprudenza ha affermato che danno patrimoniale e
danno morale costituiscono nozioni distinte; il primo comprendeva ogni conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione
monetaria, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione; il secondo consisteva nella sofferenza interiore e soggettiva.
Si giustificava dunque la doppia liquidazione del danno biologico e del danno
definito morale in base al presupposto che altro fosse l’invalidità biologica causata dalla lesione, altro la sofferenza e il dolore da essa provocati; in sintesi un
doppio pregiudizio dal quale doveva scaturire un doppio risarcimento [Cass. 3
marzo 2000, n. 2367, in Giust. civ. Mass., 2000, 518; Cass. 31 maggio 2003,
nn. 8827 e 8828, in Danno resp., 2003, 816 ss.]
Successivamente, con sentenza dell’11 novembre 2008, n. 26972 [in Gius. civ.,
2009, I, 913] resa a sezioni unite in seguito ad ordinanza 25 febbraio 2008,
n. 4712 [in Foro it., 2008, 5, 1447], la Corte di Cassazione ha stabilito che il
danno non patrimoniale è nozione ampia e omnicomprensiva, che include qualsiasi pregiudizio alla persona non suscettibile di valutazione economica; con la
conseguenza che la liquidazione deve avvenire con valutazione unitaria che comprenda tutte le conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto illecito, ma senza
duplicazioni, e segnatamente senza attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.
In questo senso è ora tutta la giurisprudenza [Cass. 14 settembre 2010, n.
19517, in Dir. e Giust., 2010; Cass. 19 agosto 2009, n. 18356, in Dir. Fam.,
2010, 1, 94; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832, in Giust. civ., 2009, 1622;
Cass. 28 novembre 2008, n. 28423, in Giust. civ. Mass., 2008, 11, 1703].
civile
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e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare
dalla norma primaria e fondamentale del “neminem laedere”
(art. 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far
sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto che dia luogo al c.d. trabocchetto o
insidia stradale.
Chi, al contrario, riconduce la responsabilità della P.A.,
proprietaria di una strada pubblica alla disciplina dell’art.
2051 c.c., assume che la stessa, quale custode del bene pubblico, per esimersi dalla colpa, deve provare che il danno si è
verificato per caso fortuito.
Tale esimente, tuttavia, non è ravvisabile come mera conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato
dell’esistenza dell’insidia, che quest’ultimo, al contrario, non
deve provare, così come non ha l’onere di dimostrare la condotta commissiva od omissiva del custode, essendo sufficiente
che provi l’evento danno ed il nesso di causalità con la cosa.
La Pubblica Amministrazione ha goduto nel corso degli
anni di una posizione di privilegio nei confronti degli utenti,
che le ha permesso di non essere ritenuta responsabile per i
danni prodotti dalle cose in sua custodia, ivi inclusi quelli
relativi alla cattiva manutenzione delle strade.
Fino a quando la giurisprudenza non ha iniziato a ritenere che anche la P.A. fosse tenuta ad osservare norme ed obblighi a tutela dei cittadini ed a riconoscere, in caso di violazione, il principio del neminem laedere ex art. 2043 c. c. una
responsabilità a suo carico, purché il danneggiato avesse
fornito la prova dell’esistenza di un pericolo occulto la c. d.
insidia o trabocchetto. Un’autorevole dottrina ha osservato
come la tendenza generale a considerare la Pubblica Amministrazione - al contrario dei proprietari di beni privati - non
responsabile ai sensi dell’art. 2051 c. c. per i danni derivanti
dai beni in sua custodia, più che da ragioni imposte dalla
norma, parrebbe essere dettata dal timore dei costi eccessivi
che una interpretazione più estensiva potrebbe comportare.
Quindi, la giurisprudenza per decenni ha negato l’applicazione dell’art. 2051 c.c. alle ipotesi di responsabilità civile
extracontrattuale originatesi da beni pubblici demaniali o
patrimoniali, sul presupposto che l’uso generale da parte degli
utenti e la notevole estensione dei beni costituissero condizioni ostative.
Per cui è stata utilizzata la diversa nozione di insidia e
trabocchetto per qualificare la situazione di pericolo occulto
di cui il danneggiato doveva provare l’esistenza per far riconoscere la responsabilità della Pubblica Amministrazione ai
sensi dell’art. 2043 c. c., in applicazione del principio del
neminem laedere.
L’orientamento giurisprudenziale più recente offre un
chiarimento e pone, finalmente, alcuni punti fermi nel dibattito sorto sulla questione: l’essere il bene adibito all’uso generale e la sua notevole estensione non escludono di per sé l’applicabilità dell’art. 2051 c. c. alla Pubblica Amministrazione.
La presunzione di responsabilità sancita dall’articolo 2051
del codice civile è subordinata alla sussistenza del rapporto di
custodia fra la res, fonte del danno, e il soggetto che ha il
possesso o quantomeno la detenzione di essa. In particolare,
perché tale soggetto possa definirsi anche custode è necessario
che egli versi nelle condizioni di esercitare sulla res il potere
di fatto, inteso come governo, controllo e vigilanza ininterrotti sulla cosa, sì da evitare che la stessa possa divenire
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fonte di danno per i terzi. Dunque l’operatività della norma
de qua è strettamente subordinata alla sussistenza di tale intimo rapporto fra il soggetto possessore e la res.
Nell’ipotesi di lesioni riportate dall’utente di una strada
urbana, il danneggiato ha il diritto di essere risarcito, in
quanto nei confronti del Comune trova applicazione la presunzione di responsabilità per danni cagionati da cose in
custodia, a meno che risulti oggettivamente impossibile l’esercizio di un adeguato controllo da parte dell’ente proprietario
(ex multiis, Cass., III sez. civ., sentenza 02.03.2007 n. 4962)
L’estensione della strada e l’uso generale di essa da parte
della collettività rilevano nell’indagine che il giudice è tenuto
a compiere caso per caso per verificare se l’esercizio del potere di controllo e di vigilanza della strada da parte dell’ente che
ne è proprietario sia risultato in concreto possibile, dovendo
altrimenti escludersi il rapporto di custodia e ritenersi inconfigurabile la responsabilità di cui all’articolo 2051 del c.c.
Va detto, però, che, se si tratta di strada comunale all’interno della perimetrazione del centro abitato, la localizzazione della strada è indice della possibilità di vigilanza e controllo costante da parte del comune. (ex multiis, Cass. III sez. civ.
26.09.2006 n. 20823)
Appare, quindi, evidente la consapevolezza dell’ente riguardo gli obblighi discendenti dalla propria figura di custode.
Dal momento che il Comune ha consentito che la collettività usasse la strada per pubblico transito era, anche, tenuto
ad assicurare a tutti gli utenti l’efficienza e la sicurezza della
sede stradale nonché degli impianti accessori della strada.
La cattiva collocazione della grata per lo scolo delle acque
piovane, posta in via Martiri della Libertà, e la particolare
struttura della medesima grata dimostra non solo la prevedibilità, da parte della P.A., del pericolo per gli utenti della
strada, in particolare per un ciclista, ma dimostra, anche, che
c’era, in concreto, da parte del Comune la possibilità (ma
soprattutto il dovere) di custodia e controllo, poteri che avrebbe potuto esercitare o direttamente o sulla ditta che aveva
l’onere della manutenzione della strada.
Applicando questi principi alla fattispecie de qua, va rilevato che la dinamica del sinistro risulta essere stata precisamente
ricostruita e pienamente confermata dalla prova testimoniale.
Il F. aveva (a norma dell’art.2051) solo l’onere di dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra la cosa in custodia
e il danno arrecato, spettando, invece, al Comune l’onere di
provare il caso fortuito, ossia l’esistenza di fatti straordinari
e imprevedibili in grado di interrompere il nesso causale che
lega l’evento lesivo alla cosa.
Infatti, nell’ipotesi in cui un ciclista subisca danni a causa
di una irregolarità del fondo stradale mentre transita in una
pubblica via comunale, deve ritenersi applicabile all’ente proprietario il regime della responsabilità delle cose in custodia
ex art. 2051 c.c., poiché in tale caso una via posta all’interno
di un abitato, seppure sottoposta ad un uso generale e diretto
da parte dei consociati, non può considerarsi come avente
un’estensione tale da ritenere oggettivamente impossibile l’esercizio di un adeguato controllo da parte della P.A. (ex multiis,
Tribunale di Napoli, sezione 2 civile, sentenza 30.06.2004).
L’attore, non era, quindi, tenuto a dimostrare né ad individuare puntualmente l’intero dispiegarsi del meccanismo
dannoso in tutti i suoi vari processi, rimanendo la prova della causa ignota a carico del Comune.
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
La prova testimoniale ha confermato il fatto nelle circostanze di tempo e di luogo nonchè nelle modalità di verificazione dedotte con l’atto introduttivo del giudizio, ed ha dimostrato che l’attore procedeva regolarmente nel traffico cittadino quando, improvvisamente, a causa della presenza, sulla
sede stradale, di una grata posta in senso perpendicolare a
quello di marcia, finiva con la ruota anteriore della bicicletta
in una fessura della stessa, catapultando al suolo procurandosi lesioni personali.
Ma, soprattutto, le caratteristiche e l’importanza dell’arteria stradale in questione possono ritenersi elementi sufficienti a dimostrare comprovata la possibilità concreta per il Comune (soggetto tenuto innanzitutto alla custodia della strada
ma anche a prevenire situazioni di pericolo per la pubblica
incolumità e per il pubblico transito), di operare un controllo
costante della stessa.
La successiva modifica dello stato dei luoghi, con una
parziale copertura della grata, è la dimostrazione dell’intrinseca pericolosità dell’impianto accessorio.
In ordine al quantum, va rilevato che il c.t.u. designato, pur
ritenendo soddisfatti i criteri cronologico, dell’efficienza quantitativa e dell’adeguatezza qualitativa, ai fini della piena compatibilità tra fatto ed evento dannoso, e pur affermando che
non è prevedibile un miglioramento della situazione clinica, ha
riconosciuto un danno biologico di natura permanente nella
misura del 7% oltre una invalidità temporanea totale di 20 gg,
oltre ad una invalidità temporanea parziale di ulteriori 20 gg
mediamente al 50%, per postumi a carattere permanente rappresentati da “cicatrice lineare alla base della piramide nasale
medio-laterale; cicatrice lineare zigomo di sinisrta; cicatrice
labiale superiore deformante medio-laterale; esiti di frattura
dentale (incisivo inferiore centrale sinistro e incisivo inferiore
laterale sinistro); esiti stabilizzati di frattura delle ossa proprie
del naso con frammenti consolidato in lieve disallineamento”.
In realtà, però, dall’esame dell’elaborato non emerge il
procedimento logico né le tabelle alle quali il consulente tecnico d’ufficio si è richiamato per valutare il danno biologico
residuato nell’infortunato, limitandosi, semplicemente, ad
affermare “dogmaticamente” che il danno è pari al 7%.
In realtà, il danno risulta essere di maggiore rilievo sia per
le sue caratteristiche che per la sua complessità.
Soprattutto, perché il danno alla persona è una categoria
complessa, che, in questi ultimi anni, è stata in continua evoluzione, sebbene, oramai, si possa definitivamente affermare
che l’attuale sistema risarcitorio è basato sul sistema bipolare
(danno patrimoniale e danno non patrimoniale).
Ciò posto, a seguito delle conseguenze dannose alla sua
persona, l’attore ha, innanzitutto, subito ripercussioni di ordine patrimoniale sotto il profilo del danno emergente.
F. A. avrà, infatti, diritto al rimborso delle spese sostenute e di quelle che saranno necessarie in futuro per curare la
sua persona.
Il consulente tecnico d’ufficio ha precisato che il totale
delle spese per la riabilitazione protesica ammontano ad €
2.020,00, alle quali devono aggiungersi quelle ulteriori necessarie per gli spostamenti, gli accertamenti i medicinali ed,
infine, per l’assistenza medico legale prestata dal dott. S. I. in
sede di c.t.u.. Quindi, appare congruo liquidare per tale posta
di danno una somma pari ad € 4.000,00.
In ordine al danno non patrimoniale, va ricordato che le
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Sez.Un. della Cassazione l’11 novembre 2008 (sentenza n.
26972) hanno precisato che le diverse e tradizionali voci che
caratterizzano tale danno non possono essere più specificate
ma devono avere solo una funzione descrittiva.
Esigenze di chiarezza, con riferimento alle ultime indicazioni della Suprema Corte a Sezioni Unite, impongono
un’esposizione semplificata, ma non per questo riduttiva, dei
danni subiti da parte attrice
Il principio, costituzionalmente garantito, del risarcimento del danno integrale della salute (cfr. Corte Cost. 14 giugno
1986 n. 184, e direttamente, i precetti degli artt. 2, 3, 32 Cost.
tra di loro coordinati) esige una attenta e logica valutazione
di tutte le componenti che costituiscono il danno in parola.
I valori, indicati in misura percentuale dal consulente,
possono esprimere l’invalidità ma non le cose che si riescono
ancora a fare, ovvero il modo come si vengono a fare, con
quali disagi ed ancora a quali cose si è costretti a rinunciare.
Questo perché le tabelle infortunistiche di consultazione
corrente, adottate dai consulenti medico-legali, indicano per
determinati esiti soltanto l’invalidità permanente e per giunta
riferita a un individuo astratto, di medie caratteristiche, senza sesso ed età, (né potrebbe essere altrimenti) poiché devono
garantire una validità generale delle stesse.
Nella fattispecie de qua, siamo di fronte ad un individuo
di sesso maschile, di 47 anni al momento dell’infortunio, nel
pieno quindi della sua capacità e vitalità fisica, con condizioni soggettive medie, ovvero con attività dinamico relazionali,
proprie di individui della sua età, che sono certamente diverse, a loro volta, da un soggetto di 10, 15, 70 o 80 anni.
Non stiamo parlando del valore economico del punto
percentuale di danno, in quanto questi è direttamente proporzionale alla sola durata del periodo durante il quale l’infortunato dovrà sopportare le sofferenze derivanti dall’invalidità
da danno biologico.
La corresponsione economica del punto di danno biologico assicura semplicemente il ristoro del danno in rapporto al
periodo statistico lungo il quale, probabilmente, il danneggiato dovrà sopportare la menomazione fisica.
In pratica, se il soggetto deve sopportare le sofferenze da
danno biologico, valutato, ad esempio, come nel nostro caso,
nella misura 7% (secondo il c.t.u., benché a nostro avviso meriterebbe una maggiore considerazione), per 10 anni, questo
danno logicamente vale economicamente meno, visto che la
persona ha vissuto gran parte della sua esistenza senza le sofferenze ad esso collegate; mentre se, come nel nostro caso, l’infortunato dovrà sopportare i disagi della menomazione per almeno
altri 30-35 anni, il danno biologico ha, necessariamente, un
valore economico certamente maggiore, solo per un fattore
temporale legato al mancato godimento del bene salute.
Non vi è quindi nessuna correlazione diretta tra il maggior
valore economico del punto di danno biologico in giovane età
e il maggiore disturbo che il danno biologico ha sulle attività
quotidiane e dinamico relazionali in un individuo in tale periodo della vita.
Non si può, però, non considerare che le attività dinamico
relazionali (medie) in un (qualsiasi) soggetto di 47 anni ricoprono quasi l’intero arco della giornata che l’infortunato non
trascorre dormendo, mentre, per esempio, in un ultrasettantenne - per il quale si sarebbe, comunque, assegnato, un valore di danno biologico pari al 7%, inteso semplicemente come
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la lesione all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di
accertamento medico-legale – sono gli atti del vivere comuni
a tutti che si estendono per gran parte della sua giornata.
Non meno importanti, nella valutazione complessiva delle
conseguenze dannose subite da F. A., sono gli ulteriori aspetti negativi rivolti alla psicologia del soggetto infortunato per
effetto del danno estetico residuatogli, che lo farà sentire, per
sempre, colpito nella componente più immediata ed espressiva
della propria vitalità: l’immagine della propria figura.
Questa è prospettiva particolarmente penosa in una società, come la nostra, che giustamente attribuisce un significato
prioritario al benessere vitale ed alla integrità psico-fisica.
Viviamo, però, anche, nella società dell’apparire che privilegia o, comunque, facilita l’affermazione e l’accettazione
dell’individuo quanto più gradevole è il suo aspetto esteriore.
Il suo danno estetico è rappresentato da una serie di rilevanti esiti cicatriziali alla base della piramide nasale, allo zigomo ed al labbro, facilmente percepibili “a distanza di
conversazione”.
La lesione dell’integrità fisica e psichica ha, quindi, altresì, alterato l’aspetto esteriore della sua persona pregiudicandola nei rapporti interpersonali, incidendo in modo negativo
sulla sua vita affettiva e relazionale.
Se il c.d. danno estetico deve rientrare in quello biologico,
allora, è necessario considerare la compromissione estetica
nella valutazione di tale danno, al fine di una corretta personalizzazione (ex multiis, Cass. III sez. civ. 22.04.2009 n°9549).
In pratica si deve valutare il danno psico-fisico secondo le
caratteristiche psico-fisiche del danneggiato.
Quindi è chiaro che le tabelle non sono altro che il parametro guida a cui rifarsi nella valutazione del danno biologico.
Partendo dalle tabelle, valutate tutte le caratteristiche del
danneggiato e l’incidenza che le lesioni menomazioni hanno
su di esso, e senza tener conto di particolari aspetti dinamico
relazionali personali, poi si arriva alla percentualizzazione del
danno biologico.
Quindi, in conclusione, il medico legale doveva valutare
il danno biologico secondo le caratteristiche psico-fisiche del
danneggiato che sono fondamentalmente età e sesso e non più
come accadeva sinora, semplicemente valutando il danno
all’integrità psico-fisica della persona in senso lato.
Si è passati, finalmente, da una visione astratta ad una
visione più concreta di quello che è il danno biologico.
Prima ancora, però, di passare a specificare l’ammontare
della richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale
occorre spendere due parole di commento sulla recente sentenza delle Sez. Un. della Cass. 26972/2008, che avrebbe
evidenziato come, nei casi di lesioni personali, ogni pregiudizio non pecuniario andrebbe ricondotto all’interno del danno
biologico.
Ovvero tale danno, secondo l’opinione dei primi commentatori fautori di una politica restrittiva dei risarcimenti, non
si cumulerebbe a quello morale.
Tale assunto contrasta apertamente contro la prassi giudiziaria vigente da oltre vent’anni e sino ad oggi pacifica,
secondo cui nei casi di lesioni all’integrità psico-fisica, il risarcimento integrale si realizza attraverso la liquidazione del
danno non patrimoniale nella sua interezza costituito, principalmente, dalle due componenti del danno biologico e del
danno morale (vedi tra tutte Cass. III sez., 31 maggio 2003,
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n. 8827, peraltro richiamata dalla stessa sentenza delle Sez.
Un.). In realtà, l’interpretazione restrittiva sulla figura del
danno morale oltre ad andare controcorrente con tutta una
serie di sentenze della medesima Corte, entra in contraddizione anche con alcuni passaggi della stessa sentenza, nella
quale, i Giudici delle Sez. Un., avrebbero espresso queste affermazioni al solo caso in cui siano “dedotte” dal danneggiato “degenerazioni patologiche della sofferenza”.
Nel caso in oggetto, F. A. ha riportato lesioni (7% d.b.,
come da c.t.u.) derivate da un fatto costituente reato ed indiscusso come tale in sede di causa; pertanto, secondo il combinato degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., l’effettivo ed integrale
ristoro della sofferenza morale subita deve essere assicurato
nella sua massima ampiezza.
In relazione alla valutazione di quel particolare aspetto
del danno non patrimoniale rappresentato dal danno morale
soggettivo, come sofferenza e dolore, una volta considerati il
fatto reato, il tempo della inabilità e le caratteristiche della
lesione, resta fermo il divieto dell’automatismo anche per la
liquidazione delle micropermanenti e dei danni morali consequenziali, che restano estranei alla definizione complessa del
danno biologico(Cass. 20.05.2009 sent. n. 11701).
Nella valutazione di tale sofferenza morale, non vi è alcun
rischio di duplicazione di risarcimento né di commistione con
il c.d. danno biologico, così come paventato nella succitata
sentenza delle Sezioni Unite della S.C., in quanto il c.t.u., è
stato ben chiaro nell’inquadrare nell’esame obiettivo i postumi
che condizionano tutt’ora la vita del soggetto infortunato.
Nella descrizione del trauma e dei rilevanti esiti cicatriziali non
v’è alcuna traccia di quella degenerazione patologica della
sofferenza che, sempre secondo la miliare sentenza delle Sez.
Un., potrebbe essere ricondotta all’interno del danno biologico
in una anche se parziale, duplicazione di risarcimento.
La sofferenza per la perdita della salute, per la perdita
della validità o gradevolezza del proprio aspetto fisico, per la
minore stima da parte dei propri amici a causa della ridotta
efficienza fisica, soprattutto se causate dall’altrui atto illecito,
costituiscono altrettante gravi violazioni di altrettanti diritti
costituzionalmente protetti.
Il danno morale dunque deriva dalla lesione di diritti tutelati a livello di costituzione. Integra nocumento non patrimoniale risarcibile. Non è, però, una autonoma sottocategoria di
danno ma una formula descrittiva di un tipo di pregiudizio.
“La sfera dell’integrità morale (artt.2 e 3 Cost. come dignità e pari dignità) è ontologicamente diversa dalla sfera
individuale della salute (art.32 Cost.), ma non è di minor
valore risarcitorio, posto che la Costituzione non prevede il
maggior valore della salute rispetto alla menomazione della
sfera morale (Cass., III sez. civ., 10. marzo 2008, n. 6288).
Ragion per cui, “nella valutazione del danno morale contestuale alla lesione del diritto alla salute, la valutazione di
tale voce, dotata di logica autonomia in relazione alla diversità
del bene protetto, che pure attiene ad un diritto inviolabile
della persona (la sua integrità morale: art.2 della Costituzione
in relazione all’art.1 della Carta di Nizza, che il Trattato di
Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008 n.190,
collocando la Dignità umana come la massima espressione
della sua integrità morale e biologica) deve tener conto delle
condizioni soggettive della persona umana e della gravità del
fatto, senza che possa considerarsi il valore della integrità
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
morale una quota minore del danno alla salute (Cass. 19 agosto
2003 n.12124; Cass. 27 giugno 2007 n.14846, tra le più significative vedi ora Sez. Un. 11 novembre 2008 n.26972 – punto
2. 10). (Cass. III Sez. civ., sent. 12 dicembre 2008 n. 29191)”.
D’altra parte, recentemente, anche il Legislatore, con il
d.P.R. 37/2009 (normativa inerente il riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero), è intervenuto a sancire
che il danno biologico è diverso da quello morale (vedi art.5
… b) la percentuale del danno biologico (DB) è determinata in
base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri applicativi
di cui agli articoli 138, comma 1, e 139, comma 4, del decreto
legislativo 7 settembre 2005, n. 209, e successive modificazioni; c) la determinazione della percentuale del danno morale
(DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre
che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso, in una misura fino a un massimo di
due terzi del valore percentuale del danno biologico).
Infine, l’osservatorio per la giustizia civile di Milano ha depositato, in data 22 maggio 2009, le nuove tabelle “2009” per
la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione
alla integrità psico-fisica e dalla perdita del rapporto parentale.
2 0 1 0
49
Il tavolo dei lavori, preso atto della inadeguatezza dei
valori monetati utilizzati nella liquidazione del cd. danno
biologico, alla luce dei nuovi principi espressi dalle Sezioni
Unite, propone la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità
psicofisica della persona suscettibile di accertamento medicolegale”, sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali
medi ovvero peculiari e del danno non patrimoniale conseguente alle medesimi lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un
dato tipo di lesione.
Alla luce di quanto precede, il Tribunale, pertanto, accoglie la domanda nei confronti del Comune di Napoli., in
persona del legale rappresentante p.t., e, per l’effetto, condanna il Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante
pro tempore, al risarcimento di tutti i danni patiti dall’attore
(danno biologico, ITT, ITP, danno morale, spese mediche,
danni patrimoniali), quantificati in € 30.000,00, oltre interessi e svalutazione monetaria dal giorno della domanda
all’effettivo soddisfo nonché spese di CTU.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da
dispositivo.
(Omissis)
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
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In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, sezione lavoro,
sentenza 26 maggio 2010, n. 14458;
Est. Sarno
Licenziamento disciplinare – Tempestività della contestazione –
Giusta causa: Sindacato
In tema di adozione di provvedimento disciplinare la
contestazione dell’addebito deve essere immediata rispetto
al verificarsi dell’evento e della sua conoscenza. Giusta
causa:onere probatorio in capo al datore di lavoro. Valutazione e sindacato del giudice di merito [1].
(Omissis)
Motivi della decisione
La domanda avanzata dal ricorrente è infondata e va rigettata.
In primo luogo va disattesa l’eccezione di tardività della
contestazione disciplinare.
Il giudizio sulla immediatezza della contestazione che
deve essere valutata sempre in rapporto alla complessità
dell’organizzazione aziendale ed al tempo necessario per gli
accertamenti del caso, nei limiti dei principi di correttezza e
buona fede, non può prescindere dal momento in cui il datore di lavoro sia venuto a conoscenza della riprovevole condotta del dirigente.
Risulta accertato che la T. sia venuta a conoscenza dei
fatti contestati al ricorrente a seguito di un controllo a campione espletato dalla Direzione del Personale sui dipendenti che
autocertificavano le proprie presenze in base al sistema RPA.
Invero, la circostanza che i controlli consentiti nel raffrontare i dati di rilevazione presenze risultanti dal sistema RPA
– collegato ai tornelli posti all’entrata e all’uscita delle sedi
aziendali – e i dati inseriti dai lavoratori nel sistema RPA
siano stati effettuati nell’anno 2007, è stato confermato dal
Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo
[1] L’immediatezza della contestazione si configura, nella ipotesi di licenziamento
per giusta causa, quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, quale espressione della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro: non è consentito all’imprenditore-datore di lavoro di
procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del
dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto. La dottrina unanimemente [Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, Giuffrè
385; Fregni-Giugni, Lo statuto dei Lavoratori, Giuffrè; Spagnolo VigoritaFerraro, Commentario dello Statuto dei Lavoratori, diretto da U. Prosperetti,
Giuffrè] ravvede la necessità che la contestazione dell’addebito disciplinare sia
immediata rispetto all’accadimento del fatto o della sua notizia; la giurisprudenza,
soprattutto quella di legittimità, offre una interpretazione più relativistica del
principio, ritenendosi discriminanti, in tal senso, la necessità temporale dell’accertamento e le caratteristiche dell’infrazione stessa [Cass. civ., sez. lav., 10 gennaio
2008, n. 282; Cass. civ., sez. lav., 09 maggio 2007, n. 15334; Cass. civ., sez. lav.,
20 giugno 2006, n. 14115; Cass. civ., sez. lavoro, 11 maggio 2002 n. 6790, Cass.
civ., sez. lav., 18 novembre 2002, n. 16898; Pret. Milano, 31 luglio 1993; Trib.
Milano, 31 maggio 1980]. Il principio dell’immediatezza della contestazione degli
addebiti, infatti, dev’essere applicato con elasticità – tenendo conto, fra l’altro,
della concreta fattispecie, della specifica realtà nella quale si è verificato l’illecito
disciplinare, della complessità delle indagini necessarie e del tempo occorrente per
apprezzarne i risultati, della complessità della struttura organizzativa dell’impresa
– con la conseguenza che la valutazione, in ordine al rispetto dello stesso principio,
si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito e, come tale,
non è sindacabile, in sede di legittimità, se sorretta da motivazione congrua ed
immune da vizi logici (Cass. civ., sez. lav., 20 luglio 2004, n. 13482).
Con riferimento alla giusta causa, quale presupposto della irrogazione della sanzione disciplinare, va evidenziato che dottrina prevalente [Pera, La Cessazione del
rapporto di Lavoro, Padova, Ballestrero, I licenziamenti, F. Angeli, Mazziotti,
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teste Claudio M.. Quest’ultimo superiore gerarchico del C.L.
ha riferito di non aver mai verificato gli orari di lavoro di
ciascun dipendente ma di aver controllato l’avanzamento dei
gruppi di lavoro nello svolgimento dell’attività lavorativa. In
sostanza Claudio M. autorizzava un numero di ore di straordinario per un gruppo lavorativo e poi controllava “se complessivamente quel gruppo aveva effettuato le ore di straordinario autorizzato”.
Inoltre il teste M. ha precisato “il sistema R.P.A veniva
utilizzato per predisporre le buste paga dei lavoratori e non si
interfacciava con i dati rilevati dal sistema di accesso ai tornelli.
Personalmente non controllavo la corrispondenza tra i
dati risultanti dalle marcature di entrata e di uscita dei tornelli e quelli inseriti dai dipendenti in R.P.A. D’altronde non
avevo accesso ai dati relativi alle marcature di entrata e di
uscita. In qualità di responsabile sollecitavo i coordinatori ad
inserire correttamente i dati in R.P.A ed a controllare i lavoratori che coordinavano in quanto doveva essere monitorato
il reale orario di ingresso e di uscita. Il coordinatore doveva
controllare l’orario di ingresso nella sede di lavoro inserito in
R.P.A, e l’orario di effettivo inizio attività lavorativa”.
Anche il teste C. ha confermato che, a prescindere dalla
possibilità per ogni singolo dipendente di verificare i propri
orari di entrata e di uscita eccedendo ad un link della rete di
intranet, solo il reparto “Risorse Umane”, ovvero l’Ufficio del
Personale, poteva accedere alle timbrature di tutti i dipendenti.
In sostanza dunque, prima da un controllo a campione
effettuato nell’anno 2007 proprio dall’Ufficio del Personale
non era possibile che il superiore gerarchico del C.L. nella
specie, il M., potesse accorgersi dell’effettivo scostamento tra
gli orari di entrata ed uscita risultanti dalle marcature ai
tornelli di ingresso e gli orari risultanti dal sistema RPA autocertificati dallo stesso C.L..
D’altronde con lo stesso badge i dipendenti T. potevano
accedere a tutti gli uffici in Italia della T., e come è emerso
Forma e procedure dei licenziamenti, in La disciplina dei licenziamenti a cura di
Carinci], ravvede il suo verificarsi anche fatti estranei al rapporto contrattuale
esistente, comunque idonei a far venir meno la natura fiduciaria tra il datore di
lavoro ed il prestatore di lavoro. L’operazione valutativa compiuta dal giudice di
merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c. non sfugge
ad una verifica in sede di giudizio di legittimità [ex multis, Cass. civ., sez. lav., 13
agosto 2008, n. 21575, Pizzuti P., nota a Cass., sez. lav., 15 aprile 2005, n. 7838,
in Mass. Giur. Lav., 2005, 11, 847], salvo che sia sorretto da adeguata e logica
motivazione. Segnatamente, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità
del licenziamento deve comunque verificare l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore, anche se la disciplina collettiva preveda un determinato
comportamento come giusta causa giustificato motivo soggettivo di recesso Cass.
civ., sez. lav., 18 gennaio 2007, n. 1095), e valutare la proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato (Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2006,
n. 24349). La sanzione disciplinare, infatti, deve essere proporzionale alla gravità
dei fatti contestati sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore
nell’esercizio del suo potere disciplinare, avuto riguardo alle ragioni che lo hanno
indotto a ritenere grave il comportamento del dipendente, sia da parte del giudice
del merito.
L’art. 5 della legge 15 luglio 1966 n. 604, pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa, quale diretta espressione del
principi sancito dall’art. 2697 c.c. [Vallebona, L’onere della prova nel diritto del
lavoro, Padova; Pera, La Cessazione del rapporto di lavoro, Padova; Cass. civ.,
sez. lav., 16 maggio 2001, n. 6727]. Tuttavia non è necessario che la prova sia
acquisita ad iniziativa o per il tramite del datore di lavoro, potendo il giudice
porre a fondamento della decisione gli elementi di prova comunque ritualmente
acquisiti al processo, anche ad iniziativa di altre parti (compreso il lavoratore licenziato) oppure d’ufficio, e il relativo accertamento dei fatti e della loro gravità,
riservato al giudice di merito, è sindacabile in sede di legittimità solo per vizio di
motivazione, che non può consistere in una diversa ricostruzione dei medesimi
fatti (Cass. civ., sez. lav., 28 ottobre 2003, n. 16213).
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dalle testimonianze, i computer erano tutti in rete, sia quelli
di Napoli che quelli delle altre sedi in Italia in quanto accedevano ad un unico server in cui confluivano i dati relativi agli
orari di entrata e di uscita dei lavoratori. È dunque evidente
che il sistema RPA in quanto idoneo a registrare, oltre agli
orari effettivi di lavoro svolto, anche i dati relativi alle prestazioni accessorie rese dai dipendenti, veniva utilizzato per
predisporre mensilmente le buste paga, proprio al fine di tener
conto delle prestazioni accessorie rese, ovvero del lavoro
straordinario svolto e dei giorni di ferie e di malattia fruiti.
Il sistema RPA era dunque più snello ed anche più fedele
alle prestazioni lavorative effettivamente rese, ma presupponeva il corretto e puntuale inserimento dei dati reali da parte
degli stessi lavoratori.
I testi hanno infatti chiarito che se nulla veniva inserito
dal lavoratore nel sistema RPA si considerava automaticamente effettuata la giornata lavorativa standard di 7 ore e 38
minuti. Dunque la presenza giornaliera era data per scontata,
mentre riconosciuto e pagato lo straordinario da loro stesso
inserito o si teneva conto della fruizione di giornate di malattia e/o di ferie come autocertificato dai dipendenti.
Orbene è evidente che il sistema si fondava proprio sulla
fiducia risposta dal datore di lavoro nei propri dipendenti che
autocertificavano le prestazioni accessorie. La circostanza che
non quotidianamente ma solo occasionalmente venissero effettuati dei controlli a campione per verificare la veridicità dei
dati inseriti in RPA non è per nulla contrario ai principi di
correttezza e buona fede cui è tenuto il datore di lavoro. D’altronde se fosse stato possibile verificare con immediatezza
eventuali prestazioni accessorie rese dai singoli lavoratori, non
avrebbe avuto ragione di esistere il sistema RPA che permetteva, agli stessi dipendenti di segnalare le prestazioni di cui il
datore di lavoro doveva tener conto per predisporre le buste
paga, lo si ripete l’orario lavorativo standard veniva dato per
scontato dall’ azienda e non verificato quotidianamente. È
evidente che di tale circostanza fossero a conoscenza i lavoratori quando autocertificavano le prestazioni accessori rese,
inserendo i dati nel sistema RPA.
Tanto permesso è evidente che, tenuto conto del momento
in cui, all’esito dell’ispezione a campione, il datore di lavoro
sia venuto a conoscenza della condotta disciplinare rilevante
del C.L. anno 2007 la contestazione disciplinare, non possa
considerata tardiva.
In tale linea argomentativi si pone anche la Suprema Corte nella sentenza n. 13167 del 08/06/2009, in cui si precisa che
in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’
immediatezza della contestazione che trovava fondamento
nell’art. 7, terzo e quarto comma legge 20 maggio 1970, n.
300, deve essere inteso in una accezione relativa, dovendo
tener conto del tempo necessario al datore di lavoro che nei
limiti dei doveri di correttezza e buona fede debba accertare
con precisione ed esattezza le infrazioni commesse dal lavoratore. In sostanza la Suprema Corte ha posto l’accento sulla
necessità per il giudice di valutare il comportamento tenuto
dal datore di lavoro nell’accertamento dei fatti rilevanti disciplinarmente alla stregua degli artt. 1375 e 1175 c.c. Si legge
infatti testualmente nel corpo della sentenza summenzionata
che è da considerare prevalente il diritto del lavoratore ad una
pronta ed effettiva difesa:nel caso in cui il datore di lavoro
rinvii la contestazione al fine di utilizzare l’eventuale reitera-
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zione dell’infrazione come elemento di maggiore gravità per
l’irrogazione della sanzione; parimenti quando il datore a
causa di sue carenze organizzative o di sue colpose omissioni,
ritardi indebitamente la contestazione disciplinare.
Tanto permesso nel caso che ci si occupa come peraltro in
ogni ipotesi di licenziamento disciplinare, occorre accertare
se sussista il fatto addebitato al lavoratore nei suoi estremi
oggettivi e soggettivi e se esso costituisca idonea causa di risoluzione del rapporto di lavoro.
Incombe sul datore di lavoro l’ onere di fornire la prova
in ordine alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento (art. 5 della L. 15.7.66 n. 604)
in ogni suo estremo oggettivo e soggettivo.
In particolare, va accertato se il fatto contestato specificatamente dal datore di lavoro a C.L., trovi confronto negli
assunti elementi o fonti materiali di prova, intesi come strumenti gnoseologici ritualmente introdotti nel procedimento
(dichiarazioni testimoniali, espressioni contenuti in documenti, presunzioni semplici) ed utilizzabili dal giudicante per
fondare il suo prudente convincimento in ordine alla sussistenza del fatto.
Non è sufficiente per ritenere legittimo il licenziamento
che si abbiano dubbi sull’innocenza del prevenuto atteso che,
ove all’esito del processo risulti anche solo incerta la prova di
un fatto rilevante, soccorre la formale regola di giudizio di cui
all’art. 2697 c.c..
Orbene agli episodi contestati al ricorrente sono indicati
in modo preciso e puntuale nella lettera di contestazione degli
addebiti e risultano altresì fondati sulla documentazione prodotta in giudizio dalla società convenuta datrice di lavoro.
Nella lettera di contestazione disciplinare datata
18.04.2007 ed inviata dalla T. I. S.p.a al C.L. si legge: “all’esito di verifiche recentemente ultimate sulle presenze in servizio
e sull’ orario di lavoro svolto dal personale a dal loro raffronto con gli orari riportati sulla procedura amministrativa RPA
sulla quale Lei, in virtù della sua posizione di team leader
nell’ambito della funzione CCA/SMMNA, opera direttamente tramite apposita password, approvando, le prestazioni accessorie del personale da lei gestito (Compre sue), senza ulteriori avalli/e/o controlli da parte dei Superiori gerarchici sono
emerse alcune evidenti discrepanze. In particolare è risultato
che sulla procedura amministrativa RPA lei si è imputato ed
auto-approvato un orario di lavoro diverso a quello effettivamente svolto e risultante dalle sue timbrature giornaliere di
attestazioni delle presenze, a copertura anche ai fini retributivi in buste paga di ore/giorni di assenza ingiustificata dal
servizio, ovvero con il conseguente indebito riconoscimento
a suo favore di prestazioni di lavoro straordinarie non dovute.
Quanto sopra si è verificato nei giorni, negli orari e secondo
le modalità di seguito riportare in dettaglio”…
Segue una tabella in cui vengono riportati per ciascuna
delle giornate lavorative indicate gli orari di timbratura in entrata e in uscita, la prestazione oraria inserita in RPA ed infine
le ore di lavoro risultanti non lavorate, ma inserite in RPA.
Nella lettera di contestazione si legge ancora “nell’ambito
degli stessi accertamenti è inoltre emerso che Lei sempre nella sua posizione T. Leader ha indebitamente approvato sul
sistema RPA prestazioni straordinarie superiori a quelle effettivamente svolte dai suoi collaboratori L. M. e D” e risultanti dalle loro timbrature giornaliere di attestazione delle pre-
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senze, con il conseguente indebito riconoscimento a loro favore di prestazioni straordinarie non dovute.
Segue anche qui una tabella che riporta specifiche giornate lavorative in cui si ravvisano discrepanze negli orari di lavoro osservato dai lavoratori L. e D..
In conclusioni la T. s.p.a ha contestato all’istante l’ inosservanza dell’ orario contrattuale e le conseguenti ore/giornate di assenza ingiustificata dal servizio (pari a 142 h e 36)
regolarmente retribuite nonché l’auto approvazione tramite la
procedura RPA di ore di prestazioni di lavoro straordinario
non effettuate e quindi non dovute pari a complessive 95h e
5m, con conseguente indebito pagamento del corrispettivo in
busta paga. Inoltre è stata contestata al ricorrente l’approvazione in favore dei suoi collaboratori di prestazioni di lavoro
straordinario non effettuato e dunque l’ arbitrario utilizzo
della posizione di T. Leader in virtù della quale il C.L. ha
operato sulla procedura amministrativa RPA.
Il lavoratore, nella lettera di giustificazione si è difeso
eccependo preliminarmente la tardività dell’ avvenuta contestazione di fatti addebitati e nel, merito ha sostenuti che le
discrepanze rilevate in ordine agli orari di lavoro fossero da
ascrivere ad anomalie del funzionamento della scheda magnetica / badge nonché ai numerosi spostamenti da egli stesso
effettuati per motivi di lavoro dagli uffici T. ai luoghi in cui
sono ubicate la T. e la F.
Ha negato comunque l’istante di essersi auto attribuito
orari di lavoro superiori a quelli resi ed ha evidenziato che il
riconoscimento delle ore di lavoro straordinario svolto dai
collaboratori L. e D. fosse avvenuto sulla scorta di un’autorizzazione manifestata verbalmente dai superiori gerarchici.
Orbene, dalla documentazione acquisita in giudizio, nonché all’esito della istruttoria testimoniale è emerso che non risultano anomalie del sistema di rilevazione dell’orario di entrata e di uscita tramite badge magnetico presso la sede T. di
Napoli neanche, è stato dimostrato che nei giorni specificatamente indicati nella lettera di contestazione il ricorrente si sia
effettivamente recato presso altre sedi esterne agli uffici T..
In sostanza come meglio si andrà ad evidenziare gli orari
di lavoro inseriti autonomamente dal ricorrente nel sistema
RPA (rilevazioni prestazioni accessorie) non corrispondono a
quelli rilevanti dalla lettura del badge magnetico utilizzato
dallo stesso C.L. per oltrepassare i tornelli in entrata e uscita
delle sedi T. e le discrasie, tutte a vantaggio del lavoratore,
non trovano alcuna plausibile giustificazione.
Lo stesso ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio ha
dedotto che la procedura di rilevazione prestazioni accessorie
(denominata R.P.A.) è una procedura quotidianamente aggiornata nella quale viene inserito il codice associato al proprio turno di lavoro con l’indicazione di eventuali ore di
straordinario svolto e di spese sostenute, quali pedaggi autostradali, scontrini dei taxi, ricevute fiscali in caso di pasto
fuori dal comune di Napoli, fatture dell’albergo in casi di
pernottamento fuori sede, suffragate da supporto cartaceo.
Il C.L. ha inoltre sostenuto che le prestazioni accessorie
da lui stesso inserite in R.P.A. fossero autorizzate dal proprio
superiore prima di essere inviate nei dieci giorni successivi
all’ufficio del personale. Tanto non è emerso dalle testimonianze e dalla documentazione depositata in atti.
Orbene in giudizio non è stato depositato alcun documento cartaceo ovvero tabulato informatico, da cui possa evin-
c i v i l e
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cersi che l’orario straordinario svolto dal singolo lavoratore
ed in particolare dal C.L. fosse stato vistato o autorizzato dal
superiore gerarchico che nella specie è C. M..
Quest’ultimo escusso quale teste ha precisato di aver verificato il lavoro complessivamente svolto dal gruppo di lavoro, ma di non aver mai controllato i singoli lavoratori e, tanto
meno il C.L., non potendo verificare la correttezza dei dati
inseriti in R.P.A. da ognuno di essi. Ha infatti chiarito il teste:
“all’epoca dei fatti di causa (anno 2007), i lavoratori disponevano di un badge magnetico per poter attraversare i tornelli posti all’entrata della sede lavorativa. Il badge veniva timbrato anche in uscita. I dati relativi agli orari di entrata e di
uscita dei dipendenti venivano pertanto memorizzati dal sistema rilevazione presenze. Per la predisposizione delle buste
paga e dunque per la rilevazione dei turni lavorativi, delle
ferie, delle festività, delle malattie, delle ore di straordinario,
vi era il sistema R.P.A. Erano gli stessi dipendenti che inserivano in rete i dati relativi alle ore di lavoro svolto quotidianamente, ovvero i dati relativi ad eventuali trasferte o assenze,
o straordinario etc. I lavoratori dovevano dunque inserire
detti dati, il coordinatore approvava. Il coordinatore autoconvalidava i dati da lui stesso inseriti in R.P.A.. Personalmente
verificavo ogni 10 gg. il lavoro straordinario posto in essere
dai dipendenti controllando l’avanzamento dei singoli gruppi
di lavoro tra cui vi era anche quello coordinato dal C.L.. Sapevo quali erano le ore di lavoro straordinario preventivamente autorizzato, poi monitoravo settimanalmente oppure ogni
10 gg. se era stato effettuato lo straordinario autorizzato. Non
mi risultavano con riguardo al reparto Mass Market delle
differenze tra l’orario straordinario autorizzato e quello che
effettivamente era stato dichiarato in R.P.A. Controllavo
l’avanzamento dei singoli gruppi, non controllavo i singoli
lavoratori. In sostanza autorizzavo un numero di ore di straordinario per un gruppo lavorativo; poi controllavo se complessivamente quel gruppo aveva effettuato le ore di straordinario autorizzato”.
In sostanza non veniva convalidato o preventivamente
autorizzato un orario di lavoro straordinario per ogni singolo
lavoratore, sicchè neanche il M., superiore gerarchico del C.L.,
conosceva l’esatto numero di ore lavorate per ogni singola
giornata da parte di ciascun dipendente.
Va peraltro evidenziato che gli orari di lavoro inseriti
nella procedura RPA non potevano evidentemente e logicamente essere superiori a quelli emessi dal sistema rilevazione
orari di entrata e uscita a mezzo badge magnetico.
In sostanza, come chiarito anche dal teste M. “all’entrata
degli edifici della T. che si trovano ubicati in Napoli al Centro
Direzionale, vi sono delle batterie di tornelli.
Viene poggiato sul lettore un badge da parte del lavoratore e se il badge risulta abilitato, viene permesso l’ingresso al
dipendente o al visitatore. Da un server che recepisce le informazioni, risulta a che ora è stato letto il badge sicchè si può
risalire all’ora di entrata o di uscita del titolare del badge…
Il server dal quale risultano gli orari di entrata e di uscita
dei dipendenti è unico in tutta Italia e per tutte le sedi T. …”.
Ha inoltre aggiunto il teste: “Mi risulta, per quanto posso
sapere, che i dati di coloro che passano attraverso uno dei tornelli con un badge vengono inseriti immediatamente nel server.
Comunque, in caso di guasto il tornello si blocca e non
permette il passaggio. Normalmente sul display del tornello,
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quando entra il dipendente con il proprio badge risulta nome
e cognome e matricola dello stesso, ovvero la parola “registrato”. Anche se appare la parola “registrato” o “accettato”
comunque dal server risulta l’orario di entrata o di uscita …
Non so se nell’agosto 2007 ci sia stato un guasto al sistema
dei tornelli. Potrebbe essere capitato. Se c’è un guasto nel sistema dei badge vi sono degli uffici deputati a risolvere i
guasti. Comunque, che io sappia, tutti i dati vengono recuperati anche in caso di guasto…”.
La circostanza che, all’epoca dei fatti oggetto di contestazione disciplinare, tutti lavoratori, anche quelli che utilizzavano il sistema R.P.A., dovessero entrare con il badge magnetico negli uffici T. è stata confermata anche dal teste P. A.,
alle dipendenze della convenuta con mansioni di impiegato,
il quale ha precisato: “Conosco il ricorrente in quanto ho lavorato insieme a lui nel reparto Mass Market (reparto che si
occupava di analisi dei guasti ed assistenza tecnica). Il C.L.
era team leader, ovvero il coordinatore del reparto. Credo che
più o meno dal 2002 sino al 2007 ho lavorato con il C.L..
All’entrata dell’edificio in cui lavoravamo sia io che il ricorrente vi sono dei tornelli, la cui sbarra si apre quando avviciniamo il badge al lettore. Sul display del tornello si legge il
nostro nome e cognome quando si apre la sbarra di entrata.
Attualmente, da circa uno o due anni, vi è in sistema di lettura dei dati, sicchè quando entriamo a mezzo badge, l’orario
di entrata e il nominativo del dipendente risulta inserito in un
server. Prima dell’attuale sistema si utilizzava sempre il badge
per entrare nell’edificio, poi noi dipendenti per effettuare il
sistema di rilevazione presenze, controllavamo gli orari di
timbratura del badge sul nostro computer personale…”.
Il teste ha inoltre evidenziato che i dati (orari di entrata,uscita,
orari di pausa, permessi, ferie etc.) inseriti in R.P.A. a fine
giornata lavorativa venivano inviati ogni 10 gg. al responsabile per la convalida. Ha poi aggiunto il teste: “Credo che il responsabile controllasse quanto da noi dichiarato. Non so come
il responsabile controllava la RPA…Il C.L. era coordinatore
del reparto. Era il C.L. ad organizzare la giornata lavorativa
del reparto Mass Market, formato da circa 15 dipendenti
(oggi siamo solo 4 dipendenti nel reparto che prima era Mass
Market). L’organizzazione avveniva sulla base delle disposizioni date dal responsabile aziendale, tal Claudio M.. Preciso che
il reparto Mass Market era composto da quattro dipendenti
oltre il C.L., quando quest’ultimo è stato licenziato. I dipendenti erano 4 da circa un paio di anni”.
Da quanto emerge era dunque il C.L. a dover controllare
il lavoro svolto dai dipendenti del reparto Mass Market. Tanto peraltro, trova conferma nelle dichiarazioni rese da C. M.,
anch’egli coordinatore del reparto Mass Market di Potenza,
il quale ha riferito: “…Nell’unità di Potenza vi era il sistema
RPA. Ogni collaboratore doveva dichiarare di aver lavorato
le 7 ore e 38 minuti di lavoro giornaliero quotidiano, specificando l’attività svolta. Ogni attività era contrassegnata da un
codice. Se il dipendente era stato da me autorizzato a svolgere lo straordinario, digitava in RPA le ore di straordinario
effettivamente svolte. In caso di assenza il lavoratore indicava
in RPA il motivo dell’assenza (malattia, ferie, permesso ore
etc). Ero io che convalidavo le R.P.A. dei collaboratori. Non
avevo sistemi informatici per controllare se il lavoratore avesse o meno dichiarato fedelmente l’orario di lavoro effettuato.
Ero però presente in ufficio e pertanto convalidavo l’orario di
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lavoro straordinario effettuato dal lavoratore poichè lo avevo
autorizzato io stesso. Nella mia sede vedevo lavorare i dipendenti, sicchè sapevo se arrivavano la mattina in orario lavorativo…”. Il teste ha inoltre aggiunto: “Ogni 10 gg. convalidavo le RPA dei collaboratori e autoconvalidavo la mia RPA.
Ogni lavoratore, dalla sua postazione accedeva al programma
RPA, inseriva i suoi dati, poi io, dalla mia postazione, entravo in RPA e convalidavo quello che dichiaravano i lavoratori.
Poi i dati inseriti in RPA automaticamente interfacciavano con
un altro sistema che io non conosco. Da quest’ultimo sistema
venivano elaborate le buste paga”.
Le dichiarazioni appena riportate confermano dunque che
il sistema RPA veniva utilizzato per la predisposizione delle
buste paga e che la convalida dell’orario concretamente posto
in essere veniva resa dal coordinatore del reparto in base agli
orari di presenza in ufficio del personale verificati di persona.
Anche il teste P. ha confermato che ogni dipendente è in
possesso di un badge magnetico per poter accedere ed uscire
dai locali aziendali attraverso i tornelli e che il sistema RPA
sia una procedura utilizzata per verificare eventuali prestazioni accessorie rese dai dipendenti.
Il teste L. T., che apparteneva al gruppo dei lavoratori
coordinati dal C.L. ha confermato che “...L’accesso alla sede
aziendale avveniva a mezzo badge magnetico. L’utilizzo del
badge permette l’apertura dei tornelli. Quando viene inserito
il badge, viene registrato il nome e cognome del lavoratore e
l’orario di entrata e uscita. La procedura R.P.A. veniva utilizzata per la rilevazione di prestazioni accessorie (ad es. lavoro
straordinario). Eravamo noi lavoratori ad inserire nel computer i dati relativi alle prestazioni accessorie. I dati venivano
poi inviati ogni 10 gg. per la convalida ai superiori: suppongo
al C.L. e poi al M.. Sicuramente l’ing. M. era tenuto a convalidare i dati da noi stessi inseriti. Credo che il C.L. verificasse
la veridicità dei dati”.
Tanto premesso va osservato che i dati relativi agli orari
di entrata e di uscita risultanti dalla rilevazione del badge
magnetico risultano pienamente ed oggettivamente affidabili
e non sono assolutamente smentiti da altre fonti di prova o
documenti depositati in atti.
In primo luogo non è emerso che si siano verificati guasti
nel sistema rilevazione degli orari di entrata ed uscita tramite
badge magnetico nel periodo di cui è causa, anzi risulta smentito dalle dichiarazioni testimoniali che la dicitura “accettato”
o “registrato” che può comparire sul display dei tornelli, in
luogo del nome e cognome del dipendente, possa significare
che vi sia un guasto o un errore nel sistema. I testi hanno
confermato che gli orari di entrata e di uscita vengono sempre
inseriti nel server e che, comunque, anche in caso di guasto,
vengono recuperati.
Non è dimostrato che nei giorni in cui il C.L. risulta assente dal posto di lavoro si sia recato in altre sedi T., considerato che anche nelle altre sedi vige il sistema rilevazione presente a mezzo tornelli e che il server in cui confluiscono i
dati di tutta Italia è unico. Ne consegue che se il ricorrente si
fosse recato in altre sedi, ne avrebbe lasciato traccia nel sistema RPA, avendo dovuto utilizzare il proprio badge ai tornelli di entrata e di uscita della sede T. in cui si fosse recato.
Non vi sono documenti o prove testimoniali da cui possa
evincersi che in quei giorni di cui alla contestazione il C.L.
abbia lavorato in altri luoghi (ad es. uffici della F. o T.).
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La circostanza che siano state inviate delle mail dal computer del C.L. in orari incompatibili con le rilevazione delle
presenze tramite badge (tanto risulterebbe in data 24.5.2006)
non ha alcun rilievo, atteso che non è neanche stato allegato
e tantomeno provato che il ricorrente, all’occorrenza e in caso
di necessità, non potesse egli stesso spedire la posta elettronica da un qualsiasi altro computer, magari di casa.
Va inoltre osservato che la circostanza di aver utilizzato
l’auto aziendale in alcune giornate oggetto di contestazione
non ha pregio, atteso che proprio la copia del “modello utilizzo auto sociali” (cfr. allegato n. 1 nella produzione di
parte ricorrente) in cui viene segnato manualmente il nome
del dipendente che utilizza l’autovettura, il modello dell’automobile aziendale adoperata, le giornate e gli orari di utilizzo,
non risulta vidimato, o convalidato da un superiore gerarchico, bensì sottoscritto esclusivamente dallo stesso dipendente.
Al contrario, per quanto già evidenziato sopra, le timbrature
risultanti dal badge magnetico sono affidabili ed oggettive e
non possono essere smentite da orari e date segnate manualmente nel “modello utilizzo auto sociali”.
In sostanza il documento prodotto, in quanto redatto
manualmente dagli stessi dipendenti e non vidimato, o confermato da altri elementi di prova, non riporta dati, orari e
circostanze oggettivamente attendibili.
Affidabile invece, per quanto, già evidenziato è il sistema
RPA di rilevazione presenze a mezzo timbratura del badge
magnetico. Tanto più che, come confermato dai testi, anche
in caso di guasto, il sistema informatizzato permette di recuperare i dati.
Ciò posto va osservato che dalle risultanze documentali è
emerso che il ricorrente nei giorni oggetto di contestazione
abbia inserito in RPA degli orari di lavoro superiori a quelli
effettivamente resi.
Dalle risultanze istruttorie e documentali scaturisce, la
prova dell’attribuibilità al lavoratore ricorrente dell’inserimento di dati erronei in R.P.A.
Era infatti il C.L. che pacificatamene inseriva i propri
dati nel sistema di rilevazione prestazioni accessorie e che
controllava l’attività lavorativa posta in essere dagli operatori del reparto Mass Market.
Non si evincono, dunque, i motivi idonei a giustificare il
comportamento del ricorrente.
Accertata la sussistenza del fatto addebitato e individuata
la natura della violazione commessa dal ricorrente, occorre
considerare, se, alla luce del complesso degli elementi oggettivi e soggettivi emergenti dalla condotta l’addebito rivesta il
carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di
lavoro, tale da giustificare come proporzionata la più affittiva
delle sanzioni disciplinari.
In diritto, la nozione di giusta causa è così espressa in una
massima consolidata dei giudici di legittimità: “Per stabilire
l’esistenza di una giusta causa di licenziamento occorre accertare in concreto se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti alla posizione che in esso abbia
avuto il prestatore di lavoro, e quindi, alla qualità ed al grado
del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obbiettivo, ma
anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento
alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata posta in
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essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a ledere, in modo grave, così da farla venire
meno la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere una sanzione non minore
di quella massima, definitivamente espulsiva. (Cass. lav.,
25.5.95, n. 5742; conformi: Cass. lav. 22.3.94, n. 2715; Cass.
lav. 22.10.93, n. 10503; Cass. lav. 28.4.92, n. 5080).
Nel caso di specie, il ricorrente, coordinatore, del reparto
Mass Market ha indicato nel sistema rilevazione prestazioni
accessorie dati erronei e contrastanti con quelli risultanti
dalla rilevazione a mezzo badge di entrata e di uscita, così
lucrando una somma maggiore di quella dovuta a titolo di
prestazione lavorative rese, comportamenti questi, gravemente, lesivi del vincolo fiduciario che sottende i rapporto tra
datore di lavoro e lavoratore.
In tal caso, i fatti addebitati, emersi all’esito di una verifica
a campione, rivestono il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e specialmente dell’elemento essenziale della fiducia sicché la condotta tenuta dal dipendente è
indubbiamente idonea a mettere in discussione la futura correttezza del suo adempimento in quanto sintomatica di un certo
atteggiarsi del prestatore rispetto agli obblighi lavorativi.
Orbene, l’addebito contestato al ricorrente si presentava non
solo come fonte di danno per la società convenuta ma incide
anche sull’ affidamento futuro che il datore di lavoro deve
poter prestare sulla collaborazione del proprio dipendente.
In considerazione del tipo di condotta inadempiente sintomatica di una gravità inescusabile essa rappresenta una
mancanza di entità sicuramente tale da non consentire la
prosecuzione, neanche temporanea del rapporto di lavoro.
Alla stregua delle argomentazioni esposte, deve essere affermata la legittimità del licenziamento intimato, con conseguente rigetto della domanda formulata nell’ atto introduttivo.
Venendo poi alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento di mansioni superiori ed in particolare quelle del livello VI del CCNL per il personale dipendente da imprese
esercenti servizi di telecomunicazioni va osservato che si legge nella richiamata declaratoria contrattuale: “appartengono
al livello VI i lavoratori che, in possesso di elevata e consolidata preparazione e di particolare capacità professionale e
gestionale, svolgono funzioni direttiva inerenti attività complesse. Tali funzioni sono svolte con facoltà di decisione e
autonomia di iniziativa nei limiti delle sole direttive generali
loro impartite e sono esercitate attraverso la guida e il controllo di settori operativi, ovvero attraverso l’esplicazione di
funzioni specialistiche che richiedono un contributo professionale autonomo ed innovativo”.
Rientra tra i profili il coordinatore di settore operativi
lavoratore che sulla base di direttive generali, coordina importanti Organismi operativi tecnici, amministrativi, provvedendo alla programmazione alla gestione e l’utilizzo integrato e ottimizzato delle risorse umane, tecniche, economiche e
organizzative assegnate”.
All’esito della prova testimoniale è emerso che il C.L.
abbia svolto l’attività di coordinatore del reparto Mass Market sulla base delle disposizioni date dal responsabile aziendale,, tal Claudio M..
Nel settore Mass Market, a dire di tutti i testi, giungevano
i reclami segnati tramite 187. I dipendenti accedevano in una
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banca data da cui risultavano i guasti da analizzare.
Il C.L. indicava a quale guasto, i base all’ordine di anzianità doveva dedicarsi ogni dipendente del reparto, oltre a lavorare anch’egli per la risoluzione dei guasti.
Nel reparto Mass market vero e proprio filtro tra reparto
187 e reparto FOM (in cui lavoravano i tecnici addetti a risolvere i guasti recandosi sul posto), si valutava, in sostanza se i
guasti potessero essere immediatamente risolti via computer,
ovvero si dovesse inviare la segnalazione del guasto al reparto Fom munito di tecnici.
La coordinazione del C.L. consisteva nella distribuzione
dei carichi di lavoro o nell’ assegnazione di attività specifiche
ai propri collaboratori in base all’ affluenza dei guasti.
Oltre a svolgere l’ attività di coordinatore il C.L. era parte attiva della gestione delle attività del reparto.(cfr. dichiarazioni rese dal teste C.) ed ha collaborato nell’organizzazione
di altri reparti collocati fuori della regione Campania.
Il ricorrente si interfacciava all’occorrenza sia con la parte
commerciale della T. (ad es. clienti che chiedono rimborso dei
canoni) sia con gli altri operatori F. per la risoluzione di eventuali problemi segnalati dai clienti sulla linea telefonica.
Dall’esame delle testimonianze non risulta che il ricorrente nello svolgimento dell’attività di coordinatore del reparto
Mass Market, abbia provveduto “alla programmazione alla
gestione e all’utilizzo integrato e ottimizzato delle risorse
umane, tecniche, economiche, e organizzative assegnate”. Non
emerge in sostanza che il ricorrente abbia posto in essere una
attività di ottimizzazione ed integrazione delle risorse umane
assegnategli in autonomia. In sostanza il ricorrente ha coordinato l’attività degli operatori del reparto Mass Market, nei
limiti delle direttive imposte dal superiore gerarchico M..
Era ad esempio quest’ultimo che controllava l’ avanzamento dei vari gruppi di lavoro, tra cui quelli coordinati dal C.L..
Era il M. che preventivamente autorizzava lo svolgimento di
attività di lavoro straordinario per tutto il reparto e poi con-
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trollava se il gruppo di lavoro aveva effettuato l’orario autorizzato.
Le “funzioni direttive inerenti attività complesse” cui fa
riferimento la declaratoria di IV livello del CCNL di settore,
non si attagliano all’attività di coordinamento del reparto
Mass Market svolta in concreto da parte istante.
Correttamente dunque quest’ultimo risulta inquadrato nel
livello V (cfr buste paga in atti) cui appartengono “i lavoratori” che in possesso di capacità professionale e gestionale
correlate ad elevate conoscenze specialistiche svolgono funzioni per l’espletamento delle quali è richiesta adeguata autonomia e decisionalità nei limiti dei principi, norme e procedure valevoli nel campo di attività in cui operano. Tali funzioni
sono esercitate attraverso il coordinamento e il controllo
delle diverse risorse assegnate, ovvero mediante lo svolgimento di compiti specialistici ad elevata tecnicalità.
Va infine accolta la domanda riconvenzionale avanzata da
controparte avente ad oggetto la condanna del lavoratore
alla retribuzione degli importi indebitamente percepiti per
l’attività lavorativa inserita nel sistema RPA ma in realtà non
svolta.
La richiesta, come riformulata dalla T., dopo aver tenuto
conto degli errori di calcolo, contestati specificatamente dal
lavoratore, si fonda su precisi riscontri probatori e, soprattutto documentali. I conteggi allegati e riformulati specificatamente conducono ad una qualificazione sicura e precisa del
danno economico arrecato alla società.
La domanda riconvenzionale avanzata dalla società, così
come formulata, va pertanto accolta e il ricorrente va condannato al pagamento in favore della convenuta della somma di
euro 2557,92 oltre interessi legali dalla maturazione al saldo.
Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, vengono
poste a carico di parte ricorrente in base al principio della
soccombenza.
(Omissis)
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In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, sez. distaccata di Pozzuoli,
sentenza 19 febbraio 2010, n. 112;
Est. Lepre
Risarcimento danni - Attività di casalinga - Qualificazione - Patrimoniale e non patrimoniale
“Non merita accoglimento la domanda di risarcimento
del danno patrimoniale per non poter più svolgere attività di
casalinga, poiché detta attività può considerarsi di carattere
patrimoniale solo relativamente allo svolgimento di faccende
domestiche usualmente surrogabili da una collaboratrice
domestica; per il resto è un’attività di natura personale ed
infungibile, risarcibile ex art. 2059 c.c. e solo previa adeguata prova”[1].
(Omissis)
Motivi della decisione
Sulla qualificazione patrimoniale e non patrimoniale
dell’attività di casalinga/o. In primo luogo, deve qualificarsi
correttamente cosa si intenda per attività di casalinga. La
costante giurisprudenza della Suprema Corte specifica che
tale attività non può essere identificata con quella posta in
essere da una collaboratrice domestica, per l’evidente ragione
che i compiti della casalinga risultano di maggiore, ampiezza
intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d’opera dipendente, concretandosi nel coordinamento
lato sensu dell’intera vita familiare (Cass. 24.8.2007, n. 17977,
Cass. 30.11.2005, n. 26080). Infine, la Suprema Corte ha
anche specificato che tale danno spetta anche se la donna/
uomo esercita attività lavorativa, dovendosi in tal caso, però,
dimostrare la specifica compatibilità tra il lavoro svolto e
quello di casalinga. Dalle riportate definizioni può dirsi che
la posizione della casalinga/o è complessa e si caratterizza –
rispetto a quella di una collaboratore/collaboratrice
domestico/a – per il fatto di essere posta in essere nel contesto
di una dimensione familiare, rispetto alla quale l’attività di
casalinga/o acquista un ruolo di sicuro rilievo. Ebbene, da ciò
deriva, quindi, che inequivocabilmente solo in parte questa
attività può considerarsi patrimoniale, essendo per il resto di
natura personale e infungibile e determinata e caratterizzata,
anche per le sue concrete modalità attuative, dall’affetto familiare: è la posizione familiare della donna/uomo che svolge
l’attività di casalinga/o che rende peculiare la sua quotidiana
prestazione rispetto alla collaboratrice; è il vincolo – legale o
anche solo di fatto – di tipo familiare che, per così dire, colora e arricchisce quelle prestazioni domestiche di un quid
pluris che di certo non può farsi coincidere con le mere faccende domestiche: si pensi alla cura dei figli in specie se mi-
Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto
[1] Con tale pronuncia il Giudice del Tribunale di Napoli, discostandosi parzialmente da precedenti orientamenti giurisprudenziali, ha ritenuto di contenere la
domanda risarcitoria relativamente al solo danno patrimoniale subito dalla casalinga, rimarcando a chiare lettere la differenza con quello non patrimoniale costituito anche dal coordinamento della vita familiare, la cui limitazione deve essere
rigorosamente provata non essendo deducibile per presunzioni.
Nei predenti orientamenti, anche in assenza di una prova rigorosa e puntuale, il
danno patrimoniale futuro era considerato lesione della integrità psico-fisica [In
tal senso, in giurisprudenza: Cass. civ., sez. III, 20 luglio 2010, n 16896, Massima
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nori, nella scelta dei vestiti o nel coordinare il pranzo e cena
in relazione alle esigenze di tutti i membri della famiglia. Da
tali premesse discende, quindi, che all’interno della generica
nozione di attività di casalinga è da distinguersi una parte di
sicuro rilievo patrimoniale, consistente nello svolgimento di
faccende domestiche usualmente surrogabili da una collaboratrice/collaboratore domestica: ebbene, l’impossibilità di
svolgere tali attività può certamente determinare un danno
patrimoniale da parametrare tendenzialmente alla retribuzione da corrispondere al collaboratore /collaboratrice
domestico/a. Deve, poi, considerarsi in modo del tutto distinto, invece, il profilo familiare di tale attività, cioè il fatto che
questa sia posta in essere in quanto espressione di un legame
familiare: la perdita dell’attività di coordinamento della vita
familiare, della, per così dire, posizione di “garante” e “responsabile” della conduzione familiare è certamente qualcosa
di non patrimoniale e che risponde ad interessi e aspettative
di natura non economica. La peculiarità di tale situazione è
data altresì’ dal fatto che l’attività di casalinga/o non può
neppure essere equiparata ad un’ordinaria attività infungibile,
che “come è noto” può costituire e costituisce spesso oggetto
di controprestazioni economiche (si pensi all’artista oppure
allo sportivo etc.): è evidente, infatti, che la dimensione di
coordinamento familiare non può essere acquistata, affondando le sue radici in affetti e contesti sociali pregiuridici e non
dipendenti da alcuna controprestazione. In sintesi, può “acquistarsi” la prestazione della collaboratrice/collaboratore
domestico, ma non certo la cura affettiva e familiare nella
organizzazione della vita quotidiana. Tale c.d. dimensione
familiare rappresenta certamente un bene costituzionalmente
rilevante, proprio per quanto detto: l’attività di casalinga/o
rappresenta infatti un momento fondamentale per la realizzazione della vita familiare il cui rilievo trova immediato riscontro nell’art. 29 e art. 2 Cost. Ne consegue che la perdita siffatta va risarcita ai sensi dell’art. 2059 c.c. secondo quanto
statuito da Cass. sez. un. 26972/08: in specie è necessaria la
dimostrazione che dalla lesione di questo interesse costituzionalmente protetto sia poi derivato un pregiudizio.
La fattispecie concreta, l’assenza di prova degli elementi
costitutivi della pretesa risarcitoria. L’appello va rigettato. Nel
caso di specie, non vi è prova che l’attività professionale svolta fosse in concreto compatibile con quella di casalinga; non
ha pregio l’affermazione di parte appellante laddove ritiene
che ciò deve ritenersi in re ipsa atteso che l’appellante è vedova con tre figli di cui due minorenni (pag. 3 del ricorso in
appello, tra parentesi), infatti: 1) di ciò non vi è menzione
negli atti di primo grado, sicché sono circostante dedotte per
la prima volta in appello; 2) anzi, a ben vedere il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado non menziona affatto
l’attività di casalinga, comparendo per la prima volta il richia-
redazionale 2010; Cass. civ., sez. III, 19 marzo 2009, n. 6658, in Resp. Civ., 2009,
5, 467 – Dir. e Pratica Lav., 2009, 35, 2108; Cass. civ., sez. III, 25 gennaio 2008,
n. 1690, in Resp. civ., 2008, 3, 276 - Danno e Resp., 2008, 4, 463; Cass. civ. III,
sez. 31 marzo 2007, n. 8057, in Mass. Giur. It., 2007 - CED Cassazione, 2007 Arch. Giur. Circolaz., sez. 2008, 7-8, 683; Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2006, n.
10031 in Mass. Giur. It., 2006 - CED Cassazione, 2006 - Arch. Giur. Circolaz.,
2007, 1, 42 - Arch. Giur. Circolaz., 2007, 5, 572App. Roma sez. III, 09 gennaio
2007, Massima redazionale 2007. In dottrina: Violante U., Principio causalistico
e declino del principio di auto responsabilità, in Danno e Resp., 2010, 8; 9,
790;Capecchi M., Efficienza della concause ed attribuzione della responsabilità,
in Danno e Resp., 2010, 4, 372].
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
mo a tale attività solo nella comparsa conclusionale (pag. 5).
L’assenza di tale prova è già di per sé sufficiente per il rigetto
della domanda. A fini di mera completezza motivazionale,
deve comunque dirsi che non vi è neppure prova che per le
ordinarie faccende domestiche fungibili la ricorrente abbia
dovuto far ricorso a collaboratore/collaboratrice domestica:
trattandosi di danno patrimoniale esso deve essere provato
nello specifico, essendo peraltro assolutamente agevole la relativa dimostrazione (sarebbe sufficiente, infatti, una mera
prova testimoniale e la produzione di ricevute di pagamento
della retribuzione); così come deve osservarsi che i postumi
sono così ridotti così come i periodi di itt e itp da rendere del
tutto non presumibile la perdita di quell’attività di coordinamento familiare, che proprio perché di direzione anche morale può tranquillamente continuare ad essere esercitata in presenza di lesioni di siffatta lieve entità: in ogni caso, poi, l’appellante avrebbe dovuto altresì dimostrare l’esistenza di un
pregiudizio derivante dalla lesione di tale interesse costituzionale sull’errata liquidazione del danno morale L’appello va
rigettato. Le citate sezioni unite hanno chiarito in modo inequivocabile che il danno morale in quanto voce autonoma non
esiste e che in ogni caso esso non può liquidarsi automaticamente sulla base del danno biologico, essendo necessaria peraltro una specifica prova del lamentato pregiudizio reddituale. Posto che la Suprema Corte ha ribadito il c.d. sistema bipolare del danno (patrimoniale ex art. 2043 c.c. e non patrimoniale ex art. 2059, c.c.) e la risarcibilità di tutti gli interessi non
patrimoniali lesi di rilievo costituzionale richiedendo per gli
altri interessi della medesima natura la previsione di legge in
tema di risarcibilità; posto, altresì, che il c.d. danno morale
non è necessariamente transitorio e che spetta tuttavia anch’esso sol quando sia stato leso un interesse giuridicamente protetto desunto dall’ordinamento positivo, in relazione al rapporto tra pregiudizio morale e liquidazione del danno biologico, per quanto qui interessa, sono questi i passi salienti del
pronunciato (pagine 27/28 e 47/48): “in presenza di reato
(quale, nella specie, di lesioni colpose)---anche il pregiudizio
non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe
meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter
fare, così ancora testualmente il pronunciato) è risarcibile”;
“---.deve trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata”
e, “ove siano dedotte siffatte conseguenze si rientra nell’area
del danno biologico del quale ogni sofferenza, fisica o psichica,
per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina
quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione
del danno biologico e del danno morale nei su indicati termini
inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà)
del primo”. Se la sentenza si fermasse qui potrebbe sembrare
che, liquidato il danno biologico, essendo esso comprensivo di
“ogni sofferenza, fisica o psichica” le quali proprio del danno
biologico costituiscono “componente”, una ulteriore liquidazione di un danno, chiamato morale, determinerebbe “duplicazione di risarcimento”. Il pronunciato tuttavia, a conclusio-
2 0 1 0
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ne della disamina di tale problematica, conclude affermando
che, pur “esclusa la praticabilità di tale operazione” (ovvero:
la attribuzione, congiunta al danno biologico, del danno
morale”sovente liquidato in percentuale, da un terzo alla metà, del primo”) “dovrà il giudice procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando
nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche
patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno
nella sua interezza”. In definitiva, ad applicare i principi predetti all’attrice non sarebbe spettato alcunché atteso che nel
giudizio di primo grado non vi è prova affatto di un ulteriore
pregiudizio non patrimoniale da considerare, insieme col danno biologico, al fine della concreta liquidazione dell’unitaria
voce del danno non patrimoniale ex art. 2059.
Sulla omessa liquidazione delle spese sanitarie e omessa
liquazione di quelle borsuali extrasanitarie L’appello va rigettato, in quanto in primo grado sono state documentate spese
per euro 31,00 mentre il giudice di pace ha liquidato euro
56,82; in secondo luogo,deve dirsi che tali spese in quanto
patrimoniali vanno specificamente provate, e che per altro
verso l’appello risulta del tutto generico sul punto, rinviando
ai ticket prodotti ma senza fornire alcuna specifica giustificazione dell’entità in concreto richiesta a titolo di danni.
Sull’omessa rivalutazione. L’appello va rigettato, in quanto il giudice di prime cure ha specificamente liquidato gli interessi compensativi dal fatto alla decisione quantificati al
tasso 1,5% secondo un criterio equitativo assolutamente ragionevole: la liquidazione di tale interesse compensativo è
appunto la voce che rappresenta la rivalutazione richiesta.
Sulla incongruità delle spese legali liquidate. L’appello va
rigettato perché del tutto generico. Se è vero che a parere della Suprema Corte il giudice, in sede di liquidazione, laddove
si discosta dalla nota in atti, deve specificamente indicarne le
ragioni, è altrettanto vero che ciò non legittima la proposizione di un mezzo di gravemente del tutto generico e che si esaurisce nella sola contestazione dell’omessa analitica giustificazione della liquidazione: l’appellante non ha specificato quale
fosse lo scaglione di riferimento, né tutte le altre circostante
idonee a determinare nel concreto la liquidazione delle spese;
sul punto, è sufficiente richiamare Cass. 22287 del 21/10/2009:
“L’impugnazione del capo di sentenza relativo alla liquidazione delle spese giudiziali non può essere accolta se con essa non
vengono specificate le singole voci che la parte assume come
alla stessa spettanti e non riconosciute, non essendo il giudice
del gravame vincolato in alcun modo da eventuali determinazioni quantitative formulate dalla medesima parte impugnante in difetto della individuazione degli specifici errori che essa
attribuisce al giudice come commessi nella decisione impugnata). Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate d’ufficio
tenuto conto dell’assenza di notula in atti, delle ragioni della
decisione, del valore della controversia, del grado del giudizio
e dell’attività processuale svolta.
(Omissis)
civile
Gazzetta
Diritto e procedura penale
La responsabilità penale del consiglio di amministrazione della S.p.A. e il ruolo
dei modelli organizzativi nell’adempimento degli obblighi in materia antinfortunistica
61
Alberto De Vita
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
65
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
70
73
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
●
La responsabilità penale
del consiglio
di amministrazione
della S.p.A. e il ruolo
dei modelli organizzativi
nell’adempimento
degli obblighi in materia
antinfortunistica
● Alberto De Vita
Ordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
2 0 1 0
61
La recente sentenza della Corte di cassazione sul caso
Montefibre1 ha posto nuovamente2 all’ordine del giorno la
questione della responsabilità penale dei membri del consiglio
di amministrazione per i reati in materia antinfortunistica. La
Suprema Corte, dopo aver ribadito il principio generale per il
quale «gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed
igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio
di amministrazione», ha stabilito che, anche «in presenza di
strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la
riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane
la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione. Diversamente opinando – hanno sostenuto i giudici di legittimità – si violerebbe
il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di
garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi si vigilanza ed intervento sostitutivo»3.
Anche il conferimento della delega ad uno dei componenti
dello stesso consiglio di amministrazione, secondo i giudici del
Supremo Collegio, non elimina la posizione di garanzia degli
altri consiglieri di amministrazione ma lo trasforma (ne «riduce la portata», si legge in sentenza), nel senso che lascia
sussistere un obbligo di vigilanza e, nel caso d’inadempimento
della delega, anche di intervento diretto, poiché «non possono
comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale
andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso
di mancato esercizio della delega»4. Ne deriva che, «anche in
presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro),
la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio
non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale
complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene
alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di
responsabilità del datore di lavoro»5.
Si tratta, com’è noto, della formula tralatizia di un orientamento giurisprudenziale che ha trovato specifica consacrazione legislativa nell’art. 16, comma 3, del T.U. della sicurezza
sul lavoro, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
Tale norma, nel prevedere espressamente la permanenza
dell’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro delegante,
sembra avallare una precisa elaborazione dogmatica. Si fa riferimento all’esperienza dottrinale e giurisprudenziale di origine tedesca6, ma con significativi e autorevoli riscontri nella
dottrina italiana7, nella quale si procede, ai fini della ricostru-
1 Cass., sez. IV, 10 giugno - 4 novembre 2010, n. 31998, Q.B. e altri.
2Tra le pronunce più recenti v. Cass., IV, 11 dicembre 2007 – 8 febbraio 2008,
n. 6280, in Cass. pen., 2008, p. 4317.
3 Cass., sez. IV, 10 giugno - 4 novembre 2010, cit.
4 Cass., sez. IV, 10 giugno - 4 novembre 2010, cit.
5 Cass., sez. IV, 10 giugno - 4 novembre 2010, cit.
6 Sul punto cfr., nella manualistica, H.H. Jescheck, Lehrbuch des Strafrechts, A.T.,
4a Aufl., Berlin-New York, 1988, p. 570; sulla base dell’elaborazione dottrinale
richiamata viene impostato anche il problema dell’errore sull’obbligo giuridico
nei delitti omissivi impropri: cfr. H. Fuhrmann, Der Irrtum über die Garantenpflichten bei den unechten Unterlassungsdelikten, GA, 1962, pp. 161 ss.
7 Cfr. G. Grasso, Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della fattispecie, Milano, 1983, p. 132 s.; G. Fornasari, Il principio di inesigibilità nel
diritto penale, Padova, 1990, pp. 310 ss.
penale
Gazzetta
62
D i r i t t o
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p r o c e d u r a
zione della tipicità omissiva, alla scissione logica tra la situazione di garanzia come tale e l’obbligo giuridico che ne scaturisce. Nel caso in esame, la previsione legislativa di un
persistente dovere di vigilanza, pur in presenza di una delega
dei compiti prevenzionistici valida ed efficace, sembra proprio
fondato su questa scissione: da una parte vi è la situazione di
garanzia del delegante, con gli inderogabili doveri di vigilanza e controllo ad essa consustanziali; dall’altra, gli obblighi
giuridici aventi ad oggetto l’adempimento delle misure antinfortunistiche, delegabili a terzi con efficacia liberatoria per
l’originario titolare8.
Il problema, però, è che la pronuncia 31998/2010 fa discendere tale conclusione dalla disciplina dell’art. 2392 c.c. in
tema di S.p.A. vigente all’epoca dei fatti e, quindi, nella versione precedente alla riforma del diritto societario attuata con
il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6: «Tale disposizione – si legge
infatti nella sentenza – nel prevedere che gli amministratori
nella gestione della società devono adempiere i doveri ad essi
imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, stabilisce che anche
se taluni compiti sono attribuiti ad uno o più amministratori,
gli altri componenti “sono solidalmente responsabili se non
hanno vigilato sul generale andamento della gestione...”». Ma
l’attuale versione dello stesso secondo comma dell’art. 2392
c.c., nel prevedere la responsabilità solidale degli amministratori che non si siano attivati per impedire atti dannosi dei
quali abbiano avuto conoscenza ovvero per eliminarne o ridurne le conseguenze, premette che tale responsabilità sussiste
«fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art. 2381».
Quest’ultima norma, dal canto suo, ha notevolmente circoscritto l’ambito del dovere di vigilanza posto a carico dei
componenti del consiglio di amministrazione, i quali non
sono più tenuti a vigilare sul generale andamento della società con qualsiasi mezzo a loro disposizione ma solo a valutare
il generale andamento della gestione «sulla base della relazione degli organi delegati» (art. 2381, comma 3, c.c.). E se è
vero che sempre l’art. 2381, ultimo comma, c.c. impone agli
amministratori l’onere di «agire in modo informato», non vi
è dubbio che il dovere di vigilanza posto a carico del vertice
sociale privo di deleghe esce dalla riforma del 2003 di gran
lunga ridimensionato. Tale novità è stata salutata generalmente con favore dalla dottrina, secondo la quale «la riforma del
2003 ha voluto porre fine alla prassi profondamente ingiusta
delle indiscriminate condanne solidali di tutti gli amministratori e sindaci, accomunati in un comune destino pur essendo
un dato notorio che essi hanno ruoli del tutto diversi»9.
Pertanto, oggi gli amministratori deleganti non hanno più
il «dovere di vigilare sulla gestione della società»; tale dovere
(prima previsto dall’art. 2392 c.c.) è stato sostituito dal rinvio
all’art. 2381, comma 3, c.c., e quindi, come recita questa disposizione, dal dovere, in capo al consiglio, di «valutare»,
«sulla base delle informazioni ricevute» e «sulla base della
relazione degli organi delegati», «l’adeguatezza dell’assetto
organizzativo, amministrativo e contabile della società»,
8 Sul punto sia consentito rinviare a A. De Vita, La delega di funzioni nel sistema
penale. Il paradigma della sicurezza sul lavoro, Napoli, 2008, pp. 122 ss.; Id., La
posizione di garanzia del datore di lavoro tra tipicità e antigiuridicità: l’efficacia
scriminante della delega di funzioni, in A. De Vita – M. Esposito, La sicurezza
si luoghi di lavoro. Profili della responsabilità datoriale, Napoli, 2009, p. 54.
9F. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano,
2004, p. 159.
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nonché «il generale andamento della gestione». Gli amministratori deleganti sono dunque destinatari di un complesso di
informazioni fornite dagli organi delegati sulla base dei quali
sono tenuti a «valutare», e non più a «vigilare»10. Anche se,
dopo la riforma, «la presenza di amministratori con funzioni
delegate non comporta che gli altri siano senz’altro esonerati
da responsabilità solidale per i comportamenti dei primi»11,
non si può certo sostenere che la latitudine di tale responsabilità sia rimasta inalterata. L’attuale disciplina, a differenza
della precedente, non pone più a carico degli amministratori
un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione
ma impone loro di agire in modo informato (art. 2381, comma
6, c.c.) e, soprattutto, se è vero che l’art. 2381, comma 3, c.c.
attribuisce agli amministratori senza deleghe anche l’obbligo
di valutare il generale andamento della gestione, è vero anche
che, secondo il tenore della norma, tale compito deve esercitarsi «sulla base della relazione degli organi delegati»12.
L’accennata rilevanza anche penale di tale modifica legislativa13, avente in verità quale obiettivo primario la disciplina
della responsabilità civile14, emerge altresì dal mutamento
d’indirizzo della stessa giurisprudenza penale. I giudici penali, infatti, precedentemente attestati su posizioni di notevole
rigore15, hanno dovuto prendere atto del fatto che «la riforma
10In questi termini, F. Centoze, La suprema corte di cassazione e la responsabilità omissiva degli amministratori non esecutivi dopo la riforma del diritto societario, in Cass. pen., 2008, pp. 109 ss.
11 G.F. Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, agg.
della 5a ed. del Diritto commerciale, vol. 2, Il diritto delle società, Torino, 2004,
p. 120.
12 Campobasso, La riforma, cit., p. 121 s., che così prosegue: «Perciò, se il comportamento dannoso è direttamente imputabile solo ad alcuni amministratori
(membri del comitato esecutivo o amministratori delegati), con essi risponderanno in solido anche gli altri qualora, per violazione degli specifici obblighi
posti a loro carico, non abbiano preveduto o impedito l’attività dannosa dei
primi. Ne risponderanno però solo per culpa in vigilando, con la conseguenza
che, se costretti a risarcire il danno, avranno diritto di regresso per l’intero nei
confronti dei primi».
13 Sull’interpretazione dell’art. 2392 c.c. come fondamento della responsabilità
penale degli amministratori, con riferimento alla normativa previgente, oltre
alla più volte citata sentenza 38991/2010, v. Cass., 28 febbraio 1991, in Cass.
pen., 1991, p. 1849; Id., 26 giugno 1990, in Cass. pen., 1991, p. 828; dopo la
riforma del 2003 v. Cass., sez. V, 4 maggio 2007, n. 23838, in Guida al Dir.,
2007, n. 35, p. 71: «La riforma della disciplina delle società (d.lgs. n. 6 del 2003)
ha alleggerito gli oneri degli amministratori privi di deleghe e comportato una
obbiettiva restrizione della loro responsabilità. L’amministratore non esecutivo
risponde di omesso impedimento di un reato doloso posto in essere dagli amministratori delegati purché si sia rappresentato l’evento, nella sua portata illecita, e abbia consapevolmente omesso di impedirlo. Non può dunque esservi
equiparazione tra “conoscenza” e “conoscibilità” dell’evento che si deve impedire, attenendo la prima all’area della fattispecie volontaria e la seconda, quale
violazione ai doveri di diligenza, all’area della colpa. La responsabilità penale
dell’amministratore non esecutivo postula la dimostrazione di un effettivo ed
efficace ragguaglio circa l’evento oggetto del doveroso impedimento».
14 Cfr., con riferimento alla disciplina previgente, G.F. Campobasso, Diritto
commerciale, vol. 2, Diritto delle società, 4a ed., Torino, 1999, pp. 366 ss.
Sulle condizioni per la configurabilità di tale responsabilità dopo le modifiche
intervenute con i d.lgs. 6/2003, cfr. S. Cameli, Responsabilità solidale degli
amministratori ed obbligo individuale di vigilanza: brevi osservazioni alla luce
della riforma societaria, nota a Cass. civ., sez. I , 29 agosto 2003, n. 12696, in
Giust. civ., 2004, p. 9 ss.
15 Cfr. A. Alessandri, Parte generale, in C. Pedrazzi - A. Alessandri - L. Foffani - S. Seminara - G. Spagnolo, Manuale di diritto penale dell’impresa,
Bologna, 1999, p. 90 e la giurisprudenza ivi citata; A. Rossi, Responsabilità
solidale degli amministratori ed obbligo individuale di vigilanza: brevi osservazioni alla luce della riforma societaria, nota a Cass. civ., I , 29 agosto 2003, n.
12696, in Giust. civ., 2004, p. 118. Cfr. altresì Cameli, op. cit., p. 10, il quale
sottolinea che l’analisi dei precedenti giurisprudenziali in materia, dimostra
«come la Cassazione abbia quasi sempre applicato severamente, in maniera
conforme alla legge, il principio della solidarietà nella responsabilità degli
amministratori: in alcuni casi, il Supremo Collegio ha circoscritto l’utilizzabilità di possibili prove a discarico (esempio, presunti comportamenti ostruzioni-
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
della disciplina delle società, portata dal d.lgs. 6/2003, ha
indubbiamente alleggerito gli oneri e le responsabilità degli
amministratori privi di deleghe. Il generale “obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione” è stato sostituito con l’onere di “agire informato”, atteso il potere di richiedere informazioni. Ferma, però, l’obiettiva restrizione della
responsabilità apportata nel contesto del codice civile e la situazione più favorevole per gli amministratori privi di delega,
resta tuttavia invocabile la disciplina di cui all’art. 40, comma
2, c.p. nel caso in cui l’amministratore (delegante) di società,
a conoscenza di reati in itinere commessi da altro amministratore (delegato) e pregiudizievoli per l’ente amministrato,
non abbia fatto, pur avendone l’obbligo giuridico, quanto
poteva per impedirne il compimento. Il limite operativo della
disposizione penale è circoscritto alle sole incriminazioni
connotate di volontarietà»16.
Si pone quindi, con tutta evidenza, un delicato problema
di successione di leggi con particolare riferimento alle norme
extrapenali integratrici del precetto penale17, problema che la
sentenza 38991/2010 non sembra aver preso in considerazione. Se tuttavia si ritiene, come sembra fare la Suprema Corte
nella citata sentenza, che l’art. 2392 c.c. svolga una funzione
integratrice del precetto penale, bisogna considerare che,
come sostenuto dalla stessa giurisprudenza di legittimità in
altre occasioni, «In tema di successione di norme penali nel
tempo, qualora trattisi di norme penali “in bianco”, la disciplina dettata dall’art. 2 c.p. può venire in considerazione solo
in presenza di una modifica della norma richiamata da quella incriminatrice che incida sulla struttura di quest’ultima o,
quanto meno, sul disvalore in essa espresso, come si verifica,
in particolare, allorché è la stessa norma di riferimento a individuare la fattispecie penale, di talché la sua abrogazione si
traduce in una vera e propria abolitio criminis»18.
Inoltre, l’art. 2392, comma 2, c.c., nella formulazione
originaria applicata dai giudici di legittimità, rappresentava
una tipica espressione di quelle “clausole generali” che «costituiscono una tecnica di normazione con la quale il legislatore supera il sistema delle fattispecie tipizzate, garantendo il
tempestivo adattarsi dell’ordinamento giuridico alle evoluzioni non solo sociali ma anche della tecnica e delle conoscenze
settoriali»19. L’opera di concretizzazione di tali clausole generali, rimessa completamente al giudice, «implica la creazione
di subnorme di diritto positivo, che grazie alla norma elastica
divengono regole di diritto oggettivo»20. C’è da chiedersi, a
stici da parte di altri componenti del consiglio di amministrazione); in altri
casi, ha rigettato blande esimenti come la pretesa natura soltanto «formale»
dell’incarico di amministratore oppure ha disatteso la tesi della legittimazione
esclusivamente collegiale del potere di vigilanza».
16 Cass., sez. V, 4 maggio 2007, cit.
17 Sull’argomento, di recente, v. G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di
norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008.
18 Cass., sez. IV, 9 dicembre 2002, n. 1751, Di Campli Finore, in Riv. pen., 2003,
p. 407. Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ritenne che, avuto
riguardo alla sopravvenuta disciplina dettata dall’art. 7 della legge n. 479 del
1999, in base alla quale i praticanti avvocati che abbiano conseguito la necessaria abilitazione possono svolgere attività difensiva davanti al tribunale in
composizione monocratica, non potesse più essere qualificata come reato, ex
art. 348 c.p., la condotta di un soggetto che, prima dell’entrata in vigore di
detta legge, essendo abilitato solo al patrocinio davanti alla pretura, aveva
svolto attività defensionale davanti ad un tribunale.
19V. G. Meruzzi, L’informativa endo-societaria nella società per azioni, in Contratto e Impresa, 3/2010, p.
20 Ibidem.
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63
questo punto, quanto sia legittimo sul piano costituzionale il
ricorso a tale opera di “creazione giurisprudenziale” del diritto quando il prodotto è destinato a essere utilizzato in un
ordinamento, quello penale, necessariamente governato dal
principio di legalità inteso anche come riserva di legge, determinatezza/tassatività e divieto di analogia.
In ogni caso, nella materia de qua, sarebbe preferibile ricercare il fondamento della responsabilità dei componenti
dell’organo apicale nelle regole specifiche che governano la
materia della sicurezza sul lavoro.
In particolare, nell’ambito dell’accennata scissione tra
“situazione di garanzia” e obblighi di adempiere, la garanzia
dovuta dai soggetti apicali consiste nell’assicurare un’adeguata organizzazione della sicurezza degli interessi protetti.
Com’è stato esattamente osservato, infatti, il dovere del datore di lavoro «non si appunta direttamente sulle cautele (per
così dire) materiali, eventualmente tipizzate da discipline di
settore, ma attiene innanzi tutto a problemi “a monte”, relativi all’apprestamento di modelli organizzativi che assicurino
le condizioni per l’osservanza delle cautele materiali, da parte dell’intera organizzazione»21. Ciò vale, ovviamente, per il
datore di lavoro che abbia conferito le deleghe idonee a trasferire gli obblighi relativi agli adempimenti prevenzionali,
perché altrimenti non si realizza la predetta scissione, gravando sul vertice dell’impresa l’intero onere relativo alla “posizione di garanzia”.
In questa sede ci si limita ad porre in evidenza la trasfigurazione che ha subito l’istituto dei modelli organizzativi previsto dal d.lgs. 231/2001, in seguito alla sostituzione dell’ultima parte del comma 3 dell’art. 16 T.U. 81/2008 in materia
di delega di funzioni, ad opera dell’art. 12, comma 1, del già
citato decreto “correttivo” n. 106/200922. In sede di “correzione”, infatti, la generica affermazione del testo originario
dell’ultima parte del comma 3 dell’art. 16 T.U. 81/2008 («la
vigilanza si esplica anche attraverso I sistemi di verifica e
controllo di cui all’articolo 30, comma 4») è stata sostituita
con quella, ben più impegnativa e perentoria, secondo la
quale «L’obbligo di cui al primo periodo si intende assolto in
caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica
e controllo di cui all’articolo 30, comma 4». Il tono assertivo
della norma sembrerebbe quasi introdurre un’inedita prova
legale in materia penale, se non fosse stato agevole prevedere,
già all’indomani della novella, il recupero di un ampio margine di manovra per il tradizionale principio del libero convincimento del giudice, attraverso la valutazione discrezionale, nella prassi giurisprudenziale, circa l’efficacia o meno
dell’attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’art.
30, comma 4, d.lgs. 231/2001. Anzi, non sono state necessarie virtù divinatorie per prevedere che, come già accaduto per
altri reati-presupposto della responsabilità “penale” degli
enti, anche nel caso degli infortuni sul lavoro la verificazione
dell’evento mortale o gravemente lesivo sarebbe stata valorizzata, perlomeno in fase istruttoria, come prova dell’inefficace
21 Pulitanò, Diritto penale, Torino, 2007, p. 484; Id., voce Igiene e sicurezza del
lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., Agg.*, Torino, 2000, p. 393.
22 Sull’argomento v. l’interessante contributo di G. Amarelli, La responsabilità “penale” degli enti per gli infortuni sul lavoro, in A. De Vita - M.
Esposito, La sicurezza si luoghi di lavoro, cit., p. 128.
penale
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p r o c e d u r a
attuazione del modello di verifica e controllo23.
Tuttavia, il punto di rottura segnato dalla nuova norma,
la reale discontinuità da essa introdotta nel sistema è rappresentata proprio dall’utilizzazione del modello organizzativo
per escludere non (solo) la responsabilità dell’ente bensì quella della persona fisica. È infatti la stessa inderogabile “situazione di garanzia” del datore di lavoro a formare oggetto del
modello di verifica e controllo la cui efficace adozione esime
da responsabilità penale (in senso stretto) lo stesso vertice
apicale dell’impresa. D’altronde, anche prima che intervenissero il testo unico del 2008 e le “correzioni” del 2009, un’avvertita dottrina aveva osservato che «sul piano sistematico, la
disposizione sugli adempimenti non delegabili staglia il dovere del soggetto apicale come dovere di buona programmazione e organizzazione della sicurezza»24.
La nuova funzione attribuita ai modelli organizzativi in
materia di responsabilità penale-amministrativa delle persone
giuridiche sconta, peraltro, l’equivocità del testo legislativo
circa l’ambito soggettivo di applicazione. Invero, com’è noto,
la responsabilità da reato delle persone giuridiche prevista
dalla legge 231/2001 non si estende allo Stato, agli enti territoriali, agli enti pubblici non economici e agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (art. 1, comma 3, d.lgs.
231/2001). Pertanto tali enti non possono dotarsi dei modelli
organizzativi previsti dall’art. 6 dello stesso decreto 231/2001.
Dal canto suo, l’art. 30 del T.U. 81/2008, nel richiamare i
«modelli di organizzazione e di gestione» fa espresso riferimento alla loro «efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto
legislativo 8 giugno 2001, n. 231». Ed anche la norma definitoria dell’art. 2, lett. dd) dello stesso T.U. 81/2008, individua
tali modelli con riferimento al citato art. 6 d.lgs. 231/2001. È
pur vero che il successivo art. 3 stabilisce che il T.U. 81/2008
«si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici» ma,
sebbene vi siano voci autorevoli che ritengono applicabili i
modelli organizzativi di cui all’art. 30 T.U. 81/2008 anche agli
enti pubblici 25, questa sola disposizione non appare sufficiente
a pervenire a conclusioni univoche.
Qualora si ritenesse non applicabile agli enti pubblici il
modello previsto dall’art. 30 T.U. 81/2008, ciò renderebbe
ancora più stridente la disparità di trattamento tra i datori di
lavoro pubblici, che non possono adottarlo per l’espressa previsione dell’art. 1 d.lgs. 231/2001, e quelli privati o dei superstiti enti pubblici economici 26, i quali, invece, possono farvi
ricorso. L’estensione alla responsabilità penale-criminale delle persone fisiche dell’efficacia dei sistemi di verifica e controllo richiamati dall’art. 30, comma 4, T.U. 81/2008 e compresi
23 Cfr. G. Amato, La delega di funzioni non esonera il datore dalla responsabilità e dall’obbligo di vigilanza, in Guida al Dir. Dossier, n. 8, ottobre 2009, Il
correttivo sulla sicurezza lavoro, p. 123, il quale avverte che «resta ovviamente
da dire che la previsione normativa non può (potrebbe) essere intesa come un
vincolo al potere valutativo dell’autorità giudiziaria, nel senso che spetta pur
sempre a questa verificare l’efficacia del modello, sia pure procedendo a un’ovvia valutazione ex ante, non condizionata dall’essersi verificato il fatto di possibile interesse penale».
24 Pulitanò, Diritto penale, cit., p. 487.
25 In tal senso O. Di Giovine, Sicurezza sul lavoro, malattie professionali e responsabilità degli enti, in Cass. pen., 2009, p. 1338.
26 Ivi comprese le società miste con prevalente partecipazione pubblica: cfr. Cass., sez.
II, 9-21 luglio 2010, n. 28669.
p e n a l e
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F O R E N S E
nei modelli organizzativi di cui alla d.lgs. 231/200127, rende
non più tollerabile la limitazione del campo soggettivo di applicazione dello stesso d.lgs. 231/2001, già soggetta a fondate
censure in seguito all’ampliamento del campo di operatività
della responsabilità da reato degli enti collettivi 28.
Ma è sull’intera disciplina della responsabilità penaleamministrativa degli enti in materia antinfortunistica, e sui
riflessi in sede penale-criminale, che appare improcrastinabile un profondo ripensamento legislativo29, se davvero si vuol
dare coerenza ed efficacia alla regolamentazione del settore.
27 A tal proposito, si è ipotizzato che l’introduzione del regime di responsabilità degli
enti per i reati colposi in materia antinfortunistica abbia reso possibile «la creazione
di un doppio Modello: uno valido solo in relazione ai delitti di omicidio colposo e di
lesioni personali colpose; l’altro valido per tutti i rimanenti reati-presupposto» (T.
Vitarelli, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio
normativo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 710).
28 Cfr. Di Giovine, Sicurezza sul lavoro, malattie professionali e responsabilità degli
enti, cit., p. 1347 s.
29 Sulle complesse questioni interpretative e applicative cui ha dato luogo l’introduzione dell’art. 25-septies nella l. 231/2001, anche in seguito al T.U. 81/2008 e al decreto
correttivo 106/2009, v. Amarelli, La responsabilità “penale”, cit., pp. 114 ss.
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CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite penali,
sentenza 11 ottobre 2010 (ud. 30 settembre 2010), n. 36212
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
Misure cautelari personali: sancito il diritto del difensore
a prendere visione delle richieste in ordine alla libertà personale avanzate dal p.m. all’udienza di convalida dell’arresto ex
art. 390, comma 3-bis, c.p.p.
1. Le precedenti posizioni
Le Sezioni Unite con la decisione in rassegna hanno risolto il quesito se il difensore della persona arrestata o fermata
possa prendere visione delle richieste in ordine alla libertà
personale, con gli elementi su cui le stesse si fondano, trasmesse dal pubblico ministero al giudice della udienza di convalida
a norma dell’art. 390 c.p.p., comma 3-bis.
La questione rimessa alle Sezioni Unite vedeva contrapposti diversi indirizzi ermeneutici qui di seguito sinteticamente
riassunti:
a. Una prima, escludeva qualsiasi diritto da parte dell’arrestato, del fermato e dei difensori, non soltanto a prendere
visione, ma anche a conoscere le richieste del pubblico
ministero in ordine alla libertà personale. L’assunto fondava il suo profilo ermeneutico in un parallelismo con
l’applicazione della misura cautelare, in cui il pubblico
ministero ai sensi dell’art. 291 c.p.p., comma 1 può formulare senza che al difensore spetti alcun dovere di informazione, potendo addirittura il giudice della convalida
provvedere sulla richiesta di applicazione della misura al
di fuori del procedimento di convalida, il che consentirebbe di presupporre come indispensabile la richiesta del
pubblico ministero, ma non anche l’intervento dell’indagato o del suo difensore (In tal senso cfr. sez. I, 22 novembre
1991, n. 4101, Ugon, rv 188669; sez. VI, 21 ottobre 1991,
n. 3374, Cacciola, rv 188691).
b. Un secondo indirizzo, pur mantenendo ferma la esclusione
di un diritto all’accesso degli atti su cui si fonda la richiesta
di convalida e quella di applicazione della misura cautelare, ammette, invece, che il contraddittorio orale si sviluppi
nella udienza di cui all’art. 391 c.p.p., non soltanto sul
tema della convalida dell’arresto o del fermo, e quindi
sulla legittimità dell’atto di “precautela” provvisoriamente posto in essere nei confronti dell’indagato, ma anche
sulla eventuale “domanda cautelare” rivolta al giudice dal
pubblico ministero. La esclusione del diritto di accesso agli
atti viene giustificato, dall’assenza di un obbligo di deposito degli atti e delle richieste del pubblico ministero mancando una corrispondente previsione normativa come
quella dettata dall’art. 293 c.p.c., comma 3, che tale diritto invece sancisce per l’ordinario procedimento cautelare,
e che non può applicarsi analogicamente all’interno del
procedimento di convalida, avuto riguardo alla differente
natura e finalità dell’interrogatorio di garanzia, rispetto a
quello che si svolge nella udienza di convalida. (cfr., sia
pure con differenti sfumature argomentative, sez. III, 7
aprile 2010, n. 16420, Z., rv 246772; sez. III, 9 luglio
2009, n. 34813, Said, rv 244574; sez. VI, 27 novembre
2008, n. 2709, Artiano, rv 242933; sez. VI, 11 ottobre
2007, n. 43614, Gurrieri, rv 238401; sez. V, 9 luglio 2007,
n. 36682, Pilia, rv 237283; sez. I, 14 marzo 2007, n. 32030,
Pinna, rv 237269; sez. VI, 19 aprile 2007, n. 26321, Ben,
penale
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
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rv 236855; sez. VI, 5 febbraio 2007, n. 17948, P.M. in
proc. Hoxha, rv 236445; sez. IV, 18 gennaio 2007, n.
13171, Albanese, rv 236380; sez. VI, 27 novembre 2006,
n. 42185, Parisi, rv 235287; sez. II, 9 luglio 2004, n.
31113, Cernica, rv 229646).
c. Una terza posizione, citando la ordinanza n. 424 del 2001
della Corte costituzionale, ove è stato richiamato il concetto di “contraddittorio cartolare” in ipotesi di assenza
del pubblico ministero alla udienza di convalida -. che la
scelta del pubblico di non comparire e di illustrare le proprie richieste per iscritto anzichè oralmente, non può
sortire l’effetto negativo ed irragionevole di privare l’indagato e il suo difensore di ottenere il contraddittorio in situazione di parità, così come garantito dalla norma. (sez.
II, 23 febbraio 2006, n. 10492, Basile rv 233736; sez. IV,
14 giugno 2007, n. 42686, Kurti, rv 237984; sez. I, 1
aprile 2009, n. 19170, Schirripa, rv 243690), ritiene che
la mancata possibilità per il difensore dell’arrestato o del
fermato di prendere conoscenza del contenuto degli atti
posti a fondamento della richiesta di misura cautelare,
determina una violazione del diritto di difesa che si ripercuote negativamente sull’interrogatorio che si svolge nella
udienza di convalida, e che tiene luogo di quello di garanzia secondo quanto previsto dall’art. 294 c.p.p., determinando una nullità di ordine generale a regime intermedio
che va tempestivamente dedotta.
2. La decisione delle Sezioni unite
Le Sezioni unite con la decisione in rassegna hanno risolto il quesito affermando il seguente principio di diritto: “il
difensore dell’arrestato o del fermato ha diritto di esaminare
ed estrarre copia degli atti su cui si fonda la richiesta di convalida del fermo o dell’arresto e di applicazione della misura
cautelare. Il rigetto di tale richiesta, determina una nullità di
ordine generale a regime intermedio dell’interrogatorio e del
provvedi- mento di convalida, che resta sanata a norma
dell’art. 182 c.p.p., comma 2, se non viene eccepita nella
udienza di convalida”.
L’approdo è in sintonia con la Corte di Strasburgo, la quale ha costantemente avuto modo di sottolineare che tutti i
processi penali devono svolgersi nel contraddittorio e garantire
la parità delle armi tra accusa e difesa per aversi un processo
equo. Il diritto a un processo penale in contraddittorio implica,
per l’accusa come per la difesa, la facoltà di prendere conoscenza delle osservazioni o degli elementi di prova prodotti dall’altra parte (Brandstetter c. Austria, 28 agosto 1991, pp. 66 - 67,
serie A n. 211). Per di più, l’art. 6 p. 1 esige che le autorità
procedenti comunichino alla difesa tutte le prove pertinenti in
loro possesso, sia a carico che a discarico (Edwards c. Regno
Unito, 16 dicembre 1992, p. 36, serie A n. 247-B)”.
È ben vero – ha ancora sottolineato la Corte – che “il diritto alla diffusione delle prove pertinenti non è assoluto”, in
quanto “in un determinato processo penale vi possono essere
interessi concorrenti – come la sicurezza nazionale o la necessità di proteggere i testimoni che rischiano rappresaglie, o di
mantenere segreti dei metodi polizieschi di ricerca dei reati che devono essere bilanciati con i diritti dell’imputato (Doorson c. Olanda 26 marzo 1996, pag. 70, Recueil des arrets et
decision 1996 - 2^, e Rowe e Davis c. Regno Unito, n.
28901/95, p. 61, CEDU 2000 - 2^)”. Sicchè, “in alcuni casi
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può essere necessario dissimulare alcune prove alla difesa, in
modo da preservare i diritti fondamentali di un altro individuo o salvaguardare un interesse pubblico importante”.
“Tuttavia - ha soggiunto la Corte - sono legittime rispetto
all’art. 6 p. 1 solo le misure che limitano i diritti della difesa
che sono assolutamente necessarie (Van Mechelen e altri c.
Olanda, 23 aprile 1997, 58, Recueil 1997 - 3^). Per di più, se
si vuole garantire un processo equo all’imputato, tutte le
difficoltà causate alla difesa da una limitazione dei suoi diritti devono essere sufficientemente compensate dalla procedura
seguita dinanzi alle autorità giudiziarie (Rowe e Davis, già
cit., pag. 61 in fine)” (Decisione dell’8 dicembre 2009, Previti c. Italia, ric. n. 45291/06, pagg. 178 e 179).
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CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite penali,
sentenza 20 ottobre 2010 (ud. 15 luglio 2010), n. 37501
Misure cautelari reali: applicabilità della deroga alla sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per reati di criminalità organizzata fatta dalla legge
7 ottobre 1969 n. 742, art. 2 comma 1.
1. Le precedenti posizioni
La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite vedeva
contrapposti diversi indirizzi ermeneutici qui di seguito sinteticamente riassunti.
a. Secondo un primo orientamento (che appare espresso
nella sua compiuta aderenza al quesito in esame da sez.
VI, 3 marzo 2008, dep. 12 marzo 2008, n. 11142, Mannina, e da sez. II, 18 dicembre 2007, dep. 10 gennaio 2008,
Di Fazio), la deroga alla sospensione dei termini procedurali in periodo feriale fatta per i procedimenti per reati di
criminalità organizzata vale, quanto ai procedimenti incidentali cautelari, solo con riferimento alle misure cautelari personali, interpretandosi il rinvio operato dalla l. n.
742 del 1969, art. 2, comma 2, come fatto all’intera disposizione del comma 1, e quindi anche al presupposto
riferentesi ai “procedimenti relativi ad imputati in stato di
custodia cautelare”;
b. Altro indirizzo espresso da Cass., sez. I, 3 febbraio 2010,
dep. 12 febbraio 2010, n. 5793, Briguori, Rv. 246577; sez.
I, 3 febbraio 2010, dep. 26 febbraio 2010, n. 7943, Coccia,
Rv. 246248; sez. I, 2 marzo 2010, dep. 15 marzo 2010, n.
10293, Nicoletti, Rv. 246520, ritiene che tale rinvio riguarda la sola prima parte del comma primo, e cioè quella che menziona tutti i “termini procedurali, compresi
quelli stabiliti per la fase delle indagini preliminari”, senza potersi fare distinzione tra procedure in materia di
misure personali e quelle in materia di misure reali, essendo invece tale distinzione rilevante solo se, anche in procedimenti estranei alla materia della criminalità organizzata, l’imputato o il difensore, in base alla previsione
contenuta nel comma 1, rinunzino alla sospensione dei
termini.
2. La decisione delle Sezioni unite
Le Sezioni Unite, ispirandosi ad altra precedente decisione
delle medesime sez. un. Giammaria (sez. un., sentenza 8 mag-
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gio 1996, dep. 26 giugno 1996, n. 12, Giammaria, Rv.
205039,) affermano che, se la scelta legislativa della non operatività della moratoria dei termini feriali nei procedimenti
interessanti la delinquenza organizzata deriva dalla esigenza
di evitare che il decorso dei termini procedurali delle indagini
preliminari subisca pause o decellerazioni potenzialmente
pregiudizievoli all’attività inquirente, non si vede perchè tale
esigenza non dovrebbe assistere i procedimenti di impugnazione in materia di sequestri, i quali, al pari di quelli riguardanti misure personali, appaiono comunque connessi all’attività di indagine e funzionali alla esigenza di una risposta il
più possibile rapida alle condotte delittuose della criminalità
organizzata, a livello sia di prevenzione sia di repressione.
Ne risulta formulato il seguente principio di diritto: “La
deroga alla sospensione in periodo feriale dei termini delle
indagini preliminari nei procedimenti per reati di criminalità
organizzata, fatta dalla l. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 2,
comma 2, riguarda anche le procedure incidentali aventi ad
oggetto misure cautelari reali”.
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CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite penali,
sentenza 15 ottobre 2010 (ud. 15 luglio 2010) n. 36837
Concorso di cause estintive del reato e della pena - Prevalenza
della prima: la questione risolta dalle Sezioni Unite concerneva un contrasto registrato tra diversi pronunziati delle sezioni
semplici sintetizzabile nel quesito con il quale si chiede se possano contestualmente applicarsi una causa estintiva del reato,
quale la sospensione condizionale della pena, e una causa
estintiva della pena stessa, quale in particolare l’indulto.
1. Le precedenti posizioni
a. Un primo indirizzo afferma che, nel caso di concorso di
una causa di estinzione del reato con una causa di estinzione della pena, prevale sempre la prima, anche se intervenuta successivamente, in forza del disposto dell’art. 183
c.p., comma 2, con la conseguenza per la quale la concessione della sospensione condizionale della pena esclude
l’applicazione dell’indulto, in quanto, una volta realizzatesi le condizioni previste dalla legge, essa determina
l’estinzione del reato (e non della sola pena), risultando
quindi più favorevole al condannato e nessun pregiudizio,
peraltro, potendo derivare dalla mancata applicazione del
condono, in caso di revoca della sospensione condizionale, atteso che l’applicazione dell’indulto può in qualsiasi
tempo essere richiesta in sede esecutiva.
b. Per un secondo orientamento, per il quale l’indulto, integrando in alcune situazioni una causa estintiva più favorevole al reo, deve esser applicato a preferenza della sospensione condizionale tutte le volte in cui quest’ultima
sia sottoposta a condizioni particolari, come quella del
pagamento di una provvisionale liquidata a favore della
parte civile, (in tal senso Cass., sez. IV, 5 novembre 1968
n. 1755, Tessiore, Rv. 110054 e Cass., sez. IV, 21 gennaio
1971 n. 146, Felici, Rv. 117249.)
c. Altro indirizzo predica la contestuale applicazione della
sospensione condizionale della pena per la pena principale
e dell’indulto per le residue sanzioni, ravvisando la necessità
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- ma ciò anteriormente alla riforma introdotta dalla legge 7
febbraio 1990, n. 19, che ha esteso la sospensione condizionale alle pene accessorie - di poter conseguire, attraverso
l’applicazione dell’indulto, un beneficio non consentito dalla suddetta causa estintiva del reato, come la cessazione
dell’esecuzione di pene accessorie ovvero la eliminazione o
riduzione della sospensione della patente di guida (qualificata, di volta in volta, come pena accessoria o come sanzione amministrativa o come sanzione penale atipica).
d. Ultimo orientamento ritiene la possibilità – in termini
generali – di contestuale applicazione dell’indulto e della
sospensione condizionale, soluzione all’inizio fondata
sulla base dell’esigenza di assicurare l’applicazione dell’indulto quando da esso deriva un beneficio non consentito
dalla sospensione condizionale e successivamente correlata all’assunto che la concessione della sospensione condizionale della pena non preclude l’applicazione dell’indulto
in quanto non è ravvisabile tra i due istituti una incompatibilità logico-giuridica alla stregua dell’art. 183 c.p. in
materia di concorso di cause estintive, operando i due
benefici in tempi e con effetti diversi: l’indulto estingue la
pena con efficacia immediata, mentre la sospensione condizionale estingue il reato, ma solo in futuro ed eventualmente, al compimento del termine stabilito, qualora il
condannato adempia agli obblighi impostigli e non commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole. Secondo questo indirizzo, in ossequio al principio del
favor rei, i due benefici possono essere applicati congiuntamente per assicurare al condannato l’estinzione delle
pene, anche se allo spirare del termine stabilito dall’art.
163 c.p. non si dovessero verificare le condizioni per la
estinzione del reato ex art. 167 c.p., ovvero si verificassero le condizioni previste dall’art. 168 c.p. per la revoca
della sospensione condizionale: ogni beneficio opera nel
momento in cui interviene e la causa successiva fa cessare
gli effetti della condanna non ancora estinti in conseguenza della causa precedente. (in tal senso Cass., sez. III, 21
settembre 2007 n. 38725, Ragozzino, Rv. 237945; Cass.,
sez. VI, 26 maggio 2008 n. 38563, Ammirati, Rv. 241507;
Cass., sez. V, 5 giugno 2008 n. 36663, Indricchio, Rv.
241635; Cass., sez. VI, 15 ottobre 2008 n. 508, Gianotti,
Rv. 242365; Cass., sez. I, 27 maggio 2009 n. 24920, Del
Gaudio, Rv. 243957; Cass., sez. VI, 19 giugno 2009 n.
38113, Di Pasquale, Rv. 245012; Cass., sez. III, 23 giugno
2009 n. 38082, Ferrigno, Rv. 244625; Cass., sez. III, 29
aprile 2010 n. 22756, Manelli, non massimata.)
2. Gli orientamenti dottrinari
Gli orientamenti dottrinari, pure citati dalle Sezioni unite,
possono essere così sintetizzati: da una parte, si sosteneva la
prevalenza della sospensione condizionale in quanto causa
estintiva del reato e non della sola pena, da altra parte si affermava la prevalenza dell’indulto laddove tale beneficio si dimostrasse concretamente più vantaggioso per l’imputato rispetto
al beneficio della sospensione condizionale, ed ancora altro
parte ancora ritenendosi compatibili e congiuntamente applicabili i due benefici in forza della prevista disciplina del concorso
di cause estintive, ovvero sostenendosi parimenti la compatibilità dei due benefici ma sulla base della esclusione dell’applicabilità della disciplina del concorso di cause estintive.
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3. La decisione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, premettendo che:
1. l’istituto della sospensione condizionale della pena ha finalità giuridico-sociali, esso mirando alla prevenzione
della criminalità (cfr. ex multis: Corte Cost., sent. n. 434
del 1998) ed al ravvedimento del condannato, costituendo
la disposta (e revocabile) decisione di sospensione dell’esecuzione della pena strumento di pressione nei confronti
del reo in vista di una sua non recidivanza e dell’adempimento di obblighi di particolare valore sociale, integrando
la decisione (conseguente ad un giudizio prognostico di
astensione dalla reiterazione dei reati) una misura quanto
mai opportuna tesa a tenere il condannato fuori dall’ambiente carcerario;
2. le indicate finalità sarebbero, con tutta evidenza, vanificate dalla simultanea applicazione dell’indulto, non potendosi più porre in siffatto caso alcuna questione di revocabilità della sospesa esecuzione della pena, oramai
condonata, e così eliminandosi il carattere disincentivante della misura di cui all’art. 163 c.p., non più suscettibile
di costituire una remora per il condannato;
3. peraltro, non sussiste alcun interesse del condannato alla
simultanea applicazione del beneficio indulgenziale dal
momento che la pena irrogata, ed in relazione alla quale
è stato applicato il benefico di cui all’art. 163 c.p., è priva
di esecutività;
4. dalla mancata contestuale applicazione dell’indulto, inoltre,
non deriva alcun danno per il condannato, atteso che costui, ove non risulti in prosieguo utilmente decorso “il periodo di prova” ex art. 163 c.p. (e non si verifichi, quindi,
la definitiva estinzione del reato), può richiedere in qualsiasi momento l’applicazione del provvedimento indulgenziale con lo strumento dell’incidente di esecuzione ai sensi
dell’art. 672 c.p.p.;
5. una decisione al riguardo non è inibita al giudice dell’esecuzione atteso che la pregressa mancata applicazione
dell’indulto, essendo correlata ad una diversa situazione e
non essendo stata determinata da alcuna valutazione di
merito da parte del giudice della cognizione, non ha efficacia ostativa in sede esecutiva;
6. dalla applicazione dell’indulto in contestualità con il beneficio della sospensione condizionale possono derivare
inammissibili svantaggi per il condannato, in palese violazione del principio del favor rei al quale pure si sono
richiamate alcune delle pronunzie che hanno privilegiato
il diverso orientamento, atteso che, in caso di concorso o
sopravvenienza di altri titoli esecutivi, il condannato non
potrebbe, durante il decorso del periodo di prova ex art.
163 c.p., avvalersi in relazione ad essi del beneficio indulgenziale, se non - eventualmente - per la parte residua, una
volta detratta la quota di condono applicata alla pena
sospesa e rispettati i limiti stabiliti nel provvedimento di
clemenza;
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte concludono
affermando il seguente principio di diritto per il quale “l’indulto non può concorrere con la sospensione condizionale
della pena, prevalendo sul primo quest’ultimo beneficio”.
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CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite penali,
sentenza 05 ottobre 2010 (ud. 24 giugno 2010), n. 35737
Cessione di stupefacenti al minore: compatibilità dell’aggravante di cui all’art. 80 comma i lett. a) con l’attenuante
del fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma v dello stesso
d.P.R.
1. Le precedenti posizioni
La questione in rassegna sottoposta all’esame delle Sezioni
unite riguardava se l’aggravante di cessione di sostanze stupefacenti a soggetto minore di età (d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309,
art. 80, comma 1, lett. a), sia compatibile con l’attenuante del
fatto di lieve entità (art. 73, comma 5, stesso d.P.R.).
La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite vedeva
contrapposti diversi indirizzi ermeneutici qui di seguito sinteticamente riassunti.
a. Per un primo orientamento sarebbe “evidente” la incompatibilità tra la circostanza aggravante della cessione a
minori di sostanza stupefacente e l’ipotesi attenuata del fatto
di lieve entità, in quanto il fatto stesso della cessione a minori, per la sua maggiore intrinseca pericolosità, rende più
grave l’azione delittuosa ed esclude l’applicazione dell’ipotesi
attenuata, anche in presenza di altri elementi sintomatici, in
astratto, della lieve entità del fatto (sez. IV, 11 luglio 1991, n.
10793, Spanazzi, rv 186578; sez. IV, 29 aprile 1992, n. 6672,
Fares, rv 190503; sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 20663, Cassoni, rv 240057).
b. Per un secondo indirizzo, invece, l’aggravante della
cessione di sostanza stupefacente a persona minore di età non
è incompatibile con l’attenuante del fatto di lieve entità, con
cui è oggetto di bilanciamento nell’ambito di un giudizio di
globale valutazione della fattispecie, giacchè anche nella cessione di droga a persona minore è possibile procedere ad
identificare condotte di minima offensività in rapporto ai
mezzi, alle modalità e circostanze dell’azione, alla quantità e
qualità della sostanza ceduta (sez. IV, 19 maggio 1997, n.
4240, Bettoschi, rv 207917; sez. VI, 17 aprile 1998, n. 8612,
Piccardi, rv 211461; sez. VI, 17 giugno 1999, n. 9579, Caruso,
rv. 214318; sez. V, 6 maggio 2009, n. 22123, D.P., rv. 244145;
nonchè, implicitamente, sez. VI, 15 ottobre 2002, n. 37016,
Mazzei, rv. 222845). Esemplificativamente tali decisioni indicano i casi di cessione di minime quantità, sporadicamente
effettuata a soggetto prossimo alla maggiore età; di cessione
analoga a titolo gratuito o di mera amicizia a soggetto notoriamente tossicodipendente, che ne abbia fatto richiesta; di
cessioni effettuate da persona a sua volta minore a favore di
coetanei, al di fuori di abituale attività di spaccio e senza finalità di lucro.
2. La decisione delle Sezioni unite
Le Sezioni Unite dopo aver ribadito la natura giuridica
della fattispecie prevista dal d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
comma 5, che configura una circostanza ad effetto speciale e
non un reato autonomo, secondo la pacifica giurisprudenza
di legittimità, (sez. un., 31 maggio 1991, n. 9148, Parisi, rv.
187930; sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, Primavera, rv.
216668), configurazione confermata anche a seguito delle
modifiche apportate dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, art.
4-bis, comma 1, lett. f), convertito, con modificazioni, dalla
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l. 21 febbraio 2006, n. 49, che riguardano esclusivamente una
nuova modulazione dell’entità della pena, non più rapportata
alla natura delle sostanze stupefacenti o psicotrope (sez. IV,
20 febbraio 2007, n. 16444, Severa, rv. 236606; sez. IV, 28
maggio 2008, n. 27429, Messina, rv. 240849; sez. VI, 22
ottobre 2008 - 26 marzo 2009, n. 13523, De Lucia, rv.
243827), afferma che nessun elemento di ordine letterale o
sistematico è rinvenibile a sostegno della tesi della incompatibilità fra l’aggravante specifica di cui al d.P.R. n. 309 del
1990, art. 80, comma 1 e l’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, stesso d.P.R.
Da tanto viene formulato il principio di diritto secondo il
quale “l’aggravante di cessione di sostanze stupefacenti a
soggetto minore di età è compatibile con l’attenuante del
fatto di lieve entità” .
Le Sezioni unite affermano che l’interpretazione letterale
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e sistematica è sorretta anche dalla ratio, insita in tutte le
norme che prevedono come attenuante la “lieve entità” (v. art.
311 c.p.; l. 2 ottobre 1967, n. 895, art. 5; l. 18 aprile 1975, n.
110, art. 4) od anche la “particolare tenuità” (art. 323-bis c.p.
e art. 648, comma 2, c.p.) dei fatti incriminati, che è quella
di adeguare il trattamento sanzionatorio alla concretezza
della fattispecie.
Segnalano, infine, i Giudici Ermellini che si tratta di una
esigenza perfettamente in sintonia con un quadro di ragionevolezza della disciplina legislativa costituzionalmente rilevante ribadito recentemente da Corte Costituzionale la quale dà
ampio spazio alle valutazioni discrezionali del giudice di merito al fine di evitare automatismi sanzionatori relativi “alla
predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra
circostanze eterogenee” (Corte cost., sent. n. 192 del 2007, n.
257 del 2008, n. 171 del 2009).
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Rassegna
di legittimità
● A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto penale
presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
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Azione penale – Querela – Persone giuridiche, enti e associazioni
– Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP) – Legale rappresentante “pro tempore” del compartimento regionale – Legittimazione a proporre
querela – Sussistenza
Il legale rappresentante “pro-tempore” del compartimento regionale dell’INPDAP è legittimato a proporre querela
per conto dell’ente. (In motivazione, la S.C. ha richiamato
l’art. 3, d.P.R. 24 settembre 1997, n. 368 recante Regolamento concernente norme per l’organizzazione ed il funzionamento dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti
dell’amministrazione pubblica, nonché Cass. civ., sez. I, 25
giugno 2003, n. 10077, rv. 564549; Cass. civ., sez. III, 24
novembre 2005, n. 24801, rv. 585493; Cass. civ., sez. II, 30
gennaio 2007, n. 1899, rv. 594977).
Cass. pen., sez. V, sentenza 2 luglio 2010, n. 30959
(dep. 03 agosto 2010) Rv. 247766;
Pres. Calabrese, Est. Vessichelli, Imp. Cussigh, P.M. Delehaye
(Conf.);
(Rigetta, App. Milano, 19 aprile 2007)
Circolazione stradale (Nuovo Codice) – Norme di comportamento
– Circolazione – Guida in stato di ebbrezza – Da alcool – Confisca
obbligatoria del veicolo – Casi
Nel caso in cui il conducente postosi alla guida in stato di
ebbrezza abbia provocato un incidente stradale, è prevista la
confisca obbligatoria del veicolo soltanto ove risulti accertato un tasso alcolemico superiore a g/l 1,5; se il predetto tasso
risulti inferiore, può essere disposto unicamente il fermo
amministrativo.
Cass. pen., sez. IV, sentenza 10 giugno 2010, n. 32021
(dep. 18 agosto 2010 ) Rv. 247523;
Pres. Mocali, Est. D’Isa, Imp. PM in proc. Verardo P.M. Volpe (Diff.);
(Rigetta, Trib. lib. Pordenone, 08 gennaio 2010)
Giudizio – Atti preliminari al dibattimento – Proscioglimento prima del dibattimento (sentenza predibattimentale) – Impugnazione della parte civile – Ammissibilità – Esclusione
È inammissibile il ricorso per cassazione presentato dalla
parte civile avverso la sentenza predibattimentale di proscioglimento.
Cass. pen., sez. VI, sentenza 21 giugno 2010, n. 31016
(dep. 05 agosto 2010 ) Rv. 247786;
Pres. Ippolito, Est. Conti, Imp. P.C. nel proc. Scarpelli, P.M.
Stabile (Conf.);
(Dichiara inammissibile, Trib. Teramo, 22 aprile 2008)
Indagini preliminari – Chiusura delle indagini - Archiviazione –
Riapertura delle indagini – Autorizzazione – Mancanza – Conseguenze – Inutilizzabilità atti indagine – Improcedibilità dell’azione – Archiviazione codice di rito del 1930 – Effetto preclusivo –
Assenza
Il difetto di autorizzazione alla riapertura delle indagini
determina l’inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione e preclude l’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto di reato,
oggettivamente e soggettivamente considerato, da parte del
medesimo ufficio del pubblico ministero. (La Corte ha poi
precisato che il provvedimento di archiviazione adottato nel
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regime normativo del codice di rito penale del 1930 non
produce l’indicato effetto preclusivo).
Cass. pen., sez. un., sentenza 24 giugno 2010, n. 33885
(dep. 20 settembre 2010 ) Rv. 247834;
Pres. Gemelli, Est. Conti, Imp. Giuliani ed altro, P.M. Palombarini (Conf.);
(Rigetta, App. Roma, 24 giugno 2008)
Impugnazioni - Appello – Decisioni in camera di consiglio – Procedimento – Imputato detenuto o soggetto a misure limitative
della liberta personale – Diritto di presenziare all’udienza – Sussistenza
L’imputato detenuto o soggetto a misure limitative della
libertà personale, che abbia tempestivamente manifestato in
qualsiasi modo la volontà di comparire all’udienza, ha diritto di presenziare al giudizio camerale d’appello avverso la
sentenza pronunciata in giudizio abbreviato, anche se ristretto in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice procedente. (In motivazione la Corte, nell’escludere che la richiesta
debba rispettare il termine di cinque giorni indicato dall’art.
127, comma secondo, c.p.p., ha precisato che detto principio
è conforme ai principi enucleabili dall’art. 111 Cost., dall’art.
6, comma terzo, lett. c), d) ed e), della Cedu, dall’art. 14,
comma terzo, lett. d), e) ed f) del Patto internazionale sui
diritti civili e politici e da quanto affermato da Corte cost.,
sent. n. 45 del 1991).
Cass. pen., sez. un., sentenza 24 giugno 2010, n. 35399 (dep. 01 ottobre 2010) Rv. 247835;
Pres. Gemelli, Est. Franco, Imp. F., P.M. in proc. Palombarini (Conf.);
(Annulla con rinvio, App. Napoli, 15 gennaio 2009)
Impugnazioni – Appello – Decisioni in camera di consiglio – Procedimento – Imputato detenuto o soggetto a misure limitative
della libertà personale – Diritto di presenziare all’udienza – Sussiste – Tempestività della richiesta – Doveri del giudice d’appello
–Individuazione
Nel giudizio camerale d’appello l’imputato, detenuto o
comunque soggetto a misure limitative della libertà personale, ha diritto di richiedere al giudice competente l’autorizzazione a recarsi in udienza o di essere ivi accompagnato o
tradotto e, in difetto di quest’ultima o in caso di rigetto della
medesima da parte del giudice competente, a fronte della
tempestiva richiesta dell’imputato di presenziarvi, v’è l’obbligo del giudice d’appello procedente, a pena di nullità assoluta, di disporne la traduzione, essendo inibita la celebrazione del giudizio in sua assenza.
Cass. pen., sez. un., sentenza 24 giugno 2010, n. 35399 (dep. 01 ottobre 2010 ) Rv. 247837;
Pres. Gemelli, Est. Franco, Imp. F., P.M. in proc. Palombarini (Conf.);
(Annulla con rinvio, App. Napoli, 15 gennaio 2009)
Impugnazioni – Appello – Decisioni in camera di consiglio – Procedimento – Udienza –Traduzione dell’imputato detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire all’udienza – Omissione – Nullità assoluta – Sussistenza
La mancata traduzione all’udienza camerale d’appello,
perché non disposta o non eseguita, dell’imputato che abbia
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tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di
comparire e che si trovi detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, determina la nullità assoluta e
insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza.
Cass. pen., sez. un., sentenza 24 giugno 2010, n. 35399 (dep. 01 ottobre 2010) Rv. 247836;
Pres. Gemelli, Est. Franco, Imp. F., P.M. in proc. Palombarini (Conf.);
(Annulla con rinvio, App. Napoli, 15 gennaio 2009)
Misure cautelari – Personali – Misure coercitive – Custodia cautelare – In carcere – Divieto di sostituzione con misura meno afflittiva nei casi di cui all’art. 275, comma terzo, c.p.p. – Attenuazione
delle esigenze cautelari - Effetti
La presunzione di inadeguatezza di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere per i reati indicati dall’art. 275,
comma terzo, c.p.p. comporta l’impossibilità di sostituire la
custodia in carcere con gli arresti domiciliari. (La Corte ha
precisato che ove il giudice verifichi l’insussistenza di esigenze cautelari, deve disporre la liberazione dell’imputato).
(Conformi, Sez. VI, nn. 32223 e n. 32224 del 2010, non
massimate).
Cass. pen., sez. VI, sentenza 9 luglio 2010, n. 32222
(dep. 23 agosto 2010 ) Rv. 247596;
Pres. De Roberto, Est. Ippolito, Imp. Galdi, P.M. Geraci
(Conf.);
(Dichiara inammissibile, Trib. lib. Napoli, 06 aprile 2010)
Procedimenti speciali – Patteggiamento – In genere - Procedimenti speciali – Patteggiamento – Cosiddetto “patteggiamento
allargato” – Preclusione per i recidivi reiterati – Operatività –­ Pregressa dichiarazione di recidiva – Necessità – Esclusione
Ai fini dell’interdizione al cosiddetto “patteggiamento allargato” nei confronti di coloro che siano stati dichiarati recidivi ai sensi dell’art. 99, comma quarto, c.p., non occorre una
pregressa dichiarazione giudiziale della recidiva che, al pari di
ogni altra circostanza aggravante, non viene “dichiarata”, ma
può solo essere ritenuta e applicata ai reati in relazione ai
quali è contestata. (In motivazione, la Corte ha chiarito che la
testuale disposizione dall’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., la
quale fa riferimento a “coloro che siano stati dichiarati recidivi”, è tecnicamente imprecisa ed è stata utilizzata dal legislatore per motivi di uniformità lessicale, in quanto riferita anche
ad altre situazioni soggettive che, attributive di specifici “status”, come quelli di delinquente abituale, professionale e per
tendenza, richiedono un’apposita dichiarazione espressamente prevista e disciplinata dalla legge).
Cass. pen., sez. un., sentenza 27 maggio 2010, n. 35738
(dep. 05 ottobre 2010 ) Rv. 247838;
Pres. Carbone, Est. Fumu, Imp. P.G., Calibe’ e altro (Parz.
Diff.);
(Annulla in parte senza rinvio, Gip Trib. Genova, 27 aprile
2009)
Procedimenti speciali – Patteggiamento – Richiesta scritta – Procedimenti speciali – Patteggiamento – Sentenza – In genere –
Pena illegale – Giudizio successivo ad annullamento della Corte
di cassazione – Definizione mediante nuovo accordo – Possibilità
– Fattispecie
Nel giudizio che segue ad annullamento senza rinvio
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della sentenza di patteggiamento determinato dall’illegalità
della pena (nella specie conseguente a erronea valutazione di
prevalenza di circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata,
pur ritenuta sussistente), le parti sono rimesse dinanzi al
giudice nelle medesime condizioni in cui si trovavano prima
dell’accordo annullato e pertanto non è loro preclusa la possibilità di riproporlo, sia pure in termini diversi. (Fattispecie
in tema di cosiddetto “patteggiamento allargato”, con riferimento alla quale la Corte ha ritenuto che non potesse comunque desumersi dall’erronea valutazione del giudice in ordine
alla dichiarata subvalenza della recidiva qualificata la sua
intenzione di escluderne in radice la rilevanza) V. sez. II, 19
gennaio 2004 n. 11342, non massimata.
Cass., sez. un., sentenza 27 maggio 2010, n. 35738
(dep. 05 ottobre 2010 ) Rv. 247838;
Pres. Carbone Est. Fumu Imp. P.G., Calibe’ e altro (Parz.
Diff.);
(Annulla in parte senza rinvio, Gip Trib. Genova, 27 aprile
2009)
Reati contro il patrimonio – Delitti – Furto – Circostanze aggravanti – Introduzione in abitazione – Nozione di “privata dimora”
– Fattispecie
La nozione di “privata dimora” nella fattispecie di furto
in abitazione è più ampia di quella di “abitazione”, in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compia, anche in
modo transitorio e contingente, atti della vita privata (Fattispecie relativa a furto commesso all’interno di un bar).
Cass. pen., sez. V, sentenza 2 luglio 2010, n. 30957
(dep. 03 agosto 2010 ) Rv. 247765;
Pres. Calabrese Est. Vessichelli Imp. Cirlincione P.M. Delehaye (Conf.);
(Rigetta, App. Trapani, 20 febbraio 2008)
Recidiva – Contestazione – Obbligatorietà – Applicazione da
parte del giudice – Necessità – Esclusione
La recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del
contraddittorio, ma può non essere ritenuta configurabile dal
giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma quinto, c.p., nel qual caso
va anche obbligatoriamente applicata. (Nell’enunciare tale
principio, la Corte ha precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi
dell’art. 99 c.p., è compito del giudice quello di verificare in
concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo
di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo
autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e
al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di
colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro
formale dell’esistenza di precedenti penali). V. Corte cost.,
14 giugno 2007 n. 192; 14 giugno 2007 n. 198; 30 novembre
2007 n. 409; 21 febbraio 2008 n. 33; 4 aprile 2008 n. 90; 4
aprile 2008 n. 91; 6 giugno 2008 n. 193; 10 luglio 2008 n.
257; 29 maggio 2009 n. 171.
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Cass. pen., sez. un., sentenza 27 maggio 2010, n. 35738
(dep. 05 ottobre 2010 ) Rv. 247838;
Pres. Carbone Est. Fumu Imp. P.G., Calibe’ e altro (Parz.
Diff.);
(Annulla in parte senza rinvio, Gip Trib. Genova, 27 aprile
2009)
Recidiva – In genere – Esclusione o riconoscimento da parte del
giudice – Effetti – Fattispecie
Una volta contestata la recidiva nel reato, anche reiterata,
purché non ai sensi dell’art. 99, comma quinto, c.p., qualora
essa sia stata esclusa dal giudice, non solo non ha luogo l’aggravamento della pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto
del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui
all’art. 69, comma quarto, c.p., dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all’art. 81, comma
quarto, stesso codice, dall’inibizione all’accesso al cosiddetto
“patteggiamento allargato” e alla relativa riduzione premiale di cui all’art. 444, comma 1-bis, c.p.p.; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva stessa non
sia stata esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità. (Fattispecie relativa ad istanza
di cosiddetto “patteggiamento allargato”) V. sez. II, 19 gennaio 2004 n. 11342, non massimata.
Cass. pen., sez. un., sentenza 27 maggio 2010, n. 35738
(dep. 05 ottobre 2010) Rv. 247838;
Pres. Carbone Est. Fumu Imp. P.G., Calibe’ e altro (Parz.
Diff.);
(Annulla in parte senza rinvio, Gip Trib. Genova, 27 aprile
2009)
Sentenza – Requisiti – Motivazione – In genere – Diniego del
perdono giudiziale e concessione della sospensione condizionale
della pena – Contraddittorietà – Esclusione
Il diniego del perdono giudiziale contestuale alla concessione della sospensione condizionale della pena non esprime
alcuna contraddittorietà, trattandosi di istituti che si fondano su presupposti diversi, né può essere soggetta a censura,
avuto riguardo agli effetti che sono ricollegabili ai due distinti benefici, la scelta di rafforzare la previsione del ravvedimento del prevenuto mediante la possibile revoca della sospensione condizionale della pena.
Cass. pen., sez. V, sentenza 30 giugno 2010, n. 30946
(dep. 03 agosto 2010 ) Rv. 247764;
Pres. Colonnese, Est. Vessichelli, Imp. C. e altro, P.M. Baglione (Diff.);
(Dichiara inammissibile, App. Reggio Calabria, 18 giugno
2009)
Stupefacenti – In genere – Attenuante del fatto di lieve entità –
Aggravante della cessione a minore – Concorso di circostanze –
Configurabilità – Compatibilità – Sussistenza – Fattispecie
L’aggravante della cessione di sostanze stupefacenti a
soggetto minore di età è astrattamente compatibile con l’attenuante del fatto di lieve entità; ne consegue che il giudice
deve valutarne la compatibilità caso per caso, tenendo conto
di tutte le specifiche e concrete circostanze nelle quali la cessione a minore si realizza. (Fattispecie nella quale l’attenuante era stata riconosciuta in relazione alla cessione a soggetto
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Diritto penale
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Giuseppina Marotta
Avvocato
Concorso di persone : porto e detenzione di arma a bordo di auto
– Configurabilità del concorso di persone nel reato solo se dimostrato la piena consapevolezza del concorrente.
(art. 110 c.p.)
Il concorso di più persone nel porto o nella detenzione di
un’ arma rivenuta a bordo di un’auto, anche se non può essere escluso dalla appartenenza di questa ad uno solo dei
concorrenti, necessita del riscontro indefettibile, seppur in
termini indiziari, di una piena consapevolezza del concorrente della condotta antigiuridica altrui. Né può ritenersi sufficiente un profilo di colpa astrattamente rilevante ex art. 42
comma 4 c.p. – vista l’insussistenza di una regola cautelare
che imponga a ciascuno di verificare l’integrale contenuto di
un mezzo di trasporto (altrui) sul quale ci si accinga a salire.
Trib. Nola, G.M. Scermino,
sentenza 26 maggio 2010, n. 772
Estorsione: consumazione e tentativo – Presupposti.
(art. 629 c.p.)
Il reato di estorsione si identifica alla stregua della formulazione normativa, nel fatto di “chiunque, mediante violenza
o minaccia costringa ta1uno a fare o ad omettere qualche
cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui
danno”. Se il delitto di cui all’art. 629 c.p. si consuma dunque
nel momento in cui l’autore consegue un ingiusto profitto per
sé o per altri, con altrui danno, si ha tentativo di estorsione
ogni qualvolta all’illecita coartazione della volontà della
vittima, attuata con violenza o minaccia non faccia seguito
l’evento avuto di mira dal colpevole per l’operare di circostanze esterne, concomitanti o sopravvenute alla condotta ed
estranee alla volontà dell’estorsore.
Trib. Nola, coll. D),
sentenza 07 luglio 2010, n. 1134;
Pres. Bruno, Est. Aurigemma
Evasione: nozione di abitazione – Esclusione di giardini ed aree
condominiali
(art. 385 c.p.)
La nozione di abitazione va intesa come luogo in cui il
soggetto conduce la vita domestica e privata, con esclusione
di ogni altra appartenenza del tipo di aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili, che non siano di
stretta pertinenza dell’abitazione stessa; ciò al fine di agevolare i controlli di polizia sulla reperibilità del sottoposto e per
evitare contatti e frequentazioni con altre persone che egli
non è autorizzato ad incontrare.
Trib. Nola, G.M. Critelli,
sentenza 24 maggio 2010, n. 756
Evasione: nozione di abitazione – Finalità
(art. 385 c.p.)
L’abitazione, dalla quale la persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari non deve allontanarsi, va intesa
soltanto come il luogo in cui il soggetto conduce la propria
vita domestica e privata, con esclusione di ogni altra appartenenza del tipo di aree condominiali, dipendenze, giardini,
cortili e spazi simili, che non siano di stretta pertinenza
dell’abitazione stessa. Ciò al fine di agevolare i controlli di
penale
Rassegna di merito
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polizia sulla reperibilità del sottoposto ed altresì per evitare
contatti e frequentazioni di quest’ultimo con altri soggetti
che egli non è autorizzato ad incontrare.
Trib. Napoli, G.M. Pollio,
sentenza 16 settembre 2010, n. 11101
Evasione: autorizzazione a recarsi a lavoro – Rientro oltre il limite
orario – Elemento soggettivo – Esclusione
(art. 385 c.p.)
In caso di detenuto agli arresti domiciliari autorizzato a
recarsi a lavoro, il superamento del limite temporale concessogli, apparendo del tutto contenuto e trascurabile, non
sembra di per sé idoneo ad integrare la violazione delle prescrizioni imposte, in assenza di ulteriori elementi indizianti
da cui evincere la avvenuta inosservanza degli obblighi e la
coscienza e volontà dell’allontanamento non autorizzato.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
sentenza 16 settembre 2010, n. 11195
Falsa attestazione in certificato: atto di citazione senza autentica
di firma del soggetto patrocinato – Irrilevanza penale della condotta
(art. 481c.p.)
Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art 481 c.p. è
indispensabile che la falsa attestazione sia contenuta in un
certificato e che abbia ad oggetto fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità . E tale non è certamente l’atto di
citazione predetto, sottoscritto dall’avvocato senza alcuna
autentica della firma del soggetto mendacemente indicato
come patrocinato dallo stesso. L’atto costituisce una mera
scrittura privata, la falsa indicazione nel corpo della quale
dell’asseritamente avvenuto conferimento del mandato neanche può integrare gli estremi del delitto di cui all’art 485
c.p., giacché, il falso in scrittura privata è configurabile solo
quando si tratti di falsità materiale e non qualora invece si
versi in ipotesi di falsità ideologica.
Trib. Napoli, G.M. Romano,
sentenza 21 luglio 2010, n. 10281
False dichiarazioni sulla propria identità personale: differenza
con il reato di falsa dichiarazione al p.u. sulla propria identità
(artt. 496 - 495 c.p.)
Il criterio distintivo tra il reato di cui all’art. 496 c.p. e
quello di cui all’art. 495 c.p.. come modificato con l n. 125/08,
nonostante le due fattispecie possano prima facie apparire sovrapponibili, si individua nell’elemento qualificante la condotta incriminata dall’art. 495 c.p., che usa il verbo “attesta” seguito dall’ avverbio “falsamente”. Tali espressioni, unitamente
al mantenimento delle due aggravanti per l’ipotesi che la falsa
dichiarazione sia commessa in atti dello stato civile ovvero sia
stata resa da un imputato o indagato alla A.G. o abbia determinato un erronea iscrizione nel casellario giudiziale ed il più
grave trattamento sanzionatorio riservato implica che, nonostante l’eliminazione dell’ espresso riferimento all’atto pubblico,
la condotta punibile a norma dell’art. 495 c.p. necessita che la
dichiarazione resa da soggetto sia tesa a garantire il proprio
stato o altre qualità e sia perciò destinata ad essere riprodotta
in un atto fidefaciente idoneo a documentarle.
Trib. Nola, G.M. Critelli,
sentenza 1 maggio 2010, n. 620
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False dichiarazioni sulla propria identità personale: condotta di
falsa dichiarazione a p.u. – Sussistenza del reato
(art. 496 c.p.)
Non ricorrono gli elementi costitutivi del delitto di cui
all’ art 495 c.p., ma del diverso reato di cui all’art, 496 c.p.
qualora l’imputato si sia limitato a rendere false dichiarazioni ai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni senza
che tali affermazioni fossero destinate ad essere riprodotte in
un atto pubblico con fede privilegiata
Trib. Nola, G.M. Critelli,
sentenza 01 maggio 2010, n. 620
Furto: circostanza aggravante – Presupposti
(art. 625, n. 6. c.p.)
Non sussiste l’aggravante di cui all’art. 625 n. 6 c.p. nel
caso di furto commesso in supermercato, poiché questo non
è un luogo dove si somministrano bevande o alimenti (come
ad esempio un ristorante e simili esercizio pubblici).
Trib. Nola, G.M. Bruno,
sentenza 28 maggio 2010, n. 788
Lesioni colpose: accertamento della responsabilità – Criteri
(art. 590 c.p.)
Il criterio generale dell’accertamento della responsabilità
colposa è fondato sulla verifica della prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo, con riferimento alla colpa professionale o specifica connessa a talune attività intrinsecamente ad
alto rischio (attività sportiva, attività medica, circolazione
stradale, attività lavorativa), per cui la responsabilità colposa sussiste laddove sia oltrepassato il limite del rischio consentito e tollerato dal sistema.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
sentenza 12 luglio 2010, n. 9929
Colpa: attività socialmente rischiose – Responsabilità per i soli
danni prevedibili e prevenibili
(art. 42 c.p.)
Ne discende che, nell’ambito delle attività socialmente
rischiose, il puntuale rispetto delle leges artis prefissate esime
da responsabilità anche laddove si sia verificato l’evento
dannoso, sempreché detto evento sia riconducibile al tipo di
evento che la regola specifica mirava propriamente a prevenire. L’agente pertanto risponderà per colpa dei soli danni
prevedibili e prevenibili con l’osservanza delle regole tecniche,
non invece di quelli del tutto imprevedibili oppure prevedibili ma verificatisi nonostante la fedele osservanza della
norma di cautela.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
sentenza 12 luglio 2010, n. 9929
Lesioni: malattia - Nozione – Requisiti
(art. 582 c.p.)
Ai fini dei perfezionamento del delitto di lesioni, il concetto di malattia deve essere inteso come comprensivo di
qualsivoglia alterazione anatomica funzionale dell’organismo ancorché lieve e circoscritta, che comporti un processo
di reintegrazione sia pure di breve durata, della salute della
vittima. È stato in particolare, sostenuto in giurisprudenza
che anche la contusione escoriata può essere ricondotta al
genus della malattia, perché ledendo, sia pure superficialmen-
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te il tessuto cutaneo, non si esaurisce in una semplice sensazione dolorosa, ma importa un’alterazione patologica dell’organismo” Analogamente per le alterazioni anatomiche di
minima rilevanza, quali gli ematomi, le ecchimosi e le contusioni, vanno ricompresi nel novero delle “malattie” e dunque,
sussunte nella previsione dell’art. 582 c.p.
Trib. Nola, coll. D),
sentenza 07 luglio 2010, n. 1133;
Pres. Bruno, Est. Aurigemma
Lesioni: elemento soggettivo – Dolo – Configurabilità
(art. 582 c.p.)
Per la sussistenza del dolo nel delitto di lesioni personali
non occorre, infatti, che la volontà dell’agente sia diretta alla
produzione delle conseguenze lesive, essendo sufficiente
l’intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica,
vale a dire il dolo generico, anche se del caso nella forma del
dolo eventuale.
Trib. Nola, coll. D),
sentenza 07 luglio 2010, n. 1133;
Pres. Bruno, Est. Aurigemma
Lesioni – percosse: criteri distintivi
(art. 582 – 581 c.p.)
È configurabile il mero delitto di percosse solo allorquando il comportamento del soggetto agente abbia provocato nel
soggetto passivo una semplice sensazione fisica di dolore
senza nessuna altra conseguenza di alcun genere, mentre si
configura il delitto di lesioni ogniqualvolta la persona offesa
subisca una qualsiasi alterazione dell’organismo, funzionale
o anche solo anatomica, seppure localizzata e di lieve entità;
con la conseguenza che debbono considerarsi lesioni anche
le ecchimosi, le escoriazioni, le contusioni, gli stati di shock,
gli ematomi. Ne consegue che integra il delitto di lesioni
personali l’aver cagionato alla persona offesa lesioni consistenti in “politrauma al corpo”.
Trib. Napoli, G.M. Pollio,
sentenza 16 settembre 2010, n. 11127
Maltrattamenti in famiglia: offese ed aggressioni reciproche tra
marito e moglie – Insussistenza del reato
(art. 572 c.p.)
Nel caso in cui esiste una situazione di dissidio coniugale
alla quale sia il marito che la moglie partecipano con reciproche offese e aggressioni fisiche, deve escludersi la configurabilità del reato di maltrattamenti. La condotta di cui all’art.
572 c.p., infatti, per essere integrata richiede l’attribuibilità
al suo autore di una posizione di abituale prevaricante supremazia alla quale la vittima soggiace. Di conseguenza, se le
violenze, le offese e le umiliazioni sono reciproche — anche
se di diverso peso e gravità — non può dirsi che c’è un soggetto che maltratta ed uno che è maltrattato. In altri termini,
“va esclusa la configurazione del delitto de quo per mancanza di dolo, quando, tenendo conto del contesto familiare,
caratterizzato da continue e ripetute liti sfocianti in vere e
proprie aggressioni fisiche da parte di tutti i componenti, non
sia stato solo l’imputato ad imporre un regime di vita vessatorio ed intollerabile all’interno del consorzio familiare, essendo egli stesso vittima di comportamenti lesivi”.
Trib. Nola coll. C),
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sentenza 8 luglio 2010, n. 1152;
Pres. Aschettino, Est. Palmieri
Maltrattamenti in famiglia: offese ed aggressioni reciproche tra
marito e moglie – insussistenza del reato
(art. 572 c.p.)
Sussiste il delitto di maltrattamenti, laddove i singoli atti
lesivi siano stati compiuti dall’imputato con la volontà di
prevaricare gli altri familiari in modo continuativo ed abituale, e non sono apparsi quali il risultato di reazioni determinate da tensioni contingenti, ma vessazioni che inducono la
coniuge a non reagire alle prevaricazione del marito ed ad
acconsentire alle sue richieste.
Trib. Nola coll. C),
sentenza 8 luglio 2010, n. 1152;
Pres. Aschettino, Est. Palmieri
Minaccia: contestuale presenza del minacciante e minacciato –
Irrilevanza
(art. 612 c.p.)
Ai fini della configurabilità del reato di minaccia, non è
necessaria la contestuale presenza del minacciante e del minacciato e cioè che le frasi intimidatorie siano direttamente
percepite dal soggetto cui le stesse siano destinate, essendo
semplicemente sufficiente che la condotta posta in essere
dall’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo.
Trib. Nola coll. C),
sentenza 8 luglio 2010, n. 1152;
Pres. Aschettino, Est. Palmieri
Omicidio: animus necandi – Accertamento ex post – Criteri
(art. 575 c.p.)
Il cd. animus necandi che integra l’elemento psicologico
del delitto di omicidio, consiste nella coscienza e volontà di
compiere atti univocamente diretti a cagionare la morte di una
persona nonché teleologicamente orientati a cagionare la
morte ossia obbiettivamente idonei a provocare l’evento
-morte e cioè a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato
che è la vita: requisito, quest’ultimo, che deve essere apprezzato in concreto (senza essere condizionato dagli effetti realmente raggiunti perché altrimenti l’azione, per non aver
conseguito l’evento, non sarebbe mai idonea nel delitto tentato) attraverso una prognosi formulata ex post con riferimento alla situazione così come si presentava all’agente, in base
alle condizioni umanamente prevedibili nel caso concreto.
Trib. Nola coll. D),
sentenza 26 maggio 2010, n. 780;
Pres. Bruno, Est. Di Iorio
Omicidio: forme di dolo nel tentativo – Caratteristiche
(art. 575 c.p.)
La forma di dolo idonea a sorreggere il tentativo è data
non solo dal dolo cd. intenzionale, quando cioè l’agente ha
agito con l’intenzione di uccidere, ma anche da quello c.d.
diretto, quando cioè egli si è rappresentato l’evento morte
come conseguenza altamente probabile della condotta, e ciò
nonostante non si è limitato ad accettare il rischio dell’evento bensì, accettando l’evento, lo ha voluto.
Trib. Nola coll. D),
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
sentenza 26 maggio 2010, n. 780;
Pres. Bruno, Est. Di Iorio
Omicidio: tentativo – Requisiti
(art. 56, 575 c.p.)
La ravvisabilità del delitto tentato postula la sussistenza
dei requisiti dell’idoneità degli atti, intesa quale loro capacità
a produrre in concreto l’evento morte in base ad un giudizio di
prognosi postuma, ossia un giudizio svolto in concreto ed ex
ante, riportandosi cioè al momento in cui il soggetto ha posto
in essere la sua attività e valutando se, sulla base delle circostanze concrete verosimilmente esistenti, appariva probabile la
capacità dell’atto di cagionare l’evento o, comunque, la sua
adeguatezza allo scopo criminoso e della non equivocità degli
stessi intesa come caratteristica oggettiva della condotta, complessivamente considerata, tale da essere idonea a denotare in
sé l’intenzione dell’agente di cagionare l’evento morte; di modo
che gli atti, per le modalità con cui sono stati compiuti, devono
rivelare in modo non equivoco, secondo le norme di esperienza dell’ id quod plerumque accidit, l’intenzione di cagionare
detto evento, i quali hanno natura esclusivamente oggettiva,
nel senso che devono potersi rilevare obbiettivamente dalla
condotta e dalle circostanze di tempo e di luogo in cui essa si
è svolta: requisiti che devono trarsi, dunque, dalla sede e dalla
natura della lesione inferta nonché dai tipo di mezzo o di arma
usata e dall’intensità del colpo inferto dall’ aggressore.
Trib. Nola coll. D),
sentenza 26 maggio 2010, n. 780;
Pres. Bruno, Est. Di Iorio
Prescrizione: atti interruttivi – Avviso ex art. 415-bis c.p.p. – Esclusione
(art. 160 c.p.)
L’avviso di conclusione delle indagini preliminari non ha
efficacia interruttiva della prescrizione, non essendo compreso
tra gli atti espressamente previsti dall’art. 160, comma 2, c.p.
L’elencazione contenuta nell’art. 160, comma 2, c.p. è
infatti, tassativa e non è suscettibile di un ampliamento per
via interpretativa stante il divieto di analogia in malam parte in materia penale.
Trib. Nola coll. D),
sentenza 13 ottobre 2010, n. 1439;
Pres. Bruno, Est. Di Iorio
Rapina impropria: violenza dopo un tentativo di impossessamento – Configurabilità
(art. 628 c.p.)
Può configurarsi il delitto di rapina impropria nel caso in
cui il soggetto agente, usi violenza o minaccia in danno di
una persona, dopo avere posto in essere un tentativo di impossessamento.
Rapina: concorso di due persone – Aggravante delle più persone
riunite – Sussistenza
(art. 628, comma 3, n. 1, c.p.)
Sussiste la contestata aggravante di cui al numero I del
comma terzo dell’art.628 c.p., laddove la minaccia venga
posta in essere con l’uso di un’arma e di più persone riunite,
data la contemporanea presenza sul luogo del fatto di due
persone che hanno agito simultaneamente.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Trib. Nola coll. D),
sentenza 6 ottobre 2010, n. 1387;
Pres. Est. Bruno
Reato associativo: elementi costitutivi in genere.
(art. 416 c.p.)
Perché si possa parlare di associazione per delinquere
occorre la presenza di un’organizzazione di mezzi e di persone, con carattere di stabilità, diretta a realizzare un comune
programma criminoso. In giurisprudenza, peraltro, quale
elemento individualizzante richiesto per ciascuno degli associati, è l’ “affictio societatis”; è l’accordo associativo, infatti,
“l’elemento essenziale dei reati previsti agli artt. 416 c.p. e 74
d.P.R. n. 309/1990”, discendendone da ciò la secondarietà
degli elementi organizzativi che si pongono a substrato del
sodalizio, elementi utili al solo fine di dimostrare la serietà
dell’accordo contratto ed escludere I’inoffensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato. Da ciò si desume –
sotto un profilo ontologico – la sufficienza di un’organizzazione minima, ma non certo rudimentale o approssimativa,
per il perfezionamento del reato, afferendo l’individuazione
dei tratti organizzativi di un consorzio di persone alla sola
prova indiretta, attraverso dati sintomatici, dell’esistenza di
quell’accordo previsto dal legislatore.
Trib. Napoli, sez. IV,
sentenza 29 giugno 2010;
Pres. Allagrande, Est. Carola
Resistenza al pubblico ufficiale: condotta punibile
(art 337 c.p.)
Il tentativo di sottrarsi all’arresto mediante spostamenti
bruschi, violenti e reiterati e mediante spintoni all’indirizzo
dei militari che stavano procedendo al sequestro della merce
ed all’identificazione, integra sotto il profilo materiale, il delitto in esame che comprende, nella sua lata accezione ogni
comportamento idoneo ad impedire o ad ostacolare l’esplicazione della pubblica funzione risultando qualificabile come
violenza qualsiasi energia fisica esercitata volutamente per
impedire il compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale, quale quella posta in essere da chi, mediante spintoni, riesca
anche momentaneamente a sottrarsi alla presa dell’agente.
Trib. Nola, G.M. Critelli,
sentenza 24 maggio 2010, n. 757
Resistenza a pubblico ufficiale: elementi costitutivi.
(art. 337 c.p.)
L’art. 337 c.p. richiede, dal punto di vista oggettivo che
sia dimostrata la sussistenza di una condotta consistente
nell’uso di violenza o minaccia nei confronti di un pubblico
ufficiale, incaricato di pubblico servizio o di coloro che, richiesti, gli prestano assistenza. Elemento soggettivo è la volontà di opporsi al pubblico ufficiale, o all’incaricato di
pubblico servizio, mentre compie un atto del proprio ufficio
o servizio, sicché il difetto del predetto aspetto teleologico
della condotta comporta l’insussistenza del reato.
Trib. Nola, G.M. Palmieri,
sentenza 25 maggio 2010, n. 766
Ricettazione: reato presupposto – Accertamento – Irrilevanza
(art. 648 c.p.)
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
La provenienza furtiva del bene si può ritenere provata
tramite la denunzia agli atti, acquisibile come prova documentale, nel processo per ricettazione. All’uopo, va rilevato
che, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione,
nessuna rilevanza ha né l’esatta identificazione del reato
presupposto né comunque l’esatto accertamento di quest’ultimo in ogni suo estremo fattuale, poiché la provenienza
delittuosa del bene posseduto può ben desumersi dalla natura e dalle caratteristiche del bene stesso, anche se rimanga
ignoto l’autore del delitto principale.
Trib. Napoli, G.M. Pollio,
sentenza 16 settembre 2010, n. 11127
Ricettazione: fattispecie della lieve entità – Requisiti e presupposti
(art. 648, comma 2, c.p.)
L’indice di lievità si riferisce all’intero fatto (non già ad
un singolo elemento), sicché occorre procedere ad una valutazione non soltanto degli indici di esiguità connotanti il
disvalore d’evento (qualità e valore economico dell’oggetto
della ricettazione nel caso di specie indubbiamente modesta
attesa la vetustà del veicolo ricettato, ormai fuori produzione da anni), ma anche degli indici connotanti il disvalore
d’azione (mezzi, modalità e circostanze dell’azione) ed il
grado di colpevolezza. In conformità al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, si ritiene infatti che “ai
fini dell’applicazione dell’attenuante speciale di cui al secondo comma dell’art. 648 c.p., l’aspetto patrimoniale non è né
esclusivo né decisivo, giacchè la nozione legale del fatto di
lievità” investe tutti gli elementi integrativi del fatto reato” e
“non concerne il solo valore economico dell‘oggetto della
ricettazione, ma investe anche il profitto che dalla sua ricezione e o acquisto si vuol trarre, nonché ogni altro elemento
idoneo a valutare la gravità del reato ex art. 133 c.p.”.
Trib. Napoli, G.M. Pollio,
sentenza 16 settembre 2010, n. 11127
Ricettazione: ricezione blocchetto assegni bancari – Sussistenza
dell’elemento soggettivo
(art. 648 c.p.)
Sussiste, l’elemento psicologico del reato di ricettazione,
dovendosi configurare la consapevolezza dell’illecita provenienza in capo al soggetto che riceva o acquisti moduli di
assegni bancari al di fuori delle regole che ne disciplinano la
circolazione e del circuito bancario, dal momento che il blocchetto di assegni è documento che, per sua natura e destinazione, è in possesso esclusivo della persona titolare del conto,
ovvero della persona da questi delegata.
Trib. Napoli, G.M. Salzano,
sentenza 13 luglio 2010, n. 10142
Ricettazione: mancata giustificazione del possesso di cosa di
provenienza illecita – Valutazione
(art. 648 c.p.)
Ai fini del reato di ricettazione, la mancata giustificazione
del possesso di una cosa proveniente da delitto costituisce
prova della conoscenza della sua illecita provenienza. Invero,
la consapevolezza dell’agente in ordine alla provenienza delittuosa della cosa può desumersi da qualsiasi elemento di fatto
e da qualsiasi indizio giuridicamente apprezzabile compreso
il suo comportamento, elusivo della causale della ricezione.
2 0 1 0
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Trib. Napoli, G.M. Salzano,
sentenza 13 luglio 2010, n. 10142
Ricettazione: ricezione blocchetto di assegni – Attenuante lieve
entità – Esclusione
(art. 648 c.p.)
L’ipotesi attenuata non è applicabile laddove, si tratti di
ricettazione di un blocchetto di assegni, dovendosi far riferimento, non all’importo successivamente apposto sul singolo
titolo messo in circolazione, ma alle potenzialità lesive della
ricezione di una pluralità di assegni in bianco, tenuto conto
del diritto di credito incorporato in ciascuno di essi.
Trib. Napoli, G.M. Salzano,
sentenza 13 luglio 2010, n. 10142
Ricettazione: elemento soggettivo – Criteri di desumibilità
(art. 648 c.p.)
Quanto all’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie
delittuosa, costituito dalla consapevolezza dell’agente circa
la provenienza delittuosa della res, va evidenziato che esso
può desumersi anche da elementi indiretti, sempre che la
loro coordinazione logica ed organica sia tale da consentire
l’inequivoca dimostrazione della mala fede; detta consapevolezza, dunque, può essere tratta anche dalla qualità delle
cose ricevute purchè i sospetti sulla legittimità della provenienza della cosa siano così gravi ed univoci da ingenerare,
in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo
la più comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi
di cose legittimamente detenute da chi le offre.
Trib. Nola, G.M. Capasso,
sentenza 26 maggio 2010, n. 777
Riciclaggio: sostituzione di targa di auto – Configurabilità del
reato
(art. 648 c.p.)
La sostituzione della targa di un’autovettura - che costituisce il più significativo ed immediato dato di collegamento
della res con il proprietario che ne è stato spogliato - come
anche la manomissione del numero di telaio o di quelli incisi sul motore, devono ritenersi operazioni tese ad ostacolare
l’identificazione della provenienza delittuosa della cosa ed
integrano pertanto il reato di riciclaggio di cui all’art 648-bis
c.p.; con tale disposizione invero il legislatore ha voluto reprimere sia le attività che si esplicano sul bene trasformandolo o modificandolo parzialmente, sia quelle altre che senza
incidere sulla cosa, ovvero senza alterarne i dati esteriori,
sono comunque di ostacolo per la ricerca della sua provenienza delittuosa.
Trib. Napoli, G.u.p. Conte,
sentenza 17 settembre 2010, n. 1899
Sospensione condizionale della pena: revoca del beneficio – Presupposti
(art. 168 c.p.)
L’ipotesi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 168 comma 1 n. 2 c.p. opera
solo se, anteriormente al passaggio in giudicato della prima
sentenza di condanna con pena sospesa, l’imputato commette altro delitto per il quale sia inflitta una pena che, cumulata con quella precedente, supera i limiti consentiti. Tuttavia,
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
è necessario che la seconda condanna per il delitto commesso anteriormente al passaggio in giudicato della prima sentenza a pena sospesa, divenga irrevocabile nel termine di
cinque anni dalla suddetta prima condanna irrevocabile.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
ordinanza 29 settembre 2010, n. 195
Violazione degli obblighi di assistenza familiare: reato commesso
ai danni di figli minori – Obbligo gravante su entrambi i genitori
- Configurabilità del reato
(art. 570 c.p.)
La sussistenza del reato si desume in primis dalla situazione di bisogno dei figli, in età minore all’epoca della separazione, rispetto ai quali, si ritiene un dato di fatto incontestabile la circostanza che essi, proprio in quanto di età minore, non siano in grado di procacciarsi un reddito proprio. Né
sotto questo profilo, rileva la circostanza che la moglie abbia
altrimenti ovviato alla mancata corresponsione dei mezzi di
sussistenza da parte del marito, dal momento che il relativo
obbligo grava in eguale misura su entrambi i genitori.
Violazione degli obblighi di assistenza familiare: impossibilità
alla somministrazione dei mezzi – Onere della prova a carico
dell’imputato
(art. 570 c.p.)
L’impossibilità assoluta alla somministrazione dei mezzi
di sussistenza esclude il reato in questione soltanto quando
sia incolpevole, circostanza che, in quanto configurante una
vera e propria esimente, deve essere allegata e provata
dall’imputato.
Trib. Nola, G.M. Savarese,
sentenza 13 maggio 2010, n. 665
Procedura penale
Applicazione della continuazione in fase esecutiva: reato associativo e reati fine – Configurabilità
(art. 671 c.p.p.)
È configurabile la continuazione tra reato associativo e
reati fine esclusivamente qualora questi ultimi siano stati
programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento
della costituzione del sodalizio criminoso, ma a tal fine è
necessaria una accurata disamina da parte del Giudicante
degli indici rivelatori della esistenza del medesimo disegno
criminoso che unifica i singoli fatti-reato quali le modalità
omogenee dell’azione e la commissione delle azioni da parte
dei medesimi coimputati, la sistematicità della condotta, la
tipologia dei reati, la causale, le condizioni e circostanze di
tempo e di luogo dei singoli episodi delittuosi.
Trib. Napoli, coll. B),
ordinanza 24 giugno 2010, n. 153;
Pres. Aghina, Est. Bottillo
Continuazione: determinazione della pena base tra i vari reati
avvinti dal vincolo della continuazione in fase esecutiva – Criteri
(art. 671 c.p.p.)
Una volta individuato il reato più grave, il Giudice dovrà
procedere all’aumento della pena per i reati-satellite nel rispetto dei limiti di cui agli artt. 81 c.p. e 671 c.p.p., assumen-
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
do quale pena-base quella irrogata per la violazione più
grave, senza che, a tal fine, rilevi il trattamento sanzionatorio
originariamente previsto per i reati-satellite che va rideterminato ex novo o l’eventuale diversa natura della pena dei
suddetti reati rispetto a quella relativa al reato più grave,
posto che, in sede di esecuzione, non può modificarsi, in più
o in meno, la misura della pena inflitta per il reato ritenuto
più grave, risultando solo possibile diminuire le pene inflitte
per i reati-satellite. Stabilita la pena base, va obbligatoriamente calcolato l’aumento di pena per la continuazione in modo
distinto per i singoli reati satelliti anziché unitariamente.
Trib. Napoli, coll. B),
ordinanza 24 giugno 2010, n. 153;
Pres. Aghina, Est. Bottillo
Applicazione della continuazione in sede esecutiva: condanne
alcune delle quali con la riduzione per il rito speciale – Determinazione della pena – Modalità
(art. 671 c.p.p.)
Allorché il giudice dell’esecuzione riconosca la continuazione tra più reati, alcuni dei quali oggetto di condanna
all’esito di giudizio abbreviato, la riduzione spettante a norma
dell’art. 442 c.p.p.. deve essere riconosciuta anche quando,
risultando violazione più grave quella giudicata con il rito
ordinario, la pena autonomamente determinata per il reato
definito con il rito speciale, sulla quale è stata operata la diminuzione ai sensi del citato art. 442, si trasformi in aumento ex art. 81 c.p., che va pertanto ridotto di un terzo.
Trib. Napoli, coll. B),
ordinanza 24 giugno 2010, n. 153;
Pres. Aghina, Est. Bottillo
Giudizio immediato: scelta di rito alternativo – Possibilità di eventuali richieste subordinate
(art. 453 - 458 c.p.p.)
Il sistema processuale consente all’imputato l’accesso ai
riti speciali all’esito della notifica del decreto di giudizio
immediato senza alcuna preclusione, prevedendo a suo carico esclusivamente l’obbligo di optare per uno dei riti premiali e di formulare eventuali richieste subordinate di accesso a
riti diversi da quello prescelto in via principale contestualmente e nella medesima istanza. Ne discende che, seppure il
provvedimento di rigetto del Giudice sia stato reso una volta
scaduto il termine utile per formulare ulteriori diverse istanze, la presentazione nei termini perentori della richiesta di
accesso ad altro rito speciale formulata in via subordinata
ma congiuntamente alla istanza principale, garantisce all’imputato in ogni caso l’applicazione del rito speciale richiesto
in via gradata, imponendo comunque al G.I.P. di emettere
una pronuncia in merito.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
ordinanza 22 giugno 2010, n. 147
Revoca della sospensione condizionale della pena: limiti della
cognizione del giudice dell’esecuzione
(art. 674 c.p.p.)
Il Giudice dell’esecuzione può disporre esclusivamente la
revoca di diritto. Viceversa, la revoca facoltativa di cui all’art.
168 comma secondo c.p. è preclusa implicando valutazioni
discrezionali riservate al giudice della cognizione.
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
ordinanza 08 luglio 2010, n. 167
Revoca dell’indulto di diritto – Presupposti e condizioni
(art. 168 c.p.)
Giusta il disposto dell’art. 3 Legge 241/2006 il beneficio
dell’indulto è revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, un delitto non colposo per il quale riporti
condanna a pena detentiva non inferiore a due anni.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
ordinanza 8 luglio 2010, n. 167
Rito abbreviato: richiesta condizionata rigettata dal G.I.P. – Riproponibilità innanzi al Giudice del dibattimento
(art. 438 c.p.p.)
Il sistema processuale consente all’imputato di riproporre la medesima richiesta di rito abbreviato condizionato rigettata dal GIP al giudice del dibattimento entro il limite
temporale previsto a pena di decadenza costituito dalla dichiarazione di apertura del dibattimento medesimo. Ove ciò
non avvenga, l’imputato non può poi dolersi della mancata
applicazione del rito abbreviato essendo stato posto in condizioni di ripresentare al dibattimento la medesima istanza
precedentemente rigettata,con la conseguenza che non ha
rilievo che il provvedimento reiettivo sia stato reso dal G.I.P.
dopo la scadenza del termine previsto dagli artt. 446 e 458
c.p.p. (quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio
immediato).
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
ordinanza 22 giugno 2010, n. 147
Rito Abbreviato: richiesta alternativa tra il rito condizionato o
secco – Conseguenze
(art. 438 c.p.p.)
Ove la parte abbia interesse ad accedere al rito abbreviato secco, in caso di rigetto della richiesta principale di rito
abbreviato condizionato, non potrà che formulare tale richiesta in via subordinata ed alternativa contestualmente alla
proposizione dell’istanza di abbreviato condizionato, ed il
G.I.P., ove respinga l’istanza principale, è tenuto a disporre
il rito abbreviato secco senza alcuna discrezionalità, decidendo allo stato degli atti. Va da sé che l’avvenuta opzione,
all’esito della pronuncia di rigetto della richiesta di rito abbreviato condizionato, per il rito abbreviato “secco”, preclude all’imputato ogni successiva possibilità di contestare la
legittimità del provvedimento reiettivo.
Trib. Napoli, G.M. Bottillo,
ordinanza 22 giugno 2010, n. 147
Rito Abbreviato: utilizzabilità degli atti – Requisiti e presupposti
(art. 453 c.p.p.)
In sede di giudizio abbreviato, non possono essere utilizzati solo quegli atti probatori la cui assunzione sia avvenuta
in modo contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave e insuperabile
il diritto di difesa dell’imputato, dunque le nullità di carattere assoluto - rilevabili di ufficio in ogni stato e grado- e le
inutilizzabilità cosiddette “patologiche”. Dunque a parte
atti probatori assunti contra legem - la cui utilizzazione è
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vietata in modo assoluto in tutte le fasi procedimentali e
nelle procedure incidentali cautelari e di merito - il giudice
può valutare quegli atti affetti da una inutilizzabilità “solo
fisiologica” o acquisiti con modalità irrituali, dal momento
che la scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo, neutralizza eventuali irritualità e fa assurgere a dignità di prova gli
atti di indagine assunti senza il rispetto delle forme di rito.
Trib. Napoli, G.u.p. Conte,
sentenza 17 settembre 2010, n. 1900
Sentenza: causa di estinzione del reato - Prevalenza rispetto alla
pronuncia di assoluzione ex art. 530, comma 2, c.p.p.
(art. 129 c.p.p.)
In presenza di una causa di estinzione del reato non è
applicabile la regola di giudizio che impone al giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova della responsabilità, ma
l’altra della prevalenza della causa estintiva, che cede solo
dinanzi alla prova positiva dell’innocenza dell’imputato.
Trib. Nola, G.M. Scermino,
sentenza 26 maggio 2010, n. 775
Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Attendibilità – Criteri di accertamento
(art. 192 c.p.p.)
Ai fini dell’affermazione della penale responsabilità, è
sufficiente la mera dichiarazione testimoniale sottoposta al
vaglio dell’attendibilità intrinseca del teste senza necessità
alcuna di riscontri esterni, ma con la precisazione che quando la dichiarazione proviene dalla parte offesa, la quale non
è immune da sospetto a priori, in quanto ontologicamente
portatrice di interessi antagonistici a quelli dell’imputato, è
necessaria una più attenta e rigorosa valutazione, sottoposta
peraltro al solo limite ordinario dell’attendibilità intrinseca.
Trib. Nola, coll. C),
sentenza 9 luglio 2010, n. 1159;
Pres. Aschettino, Est. Palmieri
Leggi penali speciali
Alimenti: detenzione di sostanze alimentari prive di data di produzione e di scadenza – Configurabilità del cattivo stato di conservazione
(art. 2 l. 283/62)
L’inosservanza di ogni più elementare regola igienica per
la detenzione e per la somministrazione al pubblico di sostanze alimentari, peraltro prive di indicazione della data e del
luogo di produzione, nonché della data di scadenza sono
tutte circostanze che integrano con tutta evidenza quella situazione di cattivo stato di conservazione, descritta dalla
norma incriminatrice. Ed invero, “il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari riguarda quelle situazioni
in cui le sostanze stesse, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè
preparate o confezionate o messe in vendita o detenute per
la vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni - di leggi,
di regolamenti, di atti amministrativi generali - che sono
dettate a garanzia della loro buona conservazione sotto il
profilo igienico-sanitario e che mirano a prevenire i pericoli
penale
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della loro precoce degradazione o contaminazione o alterazione.
Trib. Napoli, G.M. Salzano,
sentenza 10 settembre 2010, n. 9737
Alimenti: cattivo stato di conservazione – Accertamento – Modalità e criteri
(art. 2 l. 283/62)
Per accertare lo stato di conservazione di prodotto destinato all’uso alimentare, non è necessario procedere ad analisi a campione, essendo all’uopo sufficiente la verifica visiva
da parte dell’organo accertatore, specie laddove, l’alimento si
presenta mal conservato e cioè detenuto per la vendita senza
l’osservanza di prescrizioni dettate a garanzia della sua buona
conservazione. Va, altresì, rimarcato che la detenzione per la
vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione è un reato di pericolo, per la consumazione del quale non
è necessario che sia effettuata una compravendita.
Trib. Napoli, G.M. Salzano,
sentenza 10 settembre 2010, n. 9737
Armi: detenzione bomba carta – Accertamento della micidialità
da parte del giudice - Criteri
(art. 2 l. 895/67)
La bomba carta può avere un effetto soltanto detonante
ovvero, per la natura e la quantità della carica esplosiva e per
le modalità di confezione, un effetto dirompente, divenendo
in quest’ultimo caso un congegno esplosivo la cui cessione e
detenzione sono punite rispettivamente a norma degli artt.
1 e 2 legge 2 ottobre 1967, n. 895 e successive modd. E’
compito del giudice del merito accertare le caratteristiche del
congegno, e cioè se abbia o meno micidialità, pur se potenziale e subordinata al modo di impiego. In ogni caso, le
bombe, i congegni bellici micidiali, le bottiglie (o involucri)
esplosivi o incendiari sono sempre considerate armi da guerra, senza necessità del requisito della spiccata potenzialità di
offesa o della utilizzazione per l’impiego bellico.
Trib. Nola, coll. B),
sentenza 14 ottobre 2010, n. 1357;
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Armi: detenzione e porto di coltello a serramanico non a scatto –
Configurabilità del reato di cui all’art. 4 l. 110/75 e non art. 697 c.p.
(l. 110/75)
In materia di armi bianche, un coltello a serramanico non
a scatto, con lama pieghevole azionabile con manovra manuale, non rientra nella categoria delle armi proprie, la cui
detenzione è punita ai sensi dell’art. 697 c.p., ma è qualificabile come arma impropria - la cui destinazione naturale non
è l’offesa alla persona, il cui porto fuori della propria abitazione non sorretto da giustificato motivo è comunque punito
con la sanzione prevista dall’art. 4, comma 3, 1. 18 aprile
1975 n. 110. Peraltro, la contravvenzione in esame è integrata proprio quando, come nella specie non vi è alcun “giustificato motivo” del porto, motivo che vi sarebbe stato solo nel
caso in cui particolari esigenze dell’agente fossero state perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite
relazionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai
luoghi dell’accadimento, alla normale funzione dell’oggetto.
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Trib. Nola, G.M. Scermino,
sentenza 26 maggio 2010, n. 772
Circostanze aggravanti: agevolazione organizzazioni mafiose –
Presupposti
(art.7 l. 203/91)
La sussistenza dell’aggravante in parola, postula che il
reato sia commesso al fine specifico di agevolare, l’attività di
un’associazione di tipo mafioso, ed implica necessariamente
l’esistenza reale e non più semplicemente supposta di questa
sicché nella fase del giudizio la configurabilità dell’aggravante richiede che sia stata acquisita la prova dell’esistenza
dell’associazione agevolata.
Trib. Nola coll. A),
sentenza 7 luglio 2010, n. 1130;
Pres. Bruno, Est. Critelli
Edilizia: direttore dei lavori – Responsabilità per opere difformi
– Sussistenza
(l. 380/01)
In caso di esecuzione di lavori in totale difformità rispetto alla concessione edilizia, il direttore dei lavori non diventa immune da responsabilità penale per il solo fatto di non
seguire i termini del procedimento amministrativo al quale
egli ha prestato il suo ausilio tecnico, salvo che egli non abbia
ufficializzato ritualmente, la sua estraneità al medesimo con
espressa rinuncia all’incarico portata a conoscenza della
competente autorità amministrativa. Peraltro, è opportuno
ricordare che, in materia edilizia l’elemento psicologico del
reato può concretarsi indifferentemente nel dolo o nella colpa, e quindi versa certamente in colpa, sotto l’aspetto della
negligenza, e non può invocare la buona fede, un direttore
che non controlli effettivamente e costantemente lo svolgimento delle opere rimesse al suo controllo, anche riguardo
alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto
autorizzato.
Trib. Nola, G.M. Scermino,
sentenza 26 maggio 2010, n. 774
Guida in stato di ebbrezza: criteri di accertamento.
(art. 186 c.d.s.)
Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui
all’art. 186 c.d.s. (d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285), per accertare lo stato di ebbrezza del conducente del veicolo non è indispensabile l’utilizzazione degli strumenti tecnici di accertamento previsti dal codice della strada e dal regolamento
(etilometro), ben potendo il giudice di merito – in un sistema
che non prevede l’utilizzazione di prove legali – ricavare
l’esistenza di tale stato da elementi sintomatici quali l’alito
vinoso, l’eloquio sconnesso, l’andatura barcollante, le modalità di guida o altre circostanze che possano far fondatamente presumere l’esistenza dello stato indicato.
Trib. Nola, Palmieri,
sentenza 25 maggio 2010, n. 763
Omesso versamento dei contributi INPS: momento consumativo
– Presupposti per la punibilità
(art. 2 d.l. 463/83)
Il delitto di cui all’art. 2, comma I-bis, d.l. 463/83, è un
illecito omissivo istantaneo che si consuma nel momento in
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cui scade il termine utile per il versamento da parte del datore di lavoro, configurandosi il successivo versamento delle
somme dovute, nei tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione, come una
(eventuale) causa di esclusione della punibilità di un fatto di
reato già perfezionatosi in tutti i suoi elementi costitutivi. La
tempestività del versamento è, quindi, nel sistema legislativo,
condizione imprescindibile per il venir meno della punibilità
di un fatto che è e resta, in ogni caso, penalmente illecito.
Trib. Nola, G.o.t. Verde,
sentenza 18 maggio 2010, n. 695
ne alla condizione di vita, all’eventuale esistenza di un nucleo
familiare stabilmente e regolarmente insediato nel territorio
dello stato, alla precarietà economica che, di fatto, ha precluso la possibilità di racimolare il denaro sufficiente all’acquisto dei titolo di viaggio, non potendosi ovviamente pretendere che per dar seguito alla prescrizione d’allontanamento, lo straniero illegalmente presente sul territorio italiano
commetta altre illegalità.
Trib. Santa Maria Capua Vetere, sez. dist. Piedimonte Matese, G.M. Sorgente,
sentenza 21 maggio 2010, n. 130
Stranieri: assunzione di lavoratori stranieri privi del permesso di
soggiorno – Punibilità anche a titolo di colpa
(art. 22 d.lgs. 286/98)
Il reato di cui all’art. 22, comma 12, d.lgs. 286/98, reato
di natura contravvenzionale punisce la condotta di colui il
quale assume alle proprie dipendenze lavoratori stranieri
privi del permesso di soggiorno ovvero, lavoratori il cui permesso di soggiorno sia scaduto, revocato o annullato. Dal
punto di vista soggettivo del reato, data natura contravvenzionale della fattispecie, non è necessario il dolo ma è sufficiente che l’autore del fatto sia incorso in un comportamento
colposo, omettendo di verificare con la dovuta diligenza, la
esistenza di un valido permesso di soggiorno riguardante la
persona del lavorato da assumere.
Trib. Nola, G.M. Bruno,
sentenza 13 febbraio 2010, n. 203
Stupefacenti: destinazione ai fini dello spaccio – Criteri oggettivi
e soggettivi da cui desumere tale finalità
(art. 73 d.P.R. 309/90)
La destinazione ai fini dello spaccio, costituisce un elemento costitutivo del reato di illecita detenzione di sostanza
stupefacente. Quando dalla condotta dell’agente, non è possibile ricavare nell’immediatezza la destinazione della droga
all’uso personale o alla cessione a terzi, sarà il giudice di
merito a valutare la destinazione della droga detenuta. I
parametri elaborati dalla giurisprudenza facevano in genere
riferimento a elementi oggettivi, univoci e significativi, quali la quantità, la qualità e la composizione della sostanza,
l’eterogeneità delle stesse, la ripartizione in singole dosi, la
disponibilità di attrezzature per la pesatura o per il confezionamento della sostanza (bilancino di precisione, cartine etc.),
ma anche a criteri “soggettivi” quali lo status di tossicodipendente o lo status socio economico del detentore e del suo
nucleo familiare in rapporto al valore della sostanza, oltre
che le modalità di detenzione e le concrete circostanze del
caso. Criteri dunque quantitativi oggettivi ma anche soggettivi inerenti le condizioni personali del detentore.
Trib. Napoli, G.u.p. Conte,
sentenza 17 settembre 2010, n. 1902
Stranieri: ordine di espulsione – Giustificato motivo dell’inadempimento – La disponibilità economica può ricavarsi anche da attività illecite
La disponibilità dei mezzi economici occorrenti per
l’adempimento dell’obbligo di lasciare il territorio dello Stato può derivare da qualsiasi attività, anche illecita o comunque non stabile, mentre la difficoltà per il clandestino di reperire un lavoro stabile regolare, costituendo una condizione
tipica della sua posizione, non è idonea a integrare un giustificato motivo dell’inadempimento dell’obbligo di lasciare il
territorio dello Stato. La circostanza che l’imputata abbia
dichiarato di lavorare, seppur come prostituta, induceva a
ritenere che la stessa disponesse di una certa provvista economica, tale da consentirle di dare spontaneamente esecuzione al provvedimento del Questore.
Trib. Nola, G.M. Scermino,
sentenza 26 maggio 2010, n. 773
Stranieri: ordine di lasciare il territorio italiano – Giustificato
motivo – Natura di esimente speciale – Onere di rigoroso accertamento in capo al Giudice della sussistenza dei motivi addotti
dall’imputato
(art. 14 d.lgs. 286/98)
L’inciso contenuto nella norma, art. 14 comma 5 ter “
senza giustificato motivo” ha natura di un’esimente speciale
la cui comprovata sussistenza esclude il reato, al pari dello
stato di necessità. Di conseguenza è rimesso all’apprezzamento del Giudice il valutare- congruamente e con l’attenta disamina delle ragioni espresse ed oggettivamente deducibili le
circostanze fattuali che abbiano determinato da parte del
destinatario l’inottemperanza ponendo particolare attenzio-
Stupefacenti: detenzione ai fini di spaccio – Superamento dei limiti quantitativi – Elemento indiziario da valutare unitamente
agli altri parametri
(art. 73 d.P.R. 309/90)
Il mero superamento dei limiti quantitativi stabiliti con
decreto ministeriale non riveste una valenza preventivamente
dimostrativa in modo assoluto della sussistenza del reato ma
costituisce solo in elemento indiziario della detenzione non
destinata ad un uso personale, la cui gravità, precisione e
concordanza andrà valutata dal giudice di merito, unitamente agli altri parametri di valutazione di cui al citato comma
l-bis, e non una presunzione assoluta. È evidente che la prova
della destinazione alla vendita sarà tanto più facile quanto
maggiore è il superamento della soglia prevista dalla legge. Va
tuttavia ritenuto che il criterio quantitativo costituisca un
parametro obbligatorio di valutazione da parte del giudice,
un elemento circostanziale che il giudice dovrà necessariamente prendere in considerazione e sul quale dovrà motivare.
Trib. Napoli, G.u.p. Conte,
sentenza 17 settembre 2010, n. 1902
Stupefacenti: detenzione ai fini di spaccio – Parametri indiziari
(art. 73 d.P.R. 309/90)
Il Legislatore, nel novellare la norma incriminatrice del-
penale
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la condotta di detenzione di stupefacenti, ha stabilito che
tale condotta assume rilevanza penale quando la sostanza
oggetto di detenzione risulti, non solo per quantità, ma anche
per modalità di detenzione e presentazione, destinata ad un
uso non personale – o non esclusivamente personale – da
parte dell’agente. In punto di diritto è dunque evidente la
riconducibilità all’alveo dell’illecito, penale anche della de-
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tenzione di quantitativi non ingentissimi di sostanza stupefacente. quando emergano altri parametri indiziari in uno al
dato quantitativo, che portino a ritenere che lo stupefacente
stesso fosse concretamente destinato, anche solo in parte
alla cessione a terzi.
Trib. Nola, G.M. Capasso,
sentenza 26 maggio 2010, n. 778
Diritto amministrativo
Un codice per il processo amministrativo
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Daniele Marrama
L’autodichia, una prerogativa ormai quasi invulnerabile delle Camere parlamentari
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Pasquale, Pierluigi Bufo
Corrispettivo a base d’asta negli appalti di lavori pubblici e buon andamento della P.A.
104
Nota a Consiglio di Stato, sentenza 16 agosto 2010 n. 5702
Enzo Napolano
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
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amministrativo
[ A cura di Almerina Bove ]
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SOMMARIO: 1. La legge di delega - 2. L’operato della Commissione - 3. Giudizi della dottrina - 4. Lo sforbiciatore ministeriale - 5. La delusione dei commentatori - 6. Una valutazione conclusiva
Un codice
per il processo
amministrativo
1. La legge di delega
Nel giugno del 2009 – con l’approvazione dell’art. 44 della legge n. 691 – il legislatore statale ha conferito al governo
● Daniele Marrama
Professore associato di diritto amministrativo
presso l’Università del Salento
1Legge 18 giugno 2009, n. 69 (in Suppl. ordinario n. 95 alla Gazz. Uff., 19 giugno
2009, n. 140). - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività nonché in materia di processo civile.
Articolo 44
(Delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo)
Art. 44.
1. Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di
adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle
giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione
delle tutele.
2. I decreti legislativi di cui al comma 1, oltre che ai princìpi e criteri direttivi di
cui all’articolo 20, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59, in quanto applicabili, si attengono ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine
di garantire la ragionevole durata del processo, anche mediante il ricorso a procedure informatiche e telematiche, nonché la razionalizzazione dei termini processuali, l’estensione delle funzioni istruttorie esercitate in forma monocratica e
l’individuazione di misure, anche transitorie, di eliminazione dell’arretrato;
b) disciplinare le azioni e le funzioni del giudice:
1) riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo,
anche rispetto alle altre giurisdizioni;
2) riordinando i casi di giurisdizione estesa al merito, anche mediante soppressione delle fattispecie non più coerenti con l’ordinamento vigente;
3) disciplinando, ed eventualmente riducendo, i termini di decadenza o prescrizione delle azioni esperibili e la tipologia dei provvedimenti del giudice;
4) prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a
soddisfare la pretesa della parte vittoriosa;
c) procedere alla revisione e razionalizzazione dei riti speciali, e delle materie cui
essi si applicano, fatti salvi quelli previsti dalle norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige;
d) razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul
contenzioso elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari,
di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva
notificazione in entrambi i gradi e introducendo la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento
elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e
del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in
camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la
data di svolgimento delle elezioni;
e) razionalizzare e unificare la disciplina della riassunzione del processo e dei
relativi termini, anche a seguito di sentenze di altri ordini giurisdizionali, nonché
di sentenze dei tribunali amministrativi regionali o del Consiglio di Stato che
dichiarano l’incompetenza funzionale;
f) riordinare la tutela cautelare, anche generalizzando quella ante causam, nonché il procedimento cautelare innanzi al giudice amministrativo in caso di ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato, prevedendo che:
1) la domanda di tutela interinale non può essere trattata fino a quando il ricorrente non presenta istanza di fissazione di udienza per la trattazione del merito;
2) in caso di istanza cautelare ante causam, il ricorso introduttivo del giudizio è
notificato e depositato, unitamente alla relativa istanza di fissazione di udienza
per la trattazione del merito, entro i termini di decadenza previsti dalla legge o,
in difetto di essi, nei sessanta giorni dalla istanza cautelare, perdendo altrimenti
ogni effetto la concessa tutela interinale;
3) nel caso di accoglimento della domanda cautelare, l’istanza di fissazione di
udienza non può essere revocata e l’udienza di merito è celebrata entro il termine di un anno;
g) riordinare il sistema delle impugnazioni, individuando le disposizioni applicabili, mediante rinvio a quelle del processo di primo grado, e disciplinando la
concentrazione delle impugnazioni, l’effetto devolutivo dell’appello, la proposizione di nuove domande, prove ed eccezioni.
3. I decreti legislativi di cui al comma 1 abrogano espressamente tutte le disposizioni riordinate o con essi incompatibili, fatta salva l’applicazione dell’articolo
15 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile, e dettano
le opportune disposizioni di coordinamento in relazione alle disposizioni non
abrogate.
amministrativo
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una delega legislativa per operare un riassetto della disciplina
del processo amministrativo e, in tal modo, ha avviato un
articolato percorso recentemente conclusosi con l’entrata in
vigore del codice del processo amministrativo2 .
Snodo centrale del predetto percorso è stata l’approvazione da parte del governo dello schema di codice solertemente
elaborato da un’apposita commissione paritetica all’uopo
istituita dal governo sulla base della facoltà prevista dall’art.
14, numero 2 del T.U. sul Consiglio di Stato di cui al regio
decreto 26 giugno 1942, n. 1054.
L’anzidetta approvazione ha rappresentato lo spartiacque
separatorio delle due fasi nelle quali si è andato a dipanare il
percorso di esercizio della delega legislativa: una prima fase
caratterizzata da grandi aspettative e da un serrato confronto
tra gli interpreti ed una seconda fase nella quale – se si prescinde da posizioni sostanzialmente minoritarie – è prevalsa
la delusione e, in qualche frangente, un sentire che si è avvicinato all’irritazione.
Nella prima fase, l’intrinseca contraddittorietà della disposizione normativa contenente la delega che, da un lato,
incaricava il governo di operare un semplice riassetto della
disciplina del processo amministrativo e, dall’altro, lo invitava ad assicurare snellezza, concentrazione ed effettività della
tutela ed a prevedere le pronunce dichiarative, costitutive e di
condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa3 ,
non ha impedito il diffondersi di un certo ottimismo tra gli
operatori del settore.
2. L’operato della Commissione
Con ogni probabilità, la diffusione di tale positivo sentimento è stata determinata dalle modalità con le quali il Consiglio di Stato ha deciso di dare attuazione all’incarico attribuitogli dal governo in virtù della facoltà prevista dall’art. 14,
numero 2 del T.U. sul Consiglio di Stato in vista della predisposizione di un articolato provvisorio.
Per adempiere al predetto incarico, infatti, il vertice della
giustizia amministrativa ha deciso di costituire un’apposita
4. I decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri. Sugli schemi di decreto legislativo è acquisito il
parere del Consiglio di Stato e delle competenti Commissioni parlamentari. I
pareri sono resi entro quarantacinque giorni dalla richiesta. Decorso tale termine, i decreti possono essere emanati anche senza i predetti pareri. Ove il
Governo, nell’attuazione della delega di cui al presente articolo, intenda avvalersi della facoltà di cui all’articolo 14, numero 2º, del testo unico sul Consiglio
di Stato, di cui al regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, il Consiglio di Stato
può utilizzare, al fine della stesura dell’articolato normativo, magistrati di tribunale amministrativo regionale, esperti esterni e rappresentanti del libero foro
e dell’Avvocatura generale dello Stato, i quali prestano la propria attività a titolo gratuito e senza diritto al rimborso delle spese. Sugli schemi redatti dal
Consiglio di Stato non è acquisito il parere dello stesso. Entro due anni dalla
data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 1, possono ad
essi essere apportate le correzioni e integrazioni che l’applicazione pratica
renda necessarie od opportune, con lo stesso procedimento e in base ai medesimi princìpi e criteri direttivi previsti per l’emanazione degli originari decreti.
5. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica.
6. All’articolo 1, comma 309, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, dopo le
parole: «tribunali amministrativi regionali» sono aggiunte le seguenti: «, ivi
comprese quelle occorrenti per incentivare progetti speciali per lo smaltimento
dell’arretrato e per il miglior funzionamento del processo amministrativo».
2 Contenuto – come allegato n. 1 – nel decreto legislativo n. 104 del 2010.
3La contraddittorietà alla quale si è fatto riferimento è passata quasi del tutto
inosservata. L’unico Studioso ad averla rilevata è stato Franco Scoca nell’ambito di un convegno dal titolo “Il processo amministrativo (ieri – oggi – domani)” svoltosi presso il Consiglio di Stato in data 19 maggio 2010.
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commissione (presieduta dall’allora Presidente del Consiglio
di Stato Paolo Salvatore e dall’attuale Presidente Pasquale de
Lise) composta da giudici amministrativi, professori universitari, avvocati del libero foro ed avvocati dello Stato.
Il dibattito in seno alla commissione (suddivisa in più sottocommissioni) - molto intenso e costruttivo – è stato accompagnato da una serie di iniziative seminariali svoltesi in diverse
città italiane e aperte ai contributi dei vari operatori del diritto
alla presenza di autorevoli componenti della commissione.
Al termine dei suoi lavori, la commissione ha trasmesso al
governo uno schema di codice frutto della mediazione ragionata delle posizioni delle varie anime che avevano partecipato ai lavori.
Le principali novità che caratterizzavano lo schema di
codice predisposto dalla commissione erano le seguenti:
• positivizzando l’azione di accertamento e l’azione di adempimento, lo schema di codice conteneva un elenco di tutte
le azioni esperibili innanzi al giudice amministrativo;
• era prevista la cumulabilità in un unico atto di diverse
azioni;
• veniva risolto a favore della risarcibilità autonoma mediante azione da esperire entro 180 giorni la vexata questio
della pregiudiziale amministrativa;
• si stabiliva che il giudice chiamato a pronunciarsi su di una
richiesta di risarcimento avviata a prescindere dall’azione
costitutiva avrebbe potuto escludere il risarcimento nel
caso in cui il danno sarebbe stato evitabile usando l’ordinaria diligenza;
• venivano introdotti dei termini per la costituzione in giudizio di Amministrazione e controinteressati idonei a
garantire la pienezza del contraddittorio già in sede cautelare;
• veniva prevista l’istituzione di sezioni stralcio al fine di
risolvere il problema dell’arretrato.
3. Giudizi della dottrina
Sull’introduzione dell’azione di accertamento e dell’azione
di adempimento, il giudizio espresso da parte della dottrina
è stato generalmente positivo; i primi commentatori, infatti,
hanno espresso apprezzamento per la positivizzazione di due
tipologie di azioni già di fatto esercitate innanzi al giudice
amministrativo.
Qualche voce isolata – pur esprimendo un giudizio sostanzialmente positivo sul punto – ha affermato che, probabilmente, esigenze di certezza del diritto avrebbero dovuto indurre
la commissione ad inserire un termine decadenziale per l’azione di accertamento 4 .
Sulla cumulabilità in un unico atto di diverse azioni, il
giudizio della dottrina di settore è stato lusinghiero in virtù
della valorizzazione del principio di concentrazione e di celerità della tutela.
Anche in questo caso, però, qualche commentatore ha
sottolineato come lo schema di codice non avesse previsto un
criterio di relazione tra le varie azioni avviate mediante un
unico atto5.
4 Posizione sostenuta da Enrico Follieri durante l’incontro di studio svoltosi a
Padova in data 26.03.2010, in www.giustamm.it.
5 Posizione manifestata da Vittorio Domenichelli durante l’incontro di studio
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Sulla soluzione al problema della pregiudiziale amministrativa, i pareri si sono dimostrati contrastanti; a fronte di
chi si è dichiarato soddisfatto della soluzione individuata e
dello strumento della c.d. praescritio brevis6 , vi è stato chi,
invece, si è da subìto dichiarato insoddisfatto della soluzione
ipotizzata paragonandola ad una pregiudiziale mascherata7.
La possibilità di escludere il risarcimento del danno in
caso di mancato esperimento di altri rimedi non ha destato
particolare attenzione nei primi commentatori.
L’introduzione di nuovi termini per la costituzione dell’Amministrazione e dei controinteressati, ha trovato un generale
consenso nella dottrina di settore che ha visto in essa uno
strumento utile per garantire efficacia, snellezza e concentrazione al procedimento giurisdizionale8 .
Un giudizio di tenore positivo è stato espresso dalla dottrina anche sulla scelta di introdurre sezioni stralcio per
l’assorbimento dell’arretrato.
Ciò non di meno, lo schema di codice approntato dalla
commissione insediata dal Consiglio di Stato è stato oggetto
anche di alcune critiche specifiche.
A coloro i quali hanno fatto rilevare il difetto di completezza materiale e funzionale dello schema ed il suo carattere
per c.d. ancillare rispetto al codice di procedura civile9, si
sono affiancati quegli Studiosi che hanno sostenuto che, nel
redigere la bozza di codice, la commissione di cui si è detto
avrebbe perduto un’utile occasione per: introdurre la figura
del giudice istruttore10 , risolvere in maniera definitiva il problema del riparto di giurisdizione, introdurre Corti di Appello amministrative territoriali11.
4. Lo sforbiciatore ministeriale
Orbene, nell’esame e nell’approvazione del documento, il
Governo (ovvero quello che è stato definito lo “sforbiciatore
ministeriale”) ha apportato significative modifiche riduttive
allo schema di codice elaborato dalla commissione insediata
presso il Consiglio di Stato. Modifiche che sono state sostanzialmente avallate dalle commissioni parlamentari competenti e che, di conseguenza, sono rifluite nel testo definitivo del
codice entrato in vigore il 16 settembre 201012 .
svoltosi a Padova in data 26.03.2010, in www.giustamm.it.
6 Ci si riferisce a quanto affermato da Fabio Merusi durante l’incontro di studio
svoltosi a Padova in data 26.03.2010, in www.giustamm.it.
7 Posizione espressa da Enrico Follieri nel corso dell’incontro di studio svoltosi a
Padova in data 26.03.2010, in www.giustamm.it.
8 Per valutazioni di tale genere si veda quanto affermato da Fabio Merusi e da
Giammarco Berto nell’incontro di studio svoltosi a Padova in data 26.03.2010,
in www.giustamm.it.
9 Ci si riferisce alle posizioni espresse da Enrico Follieri nel corso dell’incontro di
studio svoltosi a Padova in data 26.03.2010 e da Antonio Romano Tassone
durante il seminario tenutosi in data 09.04.2010 presso l’Università degli Studi
di Messina, entrambi in www.giustamm.it.
10 Rilievo sollevato da Fabio Merusi durante l’incontro di studio svoltosi a Padova
in data 26.03.2010, in www.giustamm.it. Nel suo contributo dal titolo Il codice
del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, in www.
giustizia-amministrativa.it, 2010, R. Chieppa ha affermato che il mancato accoglimento della proposta avanzata dalla componente universitaria della commissione di inserire la figura del giudice istruttore è derivato da una scelta di
compromesso tra le posizioni delle diverse anime della predetta commissione.
11 Critiche espresse da Vittorio Domenichelli durante l’incontro di studio svoltosi a Padova in data 26.03.2010, in www.giustamm.it.
12Nel caso di specie – posto che l’elaborazione dell’articolato era stata “commissionata” al Consiglio di Stato sfruttando la possibilità di cui all’art. 14 del T.U.
delle leggi sul Consiglio di Stato – si è deciso di non far tornare in Consiglio di
Stato il testo approvato dal Governo per il parere di rito. A seguito delle pro-
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Le modifiche apportate dal potere esecutivo - dichiaratamente motivate dalla necessità di non introdurre istituti che,
anche indirettamente o mediatamente ed in prospettiva di
medio periodo, potessero essere suscettibili di determinare
incremento di oneri per la finanza pubblica - si sono concentrare (tra l’altro) proprio sugli elementi di innovatività che
caratterizzavano lo schema elaborato dalla commissione insediata presso il Consiglio di Stato.
Il testo approvato dal Governo, infatti:
• ha espunto dall’elenco delle azione esperibili innanzi al
giudice amministrativo l’azione di accertamento e l’azione
di adempimento;
• ha ridotto da 180 a 120 giorni il termine per esperire l’azione di condanna autonoma dall’azione di annullamento;
• ha trasformato in obbligo la facoltà, prevista dallo schema
in capo al giudice chiamato a pronunciarsi su di una richiesta di risarcimento autonoma da una precedente azione di
annullamento, di escludere il risarcimento dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche
attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti;
• ha eliminato le sezioni stralcio.
5. La delusione dei commentatori
Ognuna delle modifiche appena sinteticamente descritte
non ha mancato di suscitare l’interesse dei primi commentatori del codice.
Il dibattito più acceso si sta concentrando sull’eliminazione delle azioni di accertamento e dell’azione di adempimento
dal novero delle azioni esperibili innanzi al giudice amministrativo.
Con riferimento all’espunzione dell’azione di accertamento, a chi ha affermato che - in presenza dell’azione di nullità
e dell’azione sul silenzio - l’eliminazione dell’azione di accertamento non produrrebbe una effettiva contrazione delle
possibilità di tutela13 è stato giustamente risposto: che la nullità ed il silenzio non sono le uniche situazioni che necessiterebbero di un’azione di accertamento14 , che l’introduzione
dell’azione di accertamento avrebbe prodotto la positiva conseguenza di porre fine al fenomeno secondo il quale molto
spesso si impugna un provvedimento non per ottenerne l’annullamento ma per conseguire una pronuncia di accertamento15 ed avrebbe determinato effetti positivi in tema di certezza
del diritto 16 , che non è da escludere che l’eliminazione
fonde modifiche introdotte dal Governo, tale scelta è stata fortemente criticata
da F. Merusi, In viaggio con Laband, in www.giustamm.it e da N. Saitta, Il
codice che poteva essere, ivi.
13 È quanto affermato da Giancarlo Coraggio nel corso del convegno “Il processo amministrativo (ieri – oggi – domani)” tenutosi presso il Consiglio di Stato
in data 19.05.2010.
14Nel corso del convegno “Il processo amministrativo (ieri – oggi – domani)”
tenutosi presso il Consiglio di Stato in data 19.05.2010, Franco Scoca – rispondendo al Presidente Coraggio – ha affermato che, probabilmente, in materia di
rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione ed in materia
di accordi, un’azione di accertamento (magari atipica) sarebbe stata utile se non
necessaria.
15 Posizione espressa da Fabio Merusi nel corso del seminario “La sistematica
delle azioni nel nuovo processo amministrativo” tenutosi presso l’Università
Bocconi di Milano in data 06.05.2010.
16 R. Caponigro, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo
amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it: La previsione dell’azione
di accertamento della posizione di interesse legittimo, finalizzata nello schema
del codice a risolvere incertezze relative all’esercizio di pubblici poteri con l’individuazione della regola concretamente posta dal provvedimento amministra-
amministrativo
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dell’azione di accertamento e la conseguente attuazione attenuata della legge delega potrebbe risultare costituzionalmente illegittima per eccesso di delega in minus17.
Analogamente – ma con riferimento, questa volta, alla
eliminazione dell’azione di adempimento – a quegli interpreti
che hanno sostenuto che l’azione di adempimento sarebbe, in
realtà, comunque ricompresa dalla previsione dell’azione di
condanna18 ed a quelli che hanno affermato che, tutto sommato, la circostanza che il legislatore abbia introdotto, all’art.
34, co. 1, lett. c), il potere per il giudice di condannare l’Amministrazione all’adozione delle misure idonee a tutelare la
situazione soggettiva dedotta in giudizio equivarrebbe all’introduzione di un’azione di adempimento atipica19 fanno da
contraltare coloro i quali, più lucidamente, sostengono che la
mancata introduzione nel codice di un’autonoma azione di
adempimento costituisce il più eclatante rinnegamento del
lavoro svolto dalla commissione insediata presso il Consiglio
di Stato20 e coloro i quali affermano che le potenzialità satisfattive delle pretese del privato insite nella paventata introduzione di un’azione di adempimento atipica risultano tutte
ancora da verificare 21.
Un parere non positivo è espresso anche da coloro i quali
affermano che la scelta di non introdurre l’azione di adempimento risulterebbe anacronistica in quanto superata da un
dato positivo già vigente nel nostro ordinamento (ci si riferisce
all’azione per ottenere l’autorizzazione all’esercizio di attività
bancaria ove la predetta autorizzazione non sia stata rilasciata dall’autorità amministrativa) e “pressata” dalle chiare
tendenze dell’ordinamento comunitario22 .
tivo, avrebbe fornito una compiuta risposta all’esigenza del cittadino di avere
certezza del perimetro di efficacia del provvedimento e, in particolare, della sua
eventuale lesività anche nei confronti della propria posizione giuridica.
17 S. Spuntarelli, Osservazioni sulla coerenza della ‘bozza’ di codice del processo amministrativo con i principi e criteri direttivi contenuti nelle disposizioni di
delega, in www.giustamm.it, n. 5, 2010: Per ciò che concerne specificamente la
previsione in ordine alla disciplina delle azioni e delle funzioni del giudice da
realizzare attraverso il riconoscimento di pronunce dichiarative, costitutive e di
condanna al fine di arricchire gli strumenti del giudice amministrativo idonei a
soddisfare la pretesa della parte vittoriosa. In questo caso la portata innovativa
della delega pare attuata in misura ridotta con riferimento all’azione di accertamento autonoma riconosciuta in un primo momento e poi scomparsa nel
corso delle successive versioni della ‘bozza’ di codice. Lo spirito della delega è
infatti quello di realizzare la tutela piena delle situazioni giuridiche soggettive
sottoposte alla cognizione del giudice amministrativo e, pare di poter affermare, non limitatamente alle sole ipotesi speciali in cui l’azione di accertamento
risulta allo stato ammessa dalle disposizioni della ‘bozza’ di codice.
18 È quanto affermato da Giancarlo Coraggio nel corso del convegno “Il processo amministrativo (ieri – oggi – domani)” tenutosi presso il Consiglio di Stato
in data 19.05.2010 e da M. A. Sandulli, Anche il processo amministrativo ha
finalmente un codice, in Foro Amm. Tar, 5/2010.
19 Posizione espressa da: R. Caponigro, Il principio di effettività della tutela nel
codice del processo amministrativo, op. cit., R. Gisondi, La disciplina delle
azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.
giustizia-amministativa.it, 2010; M. Clarich, Commento all’art. 29 del codice del processo amministrativo, Azione di annullamento, in www.giustiziaamministrativa.it, 2010; P.M. Zerman, L’effettività della tutela nel codice del
processo amministrativo, in www.giustamm.it e da A. Travi, Osservazioni
generali sullo schema di decreto legislativo con un ‘codice’ del processo amministrativo, in www.giustamm.it.
20 È quanto sostenuto da Fabio Saitta nel corso del seminario “La sistematica
delle azioni nel nuovo processo amministrativo” tenutosi presso l’Università
Bocconi di Milano in data 06.05.2010.
21 La posizione è di R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, op. cit.
22 F. Merusi, In viaggio con Laband, op. cit.: L’azione di adempimento è prevista,
sia pur con espressioni un po’ contorte, nel TUB (Testo Unico Bancario) in attuazione di una direttiva comunitaria a proposito delle autorizzazioni a presupposto vincolato, come sono ormai tutte le autorizzazioni disciplinate da diret-
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Anche la decisione di ridurre da 180 a 120 i giorni entro
i quali è possibile avviare un’azione di risarcimento autonoma
da un previa o contestuale azione di annullamento ha suscitato qualche perplessità.
Un’opinione fortemente critica rispetto a tale scelta è stata espressa da Fabio Merusi il quale ha visto in essa un tentativo per operare un’indebita compressione del diritto al risarcimento del danno23 .
Sulla scelta di trasformare in obbligo la facoltà, prevista
dallo schema in capo al giudice chiamato a pronunciarsi su di
una richiesta di risarcimento autonoma da una precedente
azione di annullamento, di escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza,
anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti il confronto è stato particolarmente serrato.
Vi è chi si è espresso a favore di tale decisione perché l’ha
ritenuta coerente con quelli che sono i poteri del giudice e
perché idonea a realizzare quel contemperamento tra la tutela dell’interesse privato e quella dell’interesse pubblico che – in
un prospettiva oggettivistica poco condivisibile per chi scrive
– caratterizzerebbe il processo amministrativo24 .
Ma vi è anche chi ha criticato in maniera condivisibile e
serrata la predetta scelta considerandola una riscrittura della
pregiudiziale e chi ha affermato che il rischio di reintrodurre
la pregiudiziale insito nell’anzidetta modifica potrà essere
evitato solo se il giudice amministrativo si dimostrerà elastico
rispetto alla mancata previa impugnazione del provvedimento generatore del danno25.
tive comunitarie. L’azione di adempimento è pertanto estensibile a casi similari
in cui esistono tutti i presupposti per emanare un provvedimento che l’amministrazione non ha voluto emanare, non solo in base alla analogia con la previsione del TUB, ma in applicazione di un principio generale comunitario, un
principio che, come tutti i principi generali comunitari, penetra obbligatoriamente nel nostro ordinamento in base all’art. 1 della legge sul procedimento
amministrativo.
23 F. Merusi, In viaggio con Laband, op. cit.: La legge delegata approvata dal
Consiglio dei Ministri ha ridotto a 120 giorni il termine utile per chiedere al
giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, il risarcimento del
danno nei confronti di pubbliche amministrazioni. Il termine previsto, nell’intento di rendere le azioni di responsabilità nei confronti della Pubblica Amministrazione praticamente impossibili, è palesemente un termine di decadenza.
Ma i diritti, e certamente il diritto al risarcimento del danno è un diritto garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell’uomo, sono sottoposti a termini di prescrizione. La prescrizione può essere ridotta, la c.d. praescriptio brevis, ma non eliminata a favore della decadenza. Ne segue che, al di là di
quel che c’è scritto nel progetto di codice, qualunque danneggiato potrà sempre
rivolgersi, entro il termine di prescrizione, al giudice ordinario per chiedere il
risarcimento del danno.
24Giudizio espresso da Giancarlo Coraggio nel corso del convegno “Il processo
amministrativo (ieri – oggi – domani)” tenutosi presso il Consiglio di Stato in
data 19.05.2010: secondo l’ultima bozza del codice, il giudice non “può escludere”, ma “comunque esclude” il risarcimento nel caso in cui il danno sarebbe
stato evitabile usando l’ordinaria diligenza. Forse è preferibile questa seconda
previsione per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo ci si chiede se e
quale spazio di discrezionalità, nel riconoscere il diritto al risarcimento, possa
rimanere al giudice dopo aver rinvenuto tutti gli elementi integrativi della fattispecie e cioè dopo aver accertato che l’ordinaria diligenza del ricorrente
avrebbe evitato il danno. Inoltre, con questa più categorica previsione, si riescono a soddisfare le esigenze, connaturate al processo amministrativo, di un
contemperamento tra la tutela non solo dell’interesse privato, ma anche dell’interesse pubblico. Del resto, si muove in un senso di contemperamento tra interesse pubblico e inteesse privato anche la c.d. “direttiva ricorsi”, oggetto di
recente recepimento.
25 R. Caponigro, “Il principio di effettività della tutela nel codice del processo
amministrativo, op. cit.: non vi è dubbio che, ove la giurisprudenza dovesse
orientarsi nel senso di escludere il risarcimento nell’ipotesi in cui il ricorrente
avrebbe potuto evitare il danno proponendo una tempestiva azione impugnatoria, vale a dire ove il giudice amministrativo dovesse ritenere che la tempesti-
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
L’eliminazione delle sezioni stralcio è stata oggetto di
critica unanime.
Alla luce della sintetica rassegna appena riportata non si
può non essere d’accordo con quella parte della dottrina che
ha affermato come – al di là della paventata esigenza di evitare l’introduzione di istituti onerosi per la finanza pubblica
– il vero intendimento alla base dei tagli governativi sia stato
quello di non consegnare al giudice amministrativo uno strumento idoneo a far emergere le inefficienze dell’Amministrazione26 .
va proposizione dell’azione di annullamento dell’atto rientra nell’ordinaria diligenza del soggetto inciso da un provvedimento amministrativo produttivo di
danno, l’esito del ricorso avente ad oggetto l’azione risarcitoria autonoma non
potrebbe che essere di reiezione con un risultato sostanzialmente analogo alla
declaratoria di inammissibilità cui nel previgente ordinamento la domanda sarebbe andata incontro seguendo la teoria della c.d. pregiudiziale amministrativa.
26 R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività
della tutela, op. cit.: In realtà, l’impressione è che le ragioni di evitare maggiori
costi nulla hanno a che fare con le correzioni apportate dal Governo e che sia
un altro il filo conduttore che unisce tali modifiche. Tale filo conduttore va
individuato nella paura del Governo di rendere la tutela del cittadino realmente effettiva; nel timore di esporre una amministrazione inefficiente alle iniziative del privato.
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6. Una valutazione conclusiva
Ciò posto, il giudizio complessivo sul nuovo codice del
processo amministrativo non può che essere negativo.
Tra i molti problemi, uno in particolare: vi è il rischio
concreto che la magistratura amministrativa – trovandosi tra
le mani uno strumento che contiene un’elencazione tassativa
(?) delle azioni esperibili innanzi ad essa – faccia un passo
indietro rispetto alla possibilità di pronunciarsi su determinate tipologie di azioni (per esempio quella di accertamento) che
non sono state inserite nel codice ma che, prima dell’entrata
in vigore di quest’ultimo, rappresentavano jus receptum.
Anche in ragione di ciò, le sorti del processo amministrativo continueranno a dipendere dalla sensibilità e dalla creatività di quella parte della giurisprudenza amministrativa
consapevole del fatto che il processo amministrativo rappresenta solo ed esclusivamente lo strumento per garantire ai
cittadini una tutela effettiva e completa nei confronti della
pubblica Amministrazione.
Nella speranza che quella parte cresca sempre di più …
Nella consapevolezza dell’ammissibilità di alcune azioni anche a normativa
vigente, si è preferito non codificarle, non renderle chiare ed evidenti al cittadino, in totale contrasto con le ragioni stesse dell’intervento di codificazione.
amministrativo
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●
L’autodichia,
una prerogativa ormai
quasi invulnerabile delle
Camere parlamentari
● Pasquale, Pierluigi Bufo
Avvocato
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F O R E N S E
SOMMARIO: 1. L’autodichia come giurisdizione: le sue
origini, la sua funzione - 2. Il formarsi del sistema guarentigie:
l’autonomia contabile - 2.1. Il progressivo affermarsi
dell’autonomia organizzativa dell’amministrazione delle
Camere e la genesi dell’autodichia - 3. La Costituzione
della Repubblica ed il suo silenzio in tema di Autodichia
- 4. L’autodichia ed il suo perpetuarsi: una consuetudine
costituzionale? - 5. L’art. 64 come unica norma costituzionale
su cui poter fondare la giurisdizione interna alle Camere - 6.
L’autodichia nei pronunciamenti della Corte di Cassazione,
della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti
dell’uomo, una prerogativa ormai quasi invulnerabile delle
Camere parlamentari.
1. L’autodichia come giurisdizione: le sue origini, la sua funzione
Fenomeno non esclusivo del nostro ordinamento, per “Autodichia”, stando all’interpretazione etimologica del termine,
proveniente dal greco αυτ ς1 “stesso” e δίκη2 “giustizia”, va intesa la prerogativa, dapprima spettante alle Camere parlamentari e, poi, secondo una linea emersa nel XX secolo agli organi
di primario rilievo costituzionale di “iuris dicere” in materie
che li riguardino, restando indenni da qualsiasi controllo giurisdizionale (ordinario e speciale), con particolare riguardo alle
controversie relative agli atti della loro Amministrazione, riguardanti il rapporto di lavoro e meglio lo stato giuridico ed
economico del personale in servizio ed in quiescenza e, secondo
l’ultima versione dei Regolamenti parlamentari in materia, anche dei partecipanti ai pubblici concorsi, indetti per l’accesso
alle carriere, previste dai ruoli delle singole Istituzioni.
Se abbiamo parlato di prerogativa, nata per le Camere parlamentari, spieghiamo subito che non poteva essere altrimenti.
L’origine, infatti, del fenomeno, va ricercata nel passaggio
dal modello istituzionale della monarchia assoluta alla cosiddetta monarchia costituzionale, che, per rimanere in ambiti
geografici e temporali ristretti ossia entro i confini del nostro
Stato e dell’epoca del Risorgimento, si è determinato in Italia
con l’emanazione dello Statuto Albertino, quando si delineò
un sistema istituzionale, caratterizzato dall’esercizio collettivo
del potere legislativo, distribuito ex art. 3 fra il Re e le Camere, di cui una, il Senato, di nomina regia e vitalizia con nominabilità limitata ai regnicoli, che avessero compiuto il quarantesimo anno di età e si trovassero in una delle ventuno categorie indicate, e l’altra, la Camera dei deputati, elettiva e
composta da deputati scelti in appositi collegi previsti dalla
legge, purché sudditi ultratrentenni e nel pieno godimento dei
diritti civili e politici e degli altri requisiti voluti dalla legge. 3
La previsione di un sistema, in cui almeno una Camera
fosse frutto dell’elezione diretta dei cittadini, apriva la porta
all’individuazione nel Parlamento del rappresentante della
sovranità popolare, considerato anche il bicameralismo perfetto previsto dall’art. 55 dello Statuto, che fra l’altro chiariva
che il potere regio in materia di produzione legislativa rimaneva limitato alla sanzione4.
1Leggasi autòs.
2Leggasi dìke.
3Vedi rispettivamente gli artt. 33, 39 e 40 dello Statuto Albertino.
4 Statuto Albertino - art. 55: Ogni proposta di legge debb’essere dapprima esaminata dalle Giunte che saranno da ciascuna Camera nominate per i lavori
preparatorii. Discussa ed approvata da una Camera, la proposta sarà trasmessa all’altra per la discussione ed approvazione; e poi presentata alla sanzione del
Re. Le discussioni si faranno art. per art.
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
Tuttavia, la previsione statutaria dell’appartenenza al Re
del potere esecutivo, da esercitarsi per mezzo di Ministri da
Lui nominati e revocati5, l’assoluta mancanza nello Statuto di
un qualsiasi riferimento al meccanismo della fiducia parlamentare, costituzionalizzato nel 1947, ben può dirsi, come
recepimento di una prassi, le cui radici affondavano nell’epoca statutaria, certo non immediatamente successiva alla
graziosa concessione del testo statutario, mal si conciliavano
con l’affermantesi principio di sovranità popolare, che era il
risultato di una lotta contro la monarchia e le sue prerogative
ed andava difeso nel suo nascere.
Il timore, dunque, che questa conquista potesse presto
essere vanificata attraverso il controllo esterno di tipo amministrativo da parte del Regio Esecutivo o giurisdizionale per
opera della magistratura, vista anche la titolarità esclusiva del
legislativo del potere di interpretazione delle norme6 e la diffidenza nei confronti della stessa magistratura, amministrante una giustizia promanante dal Re, in suo nome e con giudici da questi istituiti e, della quale, proprio per questo, era
impossibile predicarne la autonomia ed indipendenza, giustificarono la rivendicazione ed il conseguimento ad opera del
Parlamento di attribuzioni di carattere amministrativo e giurisdizionale, finalizzate a garantirne l’indipendenza.
La necessità, quindi, di impedire che il processo di formazione e, quando previsto, d’interpretazione delle leggi potesse
essere aliunde condizionato, unita all’ancora imperfetta dogmatica dell’epoca, incapace di distinguere l’attività propriamente istituzionale del Parlamento da quelle accessorie, di
gestione del personale ad esempio, portarono, dunque ad un
sistema di guarentigie, tutt’oggi esistente, fondato sulla tricotomia: a) autonomia ossia capacità di autoregolamentazione;
b) autarchia, capacità di autoamministrazione; c) autodichia
o autodicastia o autocrinia o giustizia domestica, che dir si
voglia, ossia giurisdizione assoluta in controversie attinenti
all’esercizio delle proprie funzioni.
Tali guarentigie, è bene subito precisarlo, sono da considerarsi, per dirla con Sandulli, “assolute ed esclusive in relazione ai propri uffici, alla propria sede, alla propria gestione
finanziaria, al proprio personale”7.
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2. Il formarsi del sistema della guarentigie: l’autonomia contabile
Che la concessione di uno statuto fosse stata una conquista e che il bicameralismo perfetto dello Statuto fosse mezzo
per riempirla del valore di avamposto e baluardo dell’affermantesi sovranità popolare, è dato ormai acquisito.
Pensare, però, che in un’epoca, in cui nel Regno di Sardegna
e negli altri Stati preunitari la pubblica amministrazione non
era ancora governata da una disciplina completa, si potesse
anche solo teorizzare una soluzione della questione dell’Amministrazione del neonato Parlamento, sembra forse eccessivo,
restando comunque demandato dallo Statuto, come poi ripreso
in Costituzione repubblicana, ai regolamenti parlamentari di
disciplinare il modo di esercizio delle attribuzioni camerali8.
Completamente silenti i primi regolamenti sulla materia
dell’Amministrazione e scelto il modello amministrativo ministeriale invece di quello aziendale, ad accentuare i timori
che il processo di formazione legislativa potesse essere aliunde condizionato dal Regio esecutivo, fu il legame, subito
manifestatosi, della nascente e pur necessaria amministrazione parlamentare con quella pubblica.
I fondi necessari al funzionamento delle neonate Assemblee parlamentari furono, infatti, stanziati nel bilancio del
Ministero degli Interni e, tranne che per le mansioni di estensore del processo verbale e di bibliotecario archivista, per le
quali entrambi i regolamenti previdero l’elezione ad opera
delle rispettive Assemblee, tutti gli altri incarichi furono coperti con personale, già in servizio, proveniente dalla Pubblica Amministrazione.
Accanto alla previsione dell’elettività dell’estensore del
processo verbale e del bibliotecario archivista, la cui ratio è
da ricercarsi nella volontà di affidare un servizio delicato per
la sua valenza e rilevanza politica a personale, il cui sistema
di reclutamento avrebbe garantito la estraneità alla Pubblica
Amministrazione e, dunque, la fedeltà alla nascente istituzione parlamentare, nel solo Regolamento della Camera dei deputati fu inserita, per consentire secondo le intenzioni del
Governo di avere un bacino clientelare anche in questo ramo
del Parlamento, la possibilità di provvedere autonomamente
alla assunzione e revoca di messaggeri, uscieri ed altri impiegati minori alla maggiorità assoluta del Presidente, dei vicepresidenti, segretari e questori9.
È dunque possibile dire che, tranne che per queste figure,
il travaso di personale dalle Amministrazioni politicamente
più significative come quella degli Interni e delle Finanze,
giustificò il timore, che l’incerto confine fra l’amministrazione pubblica e quella, di cui le Camere necessitavano per lo
svolgimento delle proprie funzioni, potesse negativamente
influire sul principio della separazione dei poteri, che fondava
lo Statuto, vanificandone la concessione.
Fu la Camera dei deputati a farsi maggiormente portatrice dell’insofferenza verso questo stato di cose e ad iniziare la
battaglia per il regime della autonomia guarentigiata, anche
in ragione della diversa modalità di elezione dei propri componenti.
L’occasione fu offerta dalla presentazione il 17 Maggio
1848 alla Camera del progetto di legge in materia di spese per
il Parlamento a firma del Ministro delle Finanze Ricci, riprodotto il giorno immediatamente successivo in un decreto del
luogotenente generale del Re Eugenio di Savoia, che fissava
un regime, in cui determinante appariva il ruolo del Ministero degli Interni, cui veniva affidato il compito, nei limiti delle
somme stanziate a bilancio dello stesso Ministero nel bilancio
della Camera e del Senato, di promuovere la spedizione dei
mandati di pagamento sulle somme stanziate, richiestegli dai
5 Statuto Albertino – art. 5: Al Re solo appartiene il potere esecutivo.”; Art. 65.“Il Re nomina e revoca i suoi Ministri.
6 Statuto Albertino – art. 73: L’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo.
7 Cfr. Sandulli, Sulla “posizione” della Corte Costituzionale nel sistema di organi supremi dello Stato, in Rivista trimestrale di Diritto pubblico, 1960, p.
719 e segg.
8 Statuto Albertino - art. 61: Così il Senato, come la Camera dei Deputati, determina per mezzo d’un suo Regolamento interno, il modo secondo il quale abbia
da esercitare le proprie attribuzioni.
9 Art. 84 del Regolamento della Camera, che cfr. S. Furlani, La influenza della
Costituzione e dell’ordinamento Costituzionale Belga del 1831 sulla stesura
dello Statuto, in Bollettino di Informazioni costituzionali e parlamentari, 1986,
n. 2, p. 111, riproduceva la disciplina dell’art. 89 del Regolamento del Senato
Belga.
amministrativo
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questori di ambo i rami parlamentari.
Tale indirizzo legislativo fu poi, sulla scorta dell’acquiescenza del Senato al decreto luogotenenziale di due anni prima10, ripetuto nel r.d. 21 dicembre 1850 («Attribuzioni dei
vari dipartimenti ministeriali»), il cui art. 4, n. 7 prevedeva,
che tra le attribuzioni del Ministero dell’Interno vi fosse anche
quella relativa al Parlamento nazionale, innescando così la
reazione della Camera, ove forte era l’orientamento volto a
respingere qualsiasi forma di controllo esterno, che potesse
permettere una qualsiasi forma di dipendenza, ivi compresa
quella economica, del potere legislativo dal Regio esecutivo
ed ove una parte dei deputati riteneva, semmai, possibile
l’inverso, cioè un controllo parlamentare sull’esecutivo, i cui
membri sarebbero potuti rimanere in carica, solo se avessero
goduto della fiducia del Parlamento.
Al momento della resa dei conti fu chiaro, che non si trattasse di una questione solo economica e che lo scontro fra il
Governo ed il ramo elettivo del Parlamento fosse ormai inevitabile e per nulla dettato solo dalle ragioni suddette.
Fra il 1850 ed il 1852 Cavour, con il suo solito acume
politico, ritenendo in definitiva la questione di poco conto ed
inopportuno trascinare a lungo un conflitto, che all’estero era
già stato risolto da molti anni con il riconoscimento della
autonomia amministrativa delle Assemblee parlamentari,
accolse – 1850 – la posizione dalla Giunta del Bilancio della
Camera, che, nel votare la relazione al bilancio dello Stato,
svincolava da qualsiasi forma di controllo governativo le
spese per il Parlamento, la cui iscrizione a bilancio sarebbe
avvenuta «secondo l’annuale voto rispettivo delle due Camere», ragion per cui, a far data dal 1851, la spesa per la Camera dei deputati e per il Senato, passò in capo allo stato previsionale del Ministero delle Finanze, all’epoca competente per
tutta la spesa statale e, infine, suggellò il rovesciamento della
linea del 1848, affermando egli stesso nella seduta della Camera del 28 Maggio 1852 il principio ancor oggi vigente
dell’«assoluto diritto della Camera di regolare il proprio bilancio» mentre «gli altri due poteri dello Stato non debbono
prendere parte alla sua discussione».
2.1. Il progressivo affermarsi dell’autonomia organizzativa
dell’amministrazione delle Camere e la genesi dell’autodichia
Se il 1852 fu, dunque, l’anno del definitivo affermarsi
della autonomia contabile delle Camere, è bene ricordare che
risalgono al 27 febbraio 1849 ed al 2 febbraio 1850 i regolamenti di disciplina delle strutture amministrative interne e del
trattamento economico dei dipendenti, di cui si erano rispettivamente dotati il Senato e la Camera dei deputati, che fu
particolarmente attiva nel rivendicare la propria autonomia
da qualsiasi ingerenza esterna e la cui determinazione nel
perseguire tale obiettivo è testimoniata da quanto il 22 aprile
1850 il deputato Giovanni Battista Michelini affermò: “La
Camera è una specie di piccolo stato, il nostro governo è la
presidenza”.
Logica conseguenza di tale atteggiamento fu anche la
tendenza a declinare la tanto agognata autonomia ammini-
10 Si vedano il sistema di contabilità adottato dall’Ufficio di Presidenza il 13 novembre 1848 proposto dal Sen. De Cardenas ed il regolamento del successivo
16 dicembre 1849 per l’amministrazione dei fondi assegnati al Senato.
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strativa secondo modelli diversi fra le due Camere, nonostante il bicameralismo perfetto, previsto dallo Statuto.
Se le Camere, che svolgevano sostanzialmente la medesima
funzione si potevano dotare di un modello amministrativo proprio, allora non si vede perché si sarebbero dovute attenere a
modelli organizzativi, tratti dalla Pubblica Amministrazione.
Cominciò, così, quel processo, che, oltre alla formazione di
una burocrazia parlamentare, avrebbe portato alla peculiarizzazione dei caratteri della Amministrazione parlamentare,
secondo un percorso, che, partendo dalla disapplicazione alle
Camere della legge sarda di riforma della amministrazione
pubblica del 23 marzo 1853, n. 1497 11, come i trattamenti
economici ad personam per i dipendenti provenienti dai ministeri dimostrano12, si sarebbe, attraverso varie tappe, consolidato nel 1890, quando, nonostante il disegno di legge sullo
stato giuridico dei pubblici dipendenti, presentato dal Presidente del Consiglio pro tempore Depretis, non fosse stato approvato, nell’aula della Camera, Achille Fagiuoli, relatore del disegno di legge, poté affermare, senza che nessuno lo contestasse, che “anche la nomina e la disciplina dei propri impiegati”
fosse prerogativa riconducibile all’autonomia amministrativa
delle Camere parlamentari13, concetto che fu definitivamente
affermato con l’approvazione della legge 25 giugno 1908, n.
290 sullo stato giuridico degli impiegati dello Stato, le cui
norme, fedelmente ricalcanti il progetto di legge, naufragato
diciotto anni prima, così come già affermato a quell’epoca dal
Fagiuoli, non si sarebbero applicate ai dipendenti delle Camere
del Parlamento, cui si sarebbe dovuto provvedere con regolamenti speciali, previsti dai regolamenti generali.
Appare chiaro da quanto fin qui esposto, che, vigente lo
Statuto, fossero sicuramente individuabili due delle prerogative, che costituiscono lo statuto tricotomico delle guarentigie
parlamentari e cioè l’autoregolamentazione, di cui all’art. 61
dello Statuto e l’autarchia o autoamministrazione, come fin
qui dimostrato.
Resta, dunque, da capire come si sia originata la terza ed
ultima garanzia, costituita dall’autodichia.
Ebbene la prima pronuncia, che ha aperto la strada all’insindacabilità, tanto ad opera del giudice ordinario, quanto ad
opera del giudice amministrativo, degli atti dell’amministrazione interna alle Camere Parlamentari risale al lontano 1898
e proviene dalla IV sezione del Consiglio di Stato.
Si trattava di un ricorso avverso il provvedimento, che la
Camera dei deputati aveva adottato in merito ad un concorso,
bandito per la costruzione di una nuova aula parlamentare,
che la IV sezione decise, dichiarando il proprio difetto di
giurisdizione e motivando che: All’atto impugnato mancava
il carattere dell’atto amministrativo, non potendo in nessun
conto ravvisarsi un atto amministrativo in un deliberato del-
11La legge sarda del 23 marzo 1853, n. 1497, fortemente voluta da Cavour, riformò profondamente la Pubblica Amministrazione, informandola al principio
della uniformità di organizzazione dei ministeri e degli uffici pubblici quanto ai
titoli, gradi e stipendi dei dipendenti.
12I verbali dei Consigli di presidenza testimoniano di tali misure, finalizzate a
garantire a tali impiegati una retribuzione non inferiore a quella che avrebbero
ipoteticamente goduto se fossero rimasti incardinati presso l’amministrazione
di provenienza.
13Vedi Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XVI Legislatura, 1889 – 90, n.
86°.
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
la Camera in comitato segreto”14.
Sebbene la massima di questa sentenza dividesse la dottrina
fra quanti, come il Lessona15, la avversavano e quanti, come
Orlando16 e Romano17, ne erano sostenitori, la IV sezione, forte dell’appoggio di quest’ultima dottrina alle sue tesi, nel 1903
testualmente scriveva: la IV sezione è incompetente a conoscere
dei ricorsi per illegittimità prodotti contro atti amministrativi
di autorità non appartenenti all’ordine amministrativo”.
Se già era sufficiente la sentenza del 1898, a creare la
convinzione, che quella dei dipendenti delle due Camere fosse
una sorta di zona franca nell’impiego pubblico, la decisione
del 1903 avrebbe trasformato in certezza questa convinzione,
tanto più, che lo svantaggio di non vedersi applicare le norme,
che tanto faticosamente andavano promulgandosi a garanzia
dei dipendenti nei confronti degli organi della Pubblica Amministrazione, era bilanciato dalla consapevolezza, maturata
nel personale e che ne giustificava l’acquiescenza, che l’autonomia amministrativa e, possiamo ora dire, l’insindacabilità
giurisdizionale esterna degli atti dell’amministrazione delle
singole Camere avrebbe comportato dei vantaggi sotto il
profilo economico e della progressione di carriera.
Fu in questo clima, che, approvato il 2 giugno 1907 il
nuovo regolamento dei servizi e del personale, l’Ufficio di
Presidenza della Camera dei deputati, organo cui afferiva il
Presidente della Camera, capo supremo dell’amministrazione
della Camera, con poteri su di essa più formali che sostanziali, vista l’istituzione di un Segretario generale, responsabile
diretto di tutti gli uffici eccetto quelli incardinati nel servizio
di questura, divenne responsabile di ogni decisione, riguardante lo stato giuridico, il trattamento economico dei dipendenti e le misure disciplinari da adottarsi nei loro confronti.
Dopo la riforma del 1907, dunque, come testimoniato da
Zanobini18, secondo gli allora vigenti regolamenti interni alle
camere, mentre rimaneva di competenza politica alla Camera
la determinazione della pianta organica ed al Senato la nomina dei capi ufficio, le decisioni circa la nomina, la promozione e destituzione degli impiegati spettavano rispettivamente
all’Ufficio di Presidenza ed al Consiglio di Presidenza19.
14 Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 1898, in Giust. amm., a. IX (1898), parte I,
p. 553.
15Vedi Lessona, nota in Foro italiano, 1898, III, col. 105, in cui l’autore dichiarava ingiustificata la dichiarazione di incompetenza della IV sezione, dimostrando come fossero da considerare amministrativi anche gli atti di un organo legislativo specialmente se attinenti alla gestione patrimoniale.
16 Orlando, vedi la Giustizia amministrativa, nel Trattato di diritto amministrativo, vol. III, p. 900 e ss.,affermava che fulcro della questione non fosse tanto il
riconoscimento dell’indubbio carattere amministrativo del provvedimento
impugnato, ma la natura non amministrativa del soggetto da cui venivano
emanati tali atti, nella specie un ramo del Parlamento, che giustificava la inammissibilità del ricorso contenzioso contro tali atti.
17 Romano, Gli atti di un Ramo del Parlamento in e la loro pretesa impugnabilità dinanzi alla IV sezione, in Circolo Giur., XXX (1899), I, p. 77, sosteneva
la inammissibilità del ricorso contenzioso contro gli atti di un ramo del Parlamento, basandosi sul carattere di controllo puramente interno e proprio
dell’ordine amministrativo, da riconoscersi allora secondo alcuni alla competenza della IV sezione.
18 Zanobini G., Gli atti amministrativi delle autorità non amministrative e la
competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato, in Riv. dir. pubbl., 1918, p.
237, note 1 e 2.
19 Regolamento del Senato, art.13: “la nomina, le promozioni e la destituzione
degli impiegati subalterni e degli inservienti spetta al Consiglio di presidenza.”
- art. 112 cpv.: “i capi d’ufficio sono nominati dal Senato in assemblea pubblica,
a squittinio segreto ed a maggioranza assoluta; Regolamento della Camera, art.
153: “la nomina, le promozione la destituzione degli impiegati presso gli uffici
2 0 1 0
93
Tale stato di cose fu poi perfezionato nel 1920, quando si
emanarono le prime norme regolamentari circa lo stato giuridico del personale e fu istituito l’antesignano degli attuali
organi di autodichia ossia il Consiglio di disciplina, che, presieduto dal Presidente della Camera o da un suo vice, da lui
delegato, composto da un questore, dai capi dei servizi e da
due rappresentanti eletti dal personale, conosceva dei ricorsi
non solo in materia disciplinare, ma anche contro il ruolo di
anzianità, configurandosi come struttura mista politico amministrativa.
Gli anni del fascismo conobbero un’ulteriore conferma
dell’insindacabilità giurisdizionale esterna degli atti delle
amministrazioni parlamentari.
Il disegno di un sistema politico a partito unico, per evitare strappi con il Sovrano, che avrebbero potuto insospettire
i cittadini verso il fascismo, comportava una fascitizzazione
delle amministrazioni, da realizzarsi, però, in un quadro
istituzionale formalmente immutato.
Di questo disegno faceva parte anche il superamento di
quella, che in detta epoca sembrava un’anacronistica garanzia,
quell’indipendenza amministrativa delle Camere, prerogativa
ad esse considerata coessenziale, che proprio per questo motivo si sarebbe dovuta conservare solo formalmente, ma
svuotare nella sostanza.
Strumenti per perseguire questo risultato furono la proposta dei deputati questori il 4 aprile 192520 di inquadramento di tutti i dipendenti dell’Amministrazione in tre gruppi in
ragione del titolo di studio posseduto e l’equiparazione degli
stipendi a quelli degli altri pubblici dipendenti, la nomina il 6
ottobre 1925 ad opera del presidente Casertano di una Commissione di inchiesta circa l’esistenza di massoni fra i dipendenti dell’amministrazione della Camera21, le cui risultanze
furono strumentalizzate per chiedere ed ottenere le dimissioni e la sostituzione con uno di fede fascista del Segretario
generale22 , la riforma il 1° maggio 1929 del regolamento dei
servizi del 1907 con il trasferimento di tutti i poteri del Segretario generale al Presidente della Camera e la conseguente
perdita dell’autonomia nei confronti del potere politico
dell’amministrazione interna.
In questo quadro ed a rafforzare la sottoposizione dell’amministrazione delle Camere al potere politico, come dimostrava il ridisegnato ruolo del Segretario generale, che da assistente del Presidente nella preparazione dei lavori, custode
dell’archivio segreto e conservatore dei verbali dell’Ufficio di
presidenza e dei Comitati segreti, come risultava dal regola-
di segreteria, biblioteca, questura, revisione e stenografia spetta alla presidenza...
una pianta organica approvata dalla Camera fissa il numero, la qualità e gli
assegnamenti degli impiegati assegnati a ciascun ufficio.”; art. 154 “gli uscieri,
commessi ed inservienti sono nominati e revocati dalla presidenza”.
20Vedasi la Relazione al bilancio interno alla Camera per l’esercizio finanziario
1925.
21 All’epoca della istituzione di tale commissione nessuna norma dell’ordinamento vietava ai dipendenti pubblici l’appartenenza alla massoneria. Pendeva solo
un disegno di legge, che prevedeva detto divieto, per la cui conversione in legge
mancava solo l’approvazione del Senato, cosa che non impedì alla commissione di applicare la norma in fieri nei confronti di alcuni dipendenti massoni oltre
che di iscritti a partiti politici antifascisti e collaboratori a giornali di opposizione la regime fascista.
22La commissione, benché avesse espresso apprezzamento per la attività svolta
da Montalcini ne chiese le dimissioni, indicandone in Annibale Alberti, nel
frattempo convertitosi al fascismo, il successore.
amministrativo
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mento servizi del 1907, si era trasformato nel 1929 in mero
esecutore delle disposizioni degli organi politici ed in particolare del Presidente, intervenne la decisione del Consiglio di
Stato, sez. IV, 12 agosto 1927, n. 2823.
Ancora una volta il massimo organo di giustizia amministrativa si pronunciava, basando sulla natura soggettiva
dell’organo, da cui il provvedimento impugnato, oggettivamente amministrativo, proveniva, dichiarando il ricorso
inammissibile per difetto di giurisdizione, potendo il Consiglio di Stato conoscere solo dei ricorsi avverso gli atti di “un
organo del potere esecutivo”.
La causa, invece, come è noto, opponeva Vittore Bonfigli
all’Amministrazione della Camera, di cui era dipendente, per
la revoca del provvedimento di dispensa dal servizio, fondato
sulle risultanze della commissione di inchiesta sulla massoneria, di cui sopra, che ne avevano accertato la collaborazione
a giornali socialisti oltre che la paternità di un volume offensivo nei confronti del capo del fascismo.
Questa sentenza ebbe il duplice risultato di confermare,
da un lato, nonostante l’art. 26 del Testo unico delle leggi sul
Consiglio di Stato del 1924 prevedesse la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di controversie di lavoro dei pubblici dipendenti, l’insidacabilità giurisdizionale
esterna, su cui poi si fonda l’autodichia oggetto delle nostre
attenzioni, degli atti dell’amministrazione della Camera e
quindi anche del Senato, e, dall’altro, l’impossibilità di bloccare per via giudiziaria il nuovo assetto delle amministrazioni interne, che pian piano andava delineandosi, secondo le
caratteristiche sopra descritte.
Dopo la parentesi del fascismo, che per quanto sopra
detto, con finalità contrarie alla garanzia della indipendenza
della amministrazione delle Camere, generò i presupposti per
la pronuncia del Consiglio di Stato, IV sez., 12 agosto 1927,
n. 28, favorevoli all’instaurazione di un regime di autodichia,
gli anni del dopoguerra videro la stesura di norme regolamentari, che, oltre a riaffermare l’autonomia amministrativa
delle Camere parlamentari secondo lo schema prefascista,
facevano esplicito riferimento alla autodicastia.
Gli esiti del referendum istituzionale del 2 giugno, l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente, il suo riunirsi determinarono la necessità di un regolamento, che ne disciplinasse
il funzionamento.
Il 25 giugno 1946, modellato su quella della Camera prefascista, l’Assemblea costituente varò il proprio regolamento,
che riponeva il Segretario generale, responsabile a sua volta
nei confronti del Presidente, al vertice della struttura amministrativa della Camera e che all’art. 148 attribuiva alla Presidenza la responsabilità dei provvedimenti in materia di
stato giuridico dei dipendenti e la decisione dei ricorsi avverso tali provvedimenti.
Il 4 giugno 1948 la Camera dei deputati, adottando il
proprio regolamento, confermò detto modello.
3. La Costituzione della Repubblica ed il suo silenzio in tema di
Autodichia
Fin qui si è analizzata la genesi della giurisdizione dome-
23 Cons. Stato, sez. IV, 12 agosto 1927, n. 28, in Foro it., a. XCII (1927), parte
III, col.105.
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stica, considerando il processo di affermazione delle autonomie delle Camere parlamentari in relazione, soprattutto, alle
vicende evolutive dei loro regolamenti interni attraverso l’arco
di un secolo di storia.
Non che la vicenda regolamentare si arresti con il 1948,
che pur tuttavia assume importanza, come sopra illustrato,
per l’esplicito riconoscimento regolamentare dell’autodichia,
ma, prima di continuare l’analisi dell’evoluzione dei regolamenti, bisogna soffermarsi sull’emanazione ed entrata in vigore della Costituzione, che, sicuramente, costituisce una
cesura nell’evoluzione storico istituzionale del Paese.
L’istituto dell’autodichia non è esplicitamente previsto in
Costituzione, ove viceversa i Principi fondamentali e le norme
del Titolo I, parte I, tanto per citarne alcune, semmai pongono problemi circa la tenuta costituzionale dello stesso.
Prima di approfondire il tema dell’art. 64 Cost., ci soffermeremo sull’art. 66 Cost., che recita: “Ciascuna Camera
giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle
cause sopraggiunte di ineleggibilità ed incompatibilità”24, per
verificare se esso sia da inserirsi nella tematica dell’autodichia
e, quindi, possa costituirne il fondamento costituzionale.
Appare subito chiaro, che l’istituto sia volto a garantire la
indipendenza e l’autonomia del Parlamento dalla interferenza
di altri poteri.
La preoccupazione, di evitare un condizionamento esterno
delle funzioni, affidate alle assemblee legislative, sembra dettata, in questo caso, dal timore, che detto condizionamento
possa realizzarsi, non indirettamente, agendo sulla struttura
amministrativa servente, ma direttamente, intervenendo sulla composizione stessa delle Camere, il che porterebbe, ad
intendere, che questa previsione vada letta anche in relazione
allo statuto delle guarentigie, finalizzato a garantire la separazione dei poteri propria dello Stato di diritto, di cui il parlamentare gode in virtù della sua particolare condizione di
rappresentante del popolo sovrano.
A confermare l’impressione, che, sebbene la Costituzione
parli di giudicare, si tratti di un istituto lato sensu riconducibile alla giurisdizione domestica, è anche la critica del Mortati al nomen iuris di verifica dei poteri, che pratica e dottrina utilizzano, che si richiama all’epoca, in cui ogni deputato
era munito di un proprio mandato, rilasciatogli dai suoi deleganti 25 e che, sempre secondo la dottrina citata, bene ha
fatto il costituente a non riprodurre, utilizzando un lessico più
appropriato.
L’art. 66 introduce, insomma, una sorta di “riserva di
giurisdizione” delle assemblee parlamentari nei confronti dei
propri membri che, per questo, hanno competenza esclusiva
in materia di convalida e decadenza dal mandato, competenza che trova la sue origini nell’Inghilterra del XVII e nella
Francia del XVIII secolo, come garanzia dell’indipendenza
delle assemblee elettive rispetto al monarca, titolare del potere di verifica.
Che in Assemblea costituente pendessero proposte diverse,
è testimoniato dall’opera degli onorevoli Mortati e Romano.
Il primo proponeva, sia come relatore nella Seconda sot-
24 Detta norma era già presente nello Statuto Albertino, che all’art. 60 recitava:
“Ognuna delle Camere è sola competente per giudicare della validità dei titoli
di ammissione dei propri membri”.
25 Sul punto vedi Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, p. 482.
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
tocommissione, che in Assemblea plenaria con qualche variante, la creazione di un tribunale elettorale, formato in
numero pari da magistrati, provenienti dalla Cassazione, dal
Consiglio di Stato e membri eletti dalle due Camere, presieduto dal primo Presidente della Cassazione, con funzioni di
mera proposta a ciascuna delle Camere, che avrebbero dovuto definitivamente pronunciare in materia 26.
Il secondo immaginava un sistema completamente giurisdizionale con l’assegnazione alla Corte di Cassazione, riunita in collegio speciale, costituito dai presidenti di sezione,
presieduto dal primo presidente, del compito di giudicare sui
titoli di ammissione e le cause di ineleggibilità ed incompatibilità sopraggiunte27.
Entrambe le proposte furono bocciate e la formulazione
definitiva dell’art. 66, dovuta alla prevalenza del timore di sminuire il prestigio delle Camere ed alla positività diffusa del giudizio circa l’attività delle stesse in materia, vigente lo Statuto, si
posò nel solco della tradizione di un istituto, per la cui completa
ricostruzione si devono considerare oltre che il dettato costituzionale, le leggi ordinarie ed i regolamenti parlamentari.
Questo complesso sistema normativo continua a disegnare un meccanismo, inaugurato con la riforma regolamentare
del 1868, basato su una Giunta con funzioni istruttorie e
sull’Assemblea con poteri di decisione finale, che, nonostante
la progressiva introduzione di elementi di giurisdizionalizzazione28, rimane sostanzialmente politico, poiché la Camera ed
il Senato non perdono la natura di assemblee politiche, anche
se chiamate ad espletare funzioni assimilabili a quelle giurisdizionali, che non determinano una rivoluzione dei normali
meccanismi procedurali, come dimostrato dall’art. 17 del
regolamento della Camera del 1971, che prevede, per il solo
procedimento dinanzi alla Giunta delle elezioni, la garanzia
del contraddittorio in ogni fase e limita quella della pubblicità alla fase del giudizio sulla contestazione.
Visto quanto finora descritto, possiamo affermare che
l’art. 66 Cost. non è strumento di costituzionalizzazione
dell’autodichia, ma di una forma di giustizia politica, che
caratterizza lo status di parlamentare, garantisce che sulla sua
acquisizione e perdita giudichino in definitiva le Assemblee,
che circa la propria composizione vengono così poste in condizione di assoluta indipendenza rispetto a qualsiasi altro
potere, soggette solo alla volontà popolare, che rappresentano
e devono garantire secondo i propri regolamenti e nel rispetto
delle leggi elettorali e sulle incompatibilità parlamentari, da
cui non si può prescindere, essendo in esse sanciti i titoli di
ammissione o le cause di decadenza.
26 Cfr. Camera dei deputati - Segretariato Generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma 1970, VII seduta
della II Sottocommissione del 19 settembre 1946, p.1035; IV seduta antimeridiana dell’Assemblea del 10 ottobre 1947, p. 3200.
27 Cfr. Camera dei deputati - Segretariato Generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma 1970, IV,
pag.3199.
28Vedi Elia L. in Enciclopedia del diritto, voce Elezioni (contenzioso), p. 773,
nota 162 e 163, in cui l’autore elenca, come testimonianze di una tendenza
alla giurisdizionalizzazione, il divieto per i parlamentari, introdotto con il regolamento del 1907, di patrocinare innanzi alla Giunta, la formalizzazione nel
1917, regolamento della Giunta della Camera, dell’istituto della contestazione,
la norma dell’art. 15, 6° co. del regolamento della Giunta della Camera del
1962, che consente la partecipazione alla camera di consiglio, successiva
all’udienza pubblica dei soli membri che ad essa abbiano completamente presenziato.
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Che l’acquisizione e la perdita dello status di eletto possano generare contenzioso e che le Camere abbiano la prerogativa di giudici esclusivi di quello relativo ai propri membri
come garanzia della propria posizione istituzionale e, di riflesso, dello status di parlamentare, è poi dimostrato dalla
disciplina del contenzioso elettorale ed in special modo di
quello passivo per le controversie in tema di eleggibilità dei
consiglieri comunali 29, provinciali e regionali30.
Quanto a tale contenzioso, l’impugnazione delle delibere
di convalida, non convalida o di surrogazione può essere realizzata da qualsiasi cittadino elettore del comune, della
provincia o della regione, da chiunque vi abbia interesse, dal
prefetto per le elezioni comunali e provinciali, dal Commissario di Governo31 per quelle regionali, dinanzi al tribunale,
nella cui circoscrizione è compreso l’ente, di cui si tratta.
Tralasciando la minuziosa descrizione del procedimento32,
ciò, che qui ci interessa rimarcare, è, che il contenzioso relativo ai consiglieri comunali, provinciali e regionali sia risolto
in modo soggettivamente ed oggettivamente assolutamente
giurisdizionale, con sentenza, emessa in camera di consiglio
subito dopo l’udienza, cui partecipa anche il pubblico ministero, che formula oralmente le proprie conclusioni, suscettibile di appello e cassazione e, comunque, idonea a passare in
giudicato, sia che respinga l’impugnazione delle delibere di cui
sopra, sia che accolga il ricorso, correggendo i risultati delle
elezioni o sostituendo i candidati, illegittimamente proclamati, con gli aventi diritto, come previsto dall’art. 84 del T.U.
570/1960.
Questa attitudine a formare giudicato non è, invece, riscontrabile nelle decisioni assunte dalle Camere ex art. 66
Cost., che, non impugnabili presso alcun organo giurisdizionale, né appellabili dinanzi alle Camere stesse, costituiscono
decisione definitiva ma non intangibile del caso33, poiché, non
solo, la decisione sulla convalida o annullamento di una ele-
29Vedi gli artt. 82 e seguenti del Testo unico 570/1960, come modificato dalla
legge 1147/1966.
30Vedi rispettivamente gli artt. 7 della legge 1147/1966 e 19 della legge
108/1968.
31 Previsto dall’art. 124 Cost. abrogato dall’art. 9 della L. cost. 18 ott. 2001, n. 3.
32 Si rimanda perciò ad E. Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, Milano,
Giuffrè, 2002, p. 845-846, ove sempre in materia di contenzioso elettorale è
possibile leggere che, a differenza delle controversie in tema di eleggibilità (ossia
contenzioso elettorale passivo), quelle in materia di operazioni elettorali (presentazione delle candidature, ammissione delle liste, proclamazione dei risultati) spettano alla giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 6
della legge 1034/1971, che, a sua volta, richiama l’art. 7 della legge 1147/1966
e l’art. 19 delle legge 108/1968. La giurisdizione amministrativa in materia è
da ritenersi inderogabile ed ove il giudice accolga il ricorso “può annullare in
tutto o in parte le operazioni elettorali ed i risultati dello scrutinio, e può sostituire ai candidati illegittimamente proclamati gli aventi diritto”. Dalla duplicazione della giurisdizione in materia di contenzioso elettorale comunale, provinciale e regionale deriva, poi, la possibilità che possano sorgere conflitti di giurisdizione, che possono influire negativamente sulla rapidità ed efficienza della
macchina giudiziaria, soprattutto quando strumenti come il regolamento di
giurisdizione e la sospensione automatica prevista per i processi civili, sono
stati utilizzati a fini dilatori, come la classe politica ha fatto, per guadagnare
molto facilmente un limite di tempo pari o addirittura superiore alla durata del
mandato elettivo contestato, rendendo così sostanzialmente inutile qualsiasi
pronuncia sulla controversia ad esso relativa. Per questa ragione l’art. 63 della
legge 353/1990 ha modificato l’art. 367 del c.p.c., richiamato dall’art. 41,
prevedendo che il giudice ordinario non sospenda più automaticamente un
processo, in cui sia stato sollevato il regolamento di giurisdizione, ma solo se
non ritenga “l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della
giurisdizione manifestamente infondata.”(cfr. G. Monteleone, Diritto processuale civile, terza edizione, Cedam, Padova, 2002, p. 107,108 e 111.).
33 Vedi art. 87 d.P.R. 361 del 1957.
amministrativo
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zione potrebbe essere rivista di ufficio in seguito alle decisioni prese su altre elezioni, ma addirittura, l’art. 9 del regolamento della Giunta della Camera sembra aprire la strada ad
una iniziativa di ufficio anche indipendente dagli esiti di altri
procedimenti.
Da ciò, quindi, non può che ulteriormente discendere la
convinzione, che, solo e molto latamente e per assonanza, la
verifica dei poteri possa ricondursi all’autodichia, mancando
uno dei caratteri della giurisdizione, finalizzato alla certezza
del diritto, ossia la idoneità della decisione a divenire res iudicata e, per l’effetto, immutabile, potendo essere riesaminata anche d’ufficio e, per questo, connotandosi come decisione
politica, anche quando ricorra uno dei casi di revocazione, di
cui all’art. 395 c.p.c., applicato in via analogica, nonostante
la natura non soggettivamente giurisdizionale delle Camere.
A questo, infine, si aggiungano come elementi, che veramente discriminano dall’autodichia, propriamente detta, la
verifica dei poteri, alcune considerazioni relative alla fase, che
di essa si svolge in Assemblea.
In essa viene negato, in primo luogo, il diritto ad intervenire e, conseguentemente, l’esercizio del diritto di difesa alle
parti ed ai loro rappresentanti diverse dal soggetto, della cui
elezione o permanenza in carica trattasi, che, invece, può
prendere parte alla discussione e votare; in secondo luogo,
quello alla motivazione, che la Costituzione prevede all’art.
111 per qualsiasi provvedimento giurisdizionale, essendo la
decisione assunta con la forma della votazione; in terzo luogo
il diritto ad un giudice terzo ed imparziale, che, per richiamarci al su citato contenzioso elettorale relativo ai consigli
comunali e provinciali, ha giustificato la declaratoria di illegittimità costituzionale delle relative norme, per conflitto con
l’art. 108 Cost., nella parte in cui affidavano la relativa competenza ai consigli34, ove, rilevava la Corte, il procedimento
si svolgeva in presenza di evidenti anomalie, riscontrabili
anche nel procedimento dinanzi all’Assemblea, come la non
partecipazione del ricorrente alla discussione, la mancanza di
un aperto contraddittorio, l’assenza di un obbligo per il giudice di partecipare alla discussione.
Tutto ciò impediva di riconoscerne i caratteri e le garanzie
minime della giurisdizionalità.
Il fatto, però, che l’attività dell’Assemblea sia, da connotarsi come riferibile alla giustizia politica e, quindi, ipoteticamente anche avulsa da logiche di diritto, non significa, che le
Camere per questa materia divengano il regno dell’arbitrio,
rimanendo sempre ferma la loro responsabilità politica nei
confronti del corpo elettorale, che il Presidente della Repubblica potrebbe decidere di convocare, utilizzando del potere
di scioglimento, quando queste abusassero della propria prerogativa di verifica dei poteri, per modificare la composizione
delle Assemblee in spregio della volontà popolare.
Un’ultima annotazione relativa all’impossibilità di considerare riconducibile, se non al massimo lato sensu, all’autodichia l’art. 66 Cost. discende poi dal fatto, che la prevalenza
della tesi, che in esso individua la fonte di una giustizia politica, comporta l’impossibilità, che nei procedimenti, ai suoi
sensi instaurati, si possa sollevare questione di legittimità
costituzionale.
34 Cfr. Corte cost., sentenza n. 93 del 1965.
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Se la Giunta della Camera si è sempre espressa in senso
contrario a questa possibilità, la Giunta del Senato ha esplicitamente ammesso, che la questione di costituzionalità potesse essere sollevata all’interno del procedimento di verifica
dei poteri, indicando nell’Assemblea, che approvò le conclusioni contenute nella relazione della Giunta, l’organo competente a decidere35.
Ma, a parte la considerazione, che la proposta, che in
quell’occasione la Giunta faceva all’Assemblea, era nel senso
di respingere l’eccezione per manifesta infondatezza, mai la
Corte si è potuta pronunciare su questioni, che avessero come
giudice a quo le Camere quali organi di giustizia politica,
oltre che per la difformità degli orientamenti degli organi
parlamentari di cui sopra, anche per il proprio orientamento
giurisprudenziale in tema di legittimazione del giudice a quo,
che, nonostante non attribuisca rilievo alla natura soggettiva
dell’organo di provenienza del gravame, tuttavia, ne richiede
le caratteristiche di terzietà, indipendenza e di soggetto, che
fra i suoi fini persegue l’obiettiva applicazione della legge36.
Escluso, dunque, che il fondamento dell’autodichia possa
essere nell’art. 66 Cost., prima di tornare sulla questione regolamentare, fondata sull’art.. 64, I co. Cost., non rimane che
chiedersi se essa possa fondarsi su una consuetudine costituzionale.
4. L’autodichia ed il suo perpetuarsi:
una consuetudine costituzionale?
Quando si parli di fonti del diritto, si è abituati nella loro
elencazione ad indicare anche la consuetudine, che, indicata
nell’art. 1 delle “Disposizioni sulla legge in generale” del
Codice civile come usi, è fonte di terzo grado ossia subordinata alle leggi ed ai regolamenti, che, ove la richiamino, nelle
materie da essi regolate, le conferiscono efficacia in un campo
ad essa altrimenti preclusa.
La consuetudine, che non può mai essere “contra legem”,
prevedendo l’art. 15 delle preleggi il principio “lex posterior
derogat legi priori” e che può, invece, essere “praeter legem”
ossia creativa o “secundum legem” ossia interpretativa, è la
risultante del combinarsi di due elementi, di cui, uno, la prassi, oggettivo è costituito dal costante ed immutato nel tempo
e nello spazio ripetersi di un determinato comportamento e
l’altro, soggettivo, psicologico, la opinio iuris ac necessitatis
si fonda sulla convinzione, diffusa fra i consociati, che quel
comportamento sia giuridicamente obbligatorio e, comunque,
conforme al diritto.
Fin qui la definizione generale e le caratteristiche principali della consuetudine come fenomeno, che operi nei rapporti fra i privati, ma è possibile individuarne un’altro tipo, che
con la prima si pone in rapporto di species a genus ossia la
consuetudine costituzionale.
Essa si caratterizza, in primis, per l’elemento soggettivo,
considerato sotto il duplice profilo dei destinatari-produttori,
caratterizzato dalla natura pubblica e di parte dell’apparato
statale dei soggetti, realizzanti la prassi, che necessariamente
ne impone l’esiguità numerica quando non l’unità; in secundis
35 Cfr. la relazione sulla elezione contestata del Senatore Amoretti (Atti Senato IV
leg., Doc. n. 31, pag.21 e segg.), nonché la decisione dell’Assemblea (Atti Senato IV leg., 10 marzo 1964, pag.5146.).
36 Cfr. Corte Cost., sentenza n. 83 del 1966.
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per l’elemento psicologico, che a differenza della consuetudine, operante nelle relazioni fra privati, può anche legittimare
una consuetudine contra costituzionem, cioè in deroga a
norme costituzionali scritte e di univoca formulazione, che
dunque non lascino spazio ad una possibile interpretazione
alternativa.
Sostanzialmente diversa dalla consuetudine generale sia
sotto il profilo della diffusività, sia sotto quello della ripetizione nel tempo della prassi, la consuetudine costituzionale
potrebbe essere alla base del traghettamento dell’autodichia
nel sistema repubblicano, nel quale, è bene subito dirlo, non
si rinvengono norme costituzionali, che abbiano direttamente legittimato questa guarentigia, eccezion fatta per l’art. 66
Cost., che ha un suo omologo nell’art. 60 dello Statuto Albertino37, e che riguarda, fra l’altro, solo coloro, che sono diretta
espressione della sovranità popolare e per la cui riconducibilità al concetto di autodichia si rimanda a quanto detto nel
paragrafo precedente.
Che l’autodichia possa trovare la propria fonte in una
consuetudine costituzionale, sembra cosa alquanto improbabile, poiché, secondo alcuni autori, proprio una consuetudine
costituzionale contra costitutionem, affermatasi durante la
vigenza dello Statuto Albertino ne negherebbe la natura di
guarentigia assoluta del legislativo e, dunque, della sovranità
popolare, all’epoca affermantesi, rispetto all’ingerenza del
Regio esecutivo.
Come già avuto modo di affermare, lo Statuto in nessuna
norma prevedeva un meccanismo di fiducia parlamentare, che
potesse configurare l’assetto istituzionale come monarchia
parlamentare, anzi il suo art. 65 inequivocabilmente disponeva nella direzione di un rapporto fiduciario del Re, unico
titolare del potere esecutivo, con i suoi ministri38.
Eppure proprio una prassi maturata, vigente lo Statuto,
fece da apripista alla costituzionalizzazione della fiducia
parlamentare ed all’introduzione del modello istituzionale
parlamentare nella neonata Repubblica, elidendo, così, il
pericolo di sopraffazioni a danno dei rappresentanti del popolo eletti al Parlamento ad opera del potere esecutivo.
Questa la considerazione principale, che induce a ritenere
non condivisibile la tesi della consuetudine costituzionale, ma
senza soffermarsi al livello costituzionale, ulteriori elementi,
desumibili dal diritto positivo, vengono a rafforzare questo
convincimento.
Che il legislatore si fosse messo sulla strada del controllo
giurisdizionale degli atti amministrativi, senza distinzione alcuna della provenienza soggettiva, lo dimostra la legge di unificazione amministrativa del neonato Regno 20 marzo 1865, n.
2248, il cui Allegato E, prevedendo il sistema della giurisdizione unica in materia d’illegittimità degli atti amministrativi lesivi dei diritti soggettivi, ne prevedeva la giustiziabilità ad
opera del tribunale con un’applicabilità per così dire universale
ossia da qualunque soggetto amministrativo provenissero, ivi
incluse le amministrazioni degli organi costituzionali.
Rafforzato questo andamento dalla legge del 1889, istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, la prima per intenderci giudicante, cui veniva attribuito il potere di annulla-
37 Statuto Albertino - art. 60: “Ognuna delle Camere è sola competente per
giudicare della validità, dei titoli di ammessione dei proprii membri”.
38 Statuto Albertino - art. 65: “Il Re nomina e revoca i suoi Ministri”.
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mento giurisdizionale degli atti amministrativi lesivi di interessi legittimi e, ove si trattasse di giurisdizione esclusiva, di
diritti soggettivi, sembra possibile affermare che il legislatore,
già nel XIX secolo, epoca in cui, come si è visto, il tenore
dello Statuto non permetteva di predicare l’autonomia ed indipendenza della magistratura, non ritenesse incompatibile
con l’autonomia di un potere, la giustiziabilità dei suoi atti
contra legem.
Massima espressione di questa convinzione sembra, poi,
riscontrarsi nell’operato del costituente repubblicano, che,
nell’organizzare le fonti, ponendo in posizione preminente la
Costituzione, ha necessariamente, poi, dovuto introdurre un
organo di giustizia costituzionale, le cui funzioni, da un lato
ricalcano in continuità col passato quelle del Senato regio,
costituito in Alta Corte di Giustizia per giudicare dei reati
imputati ai ministri39, dall’altro sono funzioni di giustiziabilità
costituzionale delle leggi e degli atti, che ne abbiano forza.
Con questo sistema, che pone sotto la giurisdizione della
Corte Costituzionale l’attività principale di produzione legislativa del Parlamento e quella di decretazione d’urgenza e
delegata del governo, non si è certamente inteso limitare la
autonomia dell’uno o dell’altro, ma sicuramente creare quella
parte del sistema di pesi e contrappesi sui quali è fondato
l’equilibrio istituzionale dello Stato.
Da quanto finora detto, dall’emergere dalla stessa Costituzione della possibilità di un sindacato esterno sull’esercizio
dell’attività principale del Parlamento, emerge ictu oculi l’impossibilità di considerare l’autodichia come tradotta e fondata nel nostro ordinamento da una consuetudine costituzionale, il che non solo apre la strada ad un legittimo interrogarsi
circa la sua legittimità costituzionale, alla luce anche di una
giurisprudenza della Corte, che ha esteso il proprio controllo
finanche ai cosiddetti interna corporis, ma la spiana anche
alla definizione di questa come non più una guarentigia necessaria della sovranità popolare, fra l’altro ormai definitivamente consacrata nel testo costituzionale, ma di un privilegio,
che non necessariamente deve essere connaturato alla natura
di autonomia degli organi costituzionali.
5. L’art. 64 come unica norma costituzionale su cui poter fondare
la giurisdizione interna alle Camere
Non essendo condivisibile la tesi di quanti ritengano, che
l’art. 66 Cost. abbia introdotto una forma di giurisdizione
interna, trattandosi, come si è visto, di giustizia politica e non
potendosi ritenere fondata sulla consuetudine costituzionale
l’autodichia, non rimane, che continuare a percorrere la strada dei regolamenti parlamentari, che, come sopra si è visto,
dopo un secolo di evoluzione e fin dal 1948, sono stati sede
dell’esplicita affermazione del fenomeno in questione, prima
in Assemblea costituente e poi alla Camera dei deputati, la cui
Presidenza aveva la responsabilità dei provvedimenti in materia di stato giuridico dei dipendenti ed il potere di decisione
dei ricorsi avverso tali provvedimenti.
La potestà regolamentare delle Camere era già prevista
39 Statuto Albertino - art. 36: “Il Senato è costituito in Alta Corte di Giustizia con
decreto del Re per giudicare dei crimini di alto tradimento, e di attentato alla
sicurezza dello Stato, e per giudicare i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati. In questi casi il Senato non è capo politico. Esso non può occuparsi se
non degli affari giudiziarii, per cui fu convocato, sotto pena di nullità.”
amministrativo
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all’art. 61 dello Statuto Albertino, che, però, faceva riferimento al regolamento «interno».
Quando si dibatté in Assemblea costituente del testo
dell’art. 64, come proposto dalla Commissione dei 75, si ritennero non degne di assurgere a dignità costituzionale alcune statuizioni in esso contenute, perché ben avrebbero potuto
trovare posto nei regolamenti parlamentari e, ove ciò non
fosse accaduto, il recupero della prassi costituzionale prefascista ne avrebbe giustificato la considerazione di costituzione
vivente40.
Tuttavia, la norma fu approvata nella sua interezza, facendone una disposizione manifesto delle garanzie dell’autonomia normativa delle Camere e dei principi generali del regime
parlamentare vigente.
Il Parlamento stesso avrebbe disciplinato i vincoli interni
alla propria attività, mentre la Costituzione ne avrebbe previsti di esterni, individuabili nell’auto-convocazione delle
Camere (art. 62 Cost.), nell’elettività dei Presidenti e degli
Uffici di presidenza (art. 63 Cost.), nell’indicazione delle fasi
necessarie al procedimento legislativo (art. 72 Cost.), nel riconoscimento dei gruppi parlamentari (art. 82 Cost.).
Dal primo comma dell’art. 64 Cost., che è quello che a noi
interessa, scomparve il riferimento, presente nello Statuto,
alla natura interna del regolamento, mentre, per garantire le
opposizioni, si fissò la maggioranza necessaria alla sua approvazione, con ciò colmando una lacuna dell’art. 61 della previgente norma fondamentale.
Con tale comma non si costituiva la potestà regolamentare delle Camere, ci si limitava a riconoscerla e, come sostiene
il Crisafulli41, a raccordarla con le fonti generali di diritto
oggettivo, attribuendole rilevanza esterna, in forza anche
della già menzionata eliminazione dal testo dell’aggettivo
“interno”, che lo Statuto riferiva al regolamento.
Si prevedeva, inoltre, come dimostra il combinato disposto
della norma in questione e degli artt. 70 e 72 Cost., l’obbligatorietà dell’emanazione dei regolamenti parlamentari, pena ad
esempio la paralisi dell’attività legislativa, ed il conseguente
riposare della disciplina delle funzioni di ciascuna Camera su
fonti-atto e non su fonti-fatto, almeno limitatamente a quelle
parti della stessa in relazione col dettato costituzionale.
Sebbene la lettera del primo comma dell’art. 64 nulla dica
circa il contenuto dei regolamenti, dai lavori preparatori si
può desumere, che in Costituente non ci si volesse discostare
dalla tradizione segnata dall’art. 61 dello Statuto e, dunque,
dalla disciplina de: “il modo secondo il quale […] esercitare
le proprie funzioni”, che, visto lo strumento del conflitto di
attribuzioni, di cui all’art. 134 Cost., sembra inimmaginabile
possa coincidere col riconoscimento alle Camere del potere di
auto attribuirsi funzioni non assegnate dalla Costituzione.
Tale situazione del regolamento parlamentare, nonostante la sua natura di norma interposta fra Costituzione e legge,
per la cui approvazione e vigenza non è necessaria l’approvazione dell’altra Camera e la promulgazione del Presidente
40Vedi Camera dei deputati - Segretariato Generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, Roma 1970, IV, seduta 10 ottobre 1947, p. 3188-3198,
ove è possibile leggere che i deputati Colitto, Stampacchia e parzialmente Mortati espressero le opinioni riportate relativamente al terzo co., mentre lo stesso
Mortati, Nitti ed il relatore Ruini altrettanto fecero relativamente al IV Co.
41 Vedi Crisafulli, Lezioni di diritto Costituzionale, II, p. 440.
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della Repubblica, non può che avere riflessi sul problema
dell’autodichia, che sicuramente ha la propria fonte in norme
regolamentari, ma circa il quale bisogna chiedersi se esse rispettino il limite, desumibile dal sistema ed imposto a ciascun
potere, del divieto di auto attribuzione di funzioni.
Proprio nell’ambito di questa tematica e della connessa
questione della costituzionalità dell’autodichia, prima di analizzare la risposta che la Corte Costituzionale ha elaborato al
quesito della compatibilità dell’istituto con la Carta fondamentale, occorre verificare quale possa essere la relazione intercorrente fra quest’ultima ed i regolamenti parlamentari.
Ebbene è impensabile, che, in materie già costituzionalmente regolate, i regolamenti parlamentari possano svolgere
un ruolo diverso da quello di fonti di norme integrative,
estrattive ed applicative.
Sono da considerarsi norme regolamentari integrative
quelle poste a completamento del dettato costituzionale per
garantirne l’effettività, come avviene ad esempio per la disciplina dell’iter di formazione delle leggi42; sono estrattive le
norme regolamentari, che nell’ambito di attribuzioni costituzionali creano istituti giuridici nuovi come quelle sul sindacato ispettivo delle Camere e sulle procedure di indirizzo e di
informazione, mentre infine sono norme applicative quelle
che applicano le disposizioni costituzionali relative ad esempio
ai quorum per la validità delle deliberazioni.
Se entro tali limiti è ammissibile la costituzionalità dei
regolamenti parlamentari, disciplinati dall’art. 64 della Costituzione, è bene ricordare, che essi non esauriscono tutto
l’ambito dell’autodisciplina parlamentare, visto che accanto
alle fonti-fatto, come consuetudini convenzioni e prassi parlamentari, è possibile riconoscere fonti-atto, che sebbene
scritte, non sono direttamente riconducibili al dettato costituzionale.
Si tratta di fonti che derivano dal regolamento “maggiore”,
che da esso traggono origine e legittimazione e che a seconda
dei casi possono essere: regolamenti speciali sic et sempliciter
o tali perché redatti in forza di leggi costituzionali o ordinarie,
regolamenti “interni”, statuti di gruppi parlamentari, circolari presidenziali e pareri interpretativi della giunta per il regolamento.
Per soffermarci sui regolamenti interni, quelli che ai nostri
fini rilevano, è opportuno dire, che se ne possono distinguere
due tipi: quelli con funzione integrativa del corpus normativo
principale e, dunque, gerarchicamente a questo equiordinati,
rappresentativi della policentricità del sistema parlamentare e
della particolare autonomia, di cui godono organi, come la
Giunta delle elezioni, la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati43 e la Giunta delle elezioni e
delle immunità parlamentari del Senato della Repubblica44,
alla loro emanazione autorizzati, e quelli cosiddetti di Amministrazione, il cui valore è ben diverso rispetto ai primi per le
modalità soggettive ed oggettive di approvazione, che inducono, ad affermare la loro subordinazione rispetto al regolamento principale, che, prevedendoli, ne giustifica l’emanazione.
È proprio in quest’ultimo tipo di norme interne, che trova
legittimazione il fenomeno della giurisdizione domestica, re-
42 Cfr. art. 72 Cost.
43 Cfr. Regolamento della Camera dei deputati, artt. 17, co. 2 e 18, co. 4.
44 Cfr. Regolamento del Senato, art. 19 co. 4.
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golato, come è possibile desumere dalla lettura degli artt. 12
dei rispettivi regolamenti camerali, da regolamenti emanati
dall’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati45 e dal
Consiglio di Presidenza del Senato della Repubblica46.
Se abbiamo parlato di due diversi tipi di regolamenti interni, di diversa rilevanza gerarchica rispetto a quello principale, dobbiamo dire, che tale diversità è giustificata dal fatto,
che i regolamenti delle Giunte, necessarie per l’applicazione
dell’art. 68 della Costituzione, sono approvati, non esclusivamente dalla giunta, ma anche dalla Assemblee camerali con
la maggioranza richiesta, per l’approvazione del Regolamento
generale, rispetto al quale si pongono, perciò, in posizione di
norme speciali, che non escludono l’integrazione ad opera di
quella generale, per la parte in cui non prevedano, mentre,
invece, nessun intervento dell’Assemblea è previsto, per la
approvazione dei Regolamenti di Amministrazione, che, proprio per questo motivo, non possono, né considerarsi norme
gerarchicamente equiordinate al regolamento principale, né
dotate di rango di norme regolamentari speciali, ma, al pari
di queste destinate, ad essere integrate dal regolamento principale, per la parte in cui non prevedano.
Tale digressione sulla diversa natura dei due tipi di regolamento interno è necessaria, per affermare, che il fondamento dell’autocrinia è sì costituzionale e da ricercarsi nell’art. 64,
ma è possibile, senza dubbio affermare, che non si tratti di
una legittimazione diretta, ma mediata e, oseremmo dire,
doppiamente mediata, visto che le norme, che disciplinano la
giurisdizione domestica sono gerarchicamente subordinate al
regolamento principale.
Un’ultima considerazione in materia di fonte di legittimazione costituzionale dell’istituto in questione, che attiene poi
al problema della sua giustiziabilità innanzi alla Corte, riguarda proprio il fatto, che a tali fini non si fa distinzione alcuna
delle norme in base al loro valore gerarchico, che dunque
assume rilievo solo interno, ma si bada alla sostanza delle
norme contenute nei regolamenti interni, indipendentemente
dal rapporto intercorrente fra essi ed il regolamento, di cui
all’art. 64 Cost.
6. L’autodichia nei pronunciamenti della Corte di Cassazione,
della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, una prerogativa invulnerabile delle Camere parlamentari
Che l’autodichia fosse istituto controverso sul versante
della costituzionalità era cosa, almeno per la copiosa dottrina47 in tal senso esprimentesi, indubitabile ancor prima che la
45 Cfr. Regolamento della Camera dei deputati, art. 12, che, in materia di attribuzioni dell’Ufficio di Presidenza, al terzo co. fra l’altro prevede l’adozione di
regolamenti ed altre norme concernenti fra le altre: “lettera b) l’Amministrazione e contabilità interna; lettera d) lo stato giuridico, il trattamento economico e di quiescenza e la disciplina dei dipendenti della Camera, ivi compresi i
doveri relativi al segreto di ufficio; lettera f).i ricorsi nelle materie di cui alla
lettera d), nonché i ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da estranei
alla Camera, avverso gli atti dell’Amministrazione della Camera medesima.”
46 Cfr. Regolamento del Senato, art. 12, “Attribuzioni del Consiglio di Presidenza
- Proroga dei poteri”, primo co.: “Il Consiglio di Presidenza, presieduto dal
Presidente del Senato,… ; approva i Regolamenti interni dell’Amministrazione
del Senato e adotta i provvedimenti relativi al personale stesso nei casi ivi previsti;…”.
47Nel senso della illegittimità costituzionale dell’autodichia, tra gli altri: C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Padova 1975, 521 e vol. II, Padova
1976, 899; G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Milano 1965, 190;
L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1997, p. 372 (nella parte in
cui si riconosce che l’art. 24 co. 1 Cost. «consente a tutti, compreso a quanto
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questione di legittimità costituzionale fosse portata all’attenzione del giudice delle leggi.
Sebbene la dottrina si esprimesse in tal senso già dagli
anni ’60, la Corte fu investita della questione solo a partire
dal 1977, quando, contrapposti il Senato della Repubblica e
la Camera dei deputati ad alcuni dipendenti48, che si rivolgevano al giudice amministrativo o a quello del lavoro, assumendo che l’uno o l’altro avessero giurisdizione sulle controversie di impiego parlamentare, le Camere sollevavano questione di giurisdizione, assumendo che il potere giurisdizionale in materia fosse di loro esclusiva pertinenza.
In sede di regolamento preventivo di giurisdizione, la
Corte di Cassazione a Sezioni Unite riteneva sussistente l’autodichia e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, co. 1 del Regolamento del
Senato della Repubblica49 del 17 febbraio 1971, che attribuisce
al Consiglio di Presidenza del Senato l’adozione di “provvedimenti relativi al personale”, “e comunque della norma attributiva al Senato dell’autodichia nei confronti del personale dipendente”.
Ritenuto in contrasto con gli artt. 24, 101, co 2., 108, co.
2 e 113 Cost., l’art. 12, co. 1 suddetto portava la Cassazione
a sollevare d’ufficio la questione di costituzionalità sulla base
di una serie di proposizioni, innanzitutto riguardanti la natura dei Regolamenti parlamentari di fonti di diritto oggettivo assimilabili alle leggi formali e, pertanto, rientranti fra gli
atti normativi, su cui esercitare il sindacato della Corte Costituzionale.
L’autodichia degli organi costituzionali non veniva ritenuta “espressione o implicazione diretta o necessaria di un
principio, identificabile, con quello della divisione dei poteri
o dell’indipendenza” degli organi costituzionali, su cui taluni
ritenevano trovasse fondamento e giustificazione.
Il principio della divisione dei poteri, del cui accoglimento nel nostro ordinamento dubitava la stessa Corte, non
sembrava “ricomprendere o implicare necessariamente
l’esclusione del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Camere non riconducibili neppure formalmente alla loro funzione primaria”, sancendo il sistema vigente “il controllo
sulle funzioni primarie di ciascun organo costituzionale”.
Infine, il Senato decidendo controversie, concernenti atti
o rapporti propri, giudicava in causa propria, con ciò offendendo “serietà” ed “effettività” della tutela giurisdizionale,
sembra il personale delle Camere di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti e interessi legittimi»); N. Occhiocupo, Il diritto ad un giudice «indipendente ed imparziale» del personale degli organi costituzionali e della Corte dei
Conti, in Dir. e soc., 1979, p. 737 ss.; S. Panunzio, Sindacabilità dei Regolamenti Parlamentari, tutela giurisdizionale dei dipendenti delle Camere parlamentari e giustizia politica nello Stato Costituzionale di diritto, in Giur. cost.,
1978, p. 256 e ss.
48 Si tratta rispettivamente di E. M. che conveniva innanzi al Tribunale di Roma
l’Amministrazione del Senato della Repubblica per pretese connesse al precorso rapporto di lavoro alle dipendenze della medesima Amministrazione, che
eccepiva il difetto di giurisdizione; di Luciano Rossi attore innanzi al pretore di
Roma contro l’Amministrazione della Camera dei deputati per l’impugnazione
del provvedimento che poneva fine al suo rapporto di lavoro con l’Amministrazione della Camera e di F. M. che per le medesime ragioni conveniva l’Amministrazione della Camera dei deputati innanzi al Tar Lazio.
49 Cfr. la sentenza della Corte Costituzionale n. 154/1985, che nella parte relativa
al “Ritenuto in fatto” menziona l’“ordinanza emessa il 31 marzo 1977 dalla
Corte di Cassazione sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione
proposto da M. E. c/l’Amministrazione del Senato della Repubblica, iscritta al
n. 408 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 299 del 1977.”
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considerate “principio cardine” dell’ordinamento ai sensi
degli artt. 24, 101, co. 2, 108 co. 2 e 113 Cost.
Sarebbero passati tre anni ed il 10 luglio 1980 la Cassazione civile avrebbe reiterato il rinvio della questione di legittimità costituzionale, denunciando questa volta al giudice
delle leggi l’art. 12, co. 3 del Regolamento della Camera dei
deputati con le ordinanze n. 31550 e 316/8151, emesse in sede
di regolamento preventivo di giurisdizione nei procedimenti
civili riuniti tra la Camera dei Deputati c/R. L. e R. L. c/la
Camera dei Deputati, pendenti innanzi al pretore di Roma, e
nel procedimento, pendente innanzi al T.A.R. Lazio, fra F. M.
e l’Amministrazione della Camera, tutti originati dall’impugnazione dei provvedimenti, che ponevano fine al rapporto di
lavoro dei ricorrenti con l’Amministrazione resistente.
Ben sette anni dopo la ordinanza della Corte di Cassazione a Sezioni unite 11 luglio 1977, n. 356 (Pres. Danzi – Est.
Corasaniti), la Corte costituzionale chiudeva la partita della
costituzionalità dell’autodichia, evitando di entrare nel merito
e dichiarando inammissibile la questione sulla base del seguente ragionamento: “… il Parlamento, in quanto espressione
della sovranità popolare, è diretto partecipe di tale sovranità,
ed i regolamenti, in quanto svolgimento diretto della Costituzione, hanno peculiarità e dimensione che ne impedisce la
sindacabilità, se non si vuol negare che la riserva costituzionale di competenza rientra fra le guarentigie disposte dalla
Costituzione per assicurare l’indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere. Le suesposte considerazioni non consentono che nell’art. 134, primo alinea, Cost. possano ritenersi
compresi i regolamenti parlamentari in oggetto, dei quali
pertanto va riconosciuta la insindacabilità…”.
Così liquidata la questione dalla Corte costituzionale, la
Corte di cassazione, prendendo atto della sentenza 154/1985,
rientrava per così dire nei ranghi, concludendo a Sezioni unite, il 23 aprile 1986, sentenza n. 2861 che le controversie
degli impiegati delle Camere sono sottratte al sindacato giurisdizionale dei giudici comuni, tanto amministrativi quanto
ordinari, ed il 10 aprile 1986, sentenza n. 2546, che i rimedi
previsti dalle norme regolamentari denunciate non fossero di
tipo amministrativo, ma giurisdizionale, essendo le norme
stesse attributive di una giurisdizione speciale dell’organo
costituzionale.
Il combinato disposto dei pronunciamenti del giudice
delle leggi e di quello della giurisdizione sembrerebbe, dunque,
aver definitivamente chiuso la questione, salvo che le critiche,
che ad esso si possono muovere, e la mutata situazione costituzionale, intervenuta dopo la modifica dell’art. 111 Cost. ad
opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, non
possano in qualche modo far breccia nella consolidata giurisprudenza di entrambi i giudici.
Si tratta di un’ipotesi da non considerarsi nell’ordine
dell’impossibile, se si ricorda che la Corte costituzionale scelse volutamente e con atteggiamento pilatesco, nella sentenza
154/1985, di dichiarare inammissibile la questione, concen-
50 Ordinanza emessa il 10 luglio 1980 dalla Corte di Cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra la Camera dei Deputati c/R. L. e R. L. c/la Camera
dei Deputati, iscritta al n. 315 del registro ordinanze 1981 in Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 1981.
51 Ordinanza emessa il 10 luglio 1980 dalla Corte di Cassazione nel procedimento civile vertente tra la Camera dei Deputati e M. F., iscritta al n. 316 del registro
ordinanze 1981 in Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 1981.
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trando il proprio ragionamento sulla sola sindacabilità dei
Regolamenti parlamentari, tralasciando di considerare che
oggetto di denuncia fosse anche la norma attributiva al Senato dell’autodichia nei confronti del personale dipendente.
Tale norma, tralaticia e non scritta, sulla cui esistenza o
resistenza al sopravvenire della Costituzione, per dirla con
Scoca52 , è consentito dubitare, avrebbe potuto, infatti, portare il giudice delle leggi ad una conseguenza forse non voluta
e nemmeno prevista, permettendogli di prescindere dall’esame
dell’art. 12 del Regolamento e di sindacare l’autodichia indipendentemente dalla soluzione del problema della sindacabilità dei Regolamenti parlamentari.
Bisogna poi ricordare che la Corte nel precisare che i Regolamenti coperti dall’insindacabilità sono: “esclusivamente
quelli previsti dall’art. 64, co. 1, Cost., cioè quelli adottati
direttamente dall’assemblea in ognuna delle due Camere a
maggioranza assoluta dei componenti” faceva in realtà un’affermazione in apparenza di scarso rilievo, ma che ad una più
attenta valutazione potrebbe anche prestarsi ad una riapertura della questione della sindacabilità costituzionale dell’autodichia, poiché, immutato l’orientamento della Corte, rimarrebbero insindacabili le sole norme dei Regolamenti parlamentari, già denunciate fra il 1977 ed il 1980 e non anche i
regolamenti interni, che concretamente disciplinano il fenomeno e che sono emanazione rispettivamente dell’Ufficio di
Presidenza della Camera dei deputati e del Consiglio di Presidenza del Senato della Repubblica.
Se è poi vero che sulla scorta della pronuncia della Corte
Costituzionale, la Corte di Cassazione riteneva che le norme
regolamentari denunciate fossero attributive di una giurisdizione speciale dell’organo costituzionale, bisognerebbe domandarsi se tale giurisdizione sia costituita nel rispetto del
dettato costituzionale, che all’art. 25 fissa il principio della
precostituzione per legge del giudice, laddove invece questi
giudici sarebbero costituiti con atti, che tutto sono fuorché
formalmente assimilabili alle leggi, essendo atti di tipo monocamerale nel caso dei Regolamenti parlamentari e neppure
soggetti al vaglio della maggioranza assoluta dei componenti
di ciascuna Camera nel caso dei regolamenti interni, disciplinanti l’organizzazione e la procedura di queste giurisdizioni,
cui la Cassazione riconosce carattere di specialità.
Sebbene parte della dottrina, con unico riscontro in Cassazione civile SS. UU. 19 novembre 2002 n. 16267, dubiti che
di giurisdizione si tratti, mancando il requisito della terzietà
del giudice, che, dopo l’uguaglianza ontologica, la simmetria
o reciprocabilità biunivoca, la simmetria fra diritti e doveri,
l’adeguatezza del reciproco rapportarsi delle azioni ed il rispetto universale del giusto, costituisce il sesto elemento
strutturale del concetto filosofico di giustizia, bisogna, tuttavia, dire che a dissipare i dubbi circa la natura oggettivamente giurisdizionale delle attività, da questi organi svolte, interviene non solo la considerazione che l’art. 12, co. 6 del Regolamento della Camera nel testo vigente fino al 10 luglio 2009
recitasse che: “L’Ufficio di Presidenza giudica in via definitiva
sui ricorsi di cui alla lettera f) del co. 3”, ma anche la considerazione che i provvedimenti, assunti dagli Organi di tutela
52 Cfr. Scoca, Operazione cosmetica per i Giudici Parlamentari, in Dir. proc.
amm., 1988, p. 496.
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giurisdizionale, siano emessi “In nome del popolo italiano”
nel rispetto del disposto dell’art. 101, co. 1 Cost., che stabilisce che in tal nome debba essere amministrata la giustizia.
Certo, però, che aderire alla tesi di quella parte della dottrina, che disconosce ai provvedimenti assunti dagli Organi
di tutela giurisdizionale il carattere di sentenze, declassandoli a meri provvedimenti amministrativi, avrebbe risolto il
problema della terzietà del giudice, terzietà che difficilmente,
fino alle modifiche apportate nel 2009 all’art.12 del Regolamento della Camera ed ai regolamenti interni, poteva individuarsi, ad esempio, nell’Ufficio di Presidenza della Camera,
che, riunendo in se funzioni amministrative e giurisdizionali,
difficilmente si sarebbe potuto considerare equanime, quando
chiamato a sindacare dei provvedimenti dell’Amministrazione, cui era ed è gerarchicamente sovraordinato.
Alla luce di queste considerazioni e della sentenza a sezioni unite della Cassazione 23 aprile 1986, n. 2861, che riconosce che il rapporto di impiego fra le Camere ed i propri dipendenti sia sottratto alla giurisdizione, tanto del giudice ordinario che amministrativo, si potrebbe, dunque, ipotizzare, e
forse anche auspicare, una revisione delle posizioni espresse
dalla Corte costituzionale nel 1985, qualora la questione
dovesse essere nuovamente posta alla attenzione del giudice
delle leggi, denunciando l’illegittimità costituzionale dell’autodichia, questa volta anche per violazione del disposto del
nuovo art. 111 Cost, il cui co. 2 postula che: “Ogni processo
si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne
assicura la ragionevole durata.”
Certo la Corte, investita nuovamente della questione,
potrebbe farsi scudo di quanto già sentenziato nel 1985, ribadendo l’insindacabilità dei Regolamenti parlamentari.
Ma, a parte la considerazione che il nuovo dettato costituzionale potrebbe impedire ad una fonte comunque subordinata di vulnerare il principio sancito nel 1999, l’ostacolo
potrebbe essere aggirato, denunciando alla Corte le norme dei
Regolamenti interni, circa le quali, non solo mancherebbe un
qualsiasi precedente, ma sarebbe addirittura impossibile invocarlo, non trattandosi di Regolamenti emanati ex art. 64
Cost..
Fra l’altro, poi, il principio dell’imparzialità e terzietà del
giudice avrebbe potuto essere invocato, per denunciare l’intero istituto della giurisdizione domestica, ancor prima della
novella del 1999 dell’art. 111 Cost., in quanto principio generale del diritto riconosciuto dalle nazioni civili.
Sono principi generali del diritto riconosciuti dalle Nazioni civili, ex art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di
Giustizia, tutte quelle norme, che, diverse da quelle pattizie
e/o consuetudinarie, sono ad esse comunque gerarchicamente
subordinate e frutto di una prassi costantemente seguita nei
rapporti internazionali, specialmente dai tribunali arbitrali,
rivelante appunto un uso più o meno ampio di principi generali, particolarmente di quei principi di giustizia oppure soltanto di logica giuridica, connaturati all’idea stessa di diritto,
ed espressi ancor oggi con le formule degli avi (nemo idex in
re sua, in claris non fit interpretatio, ne bis in idem,ecc.).
Tali principi nel vigente sistema costituzionale sono menzionati nel disposto dell’art. 10, co. 1 Cost., che recitando:
“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute”, provvede
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ad attribuire loro dignità costituzionale e dunque di fonte
primaria, giustificando, quindi, una possibile denuncia della
giurisdizione domestica al giudice delle leggi in ragione della
loro violazione.
In conclusione possiamo, dunque, affermare che non è
affatto detto che l’indirizzo della Corte costituzionale degli
anni ottanta possa nell’attuale quadro rimanere immutato,
essendo già in quell’epoca presenti gli strumenti per tentare
l’espulsione della giurisdizione domestica dall’ordinamento e
fornendone di nuovi lo ius superveniens.
Tuttavia, l’attuale sistema di denuncia delle leggi o degli
atti da portarsi alla conoscenza del giudice delle leggi rende
improbabile, ma non impossibile, che questo giudice possa
essere nuovamente investito della questione, poiché, quand’anche si ricorresse alla giurisdizione ordinaria, per sollevare la
questione di legittimità costituzionale delle norme, che questo
fenomeno regolano, non si avrebbe certezza del risultato, ben
potendo il giudice ordinario spogliarsi della questione prima
ancora di valutare l’ammissibilità della denuncia di costituzionalità, richiamando la sentenza a sezioni unite della Cassazione 23 aprile 1986, n. 2861, con la quale si chiariva che
il rapporto di impiego parlamentare è assolutamente sottratto alla cognizione sia del giudice ordinario civile, che di
quello amministrativo.
Questo è, infatti, quanto fra l’altro la Corte di Cassazione
a Sezioni Unite ha fatto con la sentenza 10 giugno 2004, n.
11019, quando, chiamata con gravame avverso la sentenza n.
1/2002 della Sezione Giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei Deputati a pronunciarsi come giudice a
quo sulla questione di costituzionalità dell’autodichia della
Camera sollevata in relazione agli artt. 102, co. 2, 108 e 111
Cost. ed all’art. 6 della C.E.D.U., “una volta negata l’ammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost. - in quanto precluso dal
sistema stesso dell’autodichia, incompatibile - come si è visto
- col controllo giurisdizionale esterno”, ha dichiarato “inammissibile per irrilevanza anche la questione di legittimità costituzionale delle norme attraverso le quali quel sistema risulta concretamente attuato, non potendo il giudice sfornito di
giurisdizione sulla proposta impugnazione avere quello (il
potere, n.d.r.) di scrutinare possibili profili di illegittimità
della disciplina del provvedimento impugnato”.
Gli ampi richiami, che le motivazioni della sentenza in
esame operano alla sentenza della Corte Costituzionale n.
154/1985, fanno poi maturare la convinzione che nel panorama della legittimità costituzionale del fenomeno autodichia
nulla di nuovo sarebbe potuto intervenire con l’entrata in vigore del Trattato che istituisce una costituzione per l’Europa,
firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e, nonostante la sua vigenza fosse prevista per il 1° novembre 2005, mai entrato in vigore a causa dell’esito negativo dei referendum francese ed
olandese.
Infatti, è la stessa collocazione in Costituzione delle norme
che disciplinano il Parlamento a far maturare la convinzione
nel Giudice delle leggi ed in quello della legittimità che la
nostra sia una Repubblica parlamentare, con il Parlamento al
centro dell’ordinamento e che sia nella logica di tale sistema
che alle Camere spetti e vada perciò riconosciuta un’indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui
pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di
autonomia normativa, di cui all’art. 64, co. 1, Cost.
amministrativo
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d i r i t t o
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Se si aggiunge che le Sezioni Unite del 2004 non ritengono
condivisibile la tesi che attribuisce al nuovo testo dell’art. 111
Cost. un effetto innovativo sul sistema di autodichia, poiché
il nuovo 111 non solo non la estromette dall’area della “giurisdizione”, ma non scalfisce affatto le garanzie di indipendenza del Parlamento, mantenendo pur sempre alcune aree di
esenzione o di delimitazione del sindacato di legittimità proprio della Cassazione, si ha chiaro il senso della suddetta affermazione.
Se, dunque, è impossibile arrivare ad una declaratoria di
incostituzionalità dell’autodichia ai sensi del nuovo art. 111
Cost., non si vede come al medesimo risultato si sarebbe potuti giungere, invocando l’art. II-107 della Costituzione per
l’Europa53, che, disciplinando il diritto ad un ricorso effettivo
e ad un giudice imparziale, null’altro prevedeva se non quel
giusto processo, che dal 1999 fa parte della nostra Legge
fondamentale.
Inoltre, per tutto quanto finora detto, inutile ai nostri fini
sarebbe stato invocare l’art. I-6 della Costituzione per l’Europa, che disponeva che la Costituzione ed il diritto adottato
dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a
questa attribuite prevalessero sul diritto degli Stati membri,
perché, a meno che non si volesse immaginare che quella legislativa in uno alle sue prerogative non fosse una funzione
essenziale dello Stato e non ne connotasse l’identità, bisognerebbe ricordare che ai sensi dell’art. I-5 l’Unione avrebbe
dovuto rispettare l’eguaglianza degli Stati membri rispetto
alla Costituzione e la loro identità nazionale, insita nella loro
struttura fondamentale politica e costituzionale oltre alle
funzioni essenziali dello Stato.
Analogo discorso si potrebbe fare in relazione all’art. I-9
del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa,
trasfuso nell’art.1 del Trattato di Lisbona, che dal 01 dicembre
2009 ha novellato l’art. 6 del Trattato che istituisce la Unione
Europea, sancendone l’adesione alla C.E.D.U., trasfusa nel
diritto dell’Unione al rango di principi fondamentali.
Infatti, la Corte di Strasburgo, sez. II, investita del problema della compatibilità dell’autodichia della Camera dei deputati con l’art. 6 §1 della Convenzione, pronunciando sui ricorsi riuniti n. 17214/05, 20329/05, 42113/04 con la sentenza 28
aprile 2009, n. 14, ha dato il proprio avallo o per dirla con
Occhiocupo il proprio imprimatur al fenomeno, nonostante
abbia accolto i ricorsi e pronunciato l’incompatibilità con la
Convenzione dell’art. 12, co 6 del Regolamento della Camera,
che nel testo vigente fino al 10 luglio 200954, affidando in
seconda e definitiva istanza la decisione dei contenziosi alla
Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza, ne saldava
53 Costituzione per l’Europa, art. II-107 (Diritto a un ricorso effettivo e a un
giudice imparziale): Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo innanzi a un
giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente art.. Ogni persona ha
diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un
termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per
legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difender e rappresentare.
A coloro che non dispongono dei mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a
spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo
alla giustizia.
54 Prima ancora che potesse divenire inoppugnabile la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali la Camera dei deputati
corrente la XVI legislatura repubblicana ha modificato gli art. 12, co 6, 153-ter
e 156, co 8 del proprio Regolamento con decisione del 07 luglio 2009, pubblicato in G.U. del 09 luglio 2009, n. 157.
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all’interno le funzioni di massimo organo d’Amministrazione
e sommo giudice dei propri provvedimenti per sostanziale
identità fisica dei giudici con i componenti l’organo di amministrazione, così ledendo il solo principio d’imparzialità del
giudice e non anche quello della sua indipendenza, secondo
la Corte garantita dal sistema di nomina per sorteggio fra i
soli deputati dei componenti della giurisdizione domestica,
riconosciuta “tribunale” precostituito per legge.
Per “tribunale”, infatti, ai sensi dell’art. 6 § 1 C.E.D.U.
non deve necessariamente intendersi una giurisdizione di tipo
classico, integrata nelle ordinarie strutture giudiziarie dell’Alta parte contraente e per “legge” ben può intendersi in armonia con la giurisprudenza interna il Regolamento generale
della Camera e quelli minori sulla sua scorta emanati, visto
che compito della Corte non è quello di sostituirsi alle giurisdizioni nazionali nell’interpretazione della normativa interna,
che la scelta del «legislatore italiano di preservare l’autonomia
e l’indipendenza del Parlamento riconoscendogli l’immunità
dinanzi alle giurisdizioni ordinarie non potrebbe costituire di
per sé una questione in contestazione dinanzi alla Corte» e
che la “legge” come individuata dalla giurisdizione interna,
precludendo alla discrezionalità dell’esecutivo e dell’ordine
giudiziario l’organizzazione del sistema giudiziario, soddisfa
le finalità, che la C.E.D.U. persegue, richiamandola.
Dunque, pensare che la autodichia potesse essere espunta
dall’ordinamento per pronunciamento della Corte di Strasburgo rimaneva e rimane impossibile.
La Convenzione, infatti, non obbliga gli Stati e le loro
istituzioni a conformarsi ad un dato ordinamento giudiziario
e la Corte ai sensi dell’art. 41, quando il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permetta se non in modo imperfetto
di rimuovere le conseguenze della violazione accertata, può
solo accordare alla parte lesa un’equa soddisfazione, che nel
caso Savino, pendente una domanda di risarcimento dei danni morali rimessa per il quantum al suo apprezzamento equitativo, è stata liquidata con pronuncia di constatazione della
violazione denunciata, riconosciuta di per sé “equa sufficiente soddisfazione”.
Pertanto, unico effetto concreto della sentenza n. 14 del
2009 della Corte di Strasburgo è stata la modifica del Regolamento della Camera dei deputati e dei regolamenti interni55
che, confermata la giurisdizione domestica ne ha riformato
l’organo di secondo ed ultimo grado e, allineando la disciplina della Camera a quella del Senato, ha sostituito il Consiglio
di appello alla Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza, introducendo in ossequio al pronunciamento della Corte
l’incompatibilità fra l’ufficio di membro del Consiglio di appello e quello di membro dell’Ufficio di Presidenza.
Riformato il Regolamento e considerati il dispositivo e le
motivazioni della sentenza n. 14 della Corte di Strasburgo,
sez. II, appare chiaro che almeno nell’immediato futuro ulteriori ricorsi alla stessa non dovrebbero essere incentivati,
perché a fronte di un notevole dispendio di energie il ricorren-
55 Dopo la modificazione del Regolamento principale della Camera, sul cui art. 12
si fonda la giurisdizione domestica il 15 ottobre 2009 sono stai modificati il
Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti ed il Regolamento per
la tutela giurisdizionale relativa agli atti di Amministrazione della Camera dei
deputati non concernenti i dipendenti rispettivamente con i Decreti del Presidente della Camera n. 781 e 782 pubblicati in G.U. 19 ottobre 2009, n. 243.
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te vittorioso potrebbe ottenere solo la condanna dello Stato e
non la soddisfazione della propria posizione giuridica lesa ed
attivata.
Così stando le cose, rimarrebbero percorribili: o la strada
del conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, che il giudice ordinario, investito di un ricorso avverso un provvedimento sfavorevole degli organi di autodichia, dovrebbe sollevare innanzi alla Corte Costituzionale, denunciando i Regolamenti parlamentari come fonte di un conflitto, concretantesi nel dictum inappellabile della “giurisdizione” domestica;
o la più semplice, e, per le possibilità che la precedente ipotesi possa concretizzarsi e per le sue implicazioni, preferibile
strada del contenzioso conosciuto dallo stesso giudice di autodichia, che diverrebbe l’unico possibile giudice a quo di un
fenomeno, che, come si legge nell’intervento dell’on. Francesco
Nitto Palma56 (Resoconto stenografico dell’Assemblea – Seduta n. 162 del 20/6/2002), in Europa all’epoca operava oltre
che in Italia nella sola Finlandia.
Difficile però a questo punto pensare, che, sollevata la
questione innanzi al giudice, che si intende denunciare, questi,
pur sottopostagli la decisione del Consiglio di Stato, IV sez
27 ottobre 2005 n. 6015, secondo cui «l’autodichia nell’attuale assetto costituzionale non è un necessario attributo implicato dalla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali», possa avallare la denuncia in suo danno,
visto che, sempre nella su citata seduta, l’allora Presidente
della Commissione giurisdizionale manifestava il suo parere
favorevole alla conservazione dell’istituito in questione, pur
rimarcando la necessità di modifiche alla disciplina interna,
che lo governa, finalizzate ad una maggiore compatibilità
alla Costituzione della giurisdizione domestica57.
56 Presidente della Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei
deputati nella XIV legislatura.
57 Camera dei deputati, Resoconto stenografico dell’Assemblea - Seduta n. 162
del 20/6/2002, pagg. 9, 10, 11: “PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Palma. La facoltà. NITTO FRANCESCO
PALMA. Signor Presidente, intendevo ringraziare il Collegio dei questori per le
parole di elogio che hanno inteso esprimere nei confronti del lavoro della
commissione giurisdizionale. Tale lavoro si è concretizzato statisticamente secondo i seguenti numeri: la commissione è stata interessata a 658 ricorsi nella
presente legislatura e ne ha definiti 476: 327 con sentenza di rigetto del ricorso
e 85 con sentenza di accoglimento. Alla luce delle impugnazioni presentate
avverso le decisioni della commissione giurisdizionale, ritengo di poter dire che
questa giurisdizione domestica è stata condivisa dai dipendenti che hanno inteso ricorrere ad essa, se è vero, come è vero, che meno del 9 per cento delle
sentenze risultano impugnate. Sicuramente non è una giurisdizione domestica
addomesticata, se è vero che oltre il 45 per cento delle sentenze di accoglimento dei ricorsi presentati dai dipendenti della Camera è stato impugnato dall’amministrazione. Ritengo doveroso, signor Presidente, affermare che il lavoro
della commissione giurisdizionale è stato possibile grazie all’abnegazione del
personale in servizio presso la commissione stessa. Ciò detto, signor Presidente,
vorrei sottoporre all’attenzione sua ed a quella dell’Assemblea alcuni problemi
che riguardano il mondo dell’autodichia. L’istituto trova avallo nella sentenza
n. 154 del 1985 della Corte costituzionale. Orbene, signor Presidente, sono
assolutamente convinto che l’autodichia, proprio per le ragioni storiche che
l’hanno determinata, sia un bene da tutelare all’interno dell’amministrazione
della Camera, anche se non posso tacere né a voi né a me stesso che tale sistema
è presente solo nel Parlamento finlandese. Tanto ciò è vero che, in tutti gli altri
parlamenti europei, i dipendenti delle amministrazioni parlamentari si rivolgono al giudice ordinario o a quello amministrativo. Prendo atto, sulla base delle
dichiarazioni rese nella relazione del Collegio dei questori, che ci si sta muovendo per introdurre modifiche di natura regolamentare anche sulla base della
contrattazione collettiva. Mi auguro che esse possano andare a toccare i diversi punti di sofferenza della legislazione settoriale interna rispetto a quella generale e, ciò che più importa, rispetto a quella costituzionale. A mio avviso, una
riflessione appare ancora più opportuna ove si consideri che, presumibilmente,
entro la fine del prossimo anno, i ricorsi pendenti presso la Commissione giurisdizionale saranno sostanzialmente azzerati. Quali sono i punti di riflessione?
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Certo, però, che la questione andrebbe valutata non in
fieri, ma nella sua concreta realizzazione, poiché, come già
dimostrato dalla sentenza della Corte costituzionale 154/1985,
di grande rilievo è la modalità di formulazione del quesito
alla Corte stessa ed in primis al giudice a quo.
Illustrato, dunque, il possibile scenario, sia normativo,
che, diciamo così, tattico di un’eventuale riproposizione della
questione di legittimità costituzionale, rimanendo quasi del
tutto esclusa la possibilità che, anche dopo la novella costituzionale del 1999, il giudice ordinario, investito della questione possa egli stesso rimandarla alla Corte costituzionale,
possiamo concludere, auspicando, che il giudice interno, che
per sua natura soggettiva e composizione si presenta come
tendenzialmente iudex in re sua, non si comporti come parte,
ma come soggetto terzo ed imparziale nel rispetto dei principi generali del diritto e del nuovo disposto costituzionale e che
a chiudere “il buco nero del nostro sistema costituzionale di
tutela dei diritti”58 possa provvedere il legislatore ordinario
mediante la conversione in legge del d.d.l. n. 1560 (Maritati),
comunicato alla Presidenza del Senato il 28 aprile 2009, che,
motivando circa l’idoneità dello strumento prescelto, propone
la devoluzione al giudice ordinario ed amministrativo del
contenzioso oggi conosciuto dagli organi di autodichia di
Camera e Senato in un’ottica di salvaguardia delle guarentigie
delle Camere di tipo “funzionalistico” e non “geografico”.
Sono sostanzialmente due. In primo luogo, è davvero ancora percorribile la
tesi, espressa dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza del 1985,
secondo la quale i regolamenti interni della Camera, che sono deliberati dall’Ufficio di Presidenza e trovano la loro forza nell’art. 12 del regolamento della
Camera - questo sì approvato dalla maggioranza assoluta ai sensi dell’art. 64
della Costituzione -, non sono atti con forza di legge e, in quanto tali, sono
sottratti al sindacato della Corte costituzionale? In altri termini, mi chiedo e
chiedo anche a voi: quando una disposizione interna della Camera, che regola
il rapporto tra l’amministrazione ed i dipendenti, è in netto contrasto con la
Carta costituzionale, chi è il giudice delle leggi? Né mi soddisfa, sul punto, la
strada indicata dalla precedente Presidenza della Camera, secondo la quale
anche gli organi dell’autodichia interna sono tenuti ad interpretare le norme in
conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale, per il semplice motivo che un’interpretazione siffatta è possibile qualora verta su una norma che
non appaia in contrasto con la stessa Corte costituzionale. Questo è un primo
problema sul quale credo che dobbiamo riflettere. Vi è, poi, un secondo problema, già sollevato dal collega Acquarone nello scorso mese di novembre.
Esso riguarda la sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza, la quale
rappresenta il giudice di appello per le controversie devolute all’autodichia. La
predetta sezione è un’articolazione dell’Ufficio di Presidenza, essendo presieduta dal Presidente della Camera ovvero da un Vicepresidente dallo stesso delegato ed essendo composta da quattro membri dell’Ufficio medesimo. Orbene,
se ciò è vero, mi chiedo: ma questa sezione articolata, questa sezione dell’Ufficio di Presidenza non è partecipe di quello stesso Ufficio di Presidenza che
emette gli atti amministrativi nei cui confronti vengono per l’appunto presentati ed avanzati ricorsi da parte dei dipendenti? Siamo cioè in presenza di un
giudice terzo, così com’è disegnato dall’art. 111 della Costituzione, o siamo
invece in presenza di un giudice che decide in causa propria? Credo che su
questo debba necessariamente attivarsi una forte riflessione all’interno dalla
Camera dei deputati, anche perché non posso tacere che presso il Senato la
Repubblica la regolamentazione è del tutto dissimile e, sicuramente, almeno a
mio modestissimo avviso, più confacente ai principi generali dell’ordinamento
costituzionale, con particolare riguardo all’art. 111, che richiede un giudice
terzo, quindi un giudice diverso dalle parti in causa. Al Senato della Repubblica il giudice di appello è costituito da un consiglio di garanzia, composto da
cinque senatori esperti nelle materie giuridiche e nominati secondo tecniche
assolutamente simili, ad esempio, alle tecniche che presiedono alla nomina
della commissione giurisdizionale. Questi sono i problemi che ho inteso sottoporre all’Assemblea, consapevole della necessità di dover conservare il regime
dell’autodichia alla Camera dei deputati, ma consapevole anche che, se il sistema che regola l’autodichia è scarsamente trasparente e per di più in contrasto
con l’ordinamento costituzionale, questo sistema non trasparente porterà alla
morte dell’autodichia (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
58 F. Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Riv. Dir. Pubbl. Comm.,
2005.
amministrativo
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d i r i t t o
●
Gazzetta
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CONSIGLIO DI STATO
sentenza 16 agosto 2010 n. 5702
Pres. Piscitello, Est. Chieppa
Corrispettivo a base
d’asta negli appalti
di lavori pubblici
e buon andamento
della P.A.
Nota a Consiglio di Stato,
sentenza 16 agosto 2010, n. 5702
● Enzo Napolano
a m m i n i s t r at i v o
Avvocato
Prezziario lavori pubblici – Aggiornamento – Obbligatorietà prezziario regionale nella Regione Campania – Motivazione dell’atto.
1. Il sistema di aggiornamento del prezziario delle opere
pubbliche - disciplinato dall’articolo 133, comma 8, del d. lgs.
163 del 2006 – è fondato sul principio per cui a ciascuna
amministrazione è riservato, nell’ambito dell’autonomia riconosciuta dal sistema ordinamentale, il potere-dovere di
revisionare annualmente la remunerazione delle singole voci
delle opere pubbliche, salvo, per il caso di inadempimento, il
potere sostitutivo affidato di concerto allo Stato ed alla regione interessata.
2. L’art. 78 comma 7, lett. b) della legge regionale della
Regione Campania n. 3 del 2007 non costituisce deroga al
potere di ciascuna stazione appaltante di aggiornamento del
prezziario delle opere pubbliche.
3. Il tariffario regionale non può essere considerato vincolante, pur potendo costituire la base per avere una certa
uniformità dei prezziari.
4. Il potere delle singole stazioni appaltanti di adottare un
proprio tariffario deve essere fondato su una adeguata istruttoria e su motivazione coerente con gli elementi istruttori.
5. L’utilizzo del criterio statistico - costituito dal dato
della media dei ribassi esteso ad un numero di gare e ad un
periodo di riferimento significativo - non è di per sé illegittimo
e deve ritenersi idoneo a supportare l’esercizio del potere di
aggiornamento del prezziario da parte dell’amministrazione
costituendo onere del ricorrente dimostrare in concreto che
tale tecnica ha condotto a risultati errati, ma una siffatta
prova non è stata fornita nel corso del giudizio.
(Omissis)
Fatto e Diritto
1. Con sentenza n. 5130/2009 il Tar per la Campania ha
accolto il ricorso proposto dall’A.C.E.N. (…..) avverso la deliberazione della Giunta comunale di N. n. 1609 del 12.11.2008,
con cui, ai sensi dell’art. 133, comma 8, d.lgs. 12.4.2008, n.
163, è stato adottato un nuovo prezziario delle opere pubbliche
appaltate dal comune di N., con l’applicazione di una riduzione del 20% su ogni singola voce del tariffario approvato dalla
Giunta regionale della Campania con deliberazione n. 2238
del 21.12.2007.
Il comune di N. ha proposto ricorso in appello avverso
tale sentenza per i motivi che saranno di seguito esaminati.
L’A.C.E.N. si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso e proponendo ricorso in appello incidentale.
Con ordinanza n. 463/2010 questa Sezione ha accolto in
parte la domanda cautelare, sospendendo l’efficacia della
sentenza impugnata limitatamente alle procedure di gara già
in corso alla data di pubblicazione della sentenza.
All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.
2. L’oggetto del presente giudizio è costituito dalla contestazione da parte dell’A.C.E.N., quale associazione rappresentante la categoria delle imprese di costruzioni nella provincia
di Napoli, del nuovo prezziario delle opere pubbliche adottato dal comune di N. mediante una decurtazione del venti per
cento di ogni voce del tariffario regionale.
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
Il giudice di primo grado, dopo aver respinto il motivo
inerente la presunta carenza del potere dell’amministrazione
comunale di discostarsi dal tariffario regionale, ha accolto il
ricorso, ritenendo che la menzionata decurtazione del 20 %
non sia stata supportata da una puntuale analisi dei prezzi di
mercato; l’abbattimento tariffario sarebbe stato, infatti, ricollegato a considerazioni ininfluenti (lo scostamento del prezziario regionale 2008 rispetto ai valori adottati dal provveditorato nel 1990 si giustifica alla luce del significativo lasso di
tempo trascorso) ovvero opinabili (la centralità del territorio
sembra un dato empirico difficilmente accertabile, variando a
seconda delle imprese che aspirano ad aggiudicarsi le commesse pubbliche) ovvero orientative (il criterio statistico ha valenza suggestiva, ma deve rappresentare un punto di partenza da
verificare alla luce di riscontri basati su analisi di mercato
oggettive ed aderenti ai prezzi correnti; di fatti non si può
escludere che le imprese, pur di accaparrarsi l’appalto di lavori pubblici, spendibile anche a fini curriculari, propongano un
offerta non in perfetta linea con i valori di mercato).
Omissis…….
4. Seguendo un ordine logico deve poi essere esaminata la
censura dell’appello incidentale, proposto dall’A.C.E.N., secondo cui in base alla L.R. n. 3/2007 il Comune non avrebbe
potuto discostarsi dal tariffario regionale.
Il motivo è infondato.
IL Tar ha correttamente rilevato che il sistema di aggiornamento del prezziario delle opere pubbliche è disciplinato in
primo luogo dall’articolo 133, comma 8, del d.lgs. 163 del
2006, il quale demanda a ciascuna amministrazione il poteredovere di revisionare annualmente la remunerazione delle
singole voci delle opere pubbliche, salvo, per il caso di inadempimento, il potere sostitutivo affidato di concerto allo
Stato ed alla regione interessata.
Il compito di aggiornare i prezzi è dunque riservato a ciascuna stazione appaltante, nell’ambito dell’autonomia riconosciuta dal sistema ordinamentale e, in tale contesto, va inserita
la legge regionale n. 3 del 2007, il cui art. 78 prevede, comma
7, lett. b), prevede che l’osservatorio regionale, fra i propri
compiti, elabori ed aggiorni il prezziario regionale, il quale
deve “applicarsi obbligatoriamente negli appalti pubblici”.
La applicazione obbligatoria negli appalti pubblici costituisce espressione inidonea a derogare il potere di ciascuna
stazione appaltante di aggiornamento del prezziario delle
opere pubbliche.
A dimostrazione di ciò, il successivo articolo 30 della
legge regionale n. 1 del 2008 (finanziaria regionale 2008),
nell’incentivare la stipulazione di accordi fra la Regione e gli
enti pubblici minori “per l’utilizzazione del prezziario regionale, in modo da garantire la congruità dei prezzi posti a
base di gara e adeguato supporto per le valutazioni di anomalia delle offerte”, ha senza dubbio perseguito lo scopo di
uniformare i tariffari, ma ha nello stesso tempo confermato
l’autonomia delle singole stazioni appaltanti, rispetto alla
quale lo strumento per raggiungere una maggiore uniformità
è stato individuato nella collaborazione istituzionale, e non
nel carattere vincolante del tariffario regionale.
In definitiva., la disciplina regionale non contiene alcuna
espressa disposizione che deroga i poteri di aggiornamento
dei tariffari delle stazioni appaltanti, con la conseguenza che
il tariffario regionale non può essere considerato vincolante,
2 0 1 0
105
pur potendo costituire la base per avere una certa uniformità
dei prezziari.
Correttamente, quindi, il giudice di primo grado ha ritenuto che un vincolo totalmente limitativo della competenza
riservata dallo Stato alle singole autonomie territoriali minori avrebbe richiesto una previsione puntale ed inequivoca, non
sussistente nella specie.
Sussiste, dunque, il potere del comune di Napoli di adottare un proprio tariffario, anche differente da quello regionale.
5. Deve a questo punto essere esaminato il motivo di appello, con cui il Comune contesta l’illegittimità (ritenuta dal
Tar) della decurtazione del 20 % sulle voci del tariffario regionale.
Secondo il Comune la decurtazione sarebbe stata giustificata in base ad una serie di elementi, rilevati dagli uffici tecnici.
Il motivo è fondato.
Non vi può essere dubbio sul fatto che il potere delle singole stazioni appaltanti di adottare un proprio tariffario deve
essere fondato su una adeguata istruttoria e su motivazione
coerente con gli elementi istruttori.
Nel caso di specie, gli uffici dell’amministrazione comunale, dopo aver indicato alcuni dati secondari, quali l’incremento del 50 % del prezziario regionale 2008 rispetto ai valori adottati dal provveditorato nel 1990, hanno richiamato
la centralità del territorio del comune di N. e, soprattutto, il
criterio statistico, costituito dalla riscontrata media del 30%
dei ribassi percentuali praticati dalle imprese aggiudicatarie
degli appalti indetti dal comune nel biennio 2007-08.
Non si è in presenza di una (non consentita) integrazione
della motivazione dell’atto contestato, in quanto tali elementi sono stati segnalati dall’apposito gruppo di lavoro costituito dal comune di N., proprio al fine di procedere al (poi avvenuto) aggiornamento.
Il dato della media dei ribassi, esteso ad un numero di
gare e ad un periodo di riferimento significativo, può costituire idoneo presupposto per l’adozione di un atto generale, che
deve essere adottato sulla base di una adeguata istruttoria,
ma che in quanto tale non necessita di una estesa motivazione,
anche seguendo l’interpretazione più evolutiva circa i limiti di
applicazione agli atti amministrativi generali delle norme sul
procedimento amministrativo.
I dati utilizzati dal comune, benché meramente statistici,
dimostrano in concreto che sul mercato degli appalti pubblici
banditi dal comune vengono praticati prezzi inferiori al tariffario regionale.
Le centralità del comune di N. può essere una delle concause di tale fenomeno, ma resta il dato obiettivo di prezzi
inferiori praticati sul mercato, utilizzato dal comune per aggiornare il prezziario.
L’utilizzo del dato statistico non costituisce di per sé motivo di illegittimità della deliberazione impugnata.
L’associazione ricorrente avrebbe dovuto dimostrare in
concreto che tale tecnica ha condotto a risultati errati, ma una
siffatta prova non è stata fornita nel corso del giudizio.
La perizia di parte, prodotta dall’A.C.E.N., in parte è
diretta a valorizzare la correttezza delle determinazione dei
prezzi contenuti nel tariffario regionale, ma tale elemento non
è mai stato posto in discussione neanche dal Comune.
Sotto altro aspetto, con la perizia viene contestata la generalizzata decurtazione del 20 %, idonea a favorire il “lavo-
amministrativo
Gazzetta
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d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
ro nero” e che non poteva essere spalmata su tutte le voci
della tariffa, tenuto anche conto dell’aumento dei costi di
costruzione dell’edilizia residenziale a Napoli.
Manca nella perizia una dimostrazione, anche esemplificativa, della non correttezza tecnica del prezzo attribuito a
singole voci da parte del Comune.
Il riferimento all’incentivo del “lavoro nero” risulta del
tutto generico e sfornito d ogni collegamento con dati concreti; l’aumento dei costi di costruzione dell’edilizia residenziale
costituisce elemento disomogeneo rispetto al raffronto tra due
tariffari pubblici e non consente di apprezzare in modo corretto quale dei due tariffari si avvicina di più ai prezzi di
mercato nel comune di N.
In definitiva, l’utilizzo del criterio statistico, come già
detto, non è di per sé illegittimo e, in assenza di una adeguata dimostrazione della non correttezza degli esiti dell’applicazione di tale criterio, deve ritenersi idoneo a supportare
l’esercizio del potere di aggiornamento del prezziario, che – si
ribadisce – l’ordinamento riconosce a ciascuna stazione appaltante.
6. Sono, infine, infondati i motivi assorbiti in primo grado
e riproposti in appello.
(Omissis)
••• Nota a sentenza
1. Premessa ed inquadramento del tema
La sentenza da cui scaturiscono le presenti considerazioni
presenta più di un aspetto di interesse sia sul piano giuridico
interpretativo sia, più in generale, sul piano della scienza
dell’amministrazione più propriamente detta.
Il tema delle regole che sovrintendono alla determinazione,
da parte della Pubblica Amministrazione, del corrispettivo da
porre a base di gara per l’affidamento degli appalti per opere
e lavori pubblici è delicato e rilevante sotto molteplici aspetti.
Certamente lo è sul piano della concorrenza tra le imprese e sulla remuneratività dei lavori stessi.
Ma è, altresì, rilevante sul versante della spesa pubblica,
in quanto incidente sulla capacità di realizzare maggiori e/o
migliori opere, e lo è ancor di più in periodi di magra dei bilanci pubblici.
Sotto questo profilo non è indifferente, per l’Amministrazione appaltante, se il risparmio viene conseguito direttamente in
sede di programmazione e progettazione o all’esito della gara.
Nel secondo caso la procedura per il recupero dell’economia di gara, secondo gli schemi della contabilità pubblica, è
più lunga ed elaborata. Nel primo caso, già in sede di programmazione e progettazione l’Amministrazione mantiene
libere risorse di bilancio da impegni di spesa, con la possibilità di destinarle direttamente ad altre opere.
In merito l’articolo 133, comma 8, del d.lgs. 163 del 2006,
stabilisce che ciascuna stazione appaltante provvede ad aggiornare annualmente il proprio prezziario, che cessa di avere
validità alla fine di ogni anno, prevedendo altresì, in caso di
inerzia, il potere sostitutivo dello Stato, attraverso le articolazioni territoriali del Ministero delle Infrastrutture di concerto con le Regioni interessate.
È quindi ben possibile, secondo la previsione normativa,
Gazzetta
F O R E N S E
che vi siano differenze tra i prezziari di ciascuna stazione
appaltante. L’omogeneità non è, pertanto, un obiettivo del
legislatore nazionale in questa materia.
Nella Regione Campania, in particolare, l’art. 78 della l.
n. 3 del 2007 - recante “Disciplina dei lavori pubblici, dei
servizi e delle forniture in Campania” – nell’istituire l’Osservatorio sui lavori pubblici regionali, al comma 7 lett. b) stabilisce altresì che l’Osservatorio regionale svolge altresì i
compiti di elaborazione, monitoraggio e aggiornamento, annuale, del prezziario regionale, “da applicarsi obbligatoriamente negli appalti pubblici”.
La Legge Regionale 3 del 2007, come stabilito all’art. 1
della medesima Legge, si applica a tutte le stazioni appaltanti operanti sul territorio - fatta eccezione per le amministrazioni statali – ed ha come obiettivo quello di stabilire una
regolamentazione quanto maggiormente uniforme alla disciplina degli appalti non riservati allo Stato.
È stata sempre – ed in grandissima parte lo è ancora –
“prassi” costante – tale da assurgere o, almeno, ad essere
“avvertita” come obbligo vero e proprio - delle amministrazioni pubbliche rifarsi, nella determinazione del corrispettivo
di appalto per opere e lavori, proprio al prezziario regionale
come approvato ed aggiornato annualmente.
Tale “prassi” è stata interrotta dal Comune di N. – probabilmente indotto dalla considerazioni sopra ricordate – che con
atto del 2008, ha ritenuto, invece, di applicare, per le proprie
gare di appalto, non più il prezziario regionale tout court, ma
il medesimo prezziario con riduzione su ogni voce del 20%.
In particolare tra le motivazioni dell’atto più forti a sostegno di tale decisione, è stata posta la considerazione – incontestabile - che la media dei ribassi registrati nelle gare indette
dal Comune di Napoli nel biennio 2007/2008, ponendo a
base d’asta i corrispettivi determinati sulla scorta del tariffario regionale, era pari a circa il 30%, dal che inferire, secondo
l’Ente, l’inadeguatezza verso l’alto delle tariffe del prezziario
regionale almeno per il proprio ambito di riferimento.
La rilevanza – ai fini della capacità di previsione e programmazione degli investimenti per l’Ente - non sfugge.
Ovviamente un provvedimento del genere non è sfuggito,
neppure, all’attenzione degli imprenditori del settore ed, infatti, l’Associazione provinciale di categoria ha portato la
questione all’attenzione del Tar Campania, ponendo in via
principale due questioni.
La prima concernente la corretta applicazione dell’art. 78
comma 7 lett. b) della citata l.r. n. 3/07, che secondo la tesi
prospettata dall’A.C.E.N. imporrebbe un obbligo generalizzato, ed inderogabile, di adozione del tariffario Regionale per
tutte le pubbliche amministrazioni sub regionali.
La seconda, più squisitamente attinente l’aspetto motivazionale del provvedimento, concerne la correttezza e la rilevanza del riferimento al dato statistico dei ribassi quale base
per fondare tale importante decisione.
La prima tesi è stata smentita sia dal Tribunale che dal
CDS. La seconda è stata recepita dal Tar - che ha annullato
la suddetta delibera – ma non anche dal Consiglio di Stato,
che, invece, ha annullato la sentenza del Tar Campania, confermando la legittimità dell’attività del Comune di Napoli.
2. Il contrasto (apparente) tra norma nazionale e norma regionale
Il tema dei rapporti tra legislazione nazionale e regionale
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
nelle materie di cui all’art. 117 Cost. è costantemente al centro
sia della giurisprudenza costituzionale che di quella amministrativa.
Nel caso di specie le disposizioni a confronto sono quelle
di cui all’art. 133 co. 8 del d.lgs. 163/06 e quella di cui all’art.
78 co. 7 lett. b) della l.r. Campania 3/07
Tali norme, non può dubitarsene, appaiono, prima facie,
essere in evidente contrasto.
Da un lato la norma nazionale attribuisce, chiaramente
ed esplicitamente, ad ogni singola S.A. il potere dovere di
stabilire ed aggiornare annualmente il proprio prezziario;
dall’altro, la norma regionale appare, invece, a prima lettura,
disporre nel senso della obbligatorietà, sia per la Regione, ma
anche per tutti gli enti sottordinati regionali di applicare il
prezziario come redatto dall’Osservatorio.
Ed, almeno sul piano applicativo concreto, deve aggiungersi che ciò è avvenuto almeno sino ad oggi.
Sul punto sia il Tribunale che il Consiglio di Stato hanno
ritenuto, invece, di interpretare la disposizione regionale nel
senso che la stessa non contenga un vero e proprio obbligo di
adozione da parte degli enti subregionali.
È interessante notare che nella sentenza del Tar - in quella
del Consiglio di Stato il tema non è affrontato direttamente
- la questione non appare essere stata risolta in termini di
netta e decisa affermazione di una assoluta ed insuperabile
contrarietà “costituzionale” a che una norma legislativa di
carattere regionale imponga come obbligatorio per gli enti
sottordinati l’adozione di un determinato prezziario.
In merito, la sentenza del Tribunale svolge un’ampia premessa in ordine ai principi elaborati in sede costituzionale (a
partire da Corte Costituzionale sentenza numero 303 del
2003) in materia di legislazione sui lavori pubblici e richiama
il principio per cui in tale materia non esiste una netta separazione in generale; ma la separazione e l’attribuzione di
competenze concerne i singoli aspetti della procedura di gara
(norme che regolano la concorrenza, l’organizzazione, ecc.);
affermando che, per gli aspetti non rientranti nelle materie
dell’art. 117 Cost. come riservate alla competenza esclusiva,
si riespande la potestà legislativa regionale.
E conclude nell’affermare, da un lato, che l’attribuzione
della potestà di determinazione dei prezziari non appare rispondere ad un obbligo costituzionale, ma ad una scelta contingente del legislatore nazionale, dall’altro che, comunque, “è
dubitabile che su tale aspetto possa intervenire una diversa ed
incompatibile normativa stabilita a livello regionale”.
Tale questione tuttavia – senza dubbio interessante sotto
il profilo costituzionale – non è stata portata poi alle estreme
conseguenze “costituzionali”, in quanto sia il Tribunale che
il Consiglio di Stato hanno ritenuto che la volontà espressa
dalla legge regionale – rendere obbligatorio il prezziario regionale per tutti gli enti subregionali – in realtà non appare,
dal tenore della disposizione, univoca e certa, anche alla luce
di un lettura comparata di altre disposizione di fonte regionale; per cui non poteva ritenersi, allo stato, che la Regione
avesse inteso rendere obbligatorio il prezziario per tutti gli
enti sottordinati; ma in realtà fornire una mera “direttiva
programmatica” e non anche un obbligo incondizionato.
Interpretazione questa corroborata anche dalla previsione
dell’articolo 30 della legge regionale n. 1 del 2008 (finanziaria
regionale 2008), che prevede ed incentiva la stipula di accor-
2 0 1 0
107
di fra la Regione e gli enti pubblici minori volti ad estendere
l’utilizzazione del prezziario.
Certamente accordi superflui se il prezziario è già obbligatorio per norma di legge regionale.
In definitiva, quindi, sebbene non vi sia stata una decisa
presa di posizione sul punto specifico, la questione è stata risolta sul piano di una interpretazione costituzionalmente
orientata, sul presupposto (neanche troppo implicito) per cui
deve ritenersi, almeno secondo il Tribunale, che la legge regionale comunque non potrebbe stabilire, in materia, un principio
diverso da quello previsto a livello di norma nazionale.
3. La motivazione del provvedimento in materia di determinazione delle tariffe
Salvato il principio, la diversità di vedute tra il Tar ed il
CDS ha riguardato invece la motivazione dell’atto.
Può dirsi incontestato che – sebbene il Comune abbia
posto a fondamento del proprio provvedimento altri elementi
di contorno - il profilo principale della motivazione dell’atto
è il dato storico-statistico della media dei ribassi del biennio.
Su tale aspetto, mentre per il Tribunale il mero riferimento al dato statistico costituisce erroneo presupposto di valutazione, essendo necessario che l’Amministrazione proceda
ad una analisi puntuale delle voci del tariffario; invece per il
Consiglio di Stato il riferimento alla “media dei ribassi”, con
riferimento ad un periodo di tempo e ad un numero di gare
significativo, non costituisce ex sé un elemento inidoneo a
costituire presupposto di un atto del genere e, pertanto, l’utilizzo di tale criterio, di per se, non è illegittimo ed è idoneo a
supportare l’esercizio del potere di aggiornamento.
Aggiungendo che, eventualmente, sono i soggetti che quel
dato contestano ad essere tenuti a dimostrare – a questo punto, voce per voce – che l’applicazione in concreto di tale criterio conduca a risultati e prezzi erronei ed incongrui.
In ultima analisi il Consiglio di Stato ritiene che il dato
statistico dei ribassi precedenti possa costituire, in sede di determinazione della tariffa, una presunzione iuris tantum in
ordine alla congruità dei prezzi, salvo prova contraria da fornirsi, in concreto, da parte di chi contesti quelle voci di tariffa.
Ovviamente la prova in concreto dell’incongruità delle
voci comporta – oltre che un’analisi approfondita e complessa essendo le voci del tariffario innumerevoli – altresì, come
corollario, che l’eventuale annullamento potrebbe anche concernere solo alcune delle voci e, quindi, la declaratoria di illegittimità limitarsi a quelle.
Ad una prima analisi, e sotto un profilo meramente logico
formale, la sentenza del Consiglio di Stato non pare porgere
il fianco a rilievi evidenti.
La stessa, infatti, non irrigidisce la situazione, pur attribuendo all’Amministrazione un vantaggio di posizione in
termini di facilità di motivazione.
Sotto altro profilo, invece, si presta a più di un rilievo e
considerazione. L’iter argomentativo seguito dal Consiglio di
Stato si muove esclusivamente nell’ambito dei principi generali dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi ed in
particolare degli “atti generali” e dei limiti di applicazione
agli atti amministrativi generali delle norme sul procedimento amministrativo; ritenendo che il riferimento al dato statistico – salvo prova contraria – costituisce elemento idoneo a
fondare l’atto di adeguamento delle tariffe.
amministrativo
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d i r i t t o
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Ed è proprio tale aspetto che si presta ad obiezioni, fondate sulla considerazione che l’esercizio del potere-dovere di aggiornamento del prezziario è, invece, regolato da specifiche
regole e principi propri – oltre a quelle generali delle norme sul
procedimento amministrativo - che impongono alle amministrazioni, nella determinazione e nell’aggiornamento dei prezzi, l’obbligo di seguire un procedimento trasparente e “reale”,
frutto di una analisi dei prezzi che abbia come base di partenza: i costi del personale e quelli dei materiali di costruzione.
Sotto questo profilo appaiono rilevanti diverse disposizioni del d.lgs. 163/06 ed in particolare l’art. 133 co. 8, nella
parte in cui si riferisce “ai prodotti destinati alle costruzioni”
che hanno subito significative variazioni di prezzo; ma anche
l’art. 7 comma 4, 5 e 5-bis, sulla determinazione dei costi
standard, e l’art. 89 dello stesso Codice, che disciplina strumenti volti alla rilevazione della “congruità” dei prezzi.
Le suddette disposizioni impongono alle amministrazioni
– nell’esercizio del suddetto potere-dovere - un obbligo di
analisi dei singoli prezzi fondato sulla verifica degli elementi
base costituenti le singole voci.
Laddove tale analisi sia stata già condotta, in un ambito
più ampio, da una organo tecnico, allora la motivazione
dell’atto di determinazione ed aggiornamento può dirsi, certamente, integrata dal riferimento all’analisi condotta da
quest’ultimo organismo (es. Osservatorio Regionale).
Ma se si applica su tale prezziario un decurtazione generalizzata del 20% - fondandola sul dato statistico della media
dei ribassi praticati dai partecipanti alle gare indette – si inserisce nel procedimento un meccanismo che muove da una
logica del tutto opposta a quella posta a fondamento dell’analisi a monte tale che non può dirsi più rispettato il procedimento di determinazione del prezzo come disciplinato dalla
Legge, perché viene completamente obliterato e superato
l’obbligo della verifica del prezzo dei materiali di costruzione
e del costo del lavoro.
E ciò a prescindere del se, per effetto del suddetto calcolo,
vengano fuori prezzi corrispondenti alla realtà.
Anche perché se si scende in tale particolare, è facile cadere
nella questione del cosa debba intendersi per prezzo “reale”.
Se sia da intendersi per tale il prezzo che crea il mercato o
quello che viene fuori applicando i meccanismi analitici di
determinazione del prezzo, come ha fatto l’osservatorio regionale e che, astrattamente, possono anche subire dinamiche al
ribasso (specie in periodi di deflazione).
Ciò che rileva per il Legislatore è il procedimento per la
determinazione e l’aggiornamento, che prevede analisi economiche delle singole voci di prezzo e delle sue componenti essenziali costituite da: costi dei materiali di costruzione e del
costo del lavoro con la conseguenza che solo da questo procedimento può scaturire il prezzo “reale”.
Aderendo ad una nozione di prezzo “reale” diversa, si finisce per legittimare – attraverso una interpretazione fondata
su meccanismi di pura logica formale - una situazione di
fatto irreale, che a sua volta scaturisce da una “insania” iniziale, costituita dai comportamenti degli operatori privati del
settore, che, a loro volta, nella presentazione delle offerte
possono essere mossi dai più disparati - e disperati – fini.
Il che finisce per incidere sul corretto svolgimento dei lavori pubblici e quindi sul buon andamento della Pubblica
Amministrazione.
Gazzetta
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4. Determinazione del prezziario ed effetti sul buon andamento
della Pubblica Amministrazione
In realtà il dato del Comune di N. non è affatto “anomalo” rispetto al dato delle altre stazioni appaltanti della Regione, e, si aggiunge, anche fuori della Regione e la media dei
ribassi, attualmente, ed in molti Enti è, probabilmente, anche
superiore al 30% del Comune di N., sfiorando punte del 40%
(come media), in particolare per gli appalti affidati con il sistema automatico del massimo ribasso ( e cioè la gran parte
di quelli banditi).
La crisi economica, il numero delle imprese, il numero non
alto delle opere pubbliche in gara, la necessità di “lavorare”
per mantenere la SOA ed altri fattori che gli operatori del
settore possono spiegare nel dettaglio hanno spinto, negli
ultimi anni, le imprese a praticare ribassi insostenibili.
Tale è la realtà oggi riscontrabile relativamente alla gran
parte degli appalti aggiudicati in Regione (ma non solo, essendo il fenomeno in via di massima espansione) e, quindi,
l’esempio del Comune di N. potrebbe estendersi ad un numero sempre maggiore di stazioni appaltanti, che ben hanno
interesse a recuperare capacità di spesa a monte.
Ma, si potrebbe osservare, alla fin fine, che se gli imprenditori stessi propongono quei ribassi e se l’interesse pubblico
a liberare a monte risorse da destinare ad altre opere pubbliche
appare meritevole di tutela, perché impedire agli enti una
tale possibilità?
Tale tendenza, apparentemente favorevole alla parte pubblica appaltante – “meno risorse più opere”, specie in periodi
di crisi, è una suggestione invero attraente – in realtà si rivela
dannosissima, sul breve, medio e lungo periodo, sul buon
andamento della P.A., così come, quella conseguenziale, di
abbassare ulteriormente le tariffe, portandole su livelli obiettivamente non corrispondenti alla realtà dei costi del personale e dei materiali.
Ciò perché è irreale pensare che un imprenditore sano
porti a termine un’opera in perdita; l’interesse dell’appaltatore che svolge un’opera pubblica a corrispettivo adeguato è
quello di chiudere al più presto il lavoro e farsi pagare, senza
soffermarsi su errori progettuali, situazioni impreviste, ecc.
Al contrario, quello dell’imprenditore in perdita sull’appalto è esattamente il contrario, perché più i lavori proseguono più le perdite si attualizzano e, quindi, i vizi dei progetti,
le omissioni, progettuali, gli imprevisti ed ogni altra ragione
– quasi sempre presenti in ogni opera e lavoro pubblico – assurgono a causa di riserve, a richiesta di variante, ecc..
Ciò da luogo, quantomeno, a sospensioni e contenziosi ed
all’allungamento dei tempi contrattuali, e cioè alla necessità
per le Amministrazioni – che comunque le opere vogliono
terminarle - di far rientrare dalla “porta” (cioè integrare il
corrispettivo con opere aggiuntive, varianti, ecc.) ciò che era
uscito dalla finestra.
La riflessione, che travalica i limiti delle presenti note, si
sposta quindi sul piano dei vigenti sistemi di aggiudicazione,
ed in particolare quello del massimo ribasso.
La soluzione a tale, obiettivo e grave, stato di fatto potrebbe essere quella dell’incentivazione al ricorso a sistemi di aggiudicazioni non automatici.
Negli ultimi mesi si nota un aumento di gare da affidarsi
con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Tale tendenza, in mancanza di soluzioni alternative, è da sa-
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lutare con favore, essendo nota la ritrosia – almeno sino ad
oggi - delle amministrazioni a procedervi; e si aggiunge il
“sospetto” con il quale tale meccanismo di gara, almeno nel
passato, era guardato, soprattutto dagli imprenditori.
Ciò in quanto si tratta di procedura più articolata e complessa, con contenuti discrezionali; ed in quanto tale necessitante di una maggiore professionalità e preparazione nella sua
predisposizione e gestione, con aumento del rischio di errori
procedurali e maggiori probabilità di contenzioso.
Così some, sempre su tale versante, è da auspicarsi una
rapida entrata in vigore dell’art. 53 commi 2 e 3 del d.lgs.
163/06 (appalti integrati), attualmente condizionati all’entrata in vigore del (nuovo) Regolamento, ai sensi dell’art. 253
comma 1quinquies del Decreto stesso.
Per i sistemi a massimo ribasso, il meccanismo di calcolo
dell’anomalia dell’offerta si è rivelato, infatti, inadeguato,
essendo fondato sui soli ribassi dei partecipanti e porta a livelli di anomalia incongrui al ribasso, perché basati su una
nozione di anomalia “relativa”, per cui anche quelle non anomale risultano, in realtà, anch’esse, in realtà, anomale.
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Lo stesso potere delle Amministrazioni di procedere, comunque, ed in ogni caso, ad escludere le offerte anche non
anomale (art. 86 co. 3 del d.lgs. 163/06) postula una volontà
amministrativa che potrebbe essere poco controllabile ed,
estremamente, discrezionale e priva di sufficienti garanzie,
oltre che a dar luogo a rallentamenti delle procedure.
Così come il meccanismo di verifica dell’anomalia comporta verifiche amministrative, tecniche e contabili nelle
quali le Amministrazioni non si addentrano agevolmente, da
un lato perché ciò rallenta l’iter di affidamento, dall’altra
perché comunque, nell’immediato, le stesse si giovano di economie, cui è sempre complicato rinunziare.
Di fronte a tale situazione appare necessario intervenire
nel settore, quantomeno per individuare meccanismi volti a
temperare il criterio di calcolo della soglia di anomalia con
elementi esterni svincolati dalle offerte delle imprese stesse, o
comunque, incentivando e, al contempo, maggiormente regolamentando, sistemi di affidamento non automatici.
Altrimenti – sia consentita la provocazione (?) – meglio
per tutti l’estrazione a sorte.
amministrativo
Gazzetta
110
d i r i t t o
●
Rassegna
di giurisprudenza
sul Codice dei contratti
pubblici, di lavori,
servizi e forniture
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato
presso l’Avvocatura Regionale della Campania
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
Aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa – Necessità che tutte le fasi siano espletate collegialmente dalla commissione giudicatrice – Insussistenza – Le fasi
amministrative possono essere espletate dal rup
La gara aggiudicata con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa è una procedura composta da varie
fasi, alcune delle quali necessitano di competenze amministrative ed altre, invece, di competenze tecniche; le fasi amministrative possono essere espletate in seduta pubblica dal
Responsabile Unico del Procedimento atteso che questi, ai
sensi dell’articolo 10, 2° comma del d.lgs. n. 163/2006 “svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice...che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
Cons. Stato, sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7470
Pres. Trovato, Est. Capuzzi
Aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa – Impossibilità per la stazione appaltante di integrare successivamente il bando con riferimento ai subcriteri subpesi
e subpunteggi
Il potere della commissione giudicatrice di suddividere i
criteri in dettagliati sottopunteggi è precluso dalle disposizioni innovative dell’art. 83 del codice dei contratti, il quale
prevede che sia il bando a individuare i sub-criteri, i sub-pesi
ed i sub-punteggi, eliminando in proposito ogni margine di
discrezionalità in capo alla commissione giudicatrice.
La mancata specificazione già nel bando di gara di tutti i
criteri e sub-criteri di valutazione dell’offerta (e dei corrispondenti punteggi e sub-punteggi) deve considerarsi illegittima.
Cons. Stato, sez. V, 01 ottobre 2010, n. 7256
Pres. Cirillo, Est. Russo
Consorzi stabili – Obbligo di specificazione nell’atto costitutivo
dei servizi che saranno espletati dalle singole imprese consorziate – Insussistenza – sufficienza dell’indicazione del nome dei
soggetti consorziati
Nessuna norma impone alle società consortili permanenti che hanno natura stabile ed obiettivi statutari che travalicano la semplice partecipazione ad una gara ma che sono soggetti giuridici differenti dalle associazioni temporanee di imprese, di specificare, nell’atto costitutivo, le tipologie dei servizi da svolgersi da parte delle singole consorziate in occasione delle gare cui la società stessa partecipi: l’art. 36, V comma
del d.lgs. n. 163 del 2006 impone ad essi, infatti, soltanto di
indicare il nome dei soggetti consorziati che diverranno, in
caso di aggiudicazione, materiali esecutori del servizio. Pertanto la norma non richiede che vengano specificate, analogamente a quanto disposto dall’articolo 37 per le a.t.i., anche
le parti del servizio rese da ciascuna consorziata.
Cons. Stato, sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7470
Pres. Trovato, Est. Capuzzi
Controversie relative ad infrastrutture e insediamenti produttivi
– Modalità di tutela dei controinteressati – L’annullamento dell’affidamento non comporta caducazione del contratto stipulato
anche laddove l’amministrazione non abbia rispettato le norme
sostanziali sulla stipulazione
In base all’art. 246, 4° comma del d.lgs. 12 aprile 2006,
n. 163, con riguardo alle infrastrutture di interesse strategico,
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“l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno
eventualmente dovuto avviene solo per equivalente”. Ciò
corrisponde alla ratio di non bloccare l’esecuzione dei lavori,
cui viene attribuito valore preponderante, che non ammette
alcuna deroga.
La norma trova applicazione anche allorquando la amministrazione abbia disatteso la norma di cui all’art. 11, 10°
comma del citato d.lgs. n. 163/2006, secondo la quale “il
contratto non può comunque essere stipulato prima di trenta
giorni dalla comunicazione ai controinteressati del provvedimento di aggiudicazione “ - termine inderogabile per le infrastrutture strategiche.
Detta norma, avente natura sostanziale, è indirizzata alle
stazioni appaltanti e non già al giudice, vincolato, nell’applicazione, a quella - di carattere processuale - contenuta nel
citato art. 246, 4° comma del Codice dei contratti pubblici,
rispetto alla quale essa deve necessariamente recedere, di
fronte all’interesse pubblico alla sollecita realizzazione delle
opere di che trattasi, senz’altro prevalente su quello particolare delle società controinteressate.
Eventualmente la violazione del richiamato art. 11 potrà
assumere rilievo in altra sede, ove se ne dovessero ravvisare i
presupposti ed, in particolare, l’elemento soggettivo, quanto
meno, della colpa grave, per l’individuazione del danno erariale, che comunque potrà, se mai, emergere solo nel caso che
qui si disponga il risarcimento del danno per equivalente.
Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7132
Pres. Barbagallo, Est. Taormina
Principi di pubblicità e trasparenza – Obbligo di pubblicità delle
sedute delle commissioni – Derogabilità da parte della lex specialis limitatamente alla fase dell’apertura dei plichi contenenti le
offerte tecniche
I principi di pubblicità e trasparenza delle sedute della
commissione di gara non sono assoluti, ma derogabili dalla
“lex specialis”, la quale, ove trattisi di gara svolta con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ben può
prevedere la valutazione in seduta riservata dell’offerta tecnica e, per esigenze di economicità della procedura, anche che
tanto sia effettuato previa apertura delle relative buste nel
corso della seduta stessa: l’obbligo di pubblicità delle sedute
delle commissioni di gara riguarda esclusivamente la fase
dell’apertura dei plichi contenenti la documentazione e l’offerta economica dei partecipanti, e non anche la fase di apertura e valutazione delle offerte tecniche mentre il rispetto del
principio di pubblicità si rende doveroso solo nei casi in cui
le attività che devono essere svolte dal seggio di gara implichino la adozione di decisioni suscettibili di riverberarsi sulla
partecipazione o meno dei concorrenti alla procedura (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 14 ottobre 2009 n. 6311; idem, sez. V,
11 maggio 2007 n. 2355).
Cons. Stato, sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7470
Pres. Trovato, Est. Capuzzi
Requisiti di moralità – Dichiarazione ex art. 38 lettere b e c – Oggetto della dichiarazione – La dichiarazione concerne tutti i soggetti muniti del potere di rappresentanza
L’art. 38, lett. b) e c), del d.lgs. n. 163 del 2006, che recepisce sostanzialmente le disposizioni previgenti, è stato inter-
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pretato in modo analogo dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2009, n. 6114;
C.G.A., 11 aprile 2008, n. 312), innanzi tutto nella considerazione che per le società e gli enti l’obbligo di dichiarare
l’assenza del c.d. “pregiudizio penale” concerne tutti i soggetti, in atto, muniti dei poteri di rappresentanza, anche institoria o vicaria, ovvero il direttore tecnico, nonché tutti i
soggetti cessati dalla carica nel triennio antecedente la pubblicazione del bando, indipendentemente dalla circostanza
che non abbiano materialmente speso i loro poteri nella specifica gara.
Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2010, n. 7524
Pres. Piscitello, Est. Amicuzzi
Requisiti di moralità – Dichiarazione ex art. 38 lettere b e c – Modalità della dichiarazione – Dichiarazione resa dal legale rappresentante - Necessità ai fini del rispetto dell’onere dichiarativo
dell’indicazione specifica degli altri soggetti in carica
L’obbligo della dichiarazione può ritenersi assolto dal
legale rappresentante dell’impresa, con la specifica indicazione degli altri soggetti in carica, muniti di rappresentanza,
immuni dai c.d. “pregiudizi penali”.
Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2010, n. 7524
Pres. Piscitello, Est. Amicuzzi
Requisiti di moralità – Dichiarazione ex art. 38 lettere b e c – Dichiarazioni rese dai soggetti cessati dalla carica nel triennio antecedente – Possibilità che vengano rese dagli attuali amministratori
Poiché è ammissibile, in sede di gara pubblica, sostituire il
certificato del casellario giudiziale con una dichiarazione sostitutiva, che può riguardare anche soggetti diversi dal dichiarante, purché si abbia conoscenza diretta del relativo stato, in
ordine alle dichiarazioni che devono essere rese anche dai
“soggetti cessati dalla carica nel triennio antecedente la data
di pubblicazione del bando di gara”, deve ritenersi che le dichiarazioni debbano essere rese anche “con riferimento” a quei
soggetti, e quindi che sia possibile rendere sugli stessi dichiarazioni sostitutive da parte degli attuali amministratori.
Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2010, n. 7524
Pres. Piscitello, Est. Amicuzzi
Requisiti di moralità – Dichiarazione ex art. 38 lettere b e c – Regolarizzazione documentale successiva ex art. 46 – Esclusione
La mancata allegazione, nel termine di scadenza fissato
dal bando, delle dichiarazioni inerenti i soggetti menzionati
non può essere sanata per il tramite dell’istituto della regolarizzazione documentale di cui all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del
2006, atteso che tale rimedio non si applica al caso in cui
l’impresa concorrente abbia integralmente omesso la produzione documentale prevista dall’art. 38 precedente.
Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2010, n. 7524
Pres. Piscitello, Est. Amicuzzi
Requisiti di moralità – Dichiarazione ex art. 38 lettera i - Limiti ed
obblighi di valutazione da parte della stazione appaltante dei
dati risultanti dal durc
Come ritenuto da questo Consiglio -in materia di esclusione dalla partecipazione alle procedure di gara e dalla stipula
dei relativi contratti dei soggetti che “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di
amministrativo
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d i r i t t o
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contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione
italiana e dello Stato in cui sono stabiliti”- l’art. 38, comma 1,
lett. i), del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006)
deve essere interpretato nel senso che il principio dell’autonomia del procedimento di rilascio del DURC (documento unico
regolarità contributiva) impone che la stazione appaltante
debba basarsi sulle certificazioni risultanti da quest’ultimo
documento, prendendole come un dato di fatto inoppugnabile, e debba altresì valutare, innanzi tutto, se sussistono procedimenti diretti a contestare gli accertamenti degli enti previdenziali riportati nel DURC, o condoni, ed in secondo luogo
se la violazione riportata nel DURC, in relazione all’appalto o
fornitura in questione o alla consistenza economica della ditta
concorrente o ad altre circostanze, risulti o no “grave” (Cons.
Stato , sez. III, 29 settembre 2009 , n. 2345).
Cons. Stato, sez. IV, 24 settembre 2010, n. 7132
Pres. Barabagallo, Est. Taormina
Requisiti di moralità – Dichiarazione ex art. 38 lettera i – La reticenza o la consapevole non veridicità della dichiarazione connota
di gravità la violazione e determina esclusione
In tema di omesso versamento dei contributi assicurativi
e previdenziali, i benefici collegati alla regolarizzazione trovano applicazione soltanto a decorrere dalla definizione della
vertenza ovvero solo a seguito dell’accoglimento della richiesta
di rateazione (Cons. Stato, sez V, 7 ottobre 2008, n. 4871).
Giova in proposito osservare che la regolarità contributiva costituisce requisito sostanziale di partecipazione alla
gara, avendo il legislatore ritenuto tale regolarità indice
dell’affidabilità, diligenza e serietà dell’impresa e della sua
correttezza nei rapporti con le maestranze (Cons. Stato, sez.
V, 18 ottobre 2001, n. 5517).
Ne consegue che la piena verifica in merito alle relative
dichiarazioni rientra nei poteri della stazione appaltante (sia
in relazione alle specifiche previsioni del Codice dei contratti, sia con riguardo ai più generali canoni dell’azione amministrativa in materia di documenti amministrativi), riconosciuti come compatibili dalla Corte di Giustizia Europea,
esclusa ovviamente ogni esclusione automatica (Cons. Stato,
sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2876)
Peraltro, alla stregua della costante giurisprudenza di
questa Sezione (IV, 27 dicembre 2004, n. 8215), la regolarità contributiva e fiscale, richiesta come requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, deve essere mantenuta
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per tutto l’arco di svolgimento della gara stessa, sicché legittimamente l’Amministrazione può accertare, a fronte di
DURC negativi, sia l’insussistenza del requisito normativamente richiesto, sia la non veridicità e reticenza sulle dichiarazioni rese in sede di gara e nel corso delle verifiche in contraddittorio.
La consapevolezza della mancata correttezza contributiva
connota di gravità “tout court” la violazione, essendo la ricorrente onerata, al momento della domanda di partecipazione,
e proprio al fine di evitare false dichiarazioni, di rappresentare
l’eventuale insoluto, la sua entità e le ragioni che l’avessero
determinato, al fine di instaurare, essa stessa, un leale contraddittorio sul punto onde consentire alla stazione appaltante di
escludere la gravità e definitività della violazione.
Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre 2010, n. 6907
Pres. Maruotti, Est. Carella
Requisiti soggettivi degli aggiudicatari – Raggruppamenti temporanei di concorrenti – Possibilità di modificazioni successive
della composizione consistenti nel recesso di una o più imprese
partecipanti
Il divieto di modificazione soggettiva non ha l’obiettivo
di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara. Il rigore di detta
disposizione va, infatti, temperato in ragione dello scopo che
persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante,
in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte
dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di
precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari. Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è evidente come le uniche modifiche soggettive elusive
del dettato legislativo siano quelle che portano all’aggiunta
o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche
quelle che conducono al recesso di una delle imprese del
raggruppamento; in tal caso, infatti, le esigenze succitate non
risultano affatto frustrate poiché l’Amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell’impresa o delle
imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad
impedire non possono verificarsi (Cons. Stato, sez. VI, 13
maggio 2009, n. 2964).
Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2010 n. 6546
Pres. Baccarini, Est. Mele
Diritto tributario
L’affitto di azienda: recenti orientamenti in tema di detrazione dell’imposta
sul valore aggiunto
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Maria Pia Nastri
Nota a Corte di Cassazione, ord. int. 16 luglio 2010, n. 16722
Raffaele Cantone
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tributario
Le targhe degli studi professionali sono esenti dall’imposta
e dal canone sulla pubblicità
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●
L’affitto di azienda:
recenti orientamenti
in Clelia
tema
di detrazione
●
Buccico
Professore aggregato di Diritto tributario
dell’imposta
presso la Seconda Università degli Studi di Napoli
sul valore aggiunto
● Maria Pia Nastri
Ricercatrice di diritto tributario
Università Suor Orsola Benincasa - Napoli
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Sommario: 1. L’affitto d’azienda: aspetti generali - 2.
L’imposta sul valore aggiunto e l’imposta di registro: ratio
dell’alternatività tra le due imposte - 3. L’affitto da parte
dell’imprenditore individuale titolare di un’unica azienda - 4.
L’affitto d’azienda nell’imposta sul valore aggiunto - 5. Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di detrazione Iva
in caso di affitto di azienda.
1. L’affitto d’azienda: aspetti generali
L’affitto di azienda è un contratto attraverso cui il proprietario concede un diritto personale di godimento ad un terzo
soggetto a fronte del corrispettivo di un canone, mentre l’affittuario assume la disponibilità di un complesso organizzato
di beni e servizi senza dover investire il capitale iniziale1.
All’affittuario viene, infatti, attribuito un diritto di godimento sull’azienda intesa nella sua globalità, a prescindere dai
singoli beni ad essa afferenti; l’affitto di azienda, infatti, non
prevede necessariamente che siano trasferiti tutti i beni che
costituiscono la stessa, in quanto alcuni di essi potranno non
rientrare nel contratto, purché non compromettano l’unità dei
beni aziendali.
I vantaggi economici si presentano sotto molteplici profili
che investono sia il concessionario che il concedente: infatti,
la scelta di cedere la propria azienda in gestione ad altro soggetto scaturisce da scelte imprenditoriali talvolta pianificate
per il successivo trasferimento dell’azienda, talvolta, invece,
rappresenta una soluzione per limitare il rischio aziendale, in
tal modo il concedente si garantisce un rendimento periodico
rappresentato dal canone e conservando, però, il valore
dell’azienda concessa in affitto.
La disciplina del codice civile in tema di affitto di azienda
è assi scarna, si limita infatti, ad un rinvio che l’art. 2562 c.c.
fa all’art. 2561 c.c. sull’usufrutto d’azienda.
L’affittuario, come l’usufruttuario di azienda, deve gestirla: “senza modificarne la destinazione e in modo da conservare la efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte” (art. 2561 c.c.) pena applicazione
dell’art. 1015 c.c. (abusi dell’usufruttuario).
Inoltre per la durata del contratto di affitto di azienda è
fatto divieto al locatore di svolgere attività in concorrenza con
quella ceduta (art. 2557, comma 4, c.c.) divieto derogabile
dalle parti poiché l’interesse tutelato risulta essere pienamente
disponibile.
Il contratto di affitto è, quindi, un contratto consensuale
con prestazioni corrispettive ad effetti obbligatori: il proprietario cede in godimento l’azienda all’affittuario dietro pagamento di un corrispettivo per un determinato periodo di
tempo.
L’affittuario assume la veste giuridica di imprenditore e
gestirà l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue senza
modificarne la destinazione e conservandone l’efficienza
dell’organizzazione degli impianti e delle normali dotazioni di
scorte (ex art. 2561 c.c.), mentre il concedente resterà totalmente estraneo all’attività di gestione svolta dall’affittuario. Il
costo relativo al normale logorio e deperimento dei beni - sempre ai sensi del citato articolo 2561 c.c.-, ricadrà, salvo deroga
1 Cfr. M. P. Nastri, L’affitto di azienda, Fondazione italiana per il notariato,
Gruppo 24 ore, 2010; F. Tassinari, L’affitto di azienda tra norme di legge e
clausole di autonomia privata, in Notariato, 2010, p. 531 e ss.
tributario
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alla predetta disposizione sull’affittuario. L’art. 2561, comma
4, c.c. dispone, infatti, che la differenza tra le consistenze
dell’inventario all’inizio ed al termine dell’affitto deve essere
regolata in denaro tra le parti, sulla base dei valori correnti al
termine dell’affitto.
All’affitto d’azienda, è altresì applicabile l’art. 2556 c.c. in
tema di obbligo di forma e pubblicità, anche se riferito alla
cessione d’azienda; la forma scritta è richiesta per la pubblicità, per la prova degli accordi intervenuti, tuttavia, il contratto produce effetti obbligatori tra le parti anche se stipulato in altra forma.
Considerati i continui rinvii della normativa, la disciplina
dell’affitto di azienda non è sempre di facile applicazione,
salvo che sopperiscano esplicite convenzioni pattizie.
Tuttavia, la carenza di un quadro normativo esaustivo
conferisce a detto contratto la peculiare caratteristica di strumento flessibile, l’autonomia contrattuale, assume, infatti, un
ruolo fondamentale nella disciplina dei rapporti tra le parti
contraenti.
Naturalmente gli aspetti fiscali concernono sia l’imposizione diretta che indiretta, in questo breve lavoro ci limiteremo a trattare alcuni profili relativi all’imposizione indiretta
con particolare riferimento all’Iva.
2. L’imposta sul valore aggiunto e l’imposta di registro:
ratio dell’alternatività tra le due imposte
In base al noto principio, se un atto è soggetto ad Iva secondo la relativa disciplina (d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633)
non può essere assoggettato ad imposta di registro2. L’alternatività, tuttavia, esclude solo l’applicazione dell’imposta di
registro proporzionale, pertanto le operazioni soggette ad Iva
sconteranno l’imposta di registro in misura fissa3.
Il principio contiene in sé due aspetti: l’uno concerne il
prelievo in misura fissa dell’imposta di registro, ipotecaria e
catastale, per gli atti soggetti ad imposta sul valore aggiunto,
e l’altro relativo ad un aspetto formale prevede la registrazione in caso d’uso per tali atti ad eccezione dei casi in cui siano
redatti in forma scritta o scrittura privata autenticata. Detto
principio non trova fondamento nelle disposizioni comunitarie sull’Iva, ma tende a temperare il prelievo delle altre imposte indirette onde evitare aggravi nell’imposizione ed effetti
distorsivi della concorrenza4.
Infatti, al comma 2 dell’art. 5 e al comma 1 dell’art. 40,
detto principio viene analogamente disciplinato prevedendo,
per gli atti relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi
2 L’alternatività, introdotta con la legge delega per la riforma tributaria l. 9 ottobre 1971,
n. 825, con l’art. 7 comma 2, n. 1) secondo cui: “Le disposizioni da emanare dovranno in particolare prevedere: 1) l’applicazione in misura fissa dell’imposta di registro,
dell’imposta ipotecaria sulle trascrizioni e dei tributi catastali sugli atti che prevedono
corrispettivi soggetti all’imposta sul valore aggiunto e l’assoggettamento di tali atti
alla registrazione solo in caso d’uso sempreché non si tratti di atti pubblici o di scritture private autenticate”. Detta disposizione ha disposto l’applicazione in misura
fissa dell’imposta di registro, nonché di altri tributi sugli atti che contemplano corrispettivi soggetti all’imposta sul valore aggiunto.
3 Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, Cedam, 2008, p. 726.
4 Cfr., A. Fedele, Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’Iva e nella imposta
di registro, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, “Atti del Convegno
di San Remo”, 21-23 marzo 1980, Padova, 1981, p. 175; M. Basilavecchia, Problematiche concernenti il nuovo sistema di alternatività tra Iva e imposte sui trasferimenti della ricchezza, in Novità e problemi nell’imposizione tributaria relativa agli
immobili , in Quaderni della fondazione italiana del notariato, Milano, Il sole 24 ore
2006, p. 101 e ss.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
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soggetti all’imposta sul valore aggiunto, l’applicazione in
misura fissa.
Il principio dell’alternatività opera sia con riferimento alle
operazioni imponibili ai fini Iva, sia con riguardo alle operazioni non imponibili nonché a molte delle operazioni esenti. Sono
soggette all’imposta sul valore aggiunto anche le cessioni e le
prestazioni per le quali l’imposta non è dovuta a norma dell’art.
7 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 e quelle di cui all’art. 21, al
comma 6, ad eccezione delle operazioni esenti ai sensi dell’articolo 10, numeri 8), 8-bis) e 27-quinquies), dello stesso decreto.
Le operazioni imponibili ai fini Iva, le operazioni non
imponibili e quasi tutte le operazioni esenti sono da assoggettare a registrazione in termine fisso con pagamento dell’imposta di registro in misura fissa, se risultano da atto pubblico
o da scrittura privata autenticata ed in caso d’uso, nell’ipotesi in cui risultino da scritture private non autenticate5.
In merito all’affitto di azienda è necessario, innanzitutto,
esaminare il profilo soggettivo per escludere dal campo di
applicazione dell’Iva il caso in cui il concedente sia un imprenditore individuale titolare dell’unica azienda concessa in affitto, dal caso in cui, invece, il concedente sia un imprenditore individuale che affitti una delle sue aziende o un ramo
d’azienda, oppure una società o un ente indicati nell’art. 4 del
d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
3. L’affitto da parte dell’imprenditore individuale titolare di
un’unica azienda
Ai sensi dell’4, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972 per esercizio d’impresa s’intende, l’attività svolta come professione
abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o
agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l’esercizio di attività,
organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di
servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c. Pertanto, un’attività economica, agricola o commerciale, anche se non necessariamente in forma organizzata, per rientrare nel campo di
applicazione Iva, deve essere svolta per professione abituale,
ancorché non esclusiva.
In campo tributario la nozione d’imprenditore appare, più
ampia di quella civilistica come disciplinata nell’art. 2082 c.c.,
infatti, il codice civile utilizza un criterio soggettivo di definizione di imprenditore, mentre il legislatore in materia fiscale utilizza un criterio oggettivo, incentrato sull’attività di
impresa, la quale non deve essere esercitata necessariamente
in maniera organizzata, come previsto dall’art. 2082 c.c., ma
unicamente per professione abituale e nella forma di attività
commerciale o agricola di cui agli artt. 2135 e 2195 c.c.
Sarà, quindi, imprenditore individuale il soggetto passivo
Iva che compie operazioni, quali cessioni di beni e/o prestazioni di servizi, nell’esercizio professionale di una attività commerciale od agricola, ovvero nell’esercizio di attività, organizzate
in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non
rientrano nell’art. 2195 c.c. Sono, quindi, escluse dal campo di
applicazione dell’imposta le operazioni che il soggetto stesso
pone in essere al di fuori dell’esercizio dell’attività di impresa6.
5In relazione alla definizione di operazioni imponibili, non imponibili ed esenti
ai fini Iva si rinvia al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 agli artt. 1, 8, 8-bis, 9, 10
e 38-quater.
6 Cfr. L. Nastri , M. Nastri, Manuale applicativo dell’imposta di registro, Mila-
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
Appare evidente che in caso di affitto di azienda da parte
di imprenditore individuale, che possiede un’unica azienda,
trattandosi di soggetto che non potrà più svolgere un’attività
di impresa, l’operazione sarà esclusa dal campo di applicazione Iva per carenza del requisito soggettivo7. Infatti, il locatore, titolare dell’unica azienda concessa in affitto, con detto
contratto perde lo status di soggetto passivo d’imposta e
l’operazione non potrà essere assoggettata ad Iva, ma ad imposta di registro8.
L’art. 23 del TUR prevede l’applicazione dell’aliquota più
elevata (3%), fatto salvo il caso in cui per i beni siano stati
distinti i singoli corrispettivi:in tal caso i canoni riferiti ai
beni immobili saranno, assoggettati all’aliquota del 2%,
mentre i beni mobili a quella del 3%.
Sotto il profilo meramente operativo, naturalmente l’esercizio dell’attività imprenditoriale sarà sospeso temporaneamente, considerato che, in genere, l’imprenditore riprenderà
la gestione dell’azienda alla scadenza del contratto9. La sospensione temporanea della soggettività determina il mantenimento del numero di partita Iva che tornerà nella titolarità
del soggetto al termine del contratto di affitto. A tal fine sarà
necessario presentare entro 30 giorni un modello di cessazione attività con sospensione di tutti gli adempimenti contabili
compresi quelli relativi all’obbligo della dichiarazione10.
4. L’affitto d’azienda nell’imposta sul valore aggiunto
La corretta applicazione dell’imposta sul valore aggiunto
in caso di affitto di azienda impone la distinzione tra affitto
di azienda commerciale, azienda agricola o locazione di immobile.
Per brevità di materia, ci si limiterà in questa sede, ad
evidenziare che la corretta qualificazione non è sempre agevole a causa della complessità delle disposizioni normative in
materia che sono state aggiunte o modificate via, via nel tempo con finalità meramente antielusive.
Ricordiamo, preliminarmente, che ai fini della imponibilità iva devono ricorrere i tre requisiti soggettivo, oggettivo e
territoriale.
Il profilo soggettivo prevede quale presupposto essenziale
la qualità di imprenditore commerciale da parte del soggetto
che pone in essere l’affitto d’azienda.
L’affitto di azienda è, quindi, soggetto ad iva ad eccezione
del caso dell’imprenditore individuale titolare di un’unica
azienda. In tale ipotesi, come innanzi esaminato, il locatore
perde lo status di soggetto passivo iva, quindi, la prestazione
no, Giuffrè, 1996, p. 444.
7 Sono escluse dal campo di applicazione dell’Iva le operazioni poste in essere
dell’erede dell’imprenditore che non prosegue l’attività e gli enti non commerciali che affittano l’unica azienda. In tali ipotesi non vi è esercizio di attività di
impresa, pertanto l’affitto sarà assoggettato ad imposta di registro come meglio
analizzato nel capitolo successivo.
8 Cfr. Circ. min., 19 marzo 1985 n. 26 par. 11, in banca dati Fisconline. Anche
sotto il profilo dell’imposizione diretta, come evidenziato nel cap. II, l’affitto e
la concessione in usufrutto dell’unica azienda da parte dell’imprenditore non si
considerano effettuati nell’esercizio dell’impresa e quindi sono attratti nei
redditi diversi ex l’art. 67, lett. h) del d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917.
9 Cfr. Circ. min., 19 marzo 1985 n. 26, cit., Circ. min. 4 novembre 1986 n.
72/14552 in banca dati Fisconline.
10In merito vi sono delle incertezze: a titolo cautelativo si può ipotizzare la presentazione di un modello di dichiarazione con importi pari a zero, tuttavia
detta ipotesi, è in contrasto con la presentazione di un modello di cessazione,
sebbene temporaneo, sul punto v. D. Bondavalli, L’affitto di azienda, Milano
2007, p. 146 e ss.
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117
sarà soggetta ad imposta di registro e non ad Iva11.
Sotto il profilo iva è irrilevante perchè fuori del campo di
applicazione, l’affitto di azienda posto in essere da privato ad
es. erede dell’imprenditore che affitti l’azienda.
Non è, quindi, sufficiente la titolarità dell’azienda da
parte della persona fisica, bensì l’esercizio dell’attività d’impresa; pertanto, l’affitto di un ramo di azienda o di una delle
aziende consentono al soggetto, persona fisica, di non perdere il proprio requisito soggettivo ai fini iva se continuerà a
svolgere la propria attività imprenditoriale
Il requisito soggettivo sussiste in caso di affitto di azienda
da parte di società commerciali ed enti non commerciali per
i quali è prevista la presunzione iuris et de iure di soggettività iva ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.P.R. 633/72.
Sotto il profilo oggettivo si ricorda che costituiscono prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo le concessioni di beni in locazione, affitto, noleggio e simili, pertanto
l’affitto di azienda rientra nelle prestazioni di servizi.
In relazione al profilo territoriale è necessario, inoltre,
distinguere l’affitto di azienda effettuata nel territorio dello
Stato, dagli atti formati all’estero.
In presenza di detti elementi l’affitto di azienda rientrerà,
nell’ambito di applicazione Iva con aliquota del 20% e imposta fissa di registro in misura fissa pari a 168.00 euro.
In merito al momento impositivo ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 l’affitto di azienda si
considera effettuato all’atto del pagamento del corrispettivo12.
Infatti, il comma 5 del predetto articolo dispone l’esigibilità
dell’imposta sul valore aggiunto al momento in cui l’operazione si considera effettuata. Trattandosi di una prestazione di
servizi all’atto del pagamento del corrispettivo sorgerà l’obbligo di emissione della fattura con relativo addebito dell’Iva
da parte del locatore. L’emissione della fattura ai sensi dell’art.
21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 potrà avvenire al momento della stipula del contratto nel caso in cui venga corrisposto per intero il canone pattuito, oppure in misura frazionata periodicamente con riferimento a ciascuna rata del canone percepita.
Naturalmente chiariti gli aspetti concernenti la tassazione
del canone di locazione per affitto di azienda, numerosi sono
i problemi che si pongono in tema di detrazione delle spese
inerenti l’attività in parola come di seguito verrà esaminato.
5. Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di detrazione
dell’Iva in caso di affitto di azienda
In tema di detrazione Iva è interessante esaminare alcuni
recenti orientamenti della Corte di Cassazione in tema di
detrazione dell’imposta.
La Suprema Corte, infatti, con due recenti sentenze la n.
10079 del 30 aprile 2009 e la n. 281 del 12 gennaio 2010
esamina la detraibilità dal parte dell’affittuario delle spese di
11 Cfr. L. Nastri, M. Nastri, Manuale applicativo delle imposte indirette, cit. p.
444 e ss.
12 Per ulteriori approfondimenti in ambito Iva v. R. Perrone Capano, L’imposta
sul valore aggiunto, Napoli, 1977; F. Gallo, Profili di una teoria dell’’imposta
sul valore aggiunto, Roma, 1974; P. Filippi, Valore aggiunto (imposta sul), in
Enc. dir., XLVI, Milano, Giuffrè, 1993, p. 125 e ss; S. Sammartino - D. Coppa,
Valore aggiunto (imposta sul), in Nov. mo Dig. It. Appendice, vol. VII, Torino,
Utet, 1987, p. 1053; M. Ingrosso, Le operazioni imponibili ai fini Iva, in Dir.
e prat. trib., 1973, I, p. 480.
tributario
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d i r i t t o
ristrutturazione e delle spese di manutenzione ordinaria e
straordinaria13.
Dall’indagine emerge un’analisi del profilo soggettivo del
concessionario nel rispetto del regime di neutralità dell’Iva.
La sentenza n. 10079 del 2009 evidenzia come l’Agenzia
delle Entrate contesti al contribuente l’indebita detrazione
dell’Iva pagata sugli acquisti destinati alla ristrutturazione di
edifici rurali compresi nell’azienda agricola condotta in affitto. L’ufficio, infatti, considera i costi non inerenti all’attività
esercitata dal contribuente, perché questi, mero conduttore, e
non proprietario dei beni oggetto della ristrutturazione. Dalla sentenza si evince inoltre, a supporto delle argomentazioni
dell’Agenzia, che i lavori fossero stati autorizzati dal proprietario.
La Corte di Cassazione rileva che il motivo riconducibile
all’inerenza delle spese in capo al proprietario è erronea: infatti, non è corretto considerare il proprietario del fondo come
destinatario o consumatore finale dei lavori di ristrutturazione dei fabbricati rurali, che costituivano – come il resto
dell’azienda agricola – beni destinati all’esercizio dell’impresa
agraria, della quale l’attività agrituristica è anche normativamente contemplata come parte integrante (l. 5 dicembre 1985,
n. 730). Secondo la Corte, infatti, le spese di miglioramento
dei locali destinati all’agriturismo rientrano fra le spese generali che gli ospiti dell’azienda agraria compensano col prezzo
del soggiorno.
Infatti, se si tratta di spese di manutenzione ordinaria il
presupposto su cui si fonda la detraibilità è lo stesso su cui è
basato il diritto di dedurre gli ammortamenti, per cui generalmente spetterà all’affittuario, salvo deroga all’art. 2561 c.c.
è necessario evidenziare che l’affittuario in mancanza di
deroga è obbligato a gestire l’azienda in modo da conservare
l’efficienza dell’organizzazione, degli impianti e le normali
dotazioni di scorte. Detto obbligo rappresenta un onere per
l’affittuario di sostenere le spese di manutenzione ordinaria e
di sostituzione dei beni deteriorati o logorati, mentre le cd.
spese di manutenzione straordinaria sono poste a carico del
proprietario, salvo che una specifica clausola non disponga
che anche tali spese vanno sostenute dall’affittuario.
Diversamente le spese di manutenzione straordinaria incrementano il valore del bene aumentandone la produttività
o la vita utile con al fine di conseguire un miglioramento del
risultato economico, invece, quelle di manutenzione ordinaria
rappresentano un costo volto a mantenere in buono stato di
funzionamento i beni aziendali. Nel caso di specie la Cassazione ha riconosciuto la detraibilità in capo all’affittuario in
considerazione del fatto che le spese effettuate fossero da
considerare rientranti nell’ambito della normale gestione
dell’azienda (miglioramento di fondi rustici).
La seconda sentenza, innanzi citata, esamina il profilo
soggettivo e la detraibilità delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria14.
13 Cfr. Cass., sez. trib., 20 aprile 2009, n. 10079; Cass., sez. trib., 12 gennaio 2010,
n. 281, in banca dati Fisconline.
14 Cass., sez. trib., 12 gennaio 2010, n. 281, cit., che in tema di detrazioni per
spese sostenute per la ristrutturazione dei locali dati in concessione a terzi evidenzia che le spese sostenute dalla contribuente non sono inerenti all’attività
imprenditoriale in questione, considerato che la ricorrente non svolgeva di
fatto detta attività, gestita invece da un soggetto terzo, limitandosi a percepire
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In questo caso però, l’ufficio impositore ritiene illegittima
la detrazione dell’Iva per spese di ristrutturazione dell’immobile e l’acquisto di attrezzature da parte del concedente.
Nel caso esaminato, l’Agenzia delle entrate contesta al
proprietario il mancato esercizio dell’attività e l’inerenza
delle spese sostenute. Infatti, pur rivestendo il proprietario il
requisito soggettivo di imprenditore, l’azienda era stata concessa in affitto.
Secondo l’amministrazione non è legittima la detrazione
dell’Iva pagata in rivalsa dal contribuente per l’acquisto di
beni e servizi relativi ad immobili dati in locazione a terzi al
di fuori della propria attività d’impresa e quindi non direttamente strumentali all’attività del soggetto.
Ricordiamo, infatti, che l’art. 19 del d.P.R. 633/72 richiede la stipula dei contratti dall’imprenditore nell’esercizio
della sua attività e l’inerenza alla medesima attività.
Le spese sostenute dal proprietario dell’azienda per la ristrutturazione dei locali dati in concessione a terzi non sono
inerenti all’attività imprenditoriale in questione, considerato,
altresì, che la concedente non svolgeva di fatto detta attività,
gestita da un terzo, limitandosi a percepire i compensi derivanti dalla concessione in affitto della propria azienda.
Appare, quindi, evidente dall’esame delle due sentenze che
in tema di detrazione Iva per spese di ristrutturazione o non
meglio precisate spese di manutenzione non vi è chiarezza.
Infatti, l’Agenzia delle entrate, nel primo caso, sostiene la
detraibilità a carico del concedente anche in assenza di espressa deroga dell’art. 2561 c.c., mentre, nel secondo, sostiene la
detraibilità a carico dell’affittuario.
Tuttavia, la Suprema Corte risulta avere un orientamento
coerente.
Infatti, riconosce la detrazione in capo all’affittuario in
entrambe le fattispecie, seguendo le seguenti motivazioni:
nella prima sentenza i giudici della Corte riconoscono all’affittuario la detrazione dell’Iva sulle spese ristrutturazione in
relazione all’inerenza delle spese effettuate rispetto all’attività di gestione svolta dall’affittuario stesso; nella seconda
sentenza la Suprema Corte non riconosce la detrazione a favore del concedente in relazione alla mancata inerenza dei
costi sostenuti dallo stesso per mancanza del requisito di
inerenza degli stessi rispetto all’attività concessa in affitto.
È necessario evidenziare, quindi, innanzitutto la rilevanza
di una corretta qualificazione del tipo di spese di manutenzione, ordinarie o straordinarie, nonché la sussistenza di una
eventuale deroga in forma scritta avente data certa.
Tuttavia, anche se sussiste la deroga all’art. 2561 c.c. non
è sempre detto che il concedente soggetto passivo Iva imprenditore o società avrà diritto alla detrazione, sarà necessario
verificare a secondo dei casi, se i costi sono da considerare
inerenti. In sintesi ciò che è importante sottolineare è che non
sempre la sussistenza del requisito soggettivo è sufficiente a
giustificare il diritto alla detrazione sarà necessario verificare
anche l’inerenza della spesa rispetto all’attività svolta.
i compensi derivanti dalla concessione in affitto della propria azienda.
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●
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CORTE DI CASSAZIONE, sezione tributaria,
sentenza 16 luglio 2010, n. 16722;
Pres. Altieri, Est. Virgilio
● Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
Tributi locali – Imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle
pubbliche affissioni – Targhe degli studi professionali – Recanti
indicazione dei nominativi e ubicazioni dello studio – Assoggettamento ad imposta – Esclusione – Limiti
(art. 17, d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507; art. 62 d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446; art. 10 l. 28 dicembre 2001, n. 448; art.
2-bis d.l. 22 febbraio 2002, n. 13; l. 24 aprile 2002 n. 75).
La causa di esenzione dall’imposta di pubblicità prevista
dal comma 1-bis dell’art. 17 del d.lgs. n. 507 del 1993 (introdotto dall’art. 10 della l. 28 dicembre 2001 n. 448) e la causa
di esenzione dal canone della pubblicità prevista dall’art. 2-bis
del d.l. n. 13 del 2002 conv., in l. n. 75 del 2002, pur riguardando “le insegne di esercizio di attività commerciali e produzione di beni e servizi che contraddistinguono la sede ove
si svolge l’attività”, si applicano anche alle insegne che svolgono analoga funzione per gli studi professionali.
(Omissis)
Svolgimento del processo
1. G. e T.M. propongono ricorso per cassazione avverso la
sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello
dei contribuenti, avvocati, è stata confermata la legittimità
dell’avviso di accertamento emesso nei loro confronti dalla
Ausonia Servizi Tributari s.p.a. quale concessionaria per l’accertamento e la riscossione dell’imposta sulla pubblicità del
Comune di Caserta - per imposta sulla pubblicità dovuta, per
l’anno 2002, per l’esposizione della targa recante l’indicazione
dello studio professionale.
Il giudice a quo, in particolare, da un lato, ha ritenuto che
la targa, adiacente al portone di ingresso e riportante solo i
nominativi, l’attività esercitata e l’ubicazione dello studio,
senza specificazione di altre caratteristiche o peculiarità, fosse comunque assoggettata all’imposta, e, dall’altro, ha negato
l’applicabilità della norma di esenzione di cui al d.lgs. n. 507
del 1993, art. 17, comma 1-bis, comma introdotto dalla L. 28
dicembre 2001, n. 448, art. 10, comma 1, lett. c).
2. Resiste con controricorso la San G. s.p.a., incorporante
la A. Servizi Tributari s.p.a., mentre non si è costituito il Comune di Caserta.
Motivi della decisione
1. Con l’unico complesso motivo formulato, i ricorrenti,
denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata (in modo non del tutto lineare,
ma tuttavia sufficiente ad individuare i motivi di doglianza e,
quindi, a superare il vaglio della ammissibilità del ricorso,
contestata dalla controricorrente) sostenendo, in generale, la
non assoggettabilità ad imposta sulla pubblicità delle targhe
– come quella oggetto di controversia – recanti unicamente
l’indicazione dei nominativi, dell’attività professionale e
dell’ubicazione dello studio, senza altre specificazioni, poiché
in tali ipotesi mancherebbe la struttura e la finalità del messaggio pubblicitario; e, comunque, invocando l’applicazione
della norma di esenzione sopra indicata, la quale si riferirebbe
a qualsiasi insegna finalizzata a contraddistinguere il luogo di
tributario
Le targhe degli studi
professionali sono esenti
dall’imposta e dal canone
sulla pubblicità
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d i r i t t o
svolgimento di un’attività di offerta di servizi dietro corrispettivo, secondo l’interpretazione fornita dalla stessa Amministrazione finanziaria, in conformità alla giurisprudenza della
Corte di giustizia.
2.1. Il ricorso è fondato nei termini appresso specificati.
Questa Corte, in conformità ad un indirizzo interpretativo già espresso in passato con riferimento al previgente d.P.R.
n. 639 del 1972, ha recentemente ribadito, in generale, con
riguardo alla disciplina di cui al d.lgs. 15 novembre 1993, n.
507, (e con riferimento a fattispecie sottratta, ratione temporis, all’applicabilità del citato art. 10 della legge n. 448 del
2001), il principio secondo il quale sono da considerare mezzi pubblicitari, e sono quindi assoggettate al tributo, le targhe
e le insegne che rechino dei messaggi pubblicitari tali da sollecitare la domanda di beni e servizi, con la conseguenza che
il presupposto d’imponibilità, di cui all’art. 5, del d.lgs. citato,
va ricercato nell’astratta possibilità che il messaggio, in rapporto all’ubicazione del mezzo, possa avere un numero indeterminato di destinatari, che diventano tali solo perché vengono a trovarsi in un luogo determinato (nella specie è stata
ritenuta soggetta ad imposta la targa indicativa di uno studio
di un avvocato esposta in un cortile che, pur privato, era
aperto al pubblico) (Cass. n. 22572 del 2008, che richiama
Cass. n. 1930 del 1990; cfr., anche, sempre in tema di targhe
di studi professionali, Cass. n. 9577 del 1992, e, nella vigenza del d.lgs. n. 507 del 1993, in generale, Cass. n. 15654 del
2004, secondo la quale qualsiasi mezzo di comunicazione con
il pubblico, il quale risulti - indipendentemente dalla ragione
e finalità della sua adozione - obbiettivamente idoneo a far
conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di
possibili acquirenti ed utenti il nome, l’attività ed il prodotto
di una azienda, è soggetta ad imposta sulla pubblicità, restando irrilevante che detto mezzo di comunicazione assolva pure
una funzione reclamistica o propagandistica).
2.2. La l. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, comma 1,
lett. c), ha aggiunto (con effetto dal 1 gennaio 2002) al d.lgs.
n. 507 del 1993, art. 17, dopo il comma 1, il comma 1-bis, il
quale stabilisce, per quanto qui interessa, che “l’imposta non
è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e
produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede
ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati”.
Inoltre, in tema di canone per l’installazione di mezzi
pubblici tari, che i comuni, ai sensi del d.lgs. n. 446 del 1997,
art. 62, possono istituire in sostituzione dell’imposta sulla
pubblicità (e che costituisce una mera variante di quest’ultima
e conserva, quindi, la qualifica di tributo propria di essa:
Cass., sez. un., nn. 23195 del 2009 e 11090 del 2010), il d.l.
22 febbraio 2002, n. 13, art. 2-bis, (aggiunto dalla legge di
conversione 24 aprile 2002, n. 75), ha stabilito, “analogamente a quanto previsto” dalla citata l. n. 448 del 2001, art. 10,
una identica fattispecie di esenzione, precisando ulteriormente, con disposizione di evidente natura interpretativa anche di
quest’ultima norma, che “si definisce insegna di esercizio la
scritta di cui al regolamento di cui al d.P.R. 16 dicembre 1992,
n. 495, art. 47, comma 1, che abbia la funzione di indicare al
pubblico il luogo di svolgimento dell’attività economica”.
Infine, la Circolare del Ministero dell’economia e delle
finanze, Dipartimento per le politiche fiscali, n. 3 del 3 maggio 2002 ha ritenuto che “devono essere ricomprese tra le
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fattispecie che godono del beneficio in questione (....) i mezzi
pubblicitari esposti dai professionisti (medici, avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, ecc.), che possono rientrare
nella definizione di cui al citato d.P.R. n. 495 del 1992, art.
47, in quanto assolvono al compito di individuare la sede
dove si svolge un’attività economica”.
2.3. Ritiene il Collegio che la tesi esposta dall’Amministrazione nell’anzidetta circolare debba essere condivisa.
E’ pur vero che la norma di esenzione in esame, richiamando le “attività commerciali” e quelle di “produzione di
beni o servizi”, sembra riferibile, in senso letterale, alle attività esercitate dall’imprenditore e non anche a quelle svolte
dal libero professionista.
Tuttavia, deve considerarsi che, secondo la consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’ambito del diritto
della concorrenza, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi
entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo
status giuridico della detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (cfr., ad es., sentenze 23 aprile 1991, causa
C-41/90, Hofner e Elser; 11 dicembre 1997, causa C-55/96,
Job Centre), e costituisce un’attività economica qualsiasi attività consistente nell’offrire beni o servizi su un mercato determinato (sentenze 16 giugno 1987, causa 118/85, Commissione/Italia; 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione/
Italia, sugli spedizionieri doganali). Si è, pertanto, in particolare, ritenuto che, “gli avvocati offrono, dietro corrispettivo,
servizi di assistenza legale consistenti nella predisposizione di
pareri, di contratti o di altri atti, nonchè nella rappresentanza
e nella difesa in giudizio. Inoltre, essi assumono i rischi finanziari relativi all’esercizio di tali attività poiché, in caso di
squilibrio tra le spese e le entrate, l’avvocato deve sopportare
direttamente l’onere dei disavanzi.” E si è concluso che gli
avvocati “svolgono un’attività economica e, pertanto, costituiscono imprese ai sensi degli artt. 85, 86 e 90 del Trattato,
senza che la natura complessa e tecnica dei servizi da loro
forniti e la circostanza che l’esercizio della loro professione è
regolamentato siano tali da modificare questa conclusione”
(sentenza 19 febbraio 2002, causa C-309/99, Wouters).
Ne deriva che, in ossequio ai richiamati principi del diritto comunitario, non è ammissibile che l’avvocato (e il libero
professionista in genere) possa essere soggetto, nella materia
de qua, ad un regime fiscale differenziato - e più gravoso rispetto a quello riservato a coloro che svolgono una qualsiasi altra attività economica (in regime concorrenziale).
2.4. Va aggiunto che l’anzidetta conclusione è anche conforme ad una interpretazione costituzionalmente orientata
della normativa in esame: premesso, infatti, che, secondo la
giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte,
anche le norme concernenti agevolazioni e benefici tributari,
pur essendo frutto di scelte discrezionali del legislatore, possono essere oggetto di interpretazione estensiva quando ciò
sia imposto dalla ratio legis (cfr., da ult., Corte cost. n. 202
del 2003 e Cass. n. 8361 del 2002), non può non osservarsi
che l’esclusione dall’ambito applicativo della norma de qua
delle targhe degli studi professionali (le quali resterebbero
assoggettate ad imposta, a meno che non superino la superficie di trecento centimetri quadrati, ai sensi del d.lgs. n. 507
del 1993, art. 7, comma 2) risulterebbe in contrasto con la
finalità, perseguita dalla legge, di sottrarre ad imposizione
(entro i previsti limiti dimensionali) le indicazioni aventi lo
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scopo prevalente (proprio in considerazione delle ridotte dimensioni) di identificare il luogo di esercizio di una attività
economica, distinguendolo da quelli concorrenti.
3. In conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con l’accoglimento del ricorso introduttivo dei contribuenti.
4. In considerazione della novità della questione, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese
dell’intero giudizio.
(Omissis)
••• Nota a sentenza
1. La sezione tributaria della Corte di Cassazione affronta con la sentenza in esame il tema dell’applicabilità dell’imposta sulla pubblicità alle targhe degli studi dei liberi professionisti, argomento solo apparentemente minore quantomeno
perché non sono in gioco grossi interessi economici.
Leggendo la chiara motivazione si individuano più spunti
di riflessione, il primo dei quali non può che essere la posizione assunta; si afferma, infatti, per la prima volta la non assoggettabilità all’imposta delle targhe che individuano la sede
dell’attività del professionista.
Da rimarcare, però, è il ragionamento attraverso il quale
si giunge alla conclusione.
La Corte, infatti, sia pure senza ammetterlo esplicitamente, sembra quantomeno scalfire quel vero proprio macigno
giurisprudenziale che è il principio dell’impossibilità di applicazione analogica (o persino di interpretazione estensiva)
delle norme di favore in materia tributaria.
Per apprezzare meglio la novità è opportuno ripercorrere
le brevi tappe dell’evoluzione della normativa e della giurisprudenza sul punto.
2. Senza poter e voler fare la storia della normativa in
tema di imposta sulla pubblicità, è opportuno prendere le
mosse dal d.P.R. n. 639 del 19721.
In quella normativa il presupposto del tributo veniva indicato dall’art. 6 secondo cui “l’imposta sulla pubblicità si
applica alle insegne, alle iscrizioni e a tutte le altre forme
pubblicitarie visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate
ai diritti sulle pubbliche affissioni a norma del capo III del
presente decreto, esposte od effettuate nell’ambito del territorio comunale in luoghi pubblici o aperti al pubblico o comunque da tali luoghi percepibili”.
L’ampiezza dell’indicazione normativa non lasciava adito ad
alcun dubbio; erano assoggettabili a tributo le insegne e le
iscrizioni riguardanti una merce o un servizio genericamente
offerto al pubblico, anche se l’informazione sull’esistenza dell’attività non si fosse accompagnata ad una reclamizzazione2.
Sembrava quindi indiscutibile che le targhe degli studi
1 Prima del d.lgs. n. 639 del 1972, i diritti che andavano versati per l’attività di
pubblicità ed affissione erano stati regolati dal d.lgs. C.p.S. 8 novembre 1947,
n. 1417 e poi dalla l. 5 luglio 1961 n. 641; sull’argomento ed in particolare sul
d.lgs. del 1947, si rinvia per eventuali approfondimenti a Giannini, voce Affissioni (diritti comunali per le), in Enc. Dir., vol. I, 1958, p. 762 e ss.
2 Così Righi, voce Pubblicità (imposta di), in Enc. Dir. vol. XXXVII, 1988,
1068.
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professionali andassero considerate come uno strumento
pubblicitario e quindi fossero suscettibili di tassazione.
Dall’esame della scarsa giurisprudenza si può arguire che
nella pratica non si fosse mai messo in dubbio l’ “an”.
La riflessione si era incentrata soprattutto sull’esposizione
“pubblica” delle targhe, in quanto il citato art. 6 considerava
tassabili le insegne solo se esposte in “luoghi pubblici o aperti al pubblico o comunque da tali luoghi percepibili”.
La Cassazione fu chiamata ad occuparsene con una decisione del 1990 con la quale ritenne che fossero interessate
dall’imposta anche quelle targhe posizionate in un cortile
privato che segnalavano il luogo di ubicazione di uno studio.
Nella specie si trattava della targa che segnalava lo studio
di un avvocato e la Corte escluse che potesse applicarsi l’esenzione prevista dal n. 12 dell’art. 20 riferita a “le insegne, le
targhe, i fregi e simili, la cui esposizione sia obbligatoria per
disposizione di legge o di regolamenti, sempre che le relative
dimensioni non superino, qualora non stabilite espressamente dalle disposizioni medesime, il mezzo metro quadrato di
superficie”.
Stabilì, infatti, che “In tema di imposta sulla pubblicità
– che si applica, ai sensi dell’art. 6 d.P.R. 26 ottobre 1972 n.
639, quando i mezzi pubblicitari siano esposti o effettuati “in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o comunque da tali luoghi
percepibili” – il presupposto dell’imponibilità va ricercato
nell’astratta possibilità del messaggio, in rapporto all’ubicazione del mezzo, di avere un numero indeterminato di destinatari, che diventano tali solo perché vengono a trovarsi in
quel luogo determinato. Il detto presupposto sussiste, pertanto, rispetto ad una targa indicativa di uno studio di avvocato
esposta in un cortile, il quale, pur se privato, debba ritenersi
“aperto al pubblico”, perché accessibile durante il giorno ad
un numero indeterminato di persone. Ne’ tale targa rientra
tra quelle, esenti dall’imposta, elencate nell’art. 20 d.P.R.
citato, e, in particolare, tra quelle la cui esposizione sia obbligatoria per disposizione di legge o di regolamenti (n. 12 art.
20 cit.), in quanto, pur se l’espletamento del servizio di pubblica necessità collegato all’Esercizio della professione forense impone agli avvocati di rendere noto il loro domicilio,
tuttavia nessuna norma di legge o di regolamento li obbliga
ad esporre una targa che indichi il loro studio.” (3)
Di lì a poco la medesima Cassazione ribadì il suo orientamento restrittivo (4), giungendo ad affermare l’assoggettabilità all’imposta anche della targa apposta al portone di ingresso dello studio; in questo caso ritenne, in particolare, non
ricorrere l’esenzione prevista dal n. 2 dell’art. 20 del d.P.R cit.,
riguardante “ gli avvisi al pubblico esposti nelle vetrine e
sulle porte di ingresso dei locali..”
Affermò, infatti, che “In tema di imposta sulle pubblicità,
la targa apposta da un professionista accanto al portone
d’ingresso del suo studio non gode dell’esenzione di cui all’art.
20 n. 2 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 639, in quanto costituiscono “comunicazioni inerenti alla attività svolta” in un
locale, esenti dal pagamento del tributo, solo i mezzi attraverso i quali si rendono note talune particolarità o caratteristiche dei servizi ivi prestati, non già le semplici indicazioni
3 Cass., sez. I, 09 marzo 1990, n. 1930, CED Cass. n. 465799.
4 Cass., sez. I, 14 agosto 1992, n. 9577, CED Cass. n. 478550.
tributario
Gazzetta
122
d i r i t t o
dell’attività commerciale o professionale, che restano soggette, invece, all’imposta”.
3. Con l’entrata in vigore del d.lgs. 15 novembre 1993 n.
507, il presupposto dell’imposizione venne costruito in modo
sostanzialmente identico a quello del precedente d.P.R. 5.
Il comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. n. 507/93 stabiliva, infatti, che “la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da
quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi
percepibile è soggetta all’imposta sulla pubblicità prevista nel
presente decreto”.
Con il comma 2 del medesimo articolo si aggiungeva che
“ai fini dell’imposizione si considerano rilevanti i messaggi
diffusi nell’esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato”.
Il presupposto dell’imposta era anche in questo caso particolarmente ampio tanto che la giurisprudenza aveva ritenuto che “qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico, il
quale risulti - indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione - obbiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti il nome, l’attività ed il prodotto di una
azienda, è soggetta ad imposta sulla pubblicità ai sensi degli
artt. 5 e 6 d.lgs. n. 507 del 1993, restando irrilevante che
detto mezzo di comunicazione assolva pure ad una funzione
reclamistica o propagandistica”6.
Sulla questione specifica delle targhe degli studi professionali la giurisprudenza aveva ribadito l’identica posizione già
espressa nel vigore del d.P.R. del 1972.
Esse, quindi, erano certamente assoggettabili all’imposta,
a meno che non fossero di modestissima dimensione; per
l’ultima parte del secondo comma dell’art. 17 del d.lgs. n. 507
del 1993, l’imposta non è, infatti, applicabile per superfici
inferiori a trecento centimetri quadrati.
Su questa posizione si era assestata di recente (nel 2008) la
Cassazione secondo cui “In tema di imposta comunale sulla
pubblicità, con la precedente disciplina ex d.P.R. 26 ottobre
1972, n. 639, le targhe e le insegne sarebbero state di per sè
stesse considerate mezzi pubblicitari e, pertanto, assoggettate
a tributo, mentre con la vigente normativa ex d.lgs. 15 novem-
5In termini analoghi, nel senso che le due normative hanno numerosi punti di
sostanziale, si v. Falsiitta, Manuale diritto tributario, Milano, 2010, 988.
6 Così Cass., sez. trib. 12 agosto 2004, n. 15654, CED Cass. n. 575505, secondo
cui “In tema di imposta comunale sulla pubblicità, qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico, il quale risulti - indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione - obbiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti il nome,
l’attività ed il prodotto di una azienda, è soggetta ad imposta sulla pubblicità
ai sensi degli artt. 5 e 6 d.lgs. n. 507 del 1993, restando irrilevante che detto
mezzo di comunicazione assolva pure ad una funzione reclamistica o propagandistica. Ne consegue che anche i cartelli stradali indicatori di industrie, laboratori artigianali e negozi di vendita, rivolgendosi ad una massa indeterminata di possibili acquirenti od utenti, pongono in essere una pubblicità tassabile ai sensi del citato art. 6, a prescindere dal fatto che l’iscrizione presenti o
meno i connotati dell’insegna. Peraltro, l’art. 17 d.lgs. n. 507 cit., esenta dall’imposta solo le insegne che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività di
esercizi commerciali e di produzione di beni e servizi, purché di superficie non
superiore a cinque metri quadrati e salve le previsioni particolari adottate con
regolamenti comunali. (Fattispecie relativa a cartello luminoso multifacciale
delle dimensioni totali di mq. 46,50)”.
t r i b u ta r i o
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bre 1993, n. 507, lo sono solo le targhe e le insegne che rechino
dei messaggi pubblicitari tali da sollecitare la domanda di beni
e servizi; con la conseguenza che il presupposto d’imponibilità,
di cui all’art. 5 del d.P.R. richiamato, va ricercato nell’astratta
possibilità che il messaggio, in rapporto all’ubicazione del
mezzo, possa avere un numero indeterminato di destinatari,
che diventano tali solo perchè vengono a trovarsi in un luogo
determinato (nella specie è stata ritenuta soggetta ad imposta
la targa indicativa di uno studio di un avvocato esposta in un
cortile che, pur privato, era aperto al pubblico)”7.
Una nuova causa di esenzione veniva introdotta con l’art.
10 della l. n. 448 del 2001 che aggiungeva all’art. 17 del d.lgs.
n. 507 del 1993 un nuovo comma (1-bis).
Si stabiliva, infatti, che “L’imposta non è dovuta per le
insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione
di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge
l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5
metri quadrati. I comuni, con regolamento adottato ai sensi
dell’articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n.
446, possono prevedere l’esenzione dal pagamento dell’imposta per le insegne di esercizio anche di superficie complessiva superiore al limite di cui al periodo precedente”8.
La giurisprudenza in uno dei suoi primi arresti riguardanti la nuova disposizione aveva ritenuto che potessero beneficiare dell’esenzione anche quelle insegne che accanto alla funzione di indicare la sede contenevano messaggi pubblicitari.
Con una decisione del 2009 aveva, infatti, affermato che
“In tema imposta comunale sulla pubblicità, il comma 1-bis
dell’art. 17 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, aggiunto
dall’art. 10 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che esenta
dall’imposta le insegne di attività commerciali e di produzione di beni o servizi nei limiti di una superficie complessiva
fino a cinque metri quadrati, non consente di introdurre distinzioni in relazione al concorso dello scopo pubblicitario
con la funzione propria dell’insegna stessa, purché la stessa,
oltre ad essere installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la funzione di
indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività, si
mantenga nel predetto limite dimensionale, in tal senso deponendo anche l’art. 2 del d.m. 4 aprile 2003, che, ai sensi
dell’art. 10, comma 3, della legge n. 448 cit., ha dettato le
modalità operative per la determinazione dei trasferimenti
compensativi ai comuni a copertura delle minori entrate relative all’imposta sulla pubblicità derivanti dalla esenzione
stabilita dall’art. 17, comma 1-bis, cit.”9.
4. Con il d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 venne introdotta
un’importante innovazione sulla materia della pubblicità; si
istituiva, infatti, il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (cosiddetto CIMP)10.
Con l’art. 62 si consentiva ai comuni, con un proprio regolamento, di escludere l’applicabilità, nel proprio territorio,
dell’imposta sulla pubblicità, sottoponendo le iniziative pub-
7 Cass., sez. trib., 08 settembre 2008, n. 22572, CED Cass. n. 605094.
8 Sul concetto di insegna di esercizio, si rinvia a Fornero, Negri, Zeni, Irap e
tributi locali, Milano, 2010, 536.
9 Cass., sez. trib., 30 ottobre 2009, n. 23021, CED Cass. n. 610278.
10Va però ricordato che prima la Corte Costituzionale (C. Cost. 08 maggio 2009,
n. 141) poi la corte di Cassazione (Cass. sez. un., 07 maggio 2010, n. 11090,
CED Cass. n. 612766) hanno ritenuto che anche il canone sulla pubblicità
avesse natura di tributo.
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s e t t e m b r e • o t t o b r e
blicitarie che incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente ad
un regime autorizzatorio ed assoggettandole al pagamento di
un canone.
Il medesimo articolo stabiliva quali dovessero essere i
criteri di carattere generale cui dovesse essere informato il
regolamento comunale.
Era una disposizione che anticipava il federalismo locale;
attraverso, infatti, una sorta di deregulation, si lasciava ai
comuni un’ampia possibilità di regolamentare in modo autonomo la materia, lasciando ad essi anche la possibilità di
prevedere “con carattere di generalità, divieti, limitazioni ed
agevolazioni”.
Siccome il canone era tendenzialmente diverso dall’imposta prevista dal d.lgs. n. 507/93, il legislatore ritenne di voler
evitare ogni problema interpretativo e stabilì con una disposizione espressa l’applicabilità alle insegne di una identica
causa di esenzione anche quando i comuni fossero passati
dall’imposta al canone11.
Con il comma dell’art. 2-bis del d.l. 22 febbraio 2002, n.
12, aggiunto dalla legge di conversione 24 aprile 2002 n. 75
si previde che “Il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari di cui all’articolo 62, comma 1, del decreto legislativo
15 dicembre 1997, n. 446, analogamente a quanto previsto
dall’articolo 10 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, non è
dovuto per le insegne di esercizio delle attività commerciali e
di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la
sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, per la superficie
complessiva fino a 5 metri quadrati”.
5. Nel 2002 il Ministero dell’economia e delle finanze
forniva la propria interpretazione della norma introduttiva
della speciale causa di esenzione da tributo e canone.
Con circolare esplicativa riteneva che fra i soggetti che
possono godere delle esenzioni di cui si discute dovessero rientrare i mezzi pubblicitari esposti dai professionisti che “…
assolvono al compito di individuare la sede dove si svolge
un’attività economica”.
Si trattava di un atto che, per quanto proveniente da una
fonte autorevole, non poteva certo vincolare né le autorità
comunali né tantomeno i giudici tributari12.
Leggendo, infatti, le disposizioni che hanno introdotto
l’esenzione appare evidente come il legislatore aveva limitato
la sua applicabilità alle “attività commerciali” e a quelle “di
produzione di beni e servizi”, concetti questi che si riferiscono
esplicitamente agli imprenditori e ai commercianti e non certo alle attività svolte da un libero professionista.
Nei confronti di quest’ultima categoria l’estensione proposta dal Ministero con l’atto di indirizzo appariva frutto di
un’estensione analogica che sembrava ben difficilmente recepibile dalla Cassazione.
Quest’ultima, infatti, in moltissime occasioni aveva affer-
11 Analogamente, Fornero, Negri, Zeni, Irap e tributi locali,cit., 532.
12 Principio assolutamente pacifico; così Cass., sez. un., 02 novembre 2007, n.
23021, CED Cass. n. 599750 secondo cui “La circolare con la quale l’Agenzia
delle entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un parere dell’amministrazione non vincolante per il contribuente (oltre che per gli
uffici, per la stessa autorità che l’ha emanata e per il giudice); conseguentemente, la circolare non è impugnabile nè innanzi al giudice amministrativo, non
essendo un atto generale di imposizione, nè innanzi al giudice tributario, non
essendo atto di esercizio di potestà impositiva, e sussiste il difetto assoluto di
giurisdizione in ordine ad essa”.
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mato che le norme che stabiliscono agevolazioni sono disposizione di carattere eccezionale e come tale insuscettibili di
interpretazione estensiva o analogica13.
7. Non rispettando i pronostici, invece, la Corte si conforma alla lettura proposta dalla circolare ministeriale, forzando
il testo della norma – sia pure attraverso una vera e propria
fictio di ritenere di essere rimasti nell’ambito di una semplice
interpretazione estensiva – utilizzando un doppio grimaldello.
Da un lato richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che sebbene in un ambito del tutto
diverso – quello della concorrenza – aveva ritenuto equiparabili alcune attività professionali all’attività di impresa.
Ricorda, infatti, come la Corte aveva ritenuto che gli avvocati svolgono un’attività economica che può essere equiparata a quella d’impresa ai sensi degli artt. 85, 86 e 90 del
Trattato14.
Dall’altro, ritiene che l’interpretazione estensiva sia conforme ad una lettura costituzionalmente orientata della normativa in esame; secondo l’estensore, infatti, la giurisprudenza costituzionale15 e della stessa Cassazione16 consentirebbe
che le norme concernenti agevolazioni e benefici possano essere estese in via interpretativa quando ciò sia imposto dalla
ratio legis.
Tale situazione sarebbe sussistente nel caso in esame perché “l’esclusione dall’ambito applicativo della norma de qua
delle targhe degli studi professionali .. risulterebbe in contrasto, con le finalità perseguite dalla legge, di sottrarre ad imposizione ...le indicazioni aventi lo scopo prevalente …di
identificare il luogo di esercizio di un’attività economica, distinguendolo da quelli concorrenti”.
13 Così Cass. sez. trib. 5 marzo 2009, n. 5270, CED Cass. n. 606771 secondo cui
“In tema di agevolazioni tributarie per il settore del credito, le operazioni di
finanziamento alle quali l’art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 accorda
un trattamento fiscale di favore, vanno individuate - in base alla “ratio legis”
ed al principio secondo cui le norme agevolative sono di stretta interpretazione
- in quelle che si traducono in investimenti produttivi, che possano creare
nuova ricchezza, sulla quale potrà più adeguatamente applicarsi il prelievo fiscale. Ne consegue che quando il credito è già erogato ed oggetto del regolamento negoziale è il termine della sua restituzione (trattandosi di finanziamento a fronte di pregressa scopertura di conto corrente bancario), non ricorre lo
scopo per cui il legislatore accorda l’agevolazione e il negozio esula dall’ambito
applicativo della disciplina in esame.
14 Corte di giustizia dell’Unione Europea, 19 febbraio 2001, pronunciata in
C-309/99.
15Il riferimento testuale è a C. Cost., 26 febbraio 2003, n. 202.
16Cass., sez. trib., 12 giugno 2002, n. 8361, CED Cass. n. 554996, secondo cui
“In tema di agevolazioni tributarie, l’esenzione dall’IRPEG ai sensi dell’art. 105
del d.P.R. n. 218 del 1978 (come modificato dall’art. 14 della legge n. 64 del
1986) spetta, in base ad un’interpretazione estensiva dell’espressione “nuove
iniziative”, non solo in caso di nuova impresa ma anche di trasformazione (innovazione, ampliamento, conversione) di struttura produttiva già esistente che,
per i profili di quantità (degli impianti, delle attrezzature, del personale impiegato, del fatturato) e di qualità (innovazione tecnologica del modo di produzione e
dei prodotti, livello professionale della forza lavoro utilizzata) dell’intervento,
equivalgano alla realizzazione di una nuova iniziativa economica.
tributario
Gazzetta
Diritto internazionale
A cura di Francesco Romanelli ]
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internazionale
Rassegna di diritto internazionale [
F O R E N S E
s e t t e m b r e • o t t o b r e
●
Rassegna
di diritto internazionale
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e specialista
in diritto delle comunità europee
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Common law – Responsabilità civile del datore di lavoro – Assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro – Copertura
assicurativa – Estensione – Efficacia delle polizze – Mesotelioma
ed asbestosi
Secondo i principi della common law applicabili in Inghilterra e Galles, in caso di sostanziale esposizione all’amianto,
l’insorgere del mesotelioma deve essere considerato temporalmente coincidente con essa.
Se la polizza assicurativa dichiara di garantire le patologie
contratte dal personale dipendente nel corso del rapporto di
lavoro, la Compagnia assicuratrice è tenuta ad indennizzare
solo i dipendenti che si siano ammalati durante la vigenza
della polizza stessa e non coloro che abbiano lavorato alle
dipendenze del datore di lavoro contraente in un periodo
anteriore alla stipula.
The High Court of Justice Court of Appeal (Civil Division),
sentenza 8 ottobre 20101.
Nelle cause iscritte ai nn. A2/2009/0005, A2/2009/0006,
A2/2009/0007, A2/2009/0008, A2/2009/0009, A2/2009/0014
D. C./ B. (Run Off) Limited (In Scheme Of Arrangement) Lead
Case 1, F. & E. C./ I. Insurance Company Limited (In Provisional Liquidation) Lead Case 2, E. C./ E. Insurance Company Limited Lead Case 3, T. B. and Son Limited C/ B. (Run
Off) Limited (In Scheme Of Arrangement) Lead Case 4, A. N.
Uk Limited & A. Plc C/ E. Insurance Company Limited Lead
Case 5, M. M. Insurance Limited C/ Z. Insurance Company
And Others Lead Case 6, Secretary Of State For Work And
Pensions.
La sentenza qui annotata, che si preannuncia essere un
lead case per l’accuratezza, la precisione e l’ampiezza della
motivazione, è stata resa a definizione di un giudizio di appello avverso la sentenza della High Court of Justice Queen’s
Bench Division 2 con la quale si era ritenuto che le polizze assicurative coprissero ance gli ex dipendenti che avessero manifestato un mesotelioma solo dopo la cessazione del rapporto
di lavoro. E’ opportuno ricordare che nel Regno Unito non vi
è un istituto assicurativo pubblico paragonabile per funzioni
ed estensione di copertura assicurativa al nostro INAIL, giacchè solo dal 19693 è obbligatoria per i datori di lavoro la stipula di un’assicurazione per la responsabilità civile in favore
dei propri dipendenti. Assicurazione che è prestata da una
qualunque compagnia che sia abilitata ad esercitare questo
particolare ramo.
Diritto scozzese - Ricorso di legittimità costituzionale - Damages
(Asbestos - related Conditions) (Scotland) Act 2009
La Damages (Asbestos-related Conditions) (Scotland) Act
2009 in forza della quale la mera presenza di placche pleurali legittima alla proposizione di una domanda risarcitoria per
lesioni personali­ non presenta alcuna previsione irrazionale
o contraria ai principi di Common law od alla Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo.
Court of Session, sentenza 08 gennaio 2010, procedimento n. P490/09, per la revisione giudiziale della Damages
(Asbestos-related Conditions) (Scotland) Act 2009.
1In [2010] EWCA Civ. 1096.
2High Court of Justice Queen’s Bench Division Mr Justice Burton, in [2008]
EWHC 2692 (Ob).
3Employers’ Liability (Compulsory Insurance) Act 1969.
internazionale
Gazzetta
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D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
Una compagnia assicurativa operante sul mercato scozzese delle polizze per la responsabilità civile dei datori di lavoro
ha impugnato innanzi al Giudice ordinario, secondo il principio vigente in quell’ordinamento del controllo diffuso della
costituzionalità delle norme giuridiche anche di rango primario che violino i Trattati europei, la Convenzione europea dei
Diritti dell’Uomo ed i principi fondamentali della common
law, la legge che riconosce la legittimazione ad agire per danni quando sia accertata la sola presenza di placche pleurali.
Secondo i principi della Common Law applicati nell’intero
Regno Unito, infatti, il fatto illecito non si configura come tale
fino a che l’asserita violazione di un obbligo giuridico non si
tramuta in un “danno” sufficientemente riconoscibile come tale
dalla legge. In assenza di tale “danno” al danneggiato non è
riconosciuto alcun diritto azionabile4, con la conseguenza peraltro che il termine prescrizionale non comincia a decorrere.
La Compagnia assicurativa ricorrente riteneva che l’anticipazione ad un periodo tanto precedente alla manifestazione
di una qualunque patologia avrebbe comportato per lei e per
tutte le altre compagnie operanti nel settore un enorme aggravio degli indennizzi che sarebbero state costrette in futuro a
pagare5.
Stato di New York – Lesioni personali – Responsabilità civile del
datore di lavoro – Esposizione ad amianto – Onere della prova –
Nesso causale
Nel diritto dello Stato di New York non è sufficiente che
il lavoratore provi di essere stato esposto all’inalazione di
amianto nel corso del rapporto di lavoro, giacché egli è tenuto a provare con “ragionevolmente probabilità” che il convenuto abbia provocato le lesioni lamentate non essendo
sufficiente la prova della mera possibilità di ciò.
Supreme Court Of The State Of New York, decreto 17
febbraio 20106, procedimento n. 190001/08.
Nel caso qui esaminato la Corte Suprema dello Stato di
New York si è trovata a giudicare in relazione alla domanda
di un meccanico che, avendo sviluppato un mesotelioma,
aveva chiesto la condanna del datore di lavoro per il quale
aveva prestato servizio dal 1964 al 1979, in un sito, officina
meccanica, particolarmente ricco di amianto.
4Nel corso del XX secolo tale principio è stato ripetutamente riaffermato dalle
più alte istanze giurisdizionali, le quali fanno tutte riferimento alla sentenza
della Camera dei Lords del 10.7.1933 nella causa McMullan v Lochgelly Iron
and Coal Co, in [1933] UKHL 4.
5La responsabilità dei datori di lavoro per le conseguenze dell’esposizione,
principalmente da parte di lavoratori non sufficientemente protetti, all’amianto,
è un tema discusso sostanzialmente in tutti i paesi industrializzati (cfr. WTO
Panel, Report of the Panel: European Communities - Measures Affecting Asbestos and Asbestos-Containing Products, WTO Doc WT/DS135/R (18 September 2000) e WTO Appellate Body, Report of the Appellate Body: European
Communities - Measures Affecting Asbestos and Asbestos-Containing Products,
WTO Doc WT/DS135/AB/R (12 March 2001). Il riconoscimento che le particelle di materia inalate provochino delle placche pleurali che possono a lungo
termine ed in presenza di concause trasformarsi in mesotelioma non è ormai
più dubitato da alcuno, mentre è ancora oggetto di studio il contributo relativo
dei vari tipi di fibre di amianto per lo sviluppo del mesotelioma (cfr. Asbestos
fiber type in malignant Mesothelioma: An analytical scanning electron microscopic study of 94 cases, American Journal of Industrial Medicine, Volume 23,
4, 605-614, Aprile 1997). Secondo i dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO - Organizzazione delle Nazioni Unite) ci sono attualmente 125 milioni di persone esposte all’inalazione di amianto sui luoghi di
lavoro, con una mortalità stimata in 107.000 persone l’anno (dati 2010).
6 In http://www.nycourts.gov/reporter/pdfs/2010/2010_30322.pdf’).
Gazzetta
F O R E N S E
Il Giudice ha ritenuto che ciò non fosse sufficiente a provare il nesso causale tra la patologia che aveva portato l’attore al decesso prima della fine della causa, giacchè per due
anni l’attore aveva avuto la possibilità di essere esposto all’inalazione di amianto, svolgendo qualche lavoro di riparazione
meccanica di autovetture per circa due anni dal 1977 al 1979
presso l’abitazione di un amico.
Il provvedimento qui riportato evidenzia la notevole distanza che separa il diritto nordamericano da quello europeo
che prevede, attraverso espresse norme di legge, seppur in
maniera variamente modulata secondo le tradizioni di ciascun
ordinamento; in linea generale può affermarsi che nella maggior parte delle giurisdizioni di common law lo svolgimento
di attività lavorative in stabilimenti con presenza di amianto
esonera il lavoratore dall’onere probatorio richiesto dalla
Corte Suprema di New York essendo stata riconosciuta la
presenza di amianto quale causa efficiente dell’asbestosi e
dunque ritenendo così provato il nesso causale tra la patologia
e lo svolgimento delle attività lavorative.
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
diritto processuale civile
Opposizione al decreto ingiuntivo / Francesca Bonito
131
diritto penale
Riciclaggio / Andrea Alberico
132
diritto amministrativo
134
questioni
Diritto alle ore di insegnamento di sostegno per gli alunni disabili / Ida Sorrentino
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DIRITTO processuale CIVILE
Opposizione al decreto
ingiuntivo
Il principio di diritto sancito
dalle sezioni unite con la sentenza
n. 19246 del 9 settembre
2010, relativo alla generale
improcedibilità dell’opposizione
al decreto ingiuntivo in caso
di mancata iscrizione a ruolo
della causa entro cinque
giorni dalla notifica dell’atto
di opposizione, può essere
considerato retroattivo?
● Francesca Bonito
Avvocato
Com’è noto, le sezioni unite della
Corte di cassazione, con la recente sentenza n. 19246 del 9 settembre 2010,
hanno chiarito che il termine per la
costituzione dell’opponente nel giudizio
di opposizione a decreto ingiuntivo è di
cinque giorni, atteso che l’art. 645 c.p.c.
prevede che il giudizio si svolge secondo
le norme del procedimento ordinario
ma i termini di comparizione sono ridotti alla metà.
Ne consegue che l’iscrizione a ruolo
della causa avente ad oggetto l’opposizione a decreto ingiuntivo dovrà essere
effettuata entro 5 giorni dalla notifica
dell’opposizione, intendendo per notifica il momento in cui il destinatario ha
ricevuto l’atto. Secondo il Supremo
Collegio, il dimezzamento dei termini
di costituzione dell’attore non dipende
dal fatto dell’assegnazione all’opposto
di un termine a comparire ridotto rispetto a quello ordinario, come ritenuto
in precedenza da dottrina e giurisprudenza, ma dalla circostanza tout court
della opposizione.
La drammatica conseguenza del
revirement della Corte di cassazione è
che per i giudizi pendenti l’azione verrà
dichiarata improcedibile, con conseguente esecutività del decreto ingiuntivo
opposto, se tale termine non sia stato
rispettato.
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Sul punto, infatti, l’orientamento
giurisprudenziale è assolutamente univoco nell’equiparare la tardiva iscrizione a ruolo del giudizio di opposizione
(vale a dire la tardiva costituzione di
parte opponente) alla mancata costituzione in giudizio dell’ingiunto, come
statuito dalla Corte di cassazione con
sentenza n. 849 del 26 gennaio 2000,
con l’insegnamento che di seguito si riporta ”nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione
dell’opponente va equiparata alla sua
mancata costituzione, con la conseguenza della improseguibilità della
opposizione, a nulla rilevando che il
creditore opposto si sia poi costituito
nel termine assegnatogli e non sia stata
ancora dichiarata la esecutorietà del
decreto ingiuntivo”.
Com’è altrettanto noto, la giurisprudenza delle sezioni unite è giudice
che contribuisce a garantire la “certezza
del diritto” nell’ordinamento (v. art. 65
ord. giud.), divenendo il suo precedente
tendenzialmente vincolante per il giudice di merito.
Si ricorda, infatti, che il giudice di
merito potrà limitarsi alla motivazione
semplificata in caso di richiamo al precedente di legittimità che si conferma;
in caso contrario, sarà soggetto all’obbligo di motivazione rafforzata.
Alla luce del revirement della Corte
di cassazione richiamato, rivestono carattere fortemente innovativo due recentissimi provvedimenti del panorama
giurisprudenziale italiano che “escludono la retroattività del principio” sancito
dalla Cassazione nella sua massima
composizione.
Il Tribunale di Torino, con ordinanza del 11 ottobre 2010 (Est. dott. Liberati), ha infatti escluso la retroattività
del principio di diritto enunciato dalla
Cassazione in materia di costituzione
dell’opponente, ricorrendo allo strumento della remissione in termini di cui
all’art. 153 c.p.c., alla cui applicazione
“non osta neanche la mancan za
dell’istanza di parte”, essendo conosciuta la causa non imputabile (così, Cass.,
sez. II, ordinanze interlocutorie nn.
14627/2010 e 15811/2010, depositate il
17 giugno 2010 ed il 02 luglio 2010).
Secondo il Tribunale piemontese infatti, la non imputabilità deriverebbe dal
principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), in quanto l’errore
in cui è incorsa la parte deriva dall’evi-
131
dente affidamento in una consolidata
giurisprudenza, successivamente travolta da un mutamento di orientamento
interpretativo. Conseguentemente, conclude il giudice di merito, la costituzione
effettuata entro il termine ordinario di
dieci giorni deve essere ritenuta tempestiva e quindi non occorre assegnare un
ulteriore termine per provvedervi, trattandosi di attività già compiuta.
Ad analoghe conclusioni sulla irretroattività della sentenza delle sezioni
unite, però seguendo un diverso iter
logico addiviene il Tribunale di Varese,
con la recente sentenza non definitiva
pubblicata in data 8 ottobre 2010 (Est.
Dott. Buffone). Ad opinione del giudicante, ci troviamo di fronte ad un fenomeno ben noto nei regimi di common
law ed identificato nell’istituto del cd.
overruling: in altri termini, un cambiamento delle regole del gioco a partita
già iniziata e, dunque, una somministrazione al giudice del potere-dovere di
giudicare dell’atto introduttivo in base
a forme e termini il cui rispetto non era
richiesto al momento della proposizione
della domanda. Il sistema dell’overruling riguarda solo casi in cui il mutamento giurisprudenziale modifichi, in
senso peggiorativo per il cittadino, le
norme di accesso al processo e, dunque,
alla Giustizia, conseguente ad un improvviso mutamento delle regole processuali; come avviene esattamente con
il principio di diritto enunciato dalla
Corte di cassazione a sezioni unite con
la sentenza n. 19246/2010.
A ben vedere infatti, prima della
sentenza delle sezioni unite, a parte un
unico risalente precedente, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio
1955, n. 8), la giurisprudenza di legittimità è stata costante nell’affermare che
solo quando l’opponente si sia avvalso
della facoltà di indicare un termine di
comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la costituzione viene
automaticamente ridotto alla metà
(principio affermato, nei vigore dell’art.
645 c.p.c., come modificato con il d.P.R.
n. 597 del 1950, art. 13, a cominciare
da Cass. 12 ottobre 1955, n. 3053 e poi
costantemente seguito; v. Cass. n.
3355/1987, n. 2460/1995, nn. 3316 e
12044 del 1998, n. 18942/2006).
In altri termini, in precedenza si riteneva che i termini di costituzione si
dimezzavano solo se l’opponente assegnava un termine a comparire inferiore
questioni
Gazzetta
132
a novanta giorni. Il diritto vivente così
richiamato, tra l’altro, è stato più volte
nel tempo sospettato di illegittimità
costituzionale, ma il Giudice delle Leggi ne ha sempre escluso la violazione
dell’art. 111 della Costituzione.
Il Tribunale di Varese decide dunque, alla luce di una interpretazione
costituzionalmente orientata intrisa dei
principi della giurisprudenza comunitaria e internazionale, che per i procedimenti civili instaurati prima del 9 settembre 2010 (data di deposito della
sentenza delle sezioni unite), il principio
di diritto enunciato dalla Cassazione
con sentenza n. 19246/2010 non sia
applicabile, dovendosi tenere fermo il
diritto vivente che abilitava, sino a quella data, i difensori degli opponenti a
costituirsi nel termine ordinario di dieci giorni, condividendo così l’indirizzo
della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che impone la
“conoscibilità della regola di diritto e
la (ragionevole) prevedibilità della sua
applicazione” (cfr. Sunday Times c.
Regno Unito, sentenza del 29 aprile
1979, §§ 48-49).
Contrariamente al precedente orientamento del Tribunale di Torino però,
il Tribunale di Varese non ritiene di
doversi avvalere dello strumento giuridico della remissione in termini per
consentire all’opponente di proporre
l’opposizione a decreto ingiuntivo secondo le nuove regole giurisprudenziali,
poiché divenuta inammissibile secondo
le vecchie. Difatti, il giudice di merito
osserva che lo strumento della remissione in termini impone un subprocedimento che si conclude con la facoltà
concessa all’istante di ripetere l’attività
processuale inibita dalla decadenza
venutasi a formare.
Trovandosi di fronte a procedimenti già in istruttoria o in fase di trattazione, la remissione si risolverebbe in una
lesione del principio di ragionevole durata del processo, anche con rischio di
perdita delle attività processuali sino ad
allora espletate e, dunque, con un effetto di sfavore per la parte sostanzialmente incolpevole.
Tale conclusione diviene applicazione del principio “tempus regit actum”
che come regola e orienta lo jus superveniens in materia processuale, così deve
guidare e disciplinare l’overruling.
Naturalmente, a far data dalla pubblicazione della sentenza (9 settembre
Gazzetta
q u e s t i o n i
2010), tutti i procedimenti civili di nuova instaurazione saranno sottoposti
alla nuova interpretazione nomofilattica, dovendo rispettare e applicare il
Supremo pronunciamento per l’avvenire. In senso analogo si esprime il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi con
la sentenza del 20 ottobre 2010, n. 625,
laddove si afferma che “la parte – piuttosto che essere rimessa in termini, con
regressione del giudizio e conseguente
grave danno alla giurisdizione – debba
essere considerata come aver agito
corretta-mente, sulla scorta di un mero
accertamento del giudice di merito, che
verifica l’overruling e l’affidamento
incolpevole del litigante”.
Anche parte della dottrina (Caponi
R.) a commento della sentenza delle sezioni unite si è espressa sulla irretroattività del principio di diritto enunciato per
la costituzione in giudizio dell’opponente, ritenendo che lo strumento della remissione in termini si risolverebbe esclusivamente in una finzione giuridica.
Orbene, nel vivace panorama dottrinale formatosi in seguito al revirement
della Cassazione, occorre ricordare anche coloro che non condividono l’interpretazione delle sezioni unite, poiché
rilevano che nella formulazione originaria del codice del 1942 vi era la previsione espressa, con l’art. 645 c.p.c., della
riduzione alla metà dei termini di “costituzione”. Essendo oggi stato eliminato tale segmento di norma, in quanto
l’attuale formulazione dell’art. 645 c.p.c.
si riferisce solo ai termini di “comparizione”, non si può mantenere sul punto
la disciplina previgente poiché, così
operando, ci si andrebbe a sostituire al
legislatore in nome di una pretesa funzione acceleratoria del processo.
F O R E N S E
●
DIRITTO penale
Riciclaggio
Se il reato di riciclaggio
sia un reato a consumazione
istantanea, ovvero possa
assumere il carattere di reato
permanente
● Andrea Alberico
Dottorando di ricerca
in Diritto penale presso l’Università
degli Studi di Napoli “Federico II”
Come spesso accade in caso di reati
a fattispecie alternativa, l’esatta determinazione del momento consumativo, se
appare certa nel momento in cui l’agente realizza una sola delle condotte incriminate, desta notevoli perplessità nel
caso in cui egli compia tutte le condotte
in questione, ovvero più volte la stessa.
L’esempio del reato di riciclaggio appare paradigmatico: a mente dell’art.
648-bis c.p. è punito con la reclusione da
quattro a dodici anni e con la multa da
euro 1.032 a 15.493 “chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo,
ovvero compie in relazione ad essi altre
operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza”.
La giurisprudenza è orientata nel
qualificare il riciclaggio come reato a
forma libera, in questo senso deponendo
la clausola di chiusura circa il compimento di altre operazioni (tra le molte, Cass.,
sez. II, sentenza n. 47088 del 14 ottobre
2003 ud. (dep. 09 dicembre 2003) Rv.
22773; Cass., sez. I, sentenza n. 1470 del
11 dicembre 2007 ud. (dep. 11 gennaio
2008) Rv. 238840).
Muovendo da questo assunto, si
rintracciano arresti di legittimità in virtù
dei quali, nel caso di “compimento di più
azioni dissimulatorie”, il riciclaggio assume i caratteri del reato permanente.
Si tratta di una conclusione a dir
poco singolare, atteso che, posticipando
in tal modo il momento consumativo, si
ottiene una dilatazione, a volte anche
significativa, dei termini di prescrizione. Applicando, infatti, la regola gene-
F O R E N S E
rale dettata dall’art. 158 c.p., il reato
permanente si consuma nel momento in
cui cessa la permanenza, e dunque con
il compimento dell’ultimo atto di protrazione della condotta.
Più precisamente, secondo l’orientamento in parola “il delitto di riciclaggio,
pur essendo a consumazione istantanea, è a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente quando il suo autore lo progetti e lo
esegua con modalità frammentarie e
progressive” (Cass., sez. II, sentenza n.
34511 del 29 aprile 2009 ud. (dep. 07
settembre 2009) Rv. 246561).
In questo modo, evidentemente, si
finisce per escludere a priori la possibilità di continuazione “interna” tra le
varie condotte rilevanti ai fini della
medesima fattispecie, e, soprattutto, si
evita radicalmente di indagare se le
condotte successive non rappresentino
eventuali post fatti non punibili secondo lo schema del reato progressivo.
Sulla stessa scia si colloca un’altra
decisione secondo cui “la previsione di cui
all’art. 648 bis cod. pen. individua quale
tipica modalità operativa del riciclaggio
«la sostituzione» cioè la consegna di un
bene al riciclatore in cambio di uno diverso, sicché il reato integrato con tale
modalità si consuma solo nel momento
in cui il riciclatore restituisce le somme
“ripulite”, ancorchè maggiorate di interessi ed utili da reinvestimento, così integrando la condotta normativamente
prevista come di “sostituzione” del denaro di provenienza illecita (Cass., sez. V,
sentenza n. 19288 del 05 febbraio 2007
ud. (dep. 17/05/2007) Rv. 236635).
Anche in questo arresto si percepisce la volontà di differire il momento
consumativo del reato al fine di evitare
che il reato vada prescritto.
Ad avviso di chi scrive, In questo
caso, addirittura, si manipola artatamente la condotta, consentendo un
differimento importante del termine
iniziale della prescrizione, dal momento
che già solo usando un po’ di buon
senso si sarebbe dovuto concludere che
la “restituzione” è un post fatto non
punibile, essendo sufficiente, ai fini
della consumazione, il trasferimento del
denaro “sporco” “in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza
delittuosa”.
Il ricorso alla disciplina della continuazione, inoltre, alla luce della riforma
dell’art. 158 c.p. per effetto della l. n.
s e t t e m b r e • o t t o b r e
2 0 1 0
251/2005, si palesa ugualmente ragionevole in relazione alla prescrizione del
reato, dal momento che, oggi, la prescrizione decorre dal momento di perfezione del singolo reato che accede al
medesimo disegno criminoso.
L’originalità dell’orientamento presentato per primo deriva anche dal
fatto che la stessa Suprema Corte, in
altre ipotesi di condotte alternative incriminate dalla medesima norma, finisce per adottare soluzioni decisamente
più coerenti con i principi generali e con
le elementari esigenze di garanzia proprie del sistema costituzionale.
A questo proposito, in materia di
stupefacenti, si può ricordare una pronuncia recente secondo cui “Le diverse
condotte previste dall’art. 73 del d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309, in alternatività
formale tra loro, perdono la loro individualità quando si riferiscano alla stessa
sostanza stupefacente e siano indirizzate ad un unico fine, talchè, se consumate senza un’apprezzabile soluzione di
continuità, devono considerarsi come
condotte plurime di un unico reato e, al
fine della determinazione della competenza per territorio, deve farsi riferimento al luogo di consumazione della prima
di esse” (Cass., sez. IV, sentenza n. 9496
del 31 gennaio 2008 Cc. (dep. 03 marzo
2008) Rv. 239259).
Questo principio di diritto si attaglia perfettamente alla fattispecie di
riciclaggio, dal momento che, se le diverse operazioni di “pulitura” hanno ad
oggetto i medesimi beni di provenienza
illecita e non vi è soluzione di continuità, il reato deve considerarsi unico, e,
conseguentemente, la prescrizione decorrerà dalla prima condotta, che risulterà anche quella principale.
Diversamente, sempre secondo la
Suprema Corte, ed ancora in materia di
stupefacenti, “quando, invece, le differenti azioni tipiche (detenzione, vendita,
offerta in vendita, cessione ecc.) siano
distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale, esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione di legge e, quindi, distinti reati,
eventualmente unificati nel vincolo della
continuazione” (Cass., sez. VI, sentenza n. 11360 del 08 luglio 1994 ud. (dep. 10
novembre 1994) Rv. 199368).
Come si legge chiaramente, nel momento in cui esiste una soluzione di
continuità tra le diverse condotte è preferibile un’unificazione sotto il vincolo
133
della continuazione, con conseguente
applicazione della relativa disciplina in
tema di consumazione e prescrizione.
Anche il problema della determinazione della competenza territoriale è
strettamente connesso alla problematica qui in discussione. Sul punto, di recente, si registra una decisione del Tribunale di Milano, Ufficio indagini preliminari, che coniuga al quesito sulla
consumazione quello sulla competenza:
“La ricettazione è un delitto unisussistente, che si consuma nel luogo e nel
tempo in cui il denaro o la “res” di
provenienza delittuosa è acquistata o
ricevuta dall’autore del reato. L’indagine al fine di accertare tale luogo va
condotta sulla base di elementi oggettivi, sicché nemmeno può attribuirsi, a
tal fine, valore decisivo alle dichiarazioni dell’imputato, allorché non siano
sorrette da sicuri riscontri. Solo ove il
predetto accertamento non sia stato
possibile, a causa della mancanza o
equivocità degli elementi di riscontro,
devono trovare applicazione le regole
suppletive di cui all’art. 9 c.p.p. Deve
in ogni caso escludersi la possibilità di
considerare parte dell’azione la protrazione degli effetti permanenti del reato
istantaneo e quindi di attribuire la
competenza, per tale via, al giudice del
luogo in cui la detenzione della “res” è
stata accertata. Il delitto di riciclaggio
si compone della stessa condotta di
acquisto o ricezione di denaro o altra
utilità, arricchita dall’elemento aggiuntivo di attività dirette ad ostacolare
l’identificazione della presenza delittuosa, con l’ulteriore elemento di diversità costituito dal dolo, che è specifico
nella ricettazione e generico nel riciclaggio. Il delitto si consuma pertanto
nel tempo e nel luogo in cui sono commesse dette attività. In ogni caso, la già
affermata natura istantanea con effetti
permanenti dei delitti di ricettazione e
riciclaggio confina nel “post factum”
non punibile di ogni condotta successiva alla ricezione e/o trasferimento del
denaro” (Trib. Milano, Uff. Indagini
preliminari, 15 ottobre 2008, in Foro
ambrosiano 2008, n. 4, pag. 402).
L’equilibrio di questa decisione di
merito consente di accordare ad essa il
massimo favore, emergendo dalle parole riportate la soluzione che, in definitiva, appare più coerente con la lettera
della norma e con le esigenze di garanzia del sistema.
questioni
Gazzetta
134
q u e s t i o n i
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Diritto alle ore di
insegnamento di sostegno
per gli alunni disabili
I criteri ai quali le
Amministrazioni scolastiche
devono attenersi
nell’assegnazione dell’orario
di insegnamento di sostegno
ad un disabile in particolari
condizioni di gravità e la
risarcibilità del danno non
patrimoniale eventualmente
subito in caso di assegnazione
di un numero di ore insufficienti
alla patologia
● Ida Sorrentino
Dottoressa in giurisprudenza
La questione circa il diritto del disabile ad ottenere un numero di ore di insegnamento di sostegno adeguato e proporzionato alla gravità del suo handicap
è stata affrontata con grande chiarezza
dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 26 febbraio 2010.
Essa rappresenta un riferimento giurisprudenziale di notevole rilevanza,
chiarificatore della portata di alcune
norme fondamentali sul diritto al sostegno, all’integrazione sociale e all’istruzione del disabile, a cui la recente giurisprudenza amministrativa ha già fatto capo
in plurimi casi. (Si veda, ex multis, Cons.
Stato, sez. VI, 21 aprile 2010, n. 2231;
Tar Napoli, Campania, sez. IV, 23 settembre 2010, n. 17517; Tar Napoli, Campania, sez. IV, 3 agosto 2010, n. 17222;
Tar Napoli, Campania, sez. IV, 20 aprile
2010, n. 2054; Tar Catanzaro, Calabria,
sez. II, 8 settembre 2010, n. 2547).
Negli ultimi anni, difatti, si sono
moltiplicati i ricorsi avverso i provvedimenti delle Amministrazioni scolastiche
che, in sede di formazione degli organici, assegnano al disabile un docente
specializzato per un numero di ore settimanali inferiore a quello riconosciu-
togli dalla commissione dell’unità sanitaria locale competente, ledendo, così,
secondo il ricorrente, il diritto del medesimo ad una effettiva assistenza didattica.
È noto che il diritto del disabile
all’educazione, istruzione ed integrazione scolastica è un diritto costituzionalmente garantito non solo, in modo implicito, dall’art. 2, Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo... nelle formazioni sociali” quali, ad esempio, la scuola, “ove
si svolge la sua personalità”) e dall’art.
3, comma 2, Cost. (“È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...”), quanto, in modo espresso, dall’art. 34, comma 1, Cost.: “La scuola è aperta a tutti”
e dall’art. 38, commi 3 e 4, Cost.:”Gli
inabili ed i minorati hanno diritto
all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo
articolo provvedono organi ed istituti
predisposti o integrati dallo Stato”. Si
tratta di un diritto tutelato anche a livello internazionale dall’art. 26 della
Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo del 1948, dall’art. 26 della
C a r t a dei Di r it t i Fond a ment a l i
dell’Unione Europea del 7 dicembre
2000, nonchè dalla Convenzione delle
Nazioni Unite sui Diritti delle Persone
con Disabilità del 13 dicembre 2006.
In particolare, l’art. 7, commi 1 e 2,
della Convenzione delle Nazioni Unite
dispone che “gli Stati parti adottano
ogni misura necessaria a garantire il
pieno godimento di tutti i diritti umani
e delle libertà fondamentali da parte
dei minori con disabilità, su base di
eguaglianza con gli altri minori. In
tutte le azioni concernenti i minori con
disabilità, il superiore interesse del
minore costituisce la considerazione
preminente”; ai sensi del successivo art.
24, comma 2, della succitata Convenzione “nell’attuazione di tale diritto gli
stati parti devono assicurare che: ...le
persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema
educativo generale, al fine di agevolare
la loro effettiva istruzione…siano fornite efficaci misure di sostegno personalizzato in ambienti che ottimizzino il
progresso scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della
Gazzetta
F O R E N S E
piena integrazione”.
La legge quadro n. 104 del 5 febbraio 1992 nel sancire il diritto del disabile all’educazione e all’istruzione nelle
sezioni di scuola materna, nelle classi
comuni delle istituzioni scolastiche di
ogni ordine e grado e nelle istituzioni
universitarie, riconosce al medesimo il
diritto alle prestazioni stabilite in suo
favore, in proporzione alla natura e
consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale e alla
efficacia delle terapie riabilitative. L’art.
3, comma 3 della suddetta legge prevede che “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia
personale, correlata all’età, in modo da
rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e
globale nella sfera individuale o in
quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.
Pertanto, il diversamente abile è titolare di un “diritto soggettivo assoluto
ed inviolabile” all’adeguato inserimento
scolastico, quale elemento necessario
per lo sviluppo delle sue capacità e l’effettiva partecipazione alla vita sociale.
E’ un diritto incomprimibile, intangibile anche da parte della pubblica amministrazione e dello stesso legislatore,
perfino in presenza di altri interessi,
anch’essi costituzionalmente protetti.
Esso si configura come un diritto
fondamentale che deve essere assicurato
attraverso misure di integrazione e sostegno idonee a garantire ai portatori di
handicap la frequenza degli istituti
d’istruzione; tra queste misure, viene in
rilievo la nomina del personale docente
specializzato, chiamato ad adempiere a
forme di integrazione e di sostegno, che
si rivelano ineliminabili anche sul piano
costituzionale, a favore degli alunni diversamente abili (cfr. Tar Napoli, Campania, sez. IV, 3 agosto 2010, n. 17222).
La nomina dell’insegnante di sostegno assurge, così, a dignità di diritto
assoluto “la cui inviolabilità discende”,
per l’appunto, “dall’essere essa strumento necessario per la tutela del diritto all’educazione ed istruzione, alla
salute e per la tutela dello sviluppo
della persona all’interno delle formazioni sociali” (Tar Liguria, sez. II, 2
aprile 2009, n. 742).
Garantire l’affiancamento dell’inse-
F O R E N S E
gnante di sostegno al minore disabile
vuol dire favorire lo sviluppo delle sue
potenzialità, nell’apprendimento, nella
comunicazione, nelle relazioni e nella
socializzazione e le difficoltà di apprendimento non possono essere causa del
mancato esercizio del diritto alla educazione ed alla istruzione.
L’assegnazione del numero di ore di
insegnamento di sostegno ai disabili,
avviene tramite un iter amministrativo
su base annua che si fonda sul riconoscimento delle esigenze concrete del
disabile. Tale procedura si ricava, principalmente, dal combinato disposto
dell’art. 12 della l. 104/92 e dell’art. 40
della l. 449/97.
L’art. 12 della l. 104\1992 dispone
che, una volta intervenuto l’accertamento sanitario che dà luogo al diritto a
fruire delle prestazioni stesse, deve essere elaborato un profilo dinamicofunzionale ai fini della formulazione di
un “piano educativo individualizzato”
(P.E.I), alla cui definizione provvedono
congiuntamente, con la collaborazione
dei genitori della persona handicappata,
gli operatori delle unità sanitarie locali
e, per ciascun grado di scuola, personale insegnante specializzato della scuola,
con la partecipazione dell’insegnante
operatore psico-pedagogico individuato. Tale profilo indica le caratteristiche
fisiche, psichiche e sociali ed affettive
dell’alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti
alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate e
sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona handicappata.
L’accertamento del diritto del minore all’assegnazione delle ore di sostegno
adeguate alla sua patologia, pur non
comportando automaticamente il diritto al riconoscimento di un insegnante
di sostegno per l’intero orario scolastico, comporta, tuttavia, un obbligo ben
definito dell’Amministrazione di valutare l’assegnazione del monte ora di
sostegno.
Al riguardo, l’art. 40 della legge del
27 dicembre 1997, n. 449, al comma 1,
stabilisce che l’integrazione scolastica
degli alunni portatori di handicap, in
presenza di situazioni particolarmente
gravi, viene assicurata anche attraverso
la possibilità di assumere, con contratto a tempo determinato, insegnanti di
s e t t e m b r e • o t t o b r e
2 0 1 0
sostegno in deroga al rapporto docentialunni indicato al comma 3 (ossia un
insegnante per ogni gruppo di 138
alunni complessivamente frequentanti
gli istituti scolastici statali delle provincia). Per cui, laddove la gravità della
patologia lo richieda, il piano educativo
individualizzato sarà attuato anche
mediante la nomina con contratto a
tempo determinato di un insegnante di
sostegno, in deroga al rapporto docentialunni fissato ex lege.
La ratio è tenere conto del grado e
della tipologia di deficit di cui è portatore il singolo individuo, di modo tale
che ad un maggiore livello di disabilità
corrisponda un maggior grado di assistenza, consentendo al disabile di superare il suo svantaggio e di porlo in
condizione di parità con gli altri. Si
tratta di un intervento mirato, che consente di tenere in debita considerazione
la specifica tipologia di handicap da cui
è affetta la persona.
Sempre in quest’ottica, al fine di
accertare che ogni intervento destinato
all’alunno in situazione di handicap sia
correlato alle effettive potenzialità che
il medesimo dimostri di possedere nei
vari livelli di apprendimento e di prestazioni educativo-riabilitative, l’art. 6 del
d.P.R. 24 febbraio 1994 prevede l’espletamento di verifiche periodiche degli
interventi disposti e dell’influenza esercitata dall’ambiente scolastico sull’alunno, nell’ottica di un’eventuale aggiornamento dei provvedimenti scolastici in
virtù delle mutate esigenze.
La formulazione dell’art. 40, legge
27 dicembre 1997, n. 449, era stata integrata dall’art. 1, comma 605, della
legge 296/2006 e dall’art. 2, comma
413- 414, della legge 244/07.
In particolare l’intervento dell’art. 2
della legge 244/07, aveva comportato
l’impossibilità di assumere un numero
di docenti di sostegno “in deroga” nelle
classi di studenti con disabilità grave,
con l’inevitabile conseguenza che le
amministrazioni scolastiche, sprovviste
di un organico di sostegno sufficiente,
provvedessero ad assegnare l’insegnamento di sostegno per un numero di ore
inferiore a quello riconosciuto al disabile dalla commissione dell’unità sanitaria locale competente e dal piano
educativo individualizzato.
Per effetto di tale cambiamento,
negli ultimi tre anni si sono moltiplicati i ricorsi contro il Ministero dell’Istru-
135
zione, dell’Università e della Ricerca,
quale legale rappresentante pro tempore delle singole scuole, per l’annullamento dei provvedimenti scolastici di
assegnazione delle ore di sostegno, in
quanto lesivi del diritto del disabile
all’istruzione, alla formazione e all’integrazione sociale.
L’orientamento giurisprudenziale
prevalente, nonostante le modifiche
introdotte dall’art. 2, comma 413, della
legge 24 dicembre 2007, n. 244 e art. 2,
comma 414, legge n. 244 del 2007, era
nel senso dell’annullabilità dei provvedimenti amministrativi scolastici che
nell’assegnare al disabile un docente
specializzato non tenessero conto delle
sue personali esigenze, strettamente
connesse al tipo e alla gravità di handicap. Il ragionamento dei giudici amministrativi si fondava sull’idea che la diversa modalità di determinazione degli
organici non svuotasse né privasse della
protezione garantita dalla legge le situazioni degli alunni portatori delle stesse
forme particolarmente gravi di handicap perché imposto dal rispetto dei
principi sull’integrazione degli alunni
diversamente abili fissati dalla l. 5 febbraio 1992, n. 104” (ex multis, Tar
Lazio, sez. III-bis, 30 marzo 2009, n.
3237; Cons. Stato, ord. 24 febbraio
2009, n. 1006 e n. 1038; Tar Liguria,
sez. II, 2 aprile 2009, n. 742).
Stanti, tuttavia, i dubbi interpretativi e applicativi riscontrati, si poneva
necessaria la pronuncia del giudice delle leggi che, accogliendo la questione di
legittimità dell’art. 2, comma 413-414,
della legge 24 dicembre 2007, n. 244,
sollevata da Cons. giust. amm. sic., ord.
26 marzo 2009, ha confermato, con la
sentenza succitata n. 80 del 26 febbraio
2010, l’utile impiegabilità del contratto
a termine, anche eventualmente in deroga al rapporto docenti/alunni, ribadendo, così, il dictum espresso già più
volte dai Tar e dal Consiglio di Stato,
prima dell’introduzione della norma
dichiarata incostituzionale (si veda sul
punto Cons. Stato, sez. V, 21 marzo
2005 n. 1134; Cons. Stato, sez. VI, 17
ottobre 2000, n. 245; Cons. Stato, ord.
24 febbraio 2009, n. 1006 e n. 1038).
Si legge testualmente nella sentenza:
“La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2,
comma 413, della legge 24 dicembre
2007 n. 244, nella parte in cui fissa un
limite massimo al numero dei posti
questioni
Gazzetta
136
degli insegnanti di sostegno; nonché
l’illegittimità costituzionale dell’art. 2,
comma 414, l. n. 244 del 2007, nella
parte in cui esclude la possibilità di
assumere insegnanti di sostegno con
contratto a tempo determinato, in deroga al rapporto docenti ed alunni indicato dall’art. 40 comma 3 l. n. 449
del 1997, in presenza di disabilità particolarmente gravi, una volta esperiti
gli strumenti di tutela previsti dalla
normativa vigente.”
Il Giudice delle leggi ha censurato le
suddette disposizioni perché la loro applicazione rappresentava una negazione
al disabile di quel nucleo indefettibile di
garanzie a presidio del diritto all’educazione, posto che la riserva che consentiva di assumere insegnanti di sostegno a
tempo determinato, costituisce uno degli strumenti più validi per rendere effettivo il diritto all’istruzione e all’integrazione del diversamente abile.
L’assistenza di sostegno ai disabili
gravi non potrà, pertanto, essere negata
per ragioni relative all’insufficienza del
personale docente ed il criterio per l’assegnazione delle ore di sostegno dovrà
essere quello della gravità della disabilità e delle effettive esigenze di sostegno
del minore, supplendo alle eventuali
insufficienze dell’organico anche trami-
q u e s t i o n i
te l’assunzione di docenti specializzati
con contratto a tempo determinato.
L’eventuale provvedimento delle
amministrazioni scolastiche che “motivi” l’assegnazione del monte ore in base
al “vincolo di formazione dell’organico” sarà pertanto illegittimo per “violazione di legge”, potendo la sua motivazione fondarsi esclusivamente sulle
“concrete esigenze di assistenza”
dell’alunno disabile.
Questione collegata a quella in esame è se, in sede di ricorso al giudice
amministrativo, possa ottenersi la
“quantificazione del numero di ore
spettante all’alunno disabile con riguardo ai successivi anni scolastici”.
Al riguardo, si afferma in giurisprudenza l’inaccoglibilità della domanda in
quanto, dovendo l’assegnazione delle
ore essere proporzionata alla gravità
dell’handicap e alle sue evoluzioni, anche in considerazione delle possibilità di
recupero della persona disabile, non è
possibile predeterminare le ore per il
futuro in assenza di certezze circa tali
evoluzioni (Tar Napoli, Campania, sez.
IV, 23 settembre 2010, n. 17517; Tar
Napoli, Campania, sez. IV, 3 agosto
2010, n. 17222; Tar Napoli, Campania,
sez. IV, 20 aprile 2010, n. 2054).
Ultima questione strettamente cor-
Gazzetta
F O R E N S E
relata a quella principale è la risarcibilità del danno non patrimoniale subito
dal disabile a causa dell’insufficienza
del numero di ore di sostegno di cui ha
fruito: sul punto, la giurisprudenza è
orientata a subordinare l’accoglimento
della domanda risarcitoria alla prova da
parte del ricorrente, da un lato, della
condotta colposa dell’amministrazione,
intesa come comportamento negligente,
irragionevole, sprorzionato e privo di
coerenza logica, dall’altro, delle conseguenze di tale condotta sulle condizioni
psichiche-relazionali del disabile (si veda, tra tante, Tar Liguria, sez. II, 1°
luglio 2010, n. 5498; Tar Calabria, sez.
II, n. 2547/10; Tar Napoli, Campania,
sez. IV, 23 settembre 2010, n. 17517;
Tar Napoli, Campania, sez. IV, 3 agosto
2010, n. 17222; Tar Napoli, Campania,
sez. IV, 20 aprile 2010, n. 2054).
In conclusione, l’apporto dato dal
giudice delle leggi e dai giudici amministrativi è senz’altro di non poca rilevanza, avendo contribuito all’avanzamento
del processo di realizzazione sostanziale del diritto del disabile all’educazione
e all’istruzione, quale presupposto necessario per la sua integrazione sociale
e la riaffermazione della sua dignità di
essere umano, prima ancora che di cittadino.
Recensioni
[ A cura di Ermanno Restucci ]
139
recensioni
Responsabilità civile e risarcibilità del danno
di Gaetano Annunziata, Padova, 2010
F O R E N S E
●
Responsabilità civile
e risarcibilità del danno
di Gaetano Annunziata,
Padova, 2010
● A cura di Ermanno Restucci
Avvocato
Le problematiche della responsabilità civile sono state affrontate, sin
dalle prime applicazione codicistiche,
sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza con copiosa produzione anche a
causa del tema che ha conosciuto continue evoluzioni interpretative in un contesto modificato da norme speciali.
Il testo offre spunti di riflessione in
ordine alla prova liberatoria, cui è dedicato una sezione nel capitolo quarto, al
nesso di causalità ed all’onere probatorio.
L’opera è suddivisa in due parti.
Nella prima – che comprende sei
capitoli – ed è intitolata “profili generali della responsabilità civile”, si dà ampio spazio, oltre che ai profili generali
ed al fondamento della responsabilità
civile, anche alle tecniche risarcitorie
per la determinazione del danno.
Segue una ampia trattazione della
funzione della responsabilità giuridica,
che l’autore definisce come corrispondente “a quella situazione giuridica in
base alla quale un soggetto è chiamato
a risarcire il danno prodotto ad un altro
soggetto in base e nella ricorrenza di
criteri normativi di imputazione”.
s e t t e m b r e • o t t o b r e
2 0 1 0
Trattazione che si snoda tra la enunciazione – anche critica – delle teorie
relative alla concezione soggettivistica
(o etica) ed alla concezione oggettivistica (o tecnicistica) della responsabilità
civile, con costanti riferimenti alla dottrina ed alle pronunzie della Suprema
Corte e con particolare attenzione alla
differenza esistente in campo penale
(nel quale la responsabilità ruota intorno all’autore del fatto) ed in campo civile (nel quale si incentra sulla figura del
danneggiato).
La prima parte del testo continua
con la esposizione di una schematica
trattazione dell’abuso e dell’esercizio del
diritto con riferimento alle fattispecie
degli artt. 833 e 844 c.c.
L’autore, dopo aver fatto riferimento alla dottrina più accreditata sul punto, propone una condivisibile lettura
dell’art. 833 c.c., secondo cui, alla occorre verificare – per una corretta valutazione della portata della norma – il
rispetto della esigenza di bilanciamento
degli interessi “che costituisce espressione di un principio generale valido in
tutti i casi in cui vengano in rilievo situazioni di interessi configgenti ugualmente meritevoli di tutela”.
La lettura del testo prosegue con la
trattazione delle singole categorie di danno risarcibile, con particolare riferimento
alle pronunzie – lette in chiave critica ed
applicativa – della Suprema Corte a sezioni unite emesse l’11 novembre 2008.
L’autore, mostrando una lettura approfondita delle decisioni, sottopone i
criteri di risarcibilità del danno non patrimoniale e cioè da un alto quello della
gravità della condotta offensiva e dall’altro quello della serietà del pregiudizio.
139
Una ampia trattazione è dedicata,
sempre nella prima parte del testo, alla
equa riparazione del danno ai sensi
della legge 24/03/2001 n. 89, con particolare riferimento ai rapporti tra la
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, la Corte di Strasburgo e la legislazione interna.
La prima parte del testo termina con
una satisfattiva esposizione della responsabilità medica, nella quale l’autore affronta diversi aspetti delle varie
problematiche con particolare riferimento a quella del “più probabile che
non” (o teoria della preponderanza
dell’evidenza), non mancando di dissentire dall’orientamento assunto dalla
Suprema Corte.
La seconda parte del testo è dedicato al tema delle cc.dd. responsabilità
presunte così come l’Autore preferisce
chiamarle piuttosto che indicarle fattispecie di colpa presunta, in ossequio –
come espressamente detto nella premessa – “alla concezione oggettivista che ne
permea il fondamento”.
L’Autore affronta i casi disciplinati
dagli artt. dal 2047 al 2054 c.c., trattati
con uno schema pratico e di agevole
lettura e completando l la esposizione
delle singole fattispecie con una ampia ed
aggiornata casistica giurisprudenziale.
Il testo si conclude con l’esame del
danno ambientale, con una precisa individuazione dei soggetti attivamente e
passivamente legittimati all’azione.
Conclusivamente può affermarsi
che il testo appare come un ottimo punto di riferimento per una lettura chiara
ed approfondita delle problematiche in
ordine alle responsabilità civile e risarcibilità del danno.
recensioni
Gazzetta
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
corte di cassazione
sez. II civ., ord. 4.11.2010, n. 22478 s.m.
sez. III civ., sent. 2.11.2010, n. 22274 s.m.
sez. un. civ., sent.25.10.2010, n. 21799 s.m.
sez. un. civ., sent.25.10.2010, n. 21799 s.m.
sez. un. civ., sent. 25.10.2010, n. 21799 s.m.
sez. III civ., sent. 22.10.2010, n. 21739 s.m.
sez. III civ., sent. 22.10.2010, n. 21739 s.m.
sez. III civ., sent. 22.10.2010, n. 21737 s.m.
sez. I civ., sent. 22.10.2010, n. 21718 s.m.
sez. I civ., sent. 21.10.2010, n. 21644 s.m.
sez. III civ., sent. 21.10.2010, n. 21601 s.m.
sez. I civ., ord. 20.10.2010, n. 21554 s.m.
sez. II civ., sent. 19.10.2010, n. 21447 s.m.
sez. II civ., sent. 19.10.2010, n. 21444 s.m.
sez. II civ., sent. 19.10.2010, n. 21441 s.m.
sez. lav., sent. 14.10.2010, n. 21215 s.m.
sez. lav., sent. 14.10.2010, n. 21215 s.m.
sez. lav., sent. 13.10.2010, n. 21160 s.m.
sez. I civ., sent. 30.09.2010, n. 2050 (con nota di Piccolo)
sez. un. civ., sent. 06.08.2010, n. 18331 (con nota di Gravina di
Ramacca)
sez. un. civ., sent. 18.02.2010, n. 3947 (con nota di de Notaristefani)
tribunale
Napoli, sez. X civ., ord. 02.11.2010 s.m.
Napoli, sez. X civ., sent. 21.10.2010, n. 10683 (con nota red.)
Napoli, sez. Feriale, ord. 15.10.2010 s.m.
Napoli, sez. Feriale, ord. 15.10.2010 s.m.
Napoli, sez. X civ. ord. 08.10.2010 s.m.
Napoli, sez. Feriale, ord. 27.09.2010 s.m.
Napoli, sez. X civ. ord. 29.07.2010 s.m.
Napoli, sez. III civ., decr. 08.07.2010 s.m.
Napoli, sez. lavoro, sent. 26.05.2010, n. 14458 (con nota red.)
Napoli, sez. dist. Pozzuoli, sent. 19.02.2010 (con nota red.)
Diritto e procedura penale
corte di cassazione
sez. VI pen., sent. 09.07.2010, n. 32222 s.m.
sez. V pen., sent. 02.07.2010, n. 30957 s.m.
sez. V pen., sent. 02.07.2010, n. 30959 s.m.
sez. V pen., sent. 30.06.2010, n. 30946 s.m.
sez. un. pen., sent. 24.06.2010, n. 35737 s.m.
sez. un. pen., sent. 24.06.2010, n. 35399 s.m.
sez. un. pen., sent. 24.06.2010, n. 33885 s.m.
sez. VI pen., sent. 21.06.2010, n. 31016 s.m.
sez. IV pen., sent. 10.06 2010, n. 32021s.m.
sez. un. pen., sent. 27.05.2010, n. 35738 s.m.
tribunale
Nola, coll. B), sent. 14.10.2010, n. 1357 s.m.
Nola, coll. D), sent. 13.10.2010, n. 1439 s.m.
Nola, coll. D), sent. 06.10.2010, n. 1387 s.m.
Napoli, G.M., ord. 29.09.2010, n. 195 s.m.
Napoli, G.M., sent. 16.09.2010, n. 11195 s.m.
Napoli, G.M., sent. 16.09.2010, n. 11127 s.m.
Napoli, G.M., sent. 16.09.2010, n. 11101 s.m.
Napoli, G.M., sent. 10.09.2010, n. 9737 s.m.
Napoli, G.M., sent. 21.07.2010, n. 10281 s.m.
Napoli, G.M., sent. 13.07.2010, n. 10142 s.m.
Napoli, G.M., sent. 12.07.2010, n. 9929 s.m.
Nola, coll. C), sent. 09.07.2010, n. 1159 s.m.
Nola, coll. C), sent. 08.07.2010, n. 1152 s.m.
Napoli, G.M., ord. 08.07.2010, n. 167 s.m.
Nola, coll. D), sent. 07.07.2010, n. 1134 s.m.
Nola, coll. D), sent. 07.07.2010, n. 1133 s.m.
Nola, coll. A), sent. 07.07.2010, n. 1130 s.m.
Napoli, coll. B), ord. 24.06.2010, n. 153 s.m.
Napoli, G.M., ord. 22.06.2010, n. 147 s.m.
Nola, G.M., sent. 28.05.2010, n. 788 s.m.
Nola, coll. D), sent. 26.05.2010, n. 780 s.m.
Nola, G.M., sent. 26.05.2010, n. 778 s.m.
Nola, G.M., sent. 26.05.2010, n. 777 s.m.
Nola, G.M., sent. 26.05.2010, n. 775 s.m.
Nola, G.M., sent. 26.05.2010, n. 774 s.m.
Nola, G.M., sent. 26.05.2010, n. 773 s.m.
Nola, G.M., sent. 26.05.2010, n. 772 s.m.
Nola, G.M., sent. 25.05.2010, n. 766 s.m.
Nola, G.M., sent. 25.05.2010, n. 763 s.m.
Nola, G.M., sent. 24.05.2010, n. 757 s.m.
Nola, G.M., sent. 24.05.2010, n. 756 s.m.
Pied. Matese, G.M., sent. 21.05.2010, n. 130 s.m.
Nola, G.o.t., sent. 18.05.2010, n. 695 s.m.
Nola, G.M., sent. 13.05.2010, n. 665 s.m.
Nola, G.M., sent. 01.05.2010, n. 620 s.m.
Nola, G.M., sent. 13.02.2010, n. 203 s.m.
g.u.p.
Napoli, sent. 17 settembre 2010, n. 1902 s.m.
Napoli, sent. 17 settembre 2010, n. 1900 s.m.
Napoli, sent. 17 settembre 2010, n. 1899 s.m.
Diritto amministrativo
consiglio di stato
sez. V, sent. 16.08.2010 n. 5702 (con nota di Napolano)
sez. V, sent. 10.09.2010 n. 6546 s.m.
sez. IV, sent. 15.09.2010, n. 6907 s.m.
sez. VI, sent. 24.09.2010, n. 7132 s.m.
sez. V, sent. 01.10.2010, n. 7256 s.m.
sez. V, sent. 13.10.2010, n. 7470 s.m.
sez. V, sent. 15.10.2010, n. 7524 s.m.
Diritto tributario
corte di cassazione
sez. trib., 16.07.2010, n. 16722 (con nota di Cantone)
Diritto internazionale
High Court of Justice Court of Appeal (Civil Division), sent. 08.10.2010
(con nota di Romanelli)
Supreme Court Of The State Of New York, d. 17 febbraio 2010 (con nota
di Romanelli)
Court of Session, sent. 08 gennaio 2010 (con nota di Romanelli)
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