“IL DUPLICE LINGUAGGIO DI LUDWIG WITTGENSTEIN

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“IL DUPLICE LINGUAGGIO DI
LUDWIG WITTGENSTEIN”
PROF. MAURO DI GIANDOMENICO
Università Telematica Pegaso
Il duplice linguaggio di Ludwig
Wittgenstein
Indice
1
UN TRACTATUS CON SETTE TWEET. -------------------------------------------------------------------------------- 3
2
LA LOGICA E LA STRUTTURA DEL MONDO----------------------------------------------------------------------- 6
3
LA TEORIA ATOMICA DEL LINGUAGGIO -------------------------------------------------------------------------- 8
4
IL LINGUAGGIO DELLA VERITÀ ------------------------------------------------------------------------------------- 10
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Il duplice linguaggio di Ludwig
Wittgenstein
1 Un Tractatus con sette tweet.
Non avrebbe mai potuto immaginare lo strano ed eccentrico filosofo austro-inglese Ludwig
Wittgenstein, nato a Vienna nel 1889 e morto nel 1951, che la laconicità del suo più celebre libro, il
Tractatus logico-philosophicus, pubblicato a Londra nel 1922 sarebbe stata inconsapevolmente
adottata da Jack Dorsey, il creatore del celebre microblogging Twitter. Pensate che le sue sette
proposizioni centrali occupano mediamente 60 caratteri ciascuno (contro i 140 ammessi da Twitter
per ogni tweet). Né avrebbe ipotizzato che, per penetrare a fondo i collegamenti tra quelle sette
proposizioni e le altre 519 esplicative, si sarebbe ricorsi al meccanismo interpretativo di un ipertesto
a struttura gerarchica. Eppure tutto questo è avvenuto e sta ad indicare, anche per vie trasversali,
l’importanza delle ricerche di uno dei filosofi più famosi del XX secolo.
Naturalmente, la sua influenza fondamentale si fa sentire nel terreno filosofico-linguistico
(anche se non solo in esso), e, più in particolare, possiamo riconoscere che le sue due principali
pubblicazioni, il Tractatus, appunto, e le Ricerche filosofiche, pubblicate postume nel 1953, sono
all’origine di due scuole filosofiche tra loro opposte, il neopositivismo del Circolo di Vienna, nato
negli anni ’20 del secolo scorso, con obiettivo l’analisi del linguaggio scientifico, e la filosofia del
linguaggio ordinario, sviluppatasi ad Oxford negli anni ’40, sempre dello scorso secolo.
Accenniamo, prima di tutto alla struttura generale del Tractatus. Il libro è articolato in sette
proposizioni fondamentali:
1) Il mondo è tutto ciò che accade.
2) Ciò che accade, il fatto, è il sussistere dello stato di cose.
3) L’immagine logica dei fatti è il pensiero.
4) Il pensiero è la proposizione munita di senso.
5) La proposizione è una funzione di verità delle·proposizioni elementari.
6) La forma generale della funzione di verità è: [p, ξ, N, (ξ)]. Questa è la forma
generale della proposizione.
7) Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.
Ognuna di queste proposizioni è capofila di una serie di sotto-proposizioni che, a loro volta,
generano altre sotto-sotto-proposizioni esplicative, a cascata, costituendo, così, una ramificazione
che da esplicativa diventa dimostrativa.
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Tutte le proposizioni del Tractatus sono numerate secondo un sistema decimale molto
intuitivo, che del resto Wittgenstein spiega in nota. Ecco l’inizio:
1.
Il mondo è tutto ciò che accade.
1.1
Il mondo è la totalità dei fatti non delle cose.
1.11
Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti.
1.12
Ché la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche la totalità di ciò che non
accade.
1.13
I fatti nello spazio logico sono il mondo.
1.2
Il mondo si divide in fatti.
1.21
Una cosa può accadere o non accadere e tutto l’altro restare uguale.
2.
Ciò che accade, il fatto, è il sussistere dello stato di cose.
2.01
Lo stato di cose è un nesso d’oggetti. (Enti, cose).
2.011 E’ essenziale alla cosa poter essere la parte costitutiva d’uno stato di cose.
2.012 ………………..
2.0121 ………………..
Trasformiamo questa sequenza in grafo ed abbiamo lo schema di lettura interpretativa
dell’intero Tractatus:
Sarebbe perciò un errore voler seguire il pensiero di Wittgenstein leggendo le proposizioni
nell’ordine sequenziale dato. In effetti, il modo più efficace di leggere il Tractatus è di cogliere
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alcuni punti fondamentali che aiutano poi a spiegare tutti gli altri. Però questi punti non sono tutti
contenuti nelle sette proposizioni centrali, né si identificano con esse. I problemi trattati da
Wittgenstein sono assai numerosi. Il libro contiene infatti: una teoria della logica, che riguarda i
termini “senso” e “significato” con un uso di questi termini diverso da quello di Frege; una teoria
del mondo come insieme di fatti atomici, che sono gli elementi minimali richiesti dal discorso
logico; una teoria del rapporto fra linguaggio e mondo, ossia una descrizione del modo in cui si può
usare il linguaggio in maniera corretta dal punto di vista semantico; infine, una teoria delle leggi
scientifiche che vengono interpretate come “reti” con le quali si può indagare qualcosa del mondo
senza mai coglierlo nella sua totalità Senza parlare, poi, delle tematiche etiche che in esso
emergono.
Non faremo, però, né una parafrasi né una silloge del Tractatus, ma ci limiteremo ad
illustrare quegli aspetti più in linea con il filo del discorso teoretico che stiamo ora intessendo con le
nostre lezioni, dedicate alla filosofia del linguaggio scientifico, riservandoci di affrontare in un
secondo momento l’indagine sulla filosofia del linguaggio comune.
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2 La logica e la struttura del mondo
Il tentativo di ordinamento nel campo della logica attuato alla fine dell’Ottocento (ricordate
Frege?) aveva portato con sé la considerazione del linguaggio logico come qualcosa di riducibile ad
un numero determinato di segni, che non possono essere a loro volta ulteriormente divisi. Questo
concetto in Wittgenstein è legato a quello di atomismo logico che, come ogni ipotesi atomistica,
ammette a priori l’esistenza di qualcosa di indiviso, per non lasciare che tutto si dissolva in una
uniformità senza differenze. Ora, pensiamo ad un mondo diviso nelle sue costituenti più originarie e
nel quale nulla può essere fuori dal complesso degli atomi e delle loro combinazioni, e
domandiamoci quale sarà la conoscenza che di questo mondo può avere un essere che si curvi su di
esso e lo osservi come venendo da un altro universo.
Da qui parte Wittgenstein: “Il mondo – proposizione 1 del Tractatus - è tutto ciò che
accade”. Siccome tutto ciò che accade è un insieme di fatti, “ il mondo è la totalità dei fatti, non
delle cose” (p. 1,1). I fatti si distinguono in complessi e atomici. I fatti complessi sono il risultato
della combinazione di due o più fatti atomici: ad esempio, il fatto complesso “Socrate era un saggio
ateniese”·è costituito di due fatti atomici “Socrate era un saggio” e “Socrate era ateniese”. I fatti
atomici si caratterizzano come fatti semplici, che, però, sono scomponibili in oggetti semplici, enti o
cose che siano. Gli oggetti rappresentano l’aspetto fisso, immutabile del mondo, quindi
costituiscono la sua sostanza (p. 2.021). Con questo, però Wittgenstein non intende dire che
l’esistenza degli oggetti, o enti, o cose, può essere accertata empiricamente, ma piuttosto che la si
deve ammettere per necessità logica, giacché, se il mondo fosse privo di una sostanza, cioè di
elementi ultimi, non sarebbe possibile averne alcuna rappresentazione vera o falsa che sia. Data la
loro natura, quindi, gli oggetti possono essere pensati soltanto come parti costitutive di ciò che
accade.
Tuttavia, la funzione che essi esplicano nei fatti in cui intervengono non è fissa, per cui non
può essere determinata a priori. Le variazioni che tale funzione subisce si riflettono sulla
considerazione che i fatti atomici assumono, cosicché ciascuno di essi, nel suo darsi, è quello che è,
indipendentemente dal rapporto che ha o può avere con altri fatti. Tra i fatti che costituiscono il
mondo, secondo Wittgenstein, ce ne sono alcuni che hanno una struttura simile: in essi gli oggetti si
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connettono tra loro alla stessa maniera. Ora, ciò che consente di rilevare tale caratteristica non è la
struttura dei fatti, ma la sua possibilità.
Sennonché, la possibilità della struttura dei fatti coincide con la loro forma logica, per cui è
in virtù della forma logica che riusciamo a cogliere l’affinità tra i fatti atomici. In logica, comunque,
osserva Wittgenstein “nulla è accidentale” (p. 2.012); pertanto, se la forma inerisce ai fatti, perché
rappresenta la possibilità logica della loro struttura, essa è presente anche negli oggetti, che di tale
struttura sono gli elementi costitutivi. D’altra parte, la forma o possibilità logica è essenziale per gli
oggetti, in quanto è la condizione stessa del loro reciproco connettersi e, quindi, della loro
pensabilità. Scrive Wittgenstein “Come non ci è affatto possibile concepire oggetti spaziali fuori
dello spazio, oggetti temporali fuori del tempo, così non ci è possibile concepire alcun oggetto fuori
della possibilità di combinarsi con altri oggetti” (p. 2.0121) Tale possibilità è il suo spazio logico.
che si può immaginare anche vuoto, ma da cui non si può prescindere quando si pensa all’oggetto.
In conseguenza di tutto ciò, lo specchio delle cose è il linguaggio, e, dal momento che esso è
basato su procedimenti logici, la logica si configura come il linguaggio perfetto, mentre il
linguaggio comune non è che un procedimento logico mascherato. Insomma, il mondo è un insieme
di fatti atomici costituenti una struttura, ai quali corrispondono biunivocamente le rappresentazioni
umane nello spazio logico. Al variare dei fatti atomici, variano anche le loro rappresentazioni
linguistiche e, se è possibile far variare tutti i fatti atomici in tutti i modi possibili, allora tutta la
realtà del mondo viene esaurita nel discorso.
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3 La teoria atomica del linguaggio
In base alla struttura della realtà che Wittgenstein delinea, appare chiaro che il linguaggio
può fungere da sua immagine solo a condizione che sia in grado di “rispecchiare” le modalità
secondo cui gli oggetti in essa si combinano insieme. Per questa ragione egli sostiene che “ciò che
l’immagine deve avere in comune con la realtà per poterla raffigurare, esattamente o
erroneamente, secondo la propria maniera, è la forma di raffigurazione propria dell’immagine” (p.
2.17). cioè la sua forma logica, la possibilità di struttura.
Certamente può apparire strano che realtà tanto diverse tra loro, come il linguaggio da una
parte, e la totalità dei fatti dall’altra ( cioè il pensiero da un lato, e il mondo dall’altro), abbiano
affine proprio l’aspetto per il quale ciascuna di esse ha una fisionomia autonoma e ben definita.
Wittgenstein però ritiene di poter superare la difficoltà, in primo luogo affermando che anche
l’immagine, o raffigurazione linguistica, è un fatto e, in secondo luogo, ricorrendo al concetto di
proiezione. La proiezione geometrica di una figura su di una superficie, ad esempio, dà origine a
una figura diversa da quella proiettata, però ha in comune con essa alcune proprietà fondamentali.
La medesima cosa avviene per il linguaggio nei confronti della realtà: esso rappresenta la totalità
dei fatti essenzialmente per quegli aspetti per i quali questa è pensabile. E’ la teoria “raffigurativa”
della realtà.
Cerchiamo di chiarire questo punto. Un enunciato non possiede una forma specifica di
raffigurazione, ma ha quello che tutte le immagini devono comunque avere in comune con la
situazione rappresentata: la forma logica. Diversi tipi di immagine hanno in comune con la realtà
certi aspetti della propria forma di raffigurazione (la scultura gli aspetti tridimensionali, la pittura i
colori, il disegno le proporzioni ecc.). L'enunciato, cioè l’immagine costituita da simboli, non può
condividere con la realtà questi aspetti concreti ma deve pur sempre avere qualcosa in comune con
essa, almeno la forma più astratta, e cioè la sua forma logica. Anche gli altri tipi di immagini, come
scultura e pittura, hanno in comune con la situazione rappresentata la forma logica, oltre agli aspetti
concreti sopra accennati. L’enunciato tuttavia ha in comune con la realtà raffigurata solo la forma
logica: il modo in cui gli elementi dell’enunciato stanno in rapporto tra loro rispecchia in maniera
essenziale il modo in cui gli oggetti stanno in relazione tra loro nella situazione rappresentata.
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In questo quadro si inserisce la teoria wittgensteiniana della nominazione. Pur richiamandosi
spesso a Frege, Wittgenstein rifiuta alcune sue tesi, in particolare che i nomi abbiano sia un senso
che un riferimento. Egli sostiene infatti una tesi alternativa: i nomi si riferiscono direttamente agli
oggetti, senza alcuna mediazione cognitiva o concettuale. La sua analisi dei nomi è fondamentale
per l’intero sistema. Infatti Wittgenstein indica un compito, quello di arrivare ad enunciati analizzati
nelle loro componenti ultime, enunciati atomici o elementari. La forma logica degli enunciati
elementari è un insieme di nomi connessi tra di loro. I nomi si riferiscono direttamente agli oggetti
semplici.
In conseguenza di ciò, come la realtà consta di fatti che si compongono dì fatti atomici (i
quali, a loro volta, sono costituiti di oggetti semplici), così il linguaggio è formato di proposizioni
complesse o molecolari che sono il risultato dell’unione di proposizioni elementari o atomiche, e
queste scaturiscono dalla combinazione dei nomi. Tra gli oggetti. come elementi indissociabili dei
fatti, e i nomi, come segni primitivi della proposizione, c’è dunque una relazione tale per cui ad
ogni oggetto della realtà corrisponde un nome nel linguaggio e viceversa.
Siccome i nomi stanno per i loro oggetti - “Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo
significato. (“A” è lo stesso segno che “A”)” (p. 3.203) -, il modo in cui essi sono uniti in una
proposizione indica come i loro oggetti sono connessi in un fatto atomico (p. 3.21). Pertanto, il
senso di una proposizione consiste nella sua forma logica, cioè nella relazione che intercorre tra i
membri che la costituiscono, perché tale relazione assicura ad essa di descrivere possibili fatti. La
verità di una proposizione, invece, oltre che dall’identità della sua forma logica con quella del fatto,
dipende anche dall’effettivo accadere di ciò che essa rappresenta. “Per riconoscere se l’immagine è
vera o falsa, la si deve confrontare con la realtà” (p. 2.223). Quindi la verifica del senso di una
proposizione si compie prendendo in considerazione una sola forma logica, quella della
proposizione, mentre la verifica della sua verità si compie tenendo presente due forme logiche:
quella della proposizione e quella del fatto che essa raffigura.
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4 Il linguaggio della verità
Per l’atomismo logico l’analisi dell’enunciato deve portare a un enunciato non ulteriormente
analizzabile, l’enunciato “atomico” o “elementare”. Una volta definiti gli enunciati atomici, tutte gli
altri enunciati saranno definiti in loro funzione e la loro verità dipenderà dalla verità o falsità degli
stessi enunciati atomici.
Ricorderete che per il principio di composizionalità di Frege, il valore di verità degli
enunciati composti dipende dal valore di verità degli enunciati componenti. Nel Tractatus
Wittgenstein rende questa idea più definita con il metodo delle tavole di verità, cioè con un metodo
di decisione per cui, dato il valore di verità degli enunciati componenti, è sempre possibile decidere
in un numero finito di passi quale sia il valore di verità degli enunciati composti. Il metodo delle
tavole di verità è il contributo principale, di Wittgenstein alla logica del ’900: esse si possono
presentare con uno schema del genere:
1°
2°
3°
pq
p q
V
F
F
F
p q
V
V
V
F
VV
VF
FV
FF
VV
peq
po q
4°
p
V
q
F
V
V
se p allora q
Nella prima colonna con i simboli p e q in alto, abbiamo le quattro possibilità di
combinazione di Vero/Falso degli enunciati p e q. Possiamo chiamare queste quattro possibilità
“stati di cose” o “situazioni possibili”. Si può ipotizzare che p e q siano enunciati atomici non
ulteriormente analizzabili. Nelle altre tre colonne abbiamo enunciati composti, ove il connettivo
indica il modo di composizione:
e, o, se…allora.
Il valore di verità dell’enunciato composto dipende dal valore di verità degli enunciati
componenti; nel primo caso p
q avrà valore vero solo se entrambi gli enunciati componenti hanno
valore vero. L'enunciato è dunque funzione della verità degli enunciati componenti.
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Nel discorso quotidiano spesso usiamo i connettivi senza riflettere molto sul loro significato
preciso; basta però trovarsi in situazioni critiche, come l’aula di un tribunale, per capire
l’importanza di un uso preciso di espressioni come “non”, “e”, “o” ecc. La logica rende rigorose le
definizioni dei connettivi e permette anche un accordo preciso sul loro significato.
Dobbiamo ora accennare ad un ultimo aspetto, in questa lezione, del pensiero
wittgensteiniano sul linguaggio. Per di più, si tratta di un aspetto del Tractatus che ha dato molto
filo da torcere ai filosofi successivi: è la distinzione di Wittgenstein tra i diversi tipi di enunciati,
una volta definito il concetto di senso come condizioni di verità. Infatti da esso consegue che le
uniche espressioni linguistiche fornite di senso sono quelle che raffigurano fatti atomici, vale a dire
le proposizioni elementari o atomiche: “Le possibilità di verità delle proposizioni elementari
significano le possibilità di sussistenza e d’insussistenza degli stati di cose” (p. 4.3). Analogamente,
le sole sequenze di nomi che sono vere o false, insomma che hanno significato, sono quelle che,
oltre ad essere fornite di senso, rappresentano un fatto atomico esistente o inesistente. Secondo
Wittgenstein anche le proposizioni complesse o molecolari possono avere un senso ed essere fornite
di significato, purché siano funzioni di verità delle proposizioni atomiche in quanto appunto
enunciati che descrivono stati di cose.
Qui però sorge un grave problema che riguarda la logica. Difatti, se per una proposizione
non c’è la possibilità di esprimersi in forma logica, cioè di assicurarsi che la proposizione sia
pensabile, secondo Wittgenstein, quest’ultima è priva di senso. Tali sono gli enunciati che non
possono essere confrontati con la realtà: essi sono privi della capacità di rappresentare la struttura
relazionale che è propria di tutto ciò che può essere pensato.
Ed è proprio il caso degli “enti” logici: chi di voi ha visto un quantificatore universale a
passeggio per le vie della città, oppure una implicazione logica girare in auto alla ricerca di un
parcheggio? Dunque la logica è formata da enunciati privi di senso?
Per portare a compimento il progetto di costruire un linguaggio che risponda adeguatamente
alla funzione per cui viene usato, a Wittgenstein resta da chiarire appunto, la natura delle
proposizioni della logica. Egli riconosce che gli enunciati della logica non descrivono alcunché:
sono una specie di grado zero dell’enunciato perché sono o sempre veri (tautologie) o sempre falsi
(contraddizioni), indipendentemente da come stanno le cose nel mondo, sono cioè proposizioni che
indicano il modo in cui un enunciato è connesso con un altro. Essi perciò hanno un senso non
perché raffigurano i fatti, ma perché pongono in evidenza l’identità di significato esistente tra
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sequenze di nomi fra loro diverse. La loro peculiarità consiste nel rendere esplicite le forme logiche
delle proposizioni che rappresentano i fatti.
Vediamo i due esempi:
Tautologia: “piove o non piove” (p
p)
Contraddizione: “piove e non piove” (p /\
p).
Attenzione, però! A differenza degli enunciati sensati che hanno condizioni di verità,
tautologie e contraddizioni sono vere o false “senza condizioni”.
Per Wittgenstein, quindi, esistono due classi fondamentali di proposizioni possibili: le une,
le proposizioni atomiche, che basano il loro valore di verità sull’identità della loro forma logica con
quella del fatti atomici, le altre, le tautologie (e le contraddizioni) che sono valide solo sul piano
logico-formale e che non hanno alcuna relazione diretta con i fatti accertabili empiricamente. Il solo
linguaggio fornito di senso perciò è quello costituito di proposizioni elementari atomiche e di
tautologie (e contraddizioni).
Ma, oltre agli enunciati forniti di senso e quelli privi di senso, vi è una terza categoria che si
trova nel mirino di Wittgenstein: sono gli enunciati insensati, e cioè gli enunciati della filosofia,
dell’etica, dell’estetica e della metafisica, che non descrivono alcunché. Ma nemmeno sono
assimilabili agli enunciati della logica. Essi sono dunque non semplicemente privi di senso, ma
addirittura insensati. La differenza tra di essi è soprattutto la seguente: gli enunciati della metafisica
pretendono di descrivere il mondo e sono quindi fuorvianti. Gli enunciati della filosofia sono un
nonsenso palese, tale per cui chi li ha seguiti li riconosce come tali e apprende come usare
correttamente il linguaggio. Dire ciò che si può dire; tacere di ciò di cui non si può parlare. La
filosofia è come una scala che, una volta percorsa, si può abbandonare.
In realtà, la filosofia, secondo Wittgenstein, assolve due compiti: l’uno, negativo, per cui
pone in luce l’inconsistenza critica della maggior parte dei problemi che il pensiero tradizionale ha
cercato di risolvere, mostrando che scaturiscono dall’inadeguata comprensione della logica del
linguaggio che essa usa; l’altro, positivo, per cui stabilisce i confini entro i quali il pensiero può
svolgere la propria attività in maniera rigorosa e corretta. Inequivocabile, perciò, è la conseguenza
che scaturisce dal Tractatus: sì può dire solo ciò che rientra nell’ambito di competenza delle scienze
naturali.
D’altro canto, siccome “la logica riempie il mondo, i limiti del mondo sono anche i suoi
limiti” (p. 5.61). Infatti, i limiti del mondo. ossia di tutto ciò che accade o dei fatti, non sono che i
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limiti del linguaggio in cui possiamo parlare del mondo. Inoltre, “ciò che noi non possiamo pensare,
noi non lo possiamo pensare; né, di conseguenza, noi possiamo dire ciò che noi non possiamo
pensare” (ibid.). In questo ordine di idee i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio
pensiero.
Ma il linguaggio raffigura il mondo: quindi, nota Wittgenstein, “i limiti del linguaggio (del
solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo” (p. 5.62). Qualsiasi tentativo
che sia rivolto ad oltrepassare i limiti del mondo, del pensiero, del linguaggio, è ingiustificato,
giacché la totalità dei fatti che possono essere rappresentati rende ragione tanto di ciò che esiste
quanto di ciò che non esiste. Tuttavia, è infondato dire che il mondo è il “mio” mondo, ovvero che il
linguaggio è il “mio” linguaggio, perché, osserva Wittgenstein, ciò implicherebbe di nuovo il
riferimento ad un limite reso possibile solo dal fatto che io mi pongo fuori del ”mio” mondo e del
“mio” linguaggio, ovvero dalla supposizione che esistano un mondo ed un linguaggio diversi dal
“mio” mondo o dal “mio” linguaggio. “Il soggetto che pensa, immagina, non v’è” (p. 5.631). “Ove,
nel mondo, vedere un soggetto metafisico?”, (p. 5.633). L’unica realtà incontestabile è il
linguaggio: nulla al di fuori di esso può essere pensato con senso. La conclusione di Wittgenstein è
un ascetismo linguistico che non ha pari nella filosofia contemporanea.
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