L`incidenza del diritto comunitario e della

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SCUOLA SUPERIORE DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
MASTER IN DIRITTO TRIBUTARIO “EZIO VANONI”
I Edizione Siracusa
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L’incidenza del diritto comunitario e della giurisprudenza
della Corte di Giustizia negli ordinamenti interni
Tesi di fine master di:
Pietro Cascio
____________________________________________________
Anno 2010-2011
Indice
Capitolo I
Le fonti del Diritto Comunitario
1.1 Il sistema giuridico europeo e le fonti del diritto dell’Unione…………………….5
1.2 Il diritto originario………………………………………………………………………8
1.3 Il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea……………………………..9
1.4 Il diritto derivato……………………………………………………………………….10
1.5 Gli atti atipici…………………………………………………………………………..13
Capitolo II
L’incidenza del diritto comunitario in materia di tributi armonizzati: brevi
cenni
2.1 L’armonizzazione in materia di IVA…………………………………………….......14
2.2 L’IVA e la direttiva 2006/112/CE…………………………………………………...16
2.3 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione dell’IVA: il
caso Banca Antoniana Popolare Veneta Spa……………………………………..19
Capitolo III
L’incidenza del diritto comunitario e delle sentenze della Corte di Giustizia
in tema di tributi non armonizzati mediante l’analisi di casi pratici
3.1 L’armonizzazione in materia di imposte dirette……………………………………24
3.2 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione delle imposte
dirette…………………………………………………………………………………….26
3.3 La libertà fondamentali e gli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia
mediante l’analisi di casi pratici……………………………………………………..30
3.3.1 La libera circolazione delle persone: il caso Sckumacker e la tassazione
dei non residenti in Italia……………………………………………………….31
3.3.2 Segue: il diritto di stabilimento e la sentenza Cadbury Schwepps……….36
2
3.3.3 Segue: la libertà di stabilimento e il caso National Grid Indus BV, la cd.
exit tax…………………………………………………………………………….37
3.3.4 La libera circolazione dei servizi: il caso Gerritse………………………….42
3.3.5 La libera circolazione dei capitali : la sentenza Banco Bilbao Vizcaya
Argentaria, SA…………………………………………………………………...45
Capitolo IV
Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di stato: problematiche relative al
termine per l’esercizio dell’azione accertatrice da parte dell’amministrazione
finanziaria e sul tema del recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd.
regola del de minimis
4.1 Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di Stato……………………………………48
4.2 La disciplina degli aiuti di stato in materia fiscale………………………………..51
4.3 Il termine per l’esercizio da parte dell’amministrazione finanziaria dell’azione
accertatrice diretta al recupero degli aiuti dichiarati incompatibili…………….53
4.4 Il recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis…..58
Capitolo V
Il regime di attrazione europea: brevi considerazioni sulla compatibilità
con l’ordinamento comunitario
5.1 Il regime di attrazione europea………………………………………………………62
5.2 Segue: profili di compatibilità con l’ordinamento comunitario e le libertà
fondamentali…………………………………………………………………………….65
5.3 segue: il tema della concorrenza fiscale dannosa e gli aiuti di stato…………...68
Capitolo VI
Brevi cenni sull’abuso del diritto in materia fiscale ed in particolare, sulle
proposte di legge depositate in Parlamento che intendono codificare tale
materia
6.1 L’abuso del diritto in materia fiscale……………………………………………….71
6.2 L’esigenza di certezze delle regole nel rapporto fisco-contribuente……………75
6.3 Le proposte di legge in tema di abuso del diritto………………………………….77
3
6.3.1 La proposta di legge Leo A.C. 2521…………………………………………..78
6.3.2 La proposta di legge Strizzolo A.C. 2578…………………………………….80
6.3.3 La proposta di legge Jannone A.C. 2709……………………………………..81
Conclusioni……………………………………………………………………...82
4
Capitolo I
Le fonti del Diritto Comunitario
1.1 Il sistema giuridico europeo e le fonti del diritto dell’Unione
Il sistema giuridico dell’Unione Europa è costituito dall’insieme di norme che
regolano l’organizzazione e le competenze delle Istituzione comunitarie e i rapporti tra
queste e gli Stati membri.
L’ordinamento giuridico europeo presenta, quindi, la caratteristica di essere
completamente autonomo rispetto a quello degli Stati membri.
Con l’istituzione dell’Unione, gli Stati membri hanno infatti, limitato la propria
potestà legislativa, creando un ordinamento giuridico autonomo, vincolante sia per i
loro cittadini, sia per loro stessi, che deve essere applicato dai rispettivi organi
giurisdizionali.
Tali principi sono stati affermati, per la prima volta, nella sentenza Costa/ENEL1,
nella quale la Corte di Giustizia ebbe modo di precisare che “istituendo una Comunità
senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di
capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in specie di poteri effettivi
provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli
Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri
sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro
stessi”.
L’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione impedisce quindi, che il diritto
da essa elaborato sia superato dal diritto nazionale e ne garantisce l’applicazione
uniforme in tutti gli Stati membri.
Tuttavia, l’autonomia del diritto comunitario non implica una netta separazione con
gli ordinamenti degli Stati membri, in quanto tra i due ordinamenti s’instaura una stretta
integrazione e interdipendenza.
1
Causa C-6/64
5
La relazione che intercorre tra il diritto dell’Unione e il diritto nazionale è ben
delineata all’art. 4 del TUE che, a tal proposito, prevede che “In conformità
dell'articolo 5 (che enuclea i principi di attribuzione, sussidiarietà e competenza),
qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.
In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si
assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati
membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare
l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni
dell'Unione. Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti e si
astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli
obiettivi dell'Unione”.
La stretta integrazione tra i due ordinamenti implica pertanto, che questi siano tra di
loro coordinati.
Laddove sorgano situazioni di conflitto tra l’ordinamento comunitario e quello
nazionale, si dovrà fare riferimento ai principi elaborati dalla Corte di Giustizia, ovvero
al principio dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione e al principio della
preminenza del diritto dell’Unione sul diritto nazionale che gli si contrappone.
In base al primo principio, “l'applicabilità diretta va intesa nel senso che le norme
di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme
in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della
loro validità; dette norme sono quindi fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti
coloro che esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di
rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario; questo effetto riguarda anche
tutti i giudici che, aditi nell'ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto
organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto
comunitario”.2
In altri termini, qualora una disposizione del trattato o un atto delle istituzioni
dell’Unione presenti determinate caratteristiche, esso crea diritti e obblighi non soltanto
per le istituzioni dell’Unione e per gli Stati membri, ma anche per i cittadini
dell’Unione.
2
Causa C- 106/77
6
In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, invece, “le
disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente
applicabili, hanno l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non
solo di rendere «ipso jure» inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore,
qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche
— in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore
rispetto alle norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli
Stati membri — di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella
misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie; Il riconoscere una
qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella
quale si esplica il potere legislativo della Comunità, o altrimenti incompatibili col
diritto comunitario, equivarrebbe infatti a negare, sotto questo aspetto, il carattere
reale d'impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato,
dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità”.
Ne consegue che, in caso di conflitto o di incompatibilità tra norme di Diritto
dell’Unione Europea e norme nazionali, le prime prevalgono sulle seconde, e il giudice
nazionale è tenuto a disapplicare la disposizione interna contrastante con la legislazione
comunitaria senza dover chiedere o attendere l'effettiva rimozione, ad opera degli organi
nazionali all'uopo competenti, delle eventuali misure nazionali che ostino alla diretta e
immediata applicazione delle norme comunitarie.
Al fine di evitare i conflitti tra le norme del diritto dell’Unione e quelle nazionali
tutte le istituzioni nazionali che sono chiamate concretamente ad applicare il diritto o a
svolgere funzioni giurisdizionali possono ricorrere comunque, all’interpretazione del
diritto nazionale conforme al diritto dell’Unione.
La Corte di Giustizia, secondo un orientamento ormai consolidato, ha individuato il
fondamento giuridico dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione nel principio
di leale cooperazione previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, sopra citato, il cui
rispetto comporta anche l’obbligo degli organi nazionali di tener conto, nell’interpretare
e applicare il diritto nazionale su cui prevale quello dell’Unione, del tenore letterale e
delle finalità perseguite dal diritto dell’UE (dovere di lealtà verso l’Unione).
Passando adesso, al tema delle fonti del diritto comunitario, la dottrina prevalente è
solita distinguere il diritto dell’Unione in diritto originario e diritto derivato.
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Il diritto originario o primario, trova la sua fonte nei Trattati istitutivi dell’Unione
Europea, nonché negli atti che li hanno modificati o completati.
Accanto ai trattati, vengono considerati diritto primario, anche i principi generali
del diritto enunciati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Il diritto derivato è invece, costituito dagli atti provenienti dalle istituzioni
dell’Unione per l’esercizio delle competenze loro assegnate dai Trattati.
A tal proposito il diritto derivato può essere distinto in atti tipici, quali ad esempio i
regolamenti e le direttive, e atti atipici, quali le comunicazioni, le risoluzioni e le
dichiarazioni comuni, che pur non essendo vincolanti nei confronti dei destinatari
esprimono un indirizzo o un orientamento delle Istituzioni europee.
1.2 Il diritto originario
La prima fonte del diritto dell’Unione è costituita dai Trattati istitutivi dell’Unione
Europea.
Essi contengono i principi giuridici fondamentali concernenti gli obiettivi,
l’organizzazione e la modalità di funzionamento dell’Unione, nonché parti del diritto
economico.
Essi stabiliscono il quadro giuridico costituzionale dell’UE, cui devono attenersi,
nell’interesse dell’Unione, le istituzioni dotate, a tal fine, di appositi poteri legislativi e
amministrativi.
Il ruolo primario dei Trattati, tra le fonti del diritto dell’Unione, ha trovato un
riconoscimento esplicito all’art. 1 del TUE che così recita “L'Unione si fonda sul
presente trattato e sul trattato sul funzionamento dell'Unione europea (in appresso
denominati «i trattati»). I due trattati hanno lo stesso valore giuridico”.
Accanto ai trattati, costituiscono altresì, fonti primarie o diritto originario
dell’Unione, i principi generali del diritto enucleati dalla Corte di Giustizia dell’ Unione
Europea.
Si tratta di norme che esprimono i concetti essenziali di diritto e giustizia ai quali si
ispira ogni ordinamento giuridico.
8
I principi generali hanno la funzione di colmare eventuali lacune e dare
un’interpretazione estensiva alle norme esistenti, secondo il principio di equità.
I principi del diritto trovano applicazione, principalmente nell’ambito della
giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale assicura il rispetto del diritto
nell’interpretazione e nell’applicazione del trattato.
I principi generali del diritto trovano le loro fondamenta, in primo luogo, nei
principi comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Tra essi possono essere
annoverati la certezza del diritto, l’affidamento dei terzi in buona fede, la forza
maggiore.
Essi possono essere desunti anche dai testi scritti dell’Unione, e tra questi, meritano
di essere ricordati la protezione dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità, il
principio della leale cooperazione o, ancora, il principio della responsabilità degli Stati
membri in caso di violazione del diritto dell’Unione.
1.3 Il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Secondo quanto previsto dall’art. 267 del TFUE la Corte di Giustizia ha il compito
di assicurare l’uniformità di interpretazione e applicazione delle norme comunitarie in
ciascuno degli Stati membri.
Il giudizio della Corte è pertanto, diretto nei confronti della norma comunitaria della
quale si chiede l’interpretazione.
La norma nazionale viene valutata solo in termini di compatibilità con
l’ordinamento comunitario e non viceversa.
In altri termini, attraverso il giudizio di rinvio pregiudiziale viene chiesto ai giudici
della Corte di interpretare la norma comunitaria e determinare se questa sia contraria ad
una normativa nazionale che disponga un comportamento che può apparire difforme a
quanto prevede la disposizione europea,
Le sentenze interpretative rese da tale organo producono un effetto vincolante per il
giudice nazionale che ha sollevato la questione, che pertanto, deve disapplicare la norma
interna contrastante con quella comunitaria interpretata dalla Corte.
9
La sentenza, oltre ad essere vincolante per il giudice del rinvio, costituisce un
precedente giurisprudenziale che produce effetti anche nei confronti di altri giudici,
anche di paesi membri diversi.
Essa esplica i suoi effetti ex tunc, ovvero, dal momento dell’entrata in vigore della
norma interpretata, salvo che la Corte non ne riduca la portata applicativa.
In merito al ruolo della giurisprudenza della Corte di Giustizia, si può ritenere che,
con riferimento al settore fiscale, la materia in cui si registra il maggior numero di
decisioni riguardi i tributi armonizzati, tra i quali il principale è sicuramente l’IVA.
In tale campo, la Corte è riuscita ad elaborare i principi e i tratti fondamentali di tale
disciplina sulla base delle diverse direttive che si sono susseguite nel tempo.
Nell’ultimo periodo, si è tuttavia, assistito a sensibili interventi della Corte di
Giustizia anche in altri settori impositivi, come ad esempio in materia di imposte dirette.
La giurisprudenza comunitaria, facendo leva sul principio di non discriminazione e
sulle norme relative all’esercizio delle libertà fondamentali, è riuscita ad elaborare
principi generali in grado di influenzare la potestà legislativa degli Stati membri
contribuendo in misura determinante alla definizione e allo sviluppo del diritto
dell’Unione, in una materia in cui la possibilità di incidere delle Istituzioni europee è
stata abbastanza limitata a causa della riluttanza degli Stati a rinunciare alla propria
potestà.
L’effetto lesivo e discriminante della norma nazionale è quindi, giudicato sulla base
della possibilità di restringere l’esercizio di una delle libertà previste dal Trattato
operando pertanto una discriminazione basata sulla residenza.
1.4 Il diritto derivato
La seconda fonte del diritto dell’Unione è rappresentata dal cd. diritto derivato,
ovvero, dagli atti provenienti dalle Istituzioni comunitarie emanati per la realizzazione
dei loro obiettivi.
Al riguardo, l’art. 288 del TFUE prevede che “Per esercitare le competenze
dell'Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e
pareri”.
10
L’art. 288 del TFUE si preoccupa inoltre, di precisare chi siano i destinatari dei
diversi tipi di atti e gli effetti che questi producono nei loro confronti.
Più specificatamente, viene esplicitato che il regolamento ha portata generale
ovvero, non si rivolge a destinatari determinati o determinabili.
Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno
degli Stati membri senza che sia necessario alcun atto di ricezione o di adattamento da
parte di quest’ultimi.
La direttiva invece, ha come destinatari gli Stati membri cui è rivolta, non è
obbligatoria nei suoi elementi, ma si limita a fissare dei principi e dei criteri generali,
imponendo un determinato risultato da raggiungere, fermo restando la competenza degli
organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi da adottare.
Nella prassi dell’Unione tuttavia, è sempre più frequente il ricorso a direttive
dettagliate, le quali indicano con precisione il contenuto delle norme interne che gli Stati
membri sono tenuti ad adottare.
In tal caso, la discrezionalità dello Stato è limitata alla sola forma del mezzo
giuridico da adottare al fine di recepire la norma già fissata sul piano europeo.
A differenza dei regolamenti, la direttiva non ha efficacia diretta, ovvero non
produce diritti e obblighi che i giudici devono fare osservare. Gli Stati membri sono gli
unici destinatari diretti.
Solo i successivi atti esecutivi delle autorità competenti degli Stati membri
conferiscono diritti o impongono obblighi ai cittadini.
La Corte di giustizia ha tuttavia chiarito, attraverso una giurisprudenza costante, che
a determinate condizioni i cittadini dell’Unione possono appellarsi direttamente alle
disposizioni di una direttiva, rivendicando i diritti che essa conferisce loro e,
eventualmente, adire i tribunali nazionali. In tali casi si parla di direttive self- executing.
La Corte ha ritenuto che si possa parlare di direttive self-executing, ovvero con
efficacia diretta quando:
•
le disposizioni della direttiva stabiliscono in maniera sufficientemente chiara
e precisa i diritti dei cittadini dell’Unione/delle imprese;
•
le disposizioni della direttiva chiariscono il contenuto di un obbligo già
previsto dal Trattato;
•
le disposizioni della direttiva non implicano che il legislatore nazionale
11
abbia alcun margine discrezionale per quanto riguarda il contenuto della
normativa;
•
il termine fissato per il recepimento della direttiva sia scaduto.
L’orientamento dei giudici comunitari si basa fondamentalmente, sulla convinzione
che uno Stato membro agisca in maniera contraddittoria e illegittima, qualora continui
ad applicare il proprio diritto interno senza adempiere l’obbligo di adeguarlo alle
disposizioni della direttiva.
In ogni caso, comunque, l’efficacia diretta delle direttive è stata riconosciuta dalla
Corte di Giustizia solo nei rapporti tra i cittadini dell’Unione e gli Stati membri, e solo
quando l’effetto diretto è favorevole ai cittadini, non quando lo è a loro discapito
ovvero, solo nei casi in cui il diritto dell’Unione prevede norme più favorevoli per i
cittadini rispetto alla normativa nazionale che non e stata adeguata (cd. effetto diretto
verticale).
La Corte di giustizia ha invece negato l’efficacia diretta delle direttive nei rapporti
tra cittadini, (cd. effetto diretto orizzontale), in quanto essi non possono essere
considerati responsabili delle omissioni dello Stato.
La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è
obbligatoria soltanto nei confronti di questi.
Caratteristica principale è la portata individuale della decisione, i cui destinatari se
individuati sono vincolati in tutti i suoi elementi dal contenuto di questa.
Può essere destinata anche ai singoli Stati membri nei confronti dei quali ha effetto
diretto.
Le raccomandazioni e i pareri invece, diversamente dai primi tre, non hanno
efficacia vincolante.
Tramite essi, le istituzioni dell’Unione si esprimono senza imporre obblighi
giuridici ai destinatari, nei confronti degli Stati membri e, in alcuni casi, anche dei
cittadini dell’Unione.
Una distinzione tra i due atti può essere fatta in funzione delle loro diverse finalità.
Attraverso le raccomandazioni viene consigliato al destinatario un determinato
comportamento più rispondente agli interessi comuni, senza però imporre un obbligo
giuridico.
Con i pareri le istituzioni intendono esprimere un giudizio su una situazione
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oggettiva o su determinate fattispecie all’interno dell’Unione o in uno Stato membro.
Entrambi gli atti non richiedono forme particolari per la loro formazione e possono
avere come destinatari gli stati membri, le altee istituzioni o i soggetti di diritto dei
singoli Stati.
1.5 Gli atti atipici
Oltre agli atti giuridici previsti dai trattati, le istituzioni dell’Unione dispongono
anche di altri atti, cd. atipici, in quanto non rientrano tra quelli elencati nell’art. 288
TFUE.
Nella prassi dell’Unione gli strumenti più utilizzati sono le risoluzioni, le
dichiarazioni, i programmi d’azione, i libri verdi.
Le risoluzioni esprimono le intenzioni e le opinioni comuni sul processo
d’integrazione in generale e su specifici compiti a livello di Unione e al di fuori di essa.
Le dichiarazioni costituiscono impegni delle Istituzioni al rispetto di determinati
principi.
I Programmi d’azione sono finalizzati alla realizzazione dei programmi legislativi e
degli obiettivi generali previsti dai trattati.
I libri verdi sono documenti pubblicati allo scopo di avviare consultazioni su
specifici argomenti nell’ambito dell’Unione.
13
Capitolo II
L’incidenza del diritto comunitario in materia di tributi
armonizzati: brevi cenni
2.1 L’armonizzazione in materia di IVA
In ambito fiscale, il settore nel quale si assiste maggiormente, all’incidenza del
diritto comunitario e delle sentenze della Corte di Giustizia è rappresentato dai cd.
tributi armonizzati.
Come si avrà modo di osservare nel capitolo successivo, la materia fiscale
rappresenta un settore nel quale gli Stati membri sono piuttosto restii a cedere o, a
vedere limitata la propria sovranità.
Ed invero, se per ciò che concerne le imposte dirette i singoli Stati conservano
ancora piena autonomia decisionale, seppure nel rispetto del diritto comunitario, tale
prerogativa è stata sensibilmente limitata per le imposta indirette, ed in particolare per
quelle imposte che direttamente o indirettamente, possono incidere sul raggiungimento
degli scopi dell’Unione.
Le ragioni di fondo che stanno alla base dell’Unione europea sono infatti,
principalmente, di tipo economico e finalizzate alla creazione di un mercato unico
all’interno del quale merci, persone, servizi e capitali possano liberamente circolare.
A tal proposito, appare utile richiamare quanto previsto dall’art. 3, del TFUE
secondo cui “L'Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia
senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme
a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo,
l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima. L'Unione
instaura un mercato interno”.
Il concreto raggiungimento di un mercato comune europeo presuppone quindi, che
vengano adottate tutte le misure necessarie affinché il mercato possa instaurarsi e
funzionare3, e tra queste, di primaria importanza appare essere, in primo luogo, la
creazione di una unione doganale che si estende al complesso degli scambi e comporta
3
Art. 28 TFUE
14
il divieto, ai sensi dell’art. 28 TFUE , di prevedere, fra gli Stati membri, dazi doganali
all'importazione e all'esportazione e qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure
l'adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi.
Funzionale a tale scopo è anche, la creazione di un unico territorio doganale, che si
sostituisce ai territori doganali degli Stati membri, e la messa in comune dell’importo
globale dei dazi doganali riscossi in virtù della tariffa doganale comune.
Affinché si possano raggiungere tali scopi, ovvero si possa costituire un mercato
comune occorre comunque, procedere all’eliminazione di tutte le barriere fisiche e
giuridiche che possono incidere sul processo di unificazione economica e commerciale.
Tra queste, la materia fiscale riveste una specifica rilevanza.
Proprio per tali motivi, alla fiscalità viene dedicato uno specifico capo delle
disposizioni del TFUE che, dagli articoli 110 a 113, prevede disposizioni volte ad
evitare che nei confronti di prodotti provenienti da altri Stati membri siano applicate
direttamente o indirettamente, imposte di qualsiasi natura superiori a quelle applicate ai
prodotti nazionali e disposizioni dirette a favorire l’armonizzazione delle imposte
indirette in quanto idonee ad influire in maniera determinante sul funzionamento del
mercato interno.
Su tale versante, secondo il citato art. 113 viene infatti, previsto che “Il Consiglio,
deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa
consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, adotta le
disposizioni che riguardano l'armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte
sulla cifra d'affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in
cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l'instaurazione ed il
funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di concorrenza”.
Tale norma rappresenta quindi, la base attraverso cui le Istituzioni dell’Unione
possono adottare tutte le misure necessarie al fine di realizzare un modello impositivo
unitario e ridurre le diversità esistenti tra le varie legislazioni degli Stati così da
consentire la piena integrazione economica e commerciale.
All’interno dell’opera di armonizzazione delle imposte indirette, un ruolo primario
è stato attribuito all’armonizzazione dell’IVA, mediante la quale è stato possibile creare
un sistema comune di imposta sul valore aggiunto caratterizzato, principalmente, dalla
neutralità della prestazione rispetto alle varie fasi del ciclo produttivo o distributivo,
15
attraverso un sistema che indipendentemente dal numero delle operazioni effettuate,
consente ai soggetti passivi di IVA di detrarre dall’imposta dovuta l'importo
dell'imposta da essi pagata ad altri soggetti imponibili.
L’importanza di procedere in tempi rapidi verso questa direzione era già stata
riconosciuta all’interno della I Direttiva del Consiglio CEE (Direttiva 67/227), nella
quale il legislatore comunitario affermò l'idea che la eliminazione delle barriere di
natura fiscale sarebbe stata ottenuta soltanto con l'eliminazione progressiva dei sistemi
di imposta cumulativa a cascata (in Italia, la vecchia IGE) e con la adozione, da parte di
tutti gli Stati, di un sistema comune di imposta sul valore aggiunto, ovverosia di una
imposta generale sul consumo esattamente proporzionale al prezzo dei beni o servizi, a
prescindere dal numero di transazioni intervenute nel processo di produzione o
distribuzione antecedente alla fase della imposizione4.
2.2 L’IVA e la direttiva 2006/112/CE
Le considerazioni esposte nel paragrafo precedente consentono ormai di definire
l’Iva come un tributo avente natura comunitaria o comunque, di origine comunitaria.
L’esigenza di perseguire gli scopi dell’Unione, ovvero la necessità di ridurre quanto
più possibile gli ostacoli alla libera circolazione e gli squilibri fiscali sui prezzi di beni e
servizi che circolano all’interno del mercato comune, e la circostanza che la
concorrenza tra gli Stati membri nell'ambito del mercato interno non sia falsata da
disparità di aliquote e di regimi d'imposizione a livello della fiscalità indiretta, hanno
visto infatti, proliferare proprio in materia di IVA sia l’attività legislativa delle
Istituzioni comunitarie che quella giurisprudenziale della Corte di Giustizia.
Se a tutto ciò si aggiunge che, insieme ai dazi doganali, l’Iva è considerata risorsa
propria dell’Unione Europea appare evidente come la disciplina di tale materia è oggi
interamente demandata al legislatore comunitario e all’interpretazione data dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia.
4
Art. 1, par. 1, della Direttiva 67/227.
16
Il legislatore domestico infatti, in tale materia ha visto sempre più restringere le
proprie competenze, limitandosi a recepire e trasporre nella normativa interna le regole
e i principi stabiliti a livello comunitario.
Emblematica, proprio al fine di comprendere quanto su questo tema il diritto
dell’Unione incida sul diritto interno, appare essere la questione relativa al recepimento
delle nuove norme in materia di territorialità di servizi previste dalla Direttiva
2008/8/CE, che hanno trovato applicazione a decorrere dal 1 gennaio 2010.
In quell’occasione, in sede di prima applicazione delle nuove regole, considerato
che ancora non era ancora intervenuto alcun atto di recepimento da parte del legislatore
interno della nuova disciplina, la stessa amministrazione finanziaria ebbe modo di
specificare che alcune delle disposizioni contenute nella Direttiva Servizi erano
sufficientemente dettagliate e tali da consentirne la diretta applicazione almeno per ciò
che riguarda le regole generali5.
Pertanto, nelle more dell'adozione del formale provvedimento di recepimento delle
norme comunitarie nell’ordinamento interno6, sono state fornite istruzioni operative di
massima, sulla base delle norme contenute nella direttiva che apparivano
oggettivamente suscettibili di immediata applicazione.
Ciò, concludeva l’Agenzia delle Entrate “allo scopo di evitare che si verifichino
fenomeni di doppia tassazione o di detassazione in contrasto con i dettami dell'IVA e
con un coerente funzionamento del mercato interno, che potrebbero emergere qualora
dal 1 gennaio 2010 in Italia si continuassero ad applicare le previgenti norme”.
Volendo adesso ripercorrere, brevemente, le tappe che hanno portato a disciplinare
l’IVA
a
livello
comunitario,
il
contributo
probabilmente
più
decisivo
all’armonizzazione dell’imposta si è avuto, inizialmente, con la Direttiva 77/388/CEE
del 17 maggio 1977 con la quale fu stabilito il sistema comune dell’IVA, introducendo
una serie di regole comuni che definivano il campo di applicazione dell’imposta, la
territorialità, i soggetti passivi, le operazioni imponibili e quelle esenti, il luogo di
riscossione e vari altri elementi relativi all’applicazione dell’imposta.
Tra queste, particolare importanza ha avuto l’art. 27 della direttiva che nelle more
delle completa realizzazione del progetto di armonizzazione dell’imposta, ha consentito
agli Stati membri, dietro autorizzazione del Consiglio, di mantenere o introdurre, per
5
6
Circolare 58/E del 31.12.2009
Intervenute con il decreto legislativo 11 febbraio 2010, n. 18.
17
periodi limitati, misure particolari di deroga alla presente direttiva, allo scopo di
semplificare la riscossione dell’imposta o di evitare talune frodi o evasioni fiscali.
Nel tempo, a causa delle significative modifiche apportate al predetto testo
legislativo dai molteplici interventi normativi, e degli orientamenti espressi dalla Corte
di Giustizia, si è reso necessario rivedere la direttiva 388 ed, a tal fine, è stata emanata la
Direttiva 2006/112/CE del 28.11.2006, con la quale si è cercato di riorganizzare la
materia mediante la creazione di un unico testo di riferimento comunitario.
La direttiva 2006/112/CE ha proceduto alla rifusione delle norme che costituiscono
il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto, contenute principalmente nella
direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977, più volte modificata nel corso degli anni da
numerosi altri provvedimenti..
La nuova direttiva 2006/112/CE costituisce pertanto, una sorta di testo unico di tutte
le norme sul sistema comune di IVA, che ha razionalizzato e coordinato le numerose e
sostanziali modifiche intervenute nel tempo.
Il nuovo testo è entrato in vigore dal 1° gennaio 2007 in tutti i Paesi dell’Unione
europea.
La direttiva 2006/112/CE si compone di 414 articoli, raggruppati in 15 titoli e 12
allegati.
La rifusione, come previsto espressamente nel terzo considerando, ha apportato
solo poche modifiche sostanziali alla legislazione esistente. La maggior parte dei
cambiamenti sono strutturali e redazionali e servono a rendere il testo più chiaro e
comprensibile, ovvero a correggere errori e divergenze linguistiche.
Oltre alla rielaborazione del testo, sono state introdotte alcune modifiche sostanziali
recependo anche sentenze della Corte di giustizia.
La direttiva 2006/112 non ha comunque, rappresentato l’ultimo intervento
comunitario in tema di IVA.
A questo provvedimento, nel corso degli ultimi anni, ne sono seguiti altri che hanno
definito o modificato alcuni aspetti della materia che ancora risultavano non disciplinati.
Tra questi, meritano di essere ricordati, la Direttiva 2008/8/CE del 12 febbraio
2008, per quanto riguarda il luogo delle prestazioni di servizi; la Direttiva 2008/117/CE
del 16 dicembre 2008, per combattere la frode fiscale connessa alle operazioni
intracomunitarie; la Direttiva 2009/69/CE del 25 giugno 2009 in relazione all’evasione
18
fiscale connessa all’importazione; la Direttiva 2010/23/UE del 16 marzo 2010, per
quanto
concerne
l’applicazione
facoltativa
e
temporanea
del
meccanismo
dell’inversione contabile alla prestazione di determinati servizi a rischio di frodi; la
Direttiva 2010/45/UE del 13 luglio 2010, per quanto riguarda le norme in materia di
fatturazione ed infine, il Regolamento 282/2011 che interpreta alcune fattispecie
contenute nella Direttiva 2006/112, chiarendo alcuni concetti, quale, ad esempio quello
di stabile organizzazione.
Di recente, tuttavia, si sente parlare ancora di nuovi interventi in materia di IVA.
Da poco tempo, l’Unione europea ha infatti, elaborato un progetto di risoluzione
attraverso il quale s’intende rivedere la legislazione in materia, attraverso maggiore
contrasto alle frodi e la riduzione di sistemi di esenzione e tariffe diverse tra gli Stati,
limitando al massimo l’utilizzo in deroga delle aliquote ridotte.
2.3 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione delle IV:
il caso Banca Antoniana Popolare Veneta Spa.
Come si è già avuto modo di anticipare, la capacità della Corte di Giustizia di
incidere sugli ordinamenti interni si deve comunque, principalmente, agli effetti che le
sentenze sono in grado di produrre.
È stato già detto al riguardo, che le sentenze interpretative del diritto dell’Unione
sono vincolanti sia per il giudice del rinvio che per gli altri giudici che sono chiamati a
esaminare casi aventi ad oggetto questioni analoghe.
L’incidenza della giurisprudenza della Corte sugli ordinamenti interni rileva inoltre,
sia in ordine alle pronunce rese nei confronti dello Stato che per quelle rese nei
confronti di altri Stati membri.
Qualunque giudice,di qualsiasi Stato membro pertanto, nel momento in cui è
chiamato a pronunciarsi su una questione analoga ad una già decisa dalla Corte di
Giustizia, è tenuto ad attenersi ai principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria,
salva la possibilità di riproporre una nuova questione pregiudiziale.
La sentenza costituisce infatti, un precedente giurisprudenziale vincolante per gli
altri giudici, anche di paesi diversi.
19
Si parla in tali casi di efficacia erga omnes delle sentenze interpretative della Corte
di Giustizia.
Ebbene, proprio in ambito Iva, un apporto sicuramente significativo a favore
dell’armonizzazione lo si deve alla giurisprudenza comunitaria la quale, attraverso il
compito di garantire l’uniformità di interpretazione e applicazione delle norme
comunitarie in ciascuno degli Stati membri, è riuscita ad elaborare principi generali in
grado di influenzare la potestà legislativa degli Stati membri contribuendo in misura
determinante alla definizione e allo sviluppo del diritto dell’Unione.
Tra le pronunce che meritano di essere ricordate in tema di IVA e che meglio sono
in grado di far capire quanto sia importante il ruolo della Giurisprudenza comunitaria in
ordine tale materia, si può citare la recente sentenza Banca Antoniana Popolare Veneta
Spa/Ministero delle Finanze7 del 15 dicembre 2011.
La questione in esame trae origine dal rifiuto dell’amministrazione finanziaria di
rimborsare alla BAPV l’Iva che quest’ultima, nel periodo 1984-1994, aveva riscosso
sulle prestazioni di servizi consortili.
Più in particolare, sulla scorta che tali prestazioni andavano assoggettate ad IVA la
società aveva applicato e versato l’imposta sui compensi relativi alla riscossione dei
contributi consortili.
Con un successivo documento di prassi del 1999, l’amministrazione finanziaria
comunicava di aver mutato l’originaria interpretazione della disposizione citata,
ritenendo che i contributi consortili avessero natura tributaria e che, conseguentemente,
i compensi dovuti dai consorzi per i servizi di riscossione di detti contributi dovessero
essere considerati esenti da IVA, ai sensi dell’art. 10, n. 5, del DPR. n. 633/72.
Di conseguenza i consorzi richiedevano alla società la restituzione a titolo di
indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c. di quanto corrisposto a titolo di IVA.
La società, a sua volta, presentava all’amministrazione finanziaria domanda di
rimborso dell’IVA corrispondente alle somme che le erano state richieste dai
committenti dei suoi servizi, che veniva tuttavia rigettato per decorrenza del termine di
due anni dal pagamento dell’IVA, previsto dall’art. 21 del D.Lgs 546/1992, in
considerazione del fatto che la circolare amministrativa non può costituire presupposto a
partire dal quale decorre il termine di due anni per effettuare la richiesta.
7
Causa C-427/10.
20
In relazione a quanto sopra, è stato chiesto ai giudici comunitari di stabilire se i
principi di effettività, di non discriminazione e di neutralità fiscale in materia di IVA
siano contrari ad una disciplina o prassi nazionale secondo cui l’azione di ripetizione del
cliente nei confronti del soggetto passivo va esercitata nel termine di prescrizione
decennale, davanti al giudice ordinario, mentre l’istanza di ripetizione del soggetto
passivo nei confronti del fisco va presentata entro il termine biennale, posto che da tali
norme possono derivare situazioni che si risolvono in una sostanziale negazione del
diritto al rimborso dell’IVA pagata a torto.
In altri termini, è stato chiesto di stabilire se il diritto comunitario sia contrario ad
una normativa nazionale come quella sulla ripetizione d’indebito che prevede in ambito
tributario dei termini di decadenza più brevi rispetto a quelli previsti per l’azione civile,
il cui effetto sarebbe quello di consentire il rimborso dell’Iva al proprio cliente da parte
del fornitore entro il termine decennale, senza che quest’ultimo, a sua volta, possa
ottenere il rimborso dell’IVA da parte dell’amministrazione finanziaria laddove siano
trascorsi più di due anni da quando si è verificato il presupposto.
La Corte di giustizia chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità comunitaria del
sistema nazionale italiano ha avuto modo di precisare, in primo luogo, che, “in
mancanza di disciplina comunitaria in materia di domande di rimborso delle imposte
indebitamente prelevate, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato
membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possano essere
presentate, purché i requisiti in questione rispettino i principi di equivalenza e di
effettività, vale a dire non siano meno favorevoli di quelli che riguardano reclami
analoghi di natura interna e non siano congegnati in modo da rendere praticamente
impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario”.
Ragione per cui, si è ritenuto, secondo costante giurisprudenza, che sia compatibile
con il diritto dell’Unione, l’esistenza di termini di ricorso previsti a pena di decadenza,
nell’interesse della certezza del diritto, purché non siano tali da rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento
giuridico dell’Unione8.
Di conseguenza ritiene la Corte il fatto che esista un termine biennale per potere
richiedere il rimborso dell’indebito all’amministrazione finanziaria, e un termine
8
Causa C-35/05
21
decennale, tra privati non è in linea generale in contrasto con l’ordinamento
comunitario.
Sennonché, qualora il rimborso dell’IVA pagata risultasse impossibile o
eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere gli strumenti necessari per
consentire al destinatario dei servizi, o come nel caso di specie, al prestatore dei servizi,
di recuperare l’imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il principio di
effettività.
A tal proposito, già in passato la Corte di Giustizia ha avuto modo di precisare che
“il principio di effettività sarebbe violato nell’ipotesi in cui il soggetto passivo non
avesse avuto né il diritto di ottenere il rimborso del tributo in questione durante il
termine a sua disposizione per l’azione nei confronti dell’amministrazione finanziaria,
né, in seguito a un’azione di ripetizione dell’indebito esperita nei suoi confronti dai
propri clienti successivamente alla scadenza di detto termine, la possibilità di rivalersi
contro l’amministrazione finanziaria, cosicché le conseguenze dei pagamenti indebiti
dell’IVA imputabili allo Stato sarebbero sopportate esclusivamente dal soggetto passivo
di tale imposta”.
Allo stesso modo, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che un’autorità
nazionale non può eccepire il decorso di un termine di prescrizione ragionevole se il
comportamento delle autorità nazionali, in combinazione con l’esistenza di un termine
di prescrizione, finisca col privare totalmente un soggetto della possibilità di far valere i
suoi diritti dinanzi ai giudici nazionali9.
Ed in effetti, nel caso in esame, per la società sarebbe stato impossibile o
eccessivamente difficile ottenere, con una azione proposta nel termine di prescrizione
biennale, il rimborso dell’IVA versata negli anni 1984-1994 in quanto, la posizione
dell’amministrazione finanziaria è stata espressa solo nel 1999 e l’azione civile di
ripetizione da parte dei clienti è intervenuta solo a seguito dell’emanazione della
circolare, e quindi ben oltre il termine di prescrizione biennale.
Ciò detto, considerato che secondo la Corte di Giustizia, in una situazione come
quella in esame, la società finisce per sopportare il pagamento dell’IVA non dovuta,
senza avere la possibilità di reclamarne effettivamente il rimborso nei confronti
dell’amministrazione finanziaria, anche se tale situazione non le sia imputabile, ma anzi
9
Cause riunite C-89/10 e 96/10.
22
sia dovuta al fatto che in quel periodo l’imposta è stata versata in quanto la prassi del
tempo così prevedeva, si deve concludere che, in circostanze del genere,
l’amministrazione finanziaria deve tenere conto delle situazioni particolari venutesi a
creare e prevedere gli strumenti idonei a consentire il recupero dell’imposta
indebitamente fatturata.
In conclusione, ad avviso dei giudici comunitari, pur non essendoci, in linea di
principio, ostacoli comunitari alla previsione di termini diversi per l’esercizio
dell’azione di recupero dell’indebito in ambito tributario e civile, tale differenza
temporale non deve produrre l’effetto di limitare il diritto del soggetto passivo di potere
effettivamente esercitare la richiesta di rimborso dell’imposta nei confronti
dell’amministrazione finanziaria.
Ebbene, tenuto conto delle considerazioni svolte dalla Corte di Giustizia nella
sentenza in esame, si può evidenziare che a differenza di quanto accade solitamente in
presenza di pronunce della Corte di Giustizia, il cui effetto vincolante comporta la
disapplicazione della norma interna in contrasto, nel caso di specie i giudici comunitari
hanno ritenuto compatibili con l’ordinamento dell’Unione le norme interne, che
pertanto, non dovranno essere disapplicate ma interpretate in ragione del principio
comunitario di effettività.
In altri termini, come peraltro sottolineato da autorevole dottrina10, il diritto del
contribuente a chiedere il rimborso, che a causa della differenza temporale tra le due
azioni avrebbe potuto essere limitato, viene definitivamente tutelato non attraverso la
caducazione della norma dei due anni, rispetto all’altra dei dieci anni, ma con la
convivenza delle due disposizioni, con l’obiettivo di non rendere impossibile o
eccessivamente difficile l’esercizio dei diritto, e con lo spostamento in avanti del
termine biennale a favore del fornitore, al momento dell’attivazione della domanda di
rimborso avanzata nei suoi confronti dal cliente.
10
Paolo Centore, La sentenza supera l’effetto sandwich, in Il Sole 24 Ore del 16 dicembre 2011.
23
Capitolo III
L’incidenza del diritto comunitario e delle sentenze della
Corte di Giustizia in tema di tributi non armonizzati mediante
l’analisi di casi pratici
3.1 L’armonizzazione in materia di imposte dirette
Come già anticipato nella parte introduttiva sulle fonti del diritto e sul ruolo della
Corte di Giustizia, la materia fiscale, ed in particolare quella relativa alle imposte
dirette, costituisce un settore nel quale gli Stati membri, da sempre, sono riluttanti a
cedere parte della loro potestà impositiva.
Diversamente da quanto è accaduto in materia di imposte indirette, dove si è
proceduto ad una graduale armonizzazione, ovvero, al raggiungimento di un sistema
omogeneo di tassazione attraverso la riduzione delle diversità che ciascuna legislazione
nazionale prevede, in materia di imposte dirette tale percorso appare più complicato.
Oltre che a difficoltà riconducibili ai singoli Stati, che vedrebbero ridimensionata il
più importante strumento interno di manovra economica, il processo di armonizzazione
in materia di imposte dirette appare difficile anche a causa del fatto che tale materia,
difficilmente, è in grado di incidere sugli scopi perseguiti dall’Unione e quindi sul
corretto funzionamento del mercato.
La normativa comunitaria lascia quindi, agli Stati membri grande discrezionalità
nella concezione dei loro sistemi di imposizione diretta, consentendo loro di adattarli in
funzione di obiettivi nazionali.
L’intervento delle Istituzioni comunitarie in tale materia si ha soltanto, laddove le
disposizioni fiscali nazionali comportino incoerenze nel trattamento fiscale quando sono
applicate in un contesto transfrontaliero, per cui un contribuente, che si tratti di un
privato o di un'impresa, può essere vittima di discriminazione o di doppia imposizione.
Coerentemente a tali scopi, che rispondono comunque alla logica della tutela del
mercato comune e della libera concorrenza, si possono ricordare gli interventi legislativi
comunitari in tema di tassazione delle imprese volte ad evitare forme ostruzionistiche da
parte degli Stati membri rispetto alle imprese non residenti.
24
Tra queste misure, le più significative hanno riguardato in primo luogo, la
tassazione dei dividendi tra società comunitarie, cd. direttiva madre-figlia11, attraverso
la quale l’Unione europea introduce, per i gruppi di società di Stati membri diversi,
disposizioni fiscali neutre sotto il profilo della concorrenza. Essa sopprime la doppia
imposizione degli utili distribuiti in forma di dividendi dalle società figlie stabilite in
uno Stato membro alle proprie società madri stabilite in un altro Stato membro.
Ed ancora, si può ricordare la Direttiva sulle operazioni di riorganizzazione
societaria che istituisce un regime fiscale comune per le operazioni di ristrutturazione
transfrontaliere12.
Sempre in materia di tassazione degli utili societari, si può citare la Direttiva
concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni
fra società consociate13, il cui obiettivo, anche in questo caso, è ipotesi di doppia
imposizione nell’ambito degli Stati membri.
Coerente con tale logica, appare essere anche la proposta di definizione di un
sistema di regole comuni per il consolidato fiscale europeo14 (CCCTB) che stabilisca un
regime per una base imponibile comune per l’imposta sulle società e preveda le regole
relative al calcolo e all'uso di tale base.
Come risulta dal quadro di sintesi pubblicato sul sito dell’Unione Europea15, la base
imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB) è un unico insieme
di regole che le società che operano all’interno dell’Unione europea (UE) potranno
utilizzare per calcolare i loro profitti tassabili.
Ciò significa che le società avranno l’obbligo di rispettare un unico regime fiscale
europeo per il calcolo del loro reddito imponibile, invece che 27 regimi fiscali diversi.
La CCCTB non inciderà necessariamente sul potere discrezionale dei paesi dell’UE
riguardo alle aliquote nazionali di imposizione delle società. Questo approccio
garantirebbe la coerenza dei regimi fiscali nazionali degli Stati membri senza
armonizzare le aliquote d'imposta.
11
Direttiva 90/435/CEE, modificata dalla Direttiva 2003/123/CE e dalla Direttiva 2006/98/CE.
Direttiva 90/434/CEE, abrogata dalla Direttiva 2009/133/CE.
13
Direttiva 2003/49/CE.
14
COM 2011/121 - Proposta di direttiva del Consiglio, del 16 marzo 2011, relativa a una base imponibile
consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB).
15
www.eur-lex.europa.eu.it
12
25
La CCCTB sarà disponibile per le società di qualsiasi dimensione, costituite
conformemente alle leggi di un paese dell’UE, qualora rivestano una delle forme
previste dalla proposta di direttiva o siano soggette ad una delle imposte sul reddito
delle società di cui alla medesima proposta o ad un'imposta analoga introdotta
successivamente.
Accanto a tali atti legislativi, riguardanti in massima parte la tassazione delle
imprese, le istituzioni dell’Unione Europea hanno emanato anche alcune direttive aventi
ad oggetto la tassazione dei privati.
Significative al riguardo, appaiono essere la Direttiva sulla tassazione del
risparmio16, il cui obiettivo finale è permettere che i redditi da risparmio sotto forma di
pagamenti di interessi corrisposti in uno Stato membro a beneficiari effettivi, che sono
persone fisiche residenti ai fini fiscali in un altro Stato membro, siano soggetti a
un’effettiva imposizione secondo la legislazione di quest’ultimo Stato, e la Direttiva
sulla tassazione di interessi e royalties di gruppo17.
In ordine alla tassazione del risparmio, in particolare, la Direttiva prevede che il
mezzo fissato per permettere la reale imposizione su tali pagamenti nello Stato membro
di residenza fiscale del beneficiario effettivo sia lo scambio automatico di informazioni
tra gli Stati membri sui pagamenti di interessi.
3.2 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione delle
imposte dirette
Al di fuori delle ipotesi individuate nel paragrafo precedente, il processo di
armonizzazione in materia di imposte dirette continua ad essere molto lontano.
Un apporto sicuramente significativo in tal senso, soprattutto lo si deve alla
giurisprudenza comunitaria la quale, facendo leva sul principio di non discriminazione e
sulle norme relative all’esercizio delle libertà fondamentali, è riuscita ad elaborare
principi generali in grado di influenzare la potestà legislativa degli Stati membri
16
17
Direttiva 2003/48/CE, modificata dalla Direttiva 2004/66/CE e dalla Direttiva 2006/98/CE.
Direttiva 2003/49/CE.
26
contribuendo in misura determinante alla definizione e allo sviluppo del diritto
dell’Unione.
Tra questi, di particolare rilievo, soprattutto per gli effetti che ne derivano, appare
essere il principio di diritto affermato in numerose sentenze secondo cui “pur se la
materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi
devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario,
astenendosi quindi da qualsiasi discriminazione, palese o dissimulata, basata sulla
cittadinanza.”18
Conformemente a tali principi, la Corte di Giustizia, in taluni casi, ha dichiarato
l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario di talune disposizioni nazionali in tema
di tributi personali o patrimoniali che interferiscono con le libertà fondamentali del
mercato unico, ritenendo, conseguentemente, inammissibili le regole nazionali che
determinano un discriminazione fiscale nel trattamento del soggetto non residente
rispetto al soggetto residente.
Va comunque osservato che il ragionamento della Corte di giustizia, sia in ordine
alla discriminazione che alla mera restrizione delle libertà, presuppone un giudizio di
comparabilità delle situazioni rispetto alle quali si afferma sussistere un effetto lesivo
delle norme comunitarie.
In altri termini, prima di stabilire l’illegittimità di una norma nazionale per
violazione del diritto comunitario, occorre preventivamente accertare la similarità delle
situazioni giuridiche esaminate, secondo il principio di diritto, affermato dalla Corte,
secondo cui “una discriminazione può consistere solo nell’applicazione di norme
diverse a situazioni analoghe ovvero nell’applicazione della stessa norma situazioni
diverse”. 19
Nonostante tale divieto generale di non discriminazione, la Corte ha tuttavia
individuato alcune ipotesi in cui, per motivi di interesse generale del singolo Stato
membro, è possibile derogare e quindi restringere l’esercizio delle libertà fondamentali.
Uno dei motivi, ad avviso della Corte di Giustizia, può riguardare la salvaguardia
della coerenza del sistema fiscale interno, intesa come salvaguardia degli equilibri di
finanza pubblica che potrebbero comportare incontrollabili fuori uscite di gettito fiscale
e che quindi giustificano il diverso trattamento fiscale tra residenti e non residenti.
18
19
Causa C- 279/93
Causa C-279/93
27
Un secondo motivo è riconducibile all’esigenza di contrastare l’evasione e
l’elusione fiscale in quanto le pratiche abusive sono fortemente idoneo a pregiudicare
l’effettività dei sistemi fiscali interni. L’intervento in questione è quindi, finalizzato a
proteggere la fiscalità nazionale degli Stati membri.
Un terzo motivo è dato dall’esigenza di garantire la tutela dell’effettività dei
controlli e degli accertamenti tributari. Sono quindi, vietate quelle misure che
costituiscono o possono costituire ostacoli al controllo.
Secondo giurisprudenza costante invece, la perdita di entrate fiscali non può mai
costituire una giustificazione ad una restrizione all'esercizio di una libertà
fondamentale.20
La capacità della Corte di Giustizia di incidere sugli ordinamenti interni si deve
comunque, principalmente, agli effetti che le sentenze sono in grado di produrre.
Si è già avuto modo di anticipare al riguardo, che le sentenze interpretative del
diritto dell’Unione sono vincolanti sia per il giudice del rinvio che per gli altri giudici
che sono chiamati a esaminare casi aventi ad oggetto questioni analoghe.
L’incidenza della giurisprudenza della Corte sugli ordinamenti interni rileva inoltre,
sia in ordine alle pronunce rese nei confronti dello Stato che per quelle rese nei
confronti di altri Stati membri.
Qualunque giudice, di qualsiasi Stato membro pertanto, nel momento in cui è
chiamato a pronunciarsi su una questione analoga ad una già decisa dalla Corte di
Giustizia, è tenuto ad attenersi ai principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria,
salva la possibilità di riproporre una nuova questione pregiudiziale.
La sentenza costituisce infatti, un precedente giurisprudenziale vincolante per gli
altri giudici, anche di paesi diversi.
Si parla in tali casi di efficacia erga omnes delle sentenze interpretative della Corte
di giustizia.
L’evoluzione del pensiero giurisprudenziale della Corte ha, inizialmente, preso le
mosse dal principio di non discriminazione, per poi evolversi verso la tutela delle libertà
fondamentali e verso la rimozioni di questi ostacoli posti dagli Stati membri al libero
esercizio di queste.
20
Causa C-264/96
28
In base al primo principio infatti, a norma dell’art. 18 del TFUE “Nel campo di
applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi
previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.
In altri termini, è fatto divieto agli Stati membri di adottare legislazioni e
comportamenti idonei a determinare un trattamento diverso in funzione della nazionalità
o della residenza, così da trattare situazioni uguali in modo diverso e situazioni diverse
in modo uguale in virtù dello Stato di residenza.
In ambito fiscale la discriminazione sostanzialmente, comporta un trattamento
impositivo meno favorevole e può manifestarsi, secondo un orientamento della
giurisprudenza ormai consolidato, in maniera diretta, indiretta o a rovescio.
Nel primo caso, la norma nazionale stabilisce un trattamento diverso, quindi
discriminatorio, in ragione della nazionalità o della cittadinanza del soggetto.
Nel secondo caso, ovvero nelle ipotesi di discriminazione indiretta, la norma
nazionale realizza un trattamento diverso in funzione della residenza del soggetto.
Si parla invece, di discriminazione a rovescio quando la norma nazionale discrimina
il cittadino non residente rispetto al cittadino residente.
In questo caso, la particolarità è data dal fatto che la controversia vene instaurata dal
cittadino non residente nei confronti del proprio Stato membro al fine di vedere tutelata
la propria posizione a fronte ad una norma che discrimina tra residenti e non residenti,
anche se cittadini dello Stato.
A ben vedere comunque, quasi tutte le ipotesi di discriminazione, di recente sono
state esaminate dalla giurisprudenza attraverso gli effetti negativi che le norme nazionali
hanno sul libero esercizio di taluna delle libertà fondamentali.
In effetti, mancando comunque una norma specifica che vieti la discriminazione in
materia di imposte dirette, ad eccezione della sopra citata norma di carattere generale,
la giurisprudenza ha spostato la propria attenzione in relazione all’effetto restrittivo che
questa può avere per una delle quattro libertà fondamentali previste dai Trattati, ovvero
nei confronti della libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei
capitali.
L’effetto evolutivo della giurisprudenza comunitaria verso le applicazioni del
principio di restrizione è motivato dal fatto che attraverso la tutela delle libertà previste
29
dal trattato sia possibile realizzare gli scopi e le finalità che stanno alla base del progetto
comunitario mediante la creazione di un mercato unico europeo.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 3, nn. 2 e 3, del TUE “L’Unione offre ai suoi cittadini
uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata
la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i
controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità
e la lotta contro quest'ultima. L'Unione instaura un mercato interno”.
La creazione di un mercato interno comune rappresenta quindi, uno degli scopi
dell’Unione, la cui realizzazione non può prescindere dalla creazione di uno spazio in
cui persone, beni e capitali possano circolare liberamente.
A tal proposito è previsto che “L'Unione adotta le misure destinate
all'instaurazione o al funzionamento del mercato interno,conformemente alle
disposizioni pertinenti dei trattati. Il mercato interno comporta uno spazio senza
frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle
persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei trattati”.
La realizzazione del mercato interno avviene mediante l’abbattimento delle barriere
fisiche e delle restrizioni giuridiche, ivi comprese le misure fiscali, istituite dai vari Stati
membri, che possano impedire o limitare la libera circolazione
Il concreto esercizio di tale libertà è, infatti, essenziale al fine di raggiungere una
piena integrazione comunitaria, alla quale, gli Stati membri sono tenuti a collaborare e
cooperare.
3.3 La libertà fondamentali e gli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia
mediante l’analisi di casi pratici
Abbiamo già anticipato come la realizzazione del mercato interno e quindi degli
scopi dell’Unione implichi l’eliminazione tra gli Stati membri di tutti gli ostacoli alla
libera circolazione.
Tra questi, la materia fiscale riveste una particolare rilevanza proprio per gli effetti
restrittivi che essa può avere sul libero esercizio delle libertà, sia in termini di ostacolo
al commercio, che di minore mobilità dei lavoratori e delle persone.
30
Passando in rassegna alcune delle pronunce della Corte di Giustizia, distinte in
relazione alle singole libertà, è stato possibile notare come, a volte, le disposizioni
fiscali contenute negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri abbiano ostacolato il
raggiungimento degli scopi dell’Unione attraverso delle misure che hanno avuto
l’effetto di limitare o ostacolare l’esercizio delle libertà fondamentali da parte dei
cittadini dell’Unione.
Alla luce dei casi esaminati dalla Corte, aventi ad oggetto la normativa di Stati
membri diversi dall’Italia, è stato altresì, possibile effettuare un raffronto tra i principi
interpretativi stabiliti dai giudici comunitari e quanto previsto dal nostro ordinamento
sulla medesima questione.
Ed invero, pur se tali decisioni vanno lette nei limiti della questione prospettata dal
giudice remittente, non è trascurabile il fatto che quanto stabilito dai giudici comunitari
costituisce un precedente del quale i giudici interni devono tenere conto al momento
dell’interpretazione delle disposizioni del Trattato.
A seguito di tale comparazione è emerso che in taluni casi la normativa interna
risponde ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte di Giustizia, mentre in altri casi le
disposizioni del nostro ordinamento potrebbero essere in contrasto con quanto previsto
dalla normativa comunitaria.
3.3.1 La libera circolazione delle persone: il caso Sckumacker e la
tassazione dei non residenti in Italia
La libera circolazione delle persone, intesa come possibilità per i cittadini di
circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione, trova il suo fondamento
giuridico negli artt. 45 e 49 del TFUE.
L’art. 45 prende in considerazione la libera circolazione dei lavoratori subordinati
disponendo che “La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è
assicurata. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla
nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la
retribuzione e le altre condizioni di lavoro”.
31
In sostanza, essa attribuisce il diritto a rispondere alle offerte di lavoro effettive, di
spostarsi liberamente nel territorio degli Stati membri, di prendere dimora in uno degli
Stati membri per svolgervi un’attività lavorativa e di rimanervi dopo avere occupato un
impiego.
L’abolizione di qualsiasi forma di discriminazione trova applicazione anche in
ordine alla materia fiscale, ragione per cui ogni norma fiscale che introduce un regime
tributario dei redditi di lavoro dipendente che penalizzi le attività svolte da non residenti
è incompatibile con l’ordinamento comunitario.
L’art. 49 invece, riguarda prevalentemente la libertà di stabilimento, vale a dire la
facoltà, per le persone fisiche diverse dai lavoratori e per le persone non fisiche, di
esercitare la propria attività economica, di impresa o di lavoro autonomo in ciascuno
degli stati membri. Tale libertà si estende anche alla costituzione in tali Stati di agenzie
e succursali.
In tal senso, il Trattato prevede che “le restrizioni alla libertà di stabilimento dei
cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate.
Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali
o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro
Stato membro. La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al
loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società
ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del
paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del
capo relativo ai capitali”.
Al pari della libera circolazione delle persone, il diritto di stabilimento vieta
pertanto, che si possano applicare norme che ostacolino tale libertà, e comporta il diritto
per i non residenti al medesimo trattamento nazionale previsto per i residenti.
Ne deriva che, sono vietate, sia le norme che direttamente discriminano i non
residenti, che le norme che rendono più difficile l’accesso allo svolgimento di un attività
economica per questi ultimi.
Una delle più rilevanti decisioni comunitarie in tema di libera circolazione delle
persone è il caso Schumacker21, relativo ad cittadino belga che produceva la totalità del
21
Causa C-279/93. I principi di diritto comunitario espressi dalla Corte di Giustizia sono stati ribaditi
dalle successive sentenza Asscher Causa C-107/94.
32
proprio reddito in Germania, ma che in quest’ultimo paese, ai fini del riconoscimento
delle deduzioni personali dal reddito, veniva trattato come un soggetto non residente.
Allo stesso modo, nel proprio paese di residenza, ovvero il Belgio, lo stesso non
aveva diritto ad alcuna deduzione in quanto non produceva alcun tipo di reddito in quel
paese.
Chiedeva pertanto, al pari dei residenti in Germania, di avere riconosciute le
deduzioni personali dal reddito.
Chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 48 del Trattato CEE (ora art.
45 TFUE), la Corte di Giustizia ha, in primo luogo, stabilito che “se è vero che allo
stato attuale del diritto comunitario la materia delle imposte dirette non rientra, in
quanto tale, nella competenza della Comunità, ciò non toglie tuttavia che gli Stati
membri sono tenuti ad esercitare le competenze loro attribuite nel rispetto del diritto
comunitario.
Per quanto riguarda più in particolare la libera circolazione delle persone
all'interno della Comunità, l'art. 48, n. 2, del Trattato implica l'abolizione di qualsiasi
discriminazione, fondata sulla cittadinanza, tra i lavoratori degli Stati membri, per
quanto riguarda in particolare la retribuzione, e comporta inoltre, che i lavoratori
cittadini di uno Stato membro devono godere nel territorio di un altro Stato membro
delle stesse agevolazioni fiscali dei lavoratori nazionali.
Per effetto di tale ragionamento, la Corte ha ritenuto che il diritto alla libera
circolazione dei lavoratori, in linea di principio, non consenta ad uno Stato membro di
trattare un cittadino di altro Stato in modo meno favorevole rispetto al cittadino
nazionale che si trovi nella stessa situazione.
Inoltre, la Corte, basandosi sul principio di non discriminazione ha ritenuto che
agevolazioni fiscali riservate solo ai residenti di uno Stato membro possono costituire
una discriminazione indiretta legata alla cittadinanza.
Tuttavia, affinché vi sia discriminazione occorre che situazioni analoghe siano
trattate in modo diverso e situazioni diverse siano trattate in modo analogo.
Nel caso delle imposte dirette, la situazione dei residenti e dei non residenti, di
regola, non sono analoghe, in quanto il reddito percepito all’estero costituisce parte del
reddito complessivo del non residente che pertanto, nel proprio paese di residenza,
33
avrebbe la possibilità di fruire di eventuali deduzioni derivanti dalla propria situazione
personale.
Sennonché, laddove il reddito percepito all’estero costituisce la totalità dei redditi
del non residente, non vi sarebbe alcun obiettiva situazione di diversità tale da
giustificare una disparità di trattamento in quanto, si avrebbe come unico effetto di non
prendere in considerazione né nello Stato di residenza né in quello di lavoro, la
situazione personale del contribuente.
In tali casi, ad avviso della Corte, non sarebbe possibile nemmeno eccepire il
principio della salvaguardia della coerenza dei sistemi fiscali interni, che permetterebbe
di limitare l’esercizio dei una delle libertà fondamentali.
Ragione per cui, secondo la Corte di Giustizia, “l'art. 48 del Trattato va
interpretato nel senso che osta all'applicazione di una normativa di uno Stato membro
che tassi un lavoratore cittadino di un altro Stato membro, il quale risiede in
quest'ultimo Stato e svolge un'attività lavorativa subordinata nel territorio del primo
Stato, in misura maggiore rispetto a un lavoratore residente nel territorio del primo
Stato e che ivi svolge la stessa attività, quando, come nel caso di specie, il cittadino del
secondo Stato trae il proprio reddito totalmente o quasi esclusivamente dall'attività
svolta nel primo Stato e non percepisce nel secondo Stato redditi sufficienti per esservi
soggetto a un'imposizione che consenta di prendere in considerazione la sua situazione
personale e familiare”.
In altri termini, secondo il diritto comunitario, la persona che non avrebbe diritto in
base alla normativa dello Stato di residenza ad applicare il sistema delle deduzioni dal
proprio reddito, non può perdere il diritto ad avere considerata la propria situazione
personale per effetto dello svolgimento dell’attività lavorativa in un altro paese
dell’Unione.
Ebbene, tenuto conto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia, nell’ottica
comparatistica che sta alla base del presente capitolo, bisogna verificare se la nostra
normativa possa ritenersi compatibile con il diritto dell’Unione.
In ordine alla tassazione dei redditi prodotti dai soggetti non residenti il nostro
TUIR prevede che ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 23, l’imposta sul
reddito per i non residenti si applichi sui redditi prodotti nel territorio dello Stato,
34
intendendo come tali, tra gli altri, i redditi da lavoro dipendente prestato nel territorio
dello Stato.
Tale metodologia di tassazione appare in sintonia con quanto previsto dal modello
OCSE contro le doppie imposizioni.
Ai fini della determinazione del reddito imponibile e dell’imposta dovuta dai non
residenti, l’art. 24 del TUIR prevede che “Dal reddito complessivo sono deducibili
soltanto gli oneri di cui alle lettere a), g), h), i) e l) del comma 1 dell'articolo 10. 3.
Dall'imposta lorda si scomputano le detrazioni di cui all'articolo 13 nonché
quelle di cui all'articolo 15, comma 1, lettere a), b), g), h), h-bis) e i), e dell’articolo
16-bis (1). Le detrazioni per carichi di famiglia non competono”.
Come si può facilmente rilevare, le deduzioni e detrazioni spettanti ai non residenti
sono numericamente inferiori rispetto a quelle riconosciute ai cittadini residenti.
A ben vedere, quindi, se da un lato, laddove il soggetto non residente produca
redditi anche nel proprio territorio di residenza, la normativa italiana può essere ritenuta
compatibile con i principi di diritto stabiliti dalla Corte di Giustizia, dall’altro, qualche
perplessità desta il fatto che nei casi in cui la totalità dei redditi sia prodotta in Italia, lo
stesso fruirebbe di deduzioni e detrazioni limitate.
In tale ultima ipotesi, la normativa italiana potrebbe dare luogo a profili di presunta
incompatibilità con l’ordinamento comunitario in quanto il non residente che presta
attività lavorativa esclusivamente in Italia e che qui trae gli unici suoi redditi, verrebbe
tassato in misura maggiore rispetto al cittadino residente che svolge la stessa attività.
Per effetto del sistema di deduzioni e detrazioni limitate che caratterizzano la
tassazione dei non residenti, quest’ultimo non avrebbe la possibilità di avere presa in
considerazione la propria situazione personale né nel proprio Stato di residenza, in
quanto in quello stato non produce reddito, né nel paese in cui viene svolta l’attività
lavorativa
In ragione di ciò, l’art. 24 del TUIR potrebbe essere ritenuto in contrasto con il
diritto comunitario in quanto non tiene conto dei principi affermati dalla giurisprudenza
comunitaria e conseguentemente, viola il principio del primato del diritto dell’Unione
così come affermato dalla Corte di Giustizia.
35
3.3.2 Segue: il diritto di stabilimento e la sentenza Cadbury Schwepps
La rilevanza del diritto comunitario, e specialmente dei principi elaborati dalla
Corte di Giustizia, sull’ordinamento interno può essere valutato sia in termini di
compatibilità di una norma già esistente con quanto stabilito dagli organismi comunitari
che attraverso la funzione di indirizzo per il futuro legislatore di quanto precisato
innanzi la Corte di giustizia.
Emblematico al riguardo appare essere la sentenza Cadbury Schwepps22, nella
quale, tra le altre cose, è stata elaborata la nozione di costruzione di puro artificio
ripresa dal legislatore italiano all’interno delle disposizioni contenute nell’art. 167 del
TUIR in materia di imprese estere controllate (CFC).
La Corte di Giustizia, muovendo i suoi passi da una presunta violazione della libertà
di stabilimento da parte della normativa interna di uno Stato membro, ha definito cosa
deve intendersi per costruzione di puro artificio ed ha affermato il principio della
compatibilità delle normative CFC con il principio della libertà di stabilimento sancito
dall’articolo 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (ex articolo 43 del
TCE), limitatamente alle ipotesi di società controllate residenti in uno Stato membro che
non rappresentano costruzioni di puro artificio destinate a eludere l'imposta nazionale
normalmente dovuta.
Ad avviso della Corte di Giustizia, una costruzione societaria non è da considerare
meramente artificiosa ove “da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti
che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente
impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive”.
Ciò in quanto “la circostanza che le attività corrispondenti agli utili della società
estera controllata ben avrebbero potuto essere effettuate anche da una società stabilita
sul territorio dello Stato membro in cui si trova la società residente non può permettere
di concludere per l’esistenza di una costruzione di puro artificio”.
In altri termini, se vi è genuinità nel diritto di stabilimento in un altro Stato membro,
non vi è violazione della disciplina sulle CFC e pertanto il diritto ad esercitare tale
libertà non può essere escluso o limitato dalla norma interna.
22
Causa C-196/04
36
La nozione di costruzione di puro artificio, come elaborata dalla Corte, è stata
accolta dal legislatore domestico all’interno dell’art. 167, comma 8 ter, del TUIR
secondo cui “le disposizioni del comma 8-bis non si applicano se il soggetto residente
dimostra che l’insediamento all'estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta
a conseguire un indebito vantaggio fiscale. Ai fini del presente comma il contribuente
deve interpellare l’amministrazione finanziaria secondo le modalità indicate nel
precedente comma 5.”
In altri termini, la CFC rule non si estende a controllate localizzate in Paesi o
territori a fiscalità ordinaria, anche qualora queste siano nelle condizioni di cui alle lett.
a) e b) del predetto comma 8-bis, quando queste ultime sono rappresentative di
insediamenti effettivi, ovvero costituiscono costruzioni non artificiose, come tali non
volte a conseguire un indebito vantaggio fiscale.
A ben vedere quindi, il legislatore nazionale nel momento in cui ha dovuto
predisporre il testo normativo confluito nell’art. 167 del TUIR ha tenuto conto di quanto
precisato dai giudici comunitari. L’espressione utilizzata appare infatti, in linea con la
terminologia adottata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
3.3.3 Segue: la libertà di stabilimento e il caso National Grid Indus BV, la
cd. exit tax
Ai sensi dell’art. 166 del TUIR “il trasferimento all’estero della residenza dei
soggetti che svolgono impresa commerciale, che comporti la perdita della residenza ai
fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo al valore normale dei componenti
dell’azienda o del complesso aziendale del soggetto trasferito, salvo che gli stessi non
siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato”.
In altri termini, nel caso di trasferimento all’estero della residenza si ha
l’imposizione immediata delle imprese che trasferiscono la residenza fiscale in un altro
pese UE mediante la tassazione dei cd. plusvalori latenti, quindi non ancora realizzati,
senza alcuna deroga o eccezione.
La disposizione di cui all’art. 166 del TUIR nell’attuale formulazione, secondo la
tesi sostenuta dall’Associazione Italiana Dottori commercialisti sarebbe in contrasto con
37
la normativa comunitarie, e in particolare, con il principio di libertà di stabilimento in
quanto, avrebbe come effetto di rendere più onerosa la scelta imprenditoriale di
localizzare la propria attività all’estero.23
La scelta del legislatore nazionale, secondo l’AIDC non sarebbe giustificata
nemmeno dall’esigenza di contrastare le pratiche abusive o elusive, o in ragione del
contrasto all’evasione fiscale, né potrebbe trovare un giustificazione nella tutela della
riscossione delle imposte e dell’efficacia dei controlli fiscali, le quali, come già
ricordato, costituiscono delle cause di limitazione dell’esercizio dei diritti fondamentali.
Nelle more, la norma in commento è stata oggetto della procedure d’infrazione
avviata da parte della Commissione Europea, a seguito della quale il nostro paese si è
impegnato a modificare la norma in vigore al fine di renderla compatibile con i principi
comunitari24.
Sul punto di recente, è comunque, intervenuta la Corte di giustizia che con la
sentenza del 29 novembre 201125, è stata chiamata a stabilire se la libertà di
stabilimento sia contraria ad un normativa interna che imponga ad una società costituita
secondo il diritto di tale Stato membro, che da esso trasferisce la propria sede
amministrativa effettiva in un altro Stato membro, un’imposta di liquidazione finale per
il trasferimento della sede, ed in caso affermativo, se un’imposta di liquidazione finale,
come quella in esame, che include nell’imposizione le plusvalenze degli elementi
patrimoniali della società trasferiti dallo Stato membro di provenienza a quello
ospitante, come valutati al momento del trasferimento della sede, senza possibilità di
differimento né di prendere in considerazione perdite successive, sia contraria
all’art. 43 CE (divenuto art. 49 TFUE).
Nel merito la questione sottoposta ai giudici comunitari aveva ad oggetto una
questione sostanzialmente analoga alle fattispecie riconducibili all’art. 166 del TUIR,
ovvero riguardava una controversia tra una società di diritto olandese con sede sociale
nei Paesi Bassi e l’ispettore del servizio tributario di Rotterdam relativamente alla
tassazione delle plusvalenze latenti degli agli attivi di tale società in occasione del
trasferimento nel Regno Unito della sua sede amministrativa effettiva.
23
Exit tax, riforma in vista, di Maria Carla De Cesari in il Sole 24 ore del 24 novembre 2011.
Via d’uscita con la sospensione d’imposta di Alessandro Savorana in il Sole 24 ore del 24 novembre
2011.
25
Causa C- 371/10.
24
38
La corte di Giustizia chiamata pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 49 del
TFUE ha precisato in primo luogo che “dal momento che il trasferimento nel Regno
Unito della sede amministrativa effettiva della National Grid Indus non ha inciso sul
suo status di società di diritto olandese, detto trasferimento non ha avuto effetto sulla
possibilità, per tale società, di invocare l’art. 49 TFUE. In quanto società costituita
conformemente alla legislazione di uno Stato membro ed avente la sede sociale nonché
l’amministrazione centrale all’interno dell’Unione, essa beneficia, in forza dell’art. 54
TFUE, delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento e può pertanto
avvalersi dei diritti che le derivano dall’art. 49 TFUE, in particolare al fine di mettere
in discussione la legittimità di una tassazione impostale da tale Stato membro in
occasione del trasferimento in un altro Stato membro della sua sede amministrativa
effettiva”.
Ne deriva che “una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che
trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, senza che
tale trasferimento di sede incida sul suo status di società del primo Stato membro, può
invocare l’art. 49 TFUE al fine di mettere in discussione la legittimità di un'imposta ad
essa applicata dal primo Stato membro in occasione di tale trasferimento di sede”.
Chiarito questo primo punto in merito alla possibilità di invocare legittimamente il
principio della libertà di stabilimento, la Corte si è pronunciata sulla possibilità di
tassare le plusvalenze latenti, all’atto del trasferimento di residenza, senza che, in tali
casi, sia possibile sospendere il pagamento dell’imposta sino al momento dell’effettivo
realizzo.
Nel merito, la Corte riconosce che una società che intenda trasferire la propria sede
amministrativa effettiva fuori dal territorio di tale Stato, nell’ambito dell’esercizio del
diritto garantitole dall’art. 49 TFUE, subisce uno svantaggio finanziario rispetto ad una
società analoga che mantenga la propria sede amministrativa effettiva nel primo Stato.
La circostanza secondo cui il trasferimento della sede amministrativa effettiva di
una società in un altro Stato membro comporta l’immediata tassazione delle plusvalenze
latenti relative agli attivi trasferiti, mentre siffatte plusvalenze non sono tassate qualora
una siffatta società trasferisca la propria sede all’interno del territorio dello Stato, può
dar luogo ad una disparità di trattamento relativa alla tassazione delle plusvalenze così
da scoraggiare una società dal trasferire la propria residenza in un altro Stato membro.
39
La Corte ha tuttavia, ritenuto che secondo giurisprudenza costante una restrizione
alla libertà di stabilimento può essere ammessa solo se giustificata da motivi imperativi
di interesse generale e tra questi vi possono rientrare l’esigenza di garantire l’equilibrata
ripartizione del carico impositivo tra gli Stati membri.
In altri termini, ad avviso dei giudici comunitari la possibilità di trasferire la sede
effettiva da uno Stato membro ad un altro, non può comportare rinuncia al diritto dello
Stato all’imposizione.
In ragione di ciò la Corte di Giustizia ritiene legittima la cd. exit tax, ovvero, la
possibilità di tassare le plusvalenze latenti all’atto del trasferimento.
Ritiene altresì, che la riscossione dell’imposta possa essere differita al momento in
cui la società emigrata realizzerà o non realizzerà la plusvalenza potendo scegliere tra,
da un lato, il pagamento immediato dell’imposta, che crea uno svantaggio in termini
finanziari per tale società ma la dispensa da oneri amministrativi successivi, e,
dall’altro, il pagamento differito di tale imposta, se del caso corredato da interessi
conformemente alla normativa nazionale applicabile, che necessariamente comporta per
la società interessata un onere amministrativo, legato all’individuazione degli attivi
trasferiti.
Tale modalità di riscossione, ad avviso dei giudici, non comporterebbe nemmeno un
onere eccessivo per gli Stati membri legato alla sorveglianza di tutti gli elementi
dell’attivo di un società per i quali sia stata constatata un plusvalenza, in quanto il
debito d’imposta è già determinato e conseguentemente gli oneri gravanti
sull’amministrazione finanziaria dello Stato membro di provenienza non possono essere
ritenuti eccessivi.
Ed invero, concludono i giudici comunitari, le disposizioni vigenti sull’assistenza
reciproca in materia di recupero dei crediti per imposte sono sufficienti a consentire
allo Stato membro di provenienza di ottenere dalla competente autorità dello Stato
membro ospitante informazioni relative al realizzo o al mancato realizzo degli elementi
attivi di una società che ha trasferito la propria sede amministrativa effettiva in quello
Stato, nei limiti in cui esse siano necessarie al fine di consentire allo Stato membro di
provenienza di riscuotere un credito fiscale originato al momento di tale trasferimento di
sede.
40
Ebbene, dalla lettura della sentenza della Corte di Giustizia, e tenuto conto dei
principi in essa affermati, appare di tutta evidenza come la normativa nazionale prevista
dall’art. 166 del TUIR, a prescindere dalla questione pendente presso la Commissione
Europea, oggi più di ieri, necessiti di essere modificata ed adattata alla disciplina
comunitaria.
L’imposizione immediata dei plusvalori latenti all’atto del trasferimento di sede
all’estero, deve infatti, tenere conto di quanto statuito dai giudici comunitari
consentendo quindi, il differimento opzionale del pagamento dell’imposta mediante una
modifica dell’art. 166.
Alla data del presente lavoro, tuttavia, il legislatore pare che abbia preso atto di tale
esigenza e abbia adattato la disciplina della cd. exit tax ai principi espressi dalla
giurisprudenza comunitaria.
Ed invero, all’interno del cd. decreto sulle liberalizzazioni26, è stato previsto l’art.
91 rubricato “Modifiche alla disciplina del trasferimento all’estero della residenza
fiscale dei soggetti che esercitano imprese commerciali. Procedura d’infrazione n.
2010/4141) mediante il quale il legislatore ha apportato delle modifiche all’art. 166 del
TUIR, prevedendo un meccanismo per sospendere, in caso di trasferimento della
residenza all’estero, la tassazione dei componenti aziendali.
La novella legislativa, la cui operatività si avrà solo dopo l’emanazione di un
decreto del Ministero dell’Economia, dispone che:
“1. All’articolo 166 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, dopo il comma 2-ter sono
aggiunti i seguenti: “2-quater. I soggetti che trasferiscono la residenza, ai fini delle
imposte sui redditi, in Stati appartenenti all’Unione europea ovvero in Stati aderenti
all’Accordo sullo Spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto
emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo
sulla reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari comparabile a
quella assicurata dalla direttiva 2010/24/UE del Consiglio, del 16 marzo 2010, in
alternativa a quanto stabilito al comma 1, possono richiedere la sospensione degli
effetti del realizzo ivi previsto in conformità ai principi sanciti dalla sentenza 29
novembre 2011, causa C-371-10, National Grid Indus BV. 2-quinquies. Con decreto del
26
Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitività”, pubblicato nella G.U. n. 19 del 24.01.2012.
41
Ministro dell’economia e delle finanze di natura non regolamentare sono adottate le
disposizioni di attuazione del comma 2-quater, al fine di individuare, tra l’altro, le
fattispecie che determinano la decadenza della sospensione, i criteri di determinazione
dell’imposta dovuta e le modalità di versamento.”.
2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai trasferimenti effettuati
successivamente alla data di entrata in vigore del presente provvedimento.
3. Il decreto da adottare ai sensi del comma 2-quinquies dell’articolo 166 del citato
testo unico delle imposte sui redditi, come modificato dal comma 1 del presente
articolo, è emanato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente
provvedimento”.
3.3.4 La libera circolazione dei servizi: il caso Gerritse
Strettamente connessa dal punto di vista soggettivo alla libertà di stabilimento è la
libera prestazione dei servizi prevista dall’art. 56 del TFUE.
A tal fine è previsto che “le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno
dell'Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno
Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione”.
Ai sensi del successivo art. 57 TFUE, “sono considerate come servizi le prestazioni
fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni
relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone”.
Tale libertà concerne la possibilità di prestare la propria attività in un altro Stato
dell’Unione Europea, alle stesse condizioni dei professionisti residenti, anche senza un
insediamento permanente in tale Stato.
Rientra nella libera circolazione dei servizi, oltre che la libertà di prestare il servizio
anche quella di riceverlo.
Anche per l’esercizio di tale libertà si applica il principio del trattamento nazionale,
per cui sono nulle le norme contenenti clausole di nazionalità, o di residenza
indispensabili per la prestazione di determinati servizi sul territorio di uno Stato,
essendo discriminatorie verso soggetti che risiedono in uno Stato diverso da quello nel
quale effettuano la prestazione.
42
L’effetto restrittivo della norma nazionale, in contrasto con la norma comunitaria,
può infatti, manifestarsi tanto nei confronti del prestatore del servizio dissuadendolo
dallo svolgimento della propria attività nello Stato membro, quanto nei confronti dei
destinatari del servizio a cui la norma nazionale può rendere più difficile l’accesso.
Una delle più rilevanti decisioni comunitarie in tema libera circolazione dei servizi
è la sentenza Gerritse27, relativa ad un cittadino olandese, residente nei Paesi Bassi che
aveva svolto un prestazione in Germania.
In tale ultimo paese il compenso per la prestazione seguita era stato assoggettato a
ritenuta alla fonte, senza tuttavia potere portare in detrazione le spese professionali
sostenute, al pari dei cittadini residenti in Germania.
In ragione di ciò era stato chiesto alla Corte di Giustizia di stabilire se l’esercizio
della libertà di prestare servizi sia contrario ad una normativa nazionale, la quale di
regola, da una parte, prende in considerazione, in sede di assoggettamento ad imposta
dei non residenti, i redditi lordi senza detrazione delle spese professionali mentre i
residenti sono tassati sui loro redditi netti previa detrazione delle spese professionali.
Chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 49 del Trattato CEE (ora art.
56 TFUE), la Corte di Giustizia ha, in primo luogo, stabilito “che le spese professionali
di cui si tratta sono direttamente connesse all'attività che ha generato i redditi
imponibili in Germania, cosicché i residenti e i non residenti sono, sotto questo profilo,
posti in una situazione analoga”.
Ciò considerato, una normativa nazionale che, in materia di imposizione fiscale,
nega ai non residenti la detrazione delle spese professionali, concessa invece ai
residenti, rischia di sfavorire principalmente i cittadini di altri Stati membri e comporta
pertanto una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalità, contraria, in via di
principio, agli artt. 59 e 60 del Trattato.
In ragione di ciò, conclude la Corte “si deve dichiarare che gli artt. 59 e 60 del
Trattato ostano a una normativa nazionale come quella in discussione nella causa
principale nella parte in cui esclude la facoltà, per le persone parzialmente soggette a
imposta, di detrarre le spese professionali dai propri redditi imponibili, laddove una
facoltà del genere è riconosciuta alle persone integralmente soggette a imposta”.
27
Causa C-234/01
43
In altri termini, affinché si possa garantire il pieno esercizio della libera circolazione
dei servizi si deve evitare che un reddito derivante da un prestazione svolta da un non
residente venga trattato e tassato in modo diverso qualora la medesima prestazione sia
svolta da un residente nello Stato.
Ebbene, tenuto conto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia, nell’ottica
comparatistica che sta alla base del presente capitolo, bisogna verificare se anche in
questo caso la nostra normativa possa ritenersi compatibile con il diritto dell’Unione.
In ordine alla tassazione dei redditi prodotti dai soggetti non residenti il nostro
TUIR prevede che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 23, l’imposta sul
reddito per i non residenti si applichi sui redditi prodotti nel territorio dello Stato,
intendendo come tali, tra gli altri, i redditi da lavoro autonomo derivanti da attività
esercitate nel territorio dello Stato .
Il soggetto che eroga il reddito è tenuto, ai sensi dell’art. 25 del DPR 600/1973, ad
effettuare una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 30%.
La base imponibile su cui applicare la ritenuta è costituita dal compenso lordo
corrisposto dal soggetto residente senza alcuna possibilità di potere dedurre i costi
sostenuti dal percipiente.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate28 ha avuto modo di precisare che tale modalità di
tassazione è corretta in quanto, l’art. 25, comma 2, assoggetta a ritenuta gli stessi
compensi di lavoro autonomo corrisposti ai residenti, differenziando unicamente l’entità
(30 per cento anziché 20) ed il titolo (d’imposta anziché di acconto) della ritenuta.
Anche per i soggetti residenti, infatti, la ritenuta, ancorché di acconto, è applicata
sul compenso lordo corrisposto, senza possibilità di far valere, in sede di applicazione
della medesima ritenuta, i costi sostenuti dal percipiente.
Tali motivazioni, ad avviso dell’amministrazione finanziaria, appaiono suffragate
anche dalle insuperabili difficoltà che il sostituto incontrerebbe nel procedere alla
determinazione del reddito netto (in termini, soprattutto, di valutazione dell'inerenza
delle spese).
Una tassazione “secca” operata sul reddito lordo, invece, comporta una
semplificazione degli adempimenti tributari, sia per colui che eroga il compenso, sia per
il percettore che non è obbligato a dichiarare in Italia il compenso medesimo.
28
Risoluzione n. 56 del 3 maggio 2005.
44
A ben vedere tuttavia, tali motivazioni, alla luce dei principi espressi dalla Corte di
Giustizia e dell’ormai riconosciuta supremazia del diritto comunitario sugli ordinamenti
interni, non appaiono condivisibili.
La normativa italiana, se oggetto di rinvio pregiudiziale in quanto in contrasto con
le libertà previste dal Trattato, potrebbe dare luogo a profili di incompatibilità con
l’ordinamento comunitario in quanto, produrrebbe l’effetto di favorire il cittadino
residente a danno dei cittadini residenti in altri Stati membri che, come tali, subirebbero
una tassazione di gran lunga superiore a quella dei residenti.
3.3.5 La libera circolazione dei capitali: la sentenza Banco Bilbao Vizcaya
Argentaria, SA
Secondo quanto previsto dall’art. 63 del TFUE “sono vietate tutte le restrizioni ai
movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”.
Tale libertà si esprime attraverso due fattispecie: la libertà di raccogliere capitali per
lo svolgimento di attività economiche e di impresa e la libertà di investire capitali.
L’ambito applicativo della libertà di circolazione dei capitali non coincide con
quello delle altre libertà. In effetti, se si guarda al testo della norma è possibile notare
come in questo caso sono vietate le restrizioni sia ai movimenti di capitale effettuati
all’interno dell’Unione, che ai movimenti effettuati con i paesi terzi, ovvero con i paesi
non appartenenti all’Unione Europea.
Passando all’esame di alcune delle pronunce aventi ad oggetto il tema della libera
circolazione di capitali si può ricordare quanto affermato dalla Corte di Giustizia con la
sentenza Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, SA29 dell' 8 dicembre 2011.
Al centro della controversia esaminata dalla Corte di Giustizia vi è la richiesta della
società ricorrente di portare in detrazione, dall’imposta sulle società, nel regime del
reddito mondiale, l’imposta dovuta in uno Stato membro mai versata per effetto di
esenzioni previste dalla legislazione dello Stato.
In particolare, i giudici, sono stati chiamati a decidere sulla compatibilità con l’art.
63 del TFUE della normativa nazionale, conforme ad una convenzione contro le doppie
29
Causa C-157/10
45
imposizioni, che non consente di detrarre dall’imposta sulle società, quanto dovuto per i
redditi prodotti in altri Stati membri, nel caso in cui l’imposta non sia stata
effettivamente pagata per effetto di esenzioni, sgravi o altri vantaggi fiscali.
Nel merito, i giudici hanno precisato che “In mancanza di disposizioni di
unificazione o di armonizzazione dell’Unione, gli Stati membri rimangono competenti a
definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione del loro potere
impositivo, in particolare al fine di eliminare le doppie imposizioni. Spetta agli Stati
membri adottare le misure necessarie per prevenire le situazioni di doppia imposizione
utilizzando, in particolare, i criteri seguiti nella prassi fiscale internazionale”.
Orbene, nel caso di specie, il comportamento adottato dallo Stato membro è in linea
con quanto previsto dalla convenzione contro le doppie imposizioni e lo svantaggio
asseritamente subito, nella fattispecie, dal ricorrente non consiste nella doppia
imposizione sugli interessi percepiti dalla società, dal momento che questi sono stati
assoggettati a tassazione unicamente nel paese di residenza, bensì nell’impossibilità di
beneficiare, per il calcolo dell’imposta dovuta in Spagna, del vantaggio fiscale sotto
forma di esenzione attribuito dalla normativa belga.
Considerato altresì, che la Corte ha già avuto modo di affermare che le conseguenze
svantaggiose che possono derivare dall’esercizio parallelo da parte di diversi Stati
membri della loro competenza fiscale, in quanto tale esercizio non sia discriminatorio,
non costituiscono restrizioni alle libertà di circolazione, si deve concludere che la
normativa comunitaria “non osta alla normativa di uno Stato membro che, nell’ambito
dell’imposta sulle società e delle disposizioni contro la doppia imposizione, vieta di
detrarre l’importo dell’imposta dovuta in altri Stati membri dell’Unione europea su
redditi soggetti a detta imposta e realizzati nel territorio di questi, nel caso in cui
l’importo, sebbene dovuto, non sia stato pagato in virtù di esenzioni, sgravi o altri
vantaggi fiscali, nei limiti in cui siffatta normativa non sia discriminatoria rispetto al
trattamento cui sono assoggettati gli interessi realizzati in detto Stato membro”.
Nell’ottica che sta alla base del presente lavoro, ovvero nell’intenzione di svolgere
alcune considerazioni circa la verifica di compatibilità della nostra normativa con
l’ordinamento comunitario, si rileva che, a prima vista, la normativa domestica appare
in linea con quanto stabilito dalla Corte di Giustizia.
46
In effetti, l’art. 165 del TUIR riconosce un credito d’imposta derivante dalle
imposte corrisposte all’estero da portare in detrazione dall’imposta netta dovuta,
laddove queste siano state effettivamente pagate a titolo definitivo.
Tuttavia, alcune convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia
contengono una clausola in base alla quale, se lo Stato estero ha esentato da imposta, in
tutto o in parte, un determinato reddito prodotto nel proprio territorio, il soggetto
residente in Italia ha comunque diritto a chiedere il credito per l’imposta estera come se
questa fosse stata effettivamente pagata.
47
Capitolo IV
Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di stato: problematiche
relative al termine per l’esercizio dell’azione accertatrice da
parte dell’amministrazione finanziaria e sul tema del recupero
degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis
4.1 Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di Stato
Uno dei temi rispetto ai quali risulta assai rilevante l’incidenza del diritto
comunitario, sia di fonte giurisprudenziale che di fonte derivata, è rappresentato dalla
disciplina degli aiuti di Stato.
L’instaurazione di un mercato comune, infatti, necessita di un sistema di regole che
garantiscano la libera concorrenza tra gli Stati membri, evitando che la potestà
legislativa di ogni singolo Stato non incida in modo determinante su tale aspetto,
pregiudicando il libero svolgimento delle transazioni commerciali mediante misure
dirette a favorire talune imprese nazionali a discapito di operatori economici non
nazionali.
In quest’ottica, ovvero con lo scopo di tutelare il mercato comunitario e la libera
concorrenza tra gli operatori economici interni e degli Stati membri, il TFUE prevede
una serie di disposizioni che, da un lato, sanciscono per gli Stati membri il divieto di
erogazione di aiuti che possano falsare o minaccino di falsare la concorrenza, mentre
dall’altro, consentono ai singoli Stati di intervenire mediante l’adozione di misure
finanziarie che, a determinate condizioni, sono o possono essere ritenute compatibili
con il mercato interno in quanto dirette a favorire lo sviluppo di categorie deboli.
Rientrano in quest’ultima tipologia di aiuti, che sono compatibili con il mercato
interno o che possono considerarsi compatibili con il mercato interno, gli aiuti previsti
dall’articolo 107, paragrafi 2 e 3 del TFUE.
In questa sede tuttavia, ci si soffermerà esclusivamente sulla prima fattispecie di
aiuti ovvero, su quelli incompatibili previsti dall’articolo 107, paragrafo 1, del TFUE.
A tal proposito, l’articolo 107 del TFUE (ex articolo 87del TCE) dispone che
“Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno,
48
nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati,
ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o
talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.
Al fine di verificare se una misura costituisca aiuto di Stato e sia quindi, idonea a
falsare la concorrenza tra gli Stati membri, bisogna valutare:
• la natura del soggetto che eroga l’aiuto;
• l’incidenza della misura nel mercato interno (o comunitario), ovvero il
potenziale effetto distorsivo della concorrenza;
• il vantaggio economico per l’impresa, o le imprese, che beneficiano dell’aiuto;
• la selettività, ovvero il fatto che la misura sia diretta a favorire talune imprese o
talune produzioni, a discapito di altre.
In ordine al primo requisito, l’articolo 107 TFUE dispone che l’aiuto deve essere
concesso dallo Stato, anche mediante risorse statali. Sul punto, la giurisprudenza
comunitaria ha chiarito che rientrano nel novero degli aiuti concessi dagli Stati sia quelli
accordati direttamente da questi, che quelli erogati dagli enti pubblici territoriali (ad es.
le regioni).
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha chiarito che il termine Stato non può
essere interpretato restrittivamente ma deve comprendere qualsiasi entità pubblica,
territoriale o non territoriale, ivi comprese le società controllate dallo Stato e gli enti
privati.30
In ordine al secondo requisito, ovvero, in ordine al fatto che la misura sia idonea a
falsare o minaci di falsare la concorrenza tra i diversi operatori economici degli Stati
membri, la giurisprudenza comunitaria è dell’avviso che tale caratteristica sussista tutte
le volte in cui per effetto della misura si provochi il rafforzamento della posizione
dell’impresa beneficiaria rispetto ai suoi concorrenti, anche mediante una riduzione dei
costi.
Sono pertanto, considerati idonei a falsare la concorrenza gli interventi che, sotto
qualsiasi forma, sono atti a favorire direttamente o indirettamente determinate imprese o
che devono ritenersi un vantaggio economico che l’impresa beneficiaria non avrebbe
ottenuto in condizioni normali di mercato.
30
Sentenza del 17.03.1993, causa C-72/1991, Sloman Neptum.
49
Presupposto indefettibile è che comunque, l’impresa beneficiaria degli aiuti svolga
un’attività economica che dà luogo a scambi tra gli stati membri.
L’aiuto deve inoltre attribuire un vantaggio economico per l’impresa beneficiaria
che può derivare sia da una sovvenzione, sia da qualsiasi misura che comporti un
mancata entrata nelle casse dello Stato o di altri enti pubblici di risorse dovute loro dalle
imprese.
A tal proposito, si è ritenuto che possano rientrare nell’ambito oggettivo degli aiuti
anche le rinunce ad introiti da parte dello Stato membro, sotto forma sia di esonero dal
pagamento di imposte sia di agevolazioni fiscali a favore di determinate imprese
nazionali.31
Secondo un orientamento, ormai consolidato, uno Stato potrà violare il divieto di
aiuti di Stato sia ricorrendo a strumenti di diritto privato sia ricorrendo a strumenti di
diritto pubblico.
Nel primo caso, le istituzioni dell’Unione, per l’individuazione dell’esistenza di un
aiuto, utilizzano il criterio del comportamento dell’investitore privato in normali
condizioni di mercato, ovvero, “è violato il divieto di aiuti di Stato ogni qualvolta, uno
Stato, nel fornire assistenza alle imprese, applichi condizioni più favorevoli rispetto al
comportamento di un investitore privato in normali condizioni di mercato”.32
In ordine al requisito della selettività, l’orientamento prevalente ritiene che ricorra
tale situazione, ovvero l’aiuto sia di tipo selettivo, allorquando, l’intervento favorisca
certe imprese o certe produzioni rispetto alle altre che si trovano nella stessa situazione
di fatto e giuridica. Per converso, non può essere considerata selettiva una misura che
sia estesa a tutte le imprese di uno Stato membro, poiché non introduce alcuna selezione
su scala nazionale, ma è diretta allo sviluppo del sistema nel suo insieme.
Il requisito della selettività deve quindi, essere valutato di volta in volta, avendo
cura di verificare se la misura sia giustificata in base ad una logica di sviluppo del
sistema economico nel suo insieme ovvero, rappresenti una deviazione rispetto
31
Secondo P. Boria , Diritto Tributario Europeo, pag. 222, Giuffrè 2010, “rientrano nell’ambito
oggettivo degli aiuti di Stato tanto le misure finanziarie positive, (cioè che consistono in contributi
finanziari ) quanto le misure finanziarie negative, le quali determinano una riduzione delle spese che
avrebbe dovuto originariamente sostenere il beneficiario”.
32
Sentenza 17.09.1980, Causa C- 730/79 e Sentenza 10.07.1986, Belgio c. Commissione, Causa C40/85.
50
all’assetto dello stesso diretta a ridurre gli oneri finanziari a vantaggio di specifici
settori.33
4.2 La disciplina degli aiuti di stato in materia fiscale
In ambito fiscale, le norme relative agli aiuti di stato hanno trovato una propria
disciplina nella comunicazione della Commissione 98/C 384/03 sull’applicazione delle
norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese.
La Commissione, al fine di stabilire quando una misura introdotta dagli Stati debba
essere considerata aiuto ai sensi dell'art. 87, paragrafo 1, del Trattato (ora art. 107
TFUE) ha precisato che una misura fiscale viene qualificata come aiuto se risponde ai
seguenti requisiti: - innanzitutto, la misura deve conferire ai beneficiari un vantaggio
che alleggerisca gli oneri normalmente gravanti sul loro bilancio. Tale vantaggio può
risultare da una riduzione dell'onere fiscale dell'impresa, sotto varie forme tra cui:
• una riduzione della base imponibile (deduzione derogatoria, ammortamento
straordinario o accelerato, iscrizione di riserve in bilancio ...);
• una riduzione totale o parziale dell'ammontare dell'imposta (esenzione, credito
d'imposta ...);
• un differimento oppure un annullamento, o anche una rinegoziazione
eccezionale del debito fiscale.
In secondo luogo, il vantaggio deve essere concesso dallo Stato o mediante risorse
statali. Una perdita di gettito fiscale è equivalente al consumo di risorse statali sotto
forma di spesa fiscale. Questo criterio vale, altresì, per gli aiuti concessi da enti
territoriali degli Stati membri (sentenza della Corte di Giustizia del 14 ottobre 1987, in
causa n. 248/84).
In terzo luogo, la misura deve incidere sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati
membri.
Infine, la misura deve essere specifica o selettiva nel senso che favorisce "talune
imprese o talune produzioni". Il criterio della selettività costituisce l’elemento peculiare
33
Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Livia Salvini, Cedam 2007.
51
che differenzia un aiuto di Stato dalle misure di carattere generale a favore di tutti gli
agenti economici operanti sul territorio di uno Stato membro.
Sul punto la Commissione, richiamando l’orientamento espresso dalla Corte di
Giustizia34, secondo cui costituiscono aiuti di Stato le misure dirette ad esonerare –
totalmente o parzialmente – le imprese di un particolare settore dagli oneri derivanti
dalla normale applicazione del sistema generale, senza alcuna giustificazione, indica,
quale principale criterio per applicare l’art. 87 (ora art. 107) ad una misura fiscale, il
fatto che quest’ultima instauri, a favore di talune imprese dello Stato membro,
un'eccezione all'applicazione del sistema tributario.
Ne consegue che, nel caso in cui la misura fiscale costituisca un’eccezione
all’applicazione del sistema tributario, (salvo che l’eccezione sia giustificata dalla
natura o dalla struttura del sistema stesso, ossia discenda direttamente dai principi
informatori o basilari del sistema tributario dello Stato membro interessato), e sia diretta
a favore di specifiche imprese e produzioni, si può qualificare la stessa come aiuto di
Stato soggetto al divieto previsto dalla norma comunitaria.
Al verificarsi delle suddette condizioni, l’articolo 108 del TFUE prevede che la
Commissione ne dichiari l’incompatibilità con il mercato comune e quindi dichiari
l’aiuto come vietato.
Il giudizio di compatibilità da parte della Commissione, fatto in funzione degli
effetti derivanti dalle misure oggetto sulla concorrenza e sull’incidenza sugli scambi
può condurre ad una decisione in forza della quale lo Stato membro deve modificare o
sopprimere gli aiuti di cui la Commissione ne abbia constatato l’incompatibilità con il
mercato comune.
Nel caso in cui le misure in questione siano già state poste in esecuzione, in
violazione delle norme procedurali, la loro soppressione implica, in linea di principio,
che lo Stato membro debba recuperare gli aiuti dal beneficiario o dai beneficiari.
In questa ipotesi, diversamente dal giudizio di incompatibilità, l’aiuto è ritenuto
illegale in quanto la misura è stata adottata dagli Stati membri senza il rispetto della
procedura prevista dall’articolo 108 del TFUE.
34
(sentenza del 2 luglio 1974, causa n. 173/73)
52
4.3 Il termine per l’esercizio da parte dell’amministrazione finanziaria
dell’azione accertatrice diretta al recupero degli aiuti dichiarati
incompatibili
Tra le questioni maggiormente dibattute in tema di aiuti di Stato, sia da parte della
dottrina che della giurisprudenza, di particolare interesse, alla luce delle recenti
pronunce della giurisprudenza della Corte di Cassazione appare essere, ad avviso dello
scrivente, la tematica relativa ai termini per l’esercizio dell’azione accertatrice da parte
degli organi preposti al recupero degli aiuti dichiarati incompatibili e/o illegittimi.
In ordine a tale tematica, si era dibattuto in dottrina, se alla disciplina in esame
dovesse essere applicato il termine di decadenza previsto per l’accertamento ai fini delle
imposte sui redditi oppure, se si debba tenere conto del termine decennale previsto
dall’art. 15 previsto dal Regolamento CE 659/99 del 22.03.1999.
Autorevole dottrina35, pur ritenendo che a prima vista, in virtù del richiamo
effettuato dal legislatore ai principi ed alle ordinarie procedure di accertamento e
riscossione, sembrerebbe potersi applicare il termine quinquennale previsto dalle norme
in materia di accertamento, è dell’avviso che la normativa interna debba tenere conto di
quanto previsto dall’ordinamento comunitario, ed in particolare dall’art. 15 del Reg. CE
659/1999 secondo cui “I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero
degli aiuti sono soggetti ad un periodo limite di 10 anni. Il periodo limite inizia il
giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o
come aiuto rientrante in un regime di aiuti”.
Affinché possano essere garantiti ed attuati il principio del primato del diritto
comunitario sull’ordinamento interno e il principio di effettività delle norme
comunitarie, l’azione di recupero da parte dell’amministrazione finanziaria deve
beneficiare del termine più lungo previsto dalla normativa comunitaria.
Diversamente, concludono gli autori, si correrebbe il rischio che le norme
comunitarie siano ricondotte a semplici raccomandazioni senza nessun tipo di vincolo
35
Decreto anti-crisi (D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito) - Il recupero degli aiuti di Stato
concessi alle ex municipalizzate di Gianfranco Antico e Mauro Farina (in "il fisco" n. 8 del 23 febbraio
2009).
53
per lo Stato che rimarrebbe libero di non procedere al recupero o di eccepire norme o
istituti di diritto interno tali da ostacolare o rendere inefficaci le decisioni stesse.
In ragione di ciò “appare corretto ritenere che il termine decennale previsto
dall’art. 15, si riferisca non solo all’esercizio da parte della Commissione dei poteri in
materia di recupero degli aiuti di Stato, ma comprenda, nel caso di decisione negativa,
anche la fase di concreta attuazione, di spettanza nazionale, delle modalità di recupero
dell’aiuto”.
Il tema del recupero degli aiuti e del relativo termine, entro il quale deve essere data
attuazione alle decisioni della Commissione che hanno stabilito l’incompatibilità della
misura con il diritto comunitario, sono state affrontate in una recente sentenza della
Corte di Cassazione, nella quale è stato affermato il principio di diritto secondo cui “in
tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere
disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario,
qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato
incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva”.36
La Suprema Corte ha posto l’accento sulla doverosità degli Stati membri di
procedere al recupero delle agevolazioni indebitamente fruite, in quanto incompatibili
con il diritto comunitario, in ragione del quale, anche eventuali norme interne sulla
prescrizione, come l’art. 2946 c.c., possono essere disapplicate dal giudice nazionale al
fine di far prevalere il diritto comunitario, laddove tale normativa ostacoli il recupero
dell’aiuto illegittimo.
La doverosità dell’azione statale volta al recupero della misura è un effetto diretto
rilevabile dalla lettura dell’art. 288 TFUE ( ex art. 249 TCE), che impone di dare
obbligatoria attuazione alle decisioni delle Istituzioni dell’Unione.
Il principio dell’effettività del diritto comunitario vuole, infatti, che lo Stato sia
obbligato a procedere al recupero delle agevolazioni dichiarate incompatibili con
l’ordinamento comunitario a seguito di una decisione della Commissione.
L’obbligatorietà dell’azione, volta al recupero della misura dichiarata incompatibile,
riverbera effetti anche in ordine alla decorrenza dell’eventuale prescrizione decennale
prevista dall’art. 2946, che, ad avviso della Corte di Cassazione, verrebbe interrotta a
seguito dell’inizio dell’azione innanzi la Commissione.
36
Cassazione n. 23418 del 19.11.2010. In senso conforme anche Cassazione da n.23415 a n. 23421 del
2010 e da ultimo, Cassazione 11228 del 20.05.2011
54
Laddove, infatti, uno Stato membro fosse libero scegliere se eseguire o meno una
decisione, il principio di effettività e di supremazia del diritto comunitario sarebbe
violato e verrebbe ricondotto a mere prescrizioni di principio.
L’obbligatorietà delle decisioni delle Istituzioni dell’Unione emerge anche
dall’esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in base
alla quale “il diritto comunitario osta all'applicazione del principio dell'autorità della
cosa giudicata ove lo stesso contrasti con il principio di effettività, nei limiti in cui
l'applicazione del primo principio impedisce il recupero di un aiuto di Stato dichiarato
incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva”.37
Ne deriva che, qualora un regime di aiuti sia stato dichiarato incompatibile agli
effetti del diritto comunitario, il recupero della misura fruita dal beneficiario non trova
ostacolo nella formazione di una decisione avente autorità di cosa giudicata secondo
l’art. 2909 del codice civile italiano e, conseguentemente, il giudice nazionale è tenuto,
all'occorrenza, alla disapplicazione della disciplina di diritto interno, nei limiti in cui è
possibile garantire piena efficacia alla norma di diritto comunitario.
L’interpretazione data dai giudici di legittimità, e gli sviluppi applicativi che ne
derivano, hanno quindi come effetto di estendere la possibilità di procedere al recupero
di quelle misure dichiarate incompatibili con la disciplina in esame, ampliando il tempo
per l’azione accertatrice da parte dell’amministrazione finanziaria ben oltre gli ordinari
termini di prescrizione decennali previsti dal diritto interno.
A nulla rileva la circostanza che, aderendo a tale tesi, si correrebbe il rischio che
rapporti giuridici ormai divenuti definitivi a causa del notevole lasso di tempo trascorso
da quando è stato adottato il comportamento, ovvero, si è beneficiato della misura
dichiarata incompatibile, verrebbero rimessi in discussione a seguito della decisione
comunitaria d’incompatibilità.
Come, infatti, sostenuto da una parte della dottrina, che ritiene inviolabile il
principio della certezza del diritto, anche alla luce del principio del legittimo
affidamento sancito sia dalla Costituzione che dallo Statuto del contribuente, non
sarebbe possibile rimettere in discussione situazioni giuridiche cristallizzate solo perché
le Istituzioni dell’Unione, ha distanza di diversi anni (ad es. più di dieci) dall’adozione
37
Corte Giustizia sentenza 18 luglio 2007 in causa C-l19/05 Lucchini.
55
della misura, hanno stabilito l’illegittimità dell’aiuto e quindi l’obbligatorietà dello Stato
membro di procedere al recupero.
La giurisprudenza di legittimità è invece, dell’avviso che tali situazioni non possono
legittimare l’utilizzo di una misura ritenuta incompatibile con il diritto comunitario,
posto che, è onere degli stessi beneficiari verificare che la procedura comunitaria per la
concessione degli aiuti di Stato sia stata rispettata, senza che, in tal caso, sia possibile
vantare alcun legittimo affidamento sull’utilizzo di una misura per la quale non è stata
adottata la prescritta procedura.
Secondo un orientamento ormai consolidato, infatti, l’affidamento tutelato è quello
legittimo e, specialmente in tema di recupero di aiuti di Stato, l’interpretazione data, sia
dai giudici nazionali che dai giudici comunitari di suddetto principio, è stata alquanto,
restrittiva38.
In tali casi, non sarebbe nemmeno possibile fare ricorso alla cd. teoria dei contro
limiti secondo cui, il rispetto dei diritti inviolabili della persona e dei principi
fondamentali costituiscono un limite invalicabile da qualsiasi disposizione, anche
comunitaria.
Tale teoria, elaborata dalla Corte Costituzionale a difesa della sovranità statale di
fronte al diritto comunitario, ad avviso della Corte di Cassazione, non può applicarsi
alla prescrizione in quanto tale valore non rientra tra quelli irrinunciabili
dell’ordinamento.
Inoltre, per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ed a seguito del
pieno riconoscimento, all’interno di questo, della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione, i diritti inviolabili e i principi fondamentali, costituiscono parte integrante
dell’ordinamento giuridico europeo.
Nel corso degli ultimi anni, infatti, la Corte di Giustizia ha riconosciuto, quali diritti
fondamentali dell’ordinamento giuridico europeo, una serie di valori che già trovavano
pieno riconoscimento nelle carte costituzionali degli stati membri, tra cui il diritto di
proprietà, il libero esercizio della professione, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di
opinione, i diritti generali della personalità, la libertà in campo economico.
Conseguentemente, tenuto conto che oggi tali valori costituiscono diritti inviolabili
dell’ordinamento giuridico comunitario, appellarsi alla teoria dei contro limiti, per
38
Comunicazione della Commissione 2007/C 272/05, punto 17.
56
difendere la sovranità nazionale nei casi in cui il diritto europeo violi principi
costituzionali non avrebbe più alcun senso.
Ciò posto, le uniche eccezioni all’obbligo posto a carico di uno Stato membro di
dare esecuzione a una decisione di recupero ad esso destinata, possono derivare
dall’esistenza di circostanze eccezionali a fronte delle quali vi sia l’impossibilità
assoluta per lo Stato membro di dare corretta esecuzione alla decisione.
A tal proposito, nella Comunicazione della Commissione “Verso l'esecuzione
effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli Stati membri di
recuperare gli aiuti di Stato illegali e incompatibili” 2007/C 272/05, il cui compito è
stato di spiegare la politica della Commissione in materia di esecuzione delle decisioni
di recupero, la Commissione ha chiarito e indicato le azioni che gli Stati membri
potrebbero adottare al fine di conformarsi alle regole ed ai principi enunciati dal diritto
europeo, ed in particolare, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
In quella sede, la Commissione ha chiarito che il concetto di assoluta impossibilità è
stato da sempre, interpretato in maniera molto restrittiva dalla giurisprudenza
comunitaria per la quale non costituisce, comunque, impossibilità oggettiva al recupero,
l’esistenza di una normativa nazionale sulla prescrizione39.
A tal proposito, appaiono interessanti le conclusioni raggiunte dalla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, secondo cui in materia di aiuti di Stato dichiarati
incompatibili, gli Stati membri non dispongono di alcun potere discrezionale quanto alla
revoca di una decisione di concessione. Il compito delle autorità nazionali, consiste solo
nel dare esecuzione alle decisioni della Commissione e conseguentemente, “L'autorità
competente è tenuta, in forza del diritto comunitario, a revocare la decisione di
concessione di un aiuto attribuito illegittimamente, conformandosi alla decisione
definitiva con cui la Commissione dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il
39
“le Corti comunitarie hanno interpretato il concetto di «assoluta impossibilità» in maniera alquanto
restrittiva. Le Corti hanno confermato in varie occasioni che uno Stato membro non può invocare
l'esistenza di prescrizioni nazionali, ad esempio le norme nazionali in materia di prescrizione oppure
l'assenza di un'ordinanza di recupero in base al diritto nazionale per giustificare l'inosservanza degli
obblighi derivanti dalla decisione di recupero. Del pari, la Corte di giustizia europea ha statuito che
l'obbligo di recupero non risente di circostanze connesse alla situazione economica del beneficiario. Essa
ha chiarito che un'impresa in difficoltà finanziaria non costituisce prova dell'impossibilità di esecuzione
del recupero. In siffatte circostanze la Corte ha statuito che la mancanza di attivi recuperabili è il solo
mezzo per uno Stato membro di dimostrare l'assoluta impossibilità di recuperare l'aiuto”.
57
recupero, anche quando abbia lasciato scadere il termine previsto a tal fine dal diritto
nazionale a tutela della certezza del diritto40.
In conclusione, quindi, alla luce degli orientamenti sopra esposti, si può ritenere che
il primato del diritto dell’Unione e l’esigenza che venga data piena attuazione al
principio comunitario di effettività, fanno si che gli Stati membri siano obbligati al
recupero degli aiuti di Stato dichiarati incompatibili.
Lo Stato membro, in quanto parte integrante dell’ordinamento comunitario, nei cui
confronti ha rinunciato ad una fetta di sovranità, è tenuto ad eseguire le decisioni
comunitarie a lui indirizzate.
In presenza di una normativa interna, quale ad esempio la regola sulla prescrizione,
che possa ostacolare l’attuazione del diritto dell’Unione, è tenuto a disapplicare la
norma per contrasto con il diritto comunitario, senza alcun margine di discrezionalità in
ordine alla possibilità di scegliere se attuare o no una decisione divenuta definitiva.
4.4 Il recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis
Secondo quanto esposto nei paragrafi che precedono, l’art. 107 TFUE prevede
l’incompatibilità con il mercato interno degli aiuti selettivi concessi dagli Stati membri
che possono incidere sugli scambi tra di essi.
Se è pur vero quindi, che qualsiasi intervento finanziario dello Stato è in grado di
falsare la concorrenza tra l’impresa beneficiaria e chi non lo riceve, non tutti gli aiuti
sono però, in grado di impattare sensibilmente sugli scambi e sulla concorrenza tra gli
Stati.
Ciò vale, in particolare, per gli aiuti di importo poco elevato.
A tal proposito, la Commissione ha introdotto una regola detta de minimis che fissa
una cifra quale soglia di aiuto al di sotto della quale l’art. 108 TFUE non deve essere
applicato, ovvero, non è obbligatoria la previa notifica della misura agli organi
comunitari.
40
Causa C-24/95 Alcan.
58
Sono quindi, definiti aiuti di minima entità (de minimis) quegli aiuti che,
indipendentemente dalla forma, dall’oggetto e dall’obiettivo, non eccedono la soglia di
200.000 euro in un triennio41.
Gli aiuti pubblici da prendere in considerazione ai fini del rispetto del massimale
sono quelli concessi dalle autorità nazionali, regionali o locali a prescindere dal fatto
che le risorse provengano interamente dagli Stati membri. La regola è applicabile a
prescindere dalle dimensioni delle imprese beneficiarie, con esclusione solo di alcuni
settori.
L’area degli aiuti di minima entità rappresenta, quindi, un ambito di libero
intervento della disciplina nazionale al di fuori della competenza della Commissione.
Al fine di garantire la trasparenza e la certezza del diritto, la Commissione stessa ha
ritenuto opportuno, essendo già stata autorizzata dal Consiglio dell'Unione, fissare la
regola nel Regolamento n. 69/2001, modificato ed integrato dal regolamento 1998/2006.
Con il predetto Regolamento 69/2001 è stata stabilità quindi, l’esenzione
dall’obbligo di notifica, per quelle misure non eccedenti un massimale di 200 000 EUR
su un periodo di tre anni in quanto, non incidono sugli scambi tra gli Stati membri e non
falsano, né minacciano di falsare la concorrenza e non rientrano pertanto nel campo di
applicazione dell'articolo 107, paragrafo 1, del trattato. Il periodo di riferimento di tre
anni deve avere carattere mobile, nel senso che, in caso di nuova concessione di un
aiuto de minimis, l’importo complessivo degli aiuti de minimis concessi nei tre anni
precedenti deve essere ricalcolato. L’aiuto de minimis si deve considerare erogato nel
momento in cui sorge per il beneficiario il diritto a ricevere l'aiuto stesso.
Secondo quanto previsto dal settimo considerando del Reg. 69/2001 la
Commissione ha il compito di assicurare il rispetto delle condizioni attinenti alla regola
de minimis.
Gli Stati, in forza del dovere di collaborazione, sono tenuti a facilitare tale compito,
instaurando modalità di controllo tali da garantire che l'importo complessivo degli aiuti
accordati ad uno stesso beneficiario, a titolo della regola de minimis, non ecceda il
massimale di 200.000 euro su un periodo di tre anni.
41
Per effetto delle Comunicazione della Commissione – Quadro di riferimento temporaneo comunitario
per le misure di aiuto a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi finanziaria
ed economica – 2009/C 16/01 del 22.01.2009 l’importo è stato elevato a € 500.000 per gli aiuti concessi
sino al 31.12.2010. Il limite di € 500.000 ha trovato applicazione sino al 31.12.2011 ( com. 2011/C 6/05
del 11.01.2011.
59
A tal fine, quando uno Stato eroga un aiuto rispondente a tale regola informa il
beneficiario della natura de minimis dell’aiuto e si fa rilasciare dall'impresa
informazioni esaurienti su eventuali altri aiuti de minimis dalla stessa ricevuti nei tre
anni precedenti.
Alcune delle condizioni previste nel Reg. 69/2001 sono state riviste e sostituite dal
successivo Reg. 1998/2006 del 15.12.2006.
In particolare, il nono considerando ha specificato che gli anni da prendere in
considerazione ai fini del calcolo sono gli esercizi finanziari utilizzati per scopi fiscali
dall’impresa nello Stato membro. Per evitare che le intensità massime d’aiuto previste
nei vari strumenti comunitari siano aggirate, gli aiuti de minimis non dovrebbero essere
cumulati con aiuti statali relativamente agli stessi costi ammissibili se tale cumulo porta
a un’intensità d’aiuto superiore a quella fissata.
Ai sensi dell’art. 2, commi 2 e 3, del Reg. 1998/2006 infine, “i massimali si
applicano a prescindere dalla forma dell’aiuto de minimis o dall’obiettivo perseguito
ed a prescindere dal fatto che l’aiuto concesso dallo Stato membro sia finanziato
interamente o parzialmente con risorse di origine comunitaria. Il periodo viene
determinato facendo riferimento agli esercizi finanziari utilizzati dall'impresa nello
Stato membro interessato. Qualora l’importo complessivo dell’aiuto concesso nel
quadro di una misura d'aiuto superi il suddetto massimale, tale importo d’aiuto non
può beneficiare dell’esenzione prevista dal presente regolamento, neppure per una
parte che non superi detto massimale”.
Fatta questa breve ricostruzione storica della disciplina degli aiuti di importanza
minore, ad avviso dello scrivente, un’altra tematica che merita di essere approfondita,
ha per oggetto il recupero degli aiuti di Stato fruiti oltre il limite della cd. regola del de
minimis.
In altri termini occorre chiedersi se, laddove il beneficiario abbia fruito dell’aiuto in
misura superiore alla soglia che si presume non idonea a alterare la concorrenza, si
debba procedere al recupero dell’intero beneficio fruito oppure, se l’atto di recupero
debba essere limitato alla somma eccedente l’importo tollerato.
Ebbene, nonostante la formulazione letterale della disposizione contenuta nell’art.
2, comma 3, del Reg. 1998/2006, non sia delle più felici, laddove dispone che l’importo
d’aiuto non può beneficiare dell’esenzione prevista dal presente regolamento, neppure
60
per una parte che non superi detto massimale, sembrerebbero non emergere dubbi circa
il fatto che in caso di aiuto fruito oltre il detto massimale consentito lo Stato membro
debba procedere al recupero dell’intero beneficio42.
Tale interpretazione, in assenza di documenti di prassi sull’argomento, risulta
confermata anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 11228 del
20.05.2011, nella quale è stato affermato il seguente principio di diritto “Le disposizioni
relative al regime “de minimis” non devono interpretarsi come una franchigia della
quale il contribuente possa beneficiare sempre e non invece come una soglia entro la
quale si presume che non si possa verificare alcuna alterazione della concorrenza per
la pochezza della somma in questione. Gli aiuti “de minimis”, proprio perché tali sono
inidonei ad incidere sul piano della concorrenza e perciò vengono tollerati. Ma proprio
per questa stessa ragione, quando la soglia viene superata riacquista vigore in pieno la
disciplina del divieto che involge l’intera somma e non soltanto la parte che eccede la
soglia di tolleranza”.
La sentenza, che rappresenta la prima pronuncia di legittimità sul tema del recupero
degli aiuti fruiti oltre il massimale, si può ritenere che mostri l’innegabile pregio di
indirizzare gli operatori in merito all’entità del recupero nell’ipotesi in cui il beneficiario
ne abbia fruito oltre la somma relativa agli aiuti di importanza minore.
La Suprema Corte chiarisce, infatti, che il limite cd. de minimis entro il quale è
possibile beneficiarie dell’aiuto senza il rispetto delle procedure comunitarie, serve a
tracciare la linea di confine tra gli aiuti che sono incompatibili con l’art. 87 (ora 107)
paragrafo 1 del Trattato istitutivo della UE, ovvero quelli idonei ad incidere sugli
scambi e quelli che invece, in quanto di minore entità, sono tollerati.
Il regime de minimis serve quindi, a giustificare una deroga alla regola del divieto
degli aiuti di Stato, sulla base della pochezza dell’aiuto stesso, ritenuto inidoneo ad
influire sulla concorrenza.
Quando però, la soglia dell'irrilevanza viene superata, il recupero deve
necessariamente riguardare l’aiuto nella sua interezza, in quanto l’aiuto non può più
essere considerato di tipo minore.
42
Sul punto, P. Boria, Diritto tributario Europeo, op cit., secondo cui “qualora l’importo complessivo
dell’aiuto superi il massimale, l’intera misura di vantaggio verrà sottoposta alla disciplina comunitaria
degli aiuti di Stato ( e pertanto non potrà beneficiare dell’esenzione neanche per la parte che rientri
entro il massimale)”.
61
Capitolo V
Il regime di attrazione europea: brevi considerazioni sulla
compatibilità con l’ordinamento comunitario
5.1 Il regime di attrazione europea
Il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio
2010, n. 122, ha introdotto nell’ordinamento tributario domestico, con l’art. 41, il cd.
regime di attrazione europea, volto ad incoraggiare le imprese europee ad intraprendere
nuove iniziative in Italia.
La norma, la cui finalità è quella di attrarre investimenti esteri nel nostro paese43,
introduce il principio secondo cui “Alle imprese residenti in uno Stato membro
dell'Unione europea diverso dall’Italia che intraprendono in Italia nuove attività
economiche, comprese quelle di direzione e coordinamento, nonché ai loro dipendenti e
collaboratori, per un periodo di tre anni, si può applicare, in alternativa alla normativa
tributaria statale italiana, la normativa tributaria statale vigente in uno degli Stati
membri dell'Unione europea”.
Come si rileva dalla relazione illustrativa al D.L. 78/2010, l’articolo 41 del D.L. n.
78/2010 dispone una parziale autolimitazione della sovranità impositiva da parte dello
Stato italiano, favorendo la circolazione di sottosistemi giuridici all’interno dell’Unione
Europea, mediante la possibilità, per le imprese non residenti comunitarie, di scegliere
la normativa fiscale più favorevole fra le ventisette esistenti all’interno dell’Unione.
La concreta attuazione della disposizione in commento, ai sensi del comma 2 del
citato art. 41, è subordinata all’emanazione di un decreto di natura non regolamentare
del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, allo stato attuale, è stato pubblicato in
bozza, e la cui stesura definitiva è aperta alle proposte di miglioramento e cambiamento
che possono provenire anche da fonti esterne al Ministero.
43
Relazione illustrativa alla bozza di decreto del Direttore generale del Dipartimento delle Finanze del
Ministero dell’Economia e delle Finanze.
62
Come sottolineato da autorevole dottrina il regime di attrazione europea rappresenta
una norma che non ha precedenti diretti negli ordinamenti tributari degli altri Paesi
appartenenti all'Unione Europea.44
In sostanza, l’Italia si rende disponibile ad abdicare a parte della propria potestà
impositiva per lasciare posto alle norme di un altro ordinamento.
Secondo alcuni autori, il regime presenta alcune caratteristiche che ricordano il
progetto sperimentale della Commissione Europea, Home State Taxation, secondo cui,
una piccola e media impresa, che intende stabilire una succursale o una stabile
organizzazione in un altro Stato membro, può utilizzare le regole fiscali del proprio
paese di residenza al fine di ridurre i costi che le stesse devono sostenere per adeguarsi
alla legislazione del paese estero nel quale si va ad investire. 45
L’articolo 41 del D.L. n. 78/2010, sembra appunto sfruttare tale orientamento
introducendo nell’ordinamento tributario domestico la possibilità, per le imprese
europee che investono in Italia, di scegliere il regime fiscale, sia per ciò che concerne le
regole di determinazione della base imponibile che per misura dell’aliquota applicabile,
a cui essere assoggettate nel nostro Paese fra uno di quelli adottati negli altri Paesi
dell’Unione Europea.
Volendo evidenziare brevemente i tratti salienti della disciplina in commento, anche
alla luce di quanto previsto dalla bozza di decreto ministeriale pubblicata, appare
evidente che il regime in commento potrebbe rappresentare, per le aziende che optano
per esso, un’opportunità di ottenere importanti vantaggi fiscali, data dalla possibilità di
scegliere uno dei diversi regimi fiscali previsti in uno qualunque degli Stati membri,
anche diverso da quello di residenza.
Il regime fiscale, dal quale sono escluse le imprese residenti in Italia, si applica sia
alle persone fisiche che alle persone giuridiche, svolgenti attività d’impresa ai sensi
della normativa tributaria dello Stato membro della UE di residenza, che siano residenti
da almeno 24 mesi in uno degli Stati membri dell’Unione Europea, e che nello stesso
Stato siano effettivamente operativi, a condizione che intraprendano in Italia una nuova
attività economica.
44
Albano Giacomo; Miele Luca, All’esame degli operatori la bozza aperta del decreto sul regime di
attrazione europea, in Corriere Tributario, n. 18 del 2011.
45
Nicola Lanteri, Alle imprese estere in Italia la scelta del regime fiscale, in Il sole 24 ore del 6 agosto
2010.
63
Tale requisito, come sottolineato dalla relazione illustrativa alla bozza di decreto
risponde a finalità meramente antielusive, al fine di scongiurare che imprese extra UE, o
imprese italiane che possano trasferire la propria residenza in un paese comunitario al
fine di beneficiare della suddetta misura.
Per ciò che concerne il termine residenza, la relazione illustrativa alla bozza di
decreto fa riferimento alla nozione contenuta nella Convenzione contro le doppie
imposizioni stipulata dall’Italia con il Paese membro dell' UE di residenza del soggetto
che intende avviare in Italia la nuova attività.
Per nuova attività economica deve intendersi un’attività avviata dopo la data di
entrata in vigore del decreto legge, ovvero, dopo il 31 maggio 2010, che sia
effettivamente svolte nel territorio dello Stato.
Il regime fiscale può essere esteso anche ai collaboratori e dipendenti dell’impresa,
che pertanto, pur se residenti nello Stato, potrebbero beneficiare di un regime fiscale più
favorevole scelto dall’impresa europea che si sia fiscalmente trasferita in Italia.
Esso è soggetto a limitazioni di tipo temporale in quanto, si applica per il periodo di
imposta nel corso del quale è presentata l’istanza e per i due successivi (tre anni). A
partire dal quarto periodo d’imposta si rendono applicabili, ai fini della determinazione
del reddito di impresa e della relativa aliquota di imposizione, le disposizioni della
normativa tributaria statale italiana46.
Il regime fiscale è circoscritto alla normativa tributaria statale, di conseguenza, la
disciplina estera non si intende alternativa anche ai tributi diversi da quelli erariali, che
continueranno ad applicarsi secondo le regole proprie.
In altri termini, restano escluse dall’ambito di applicazione della norma in
commento, le imposte locali di competenza di Comuni, Province e Regioni.
La scelta del regime è irrevocabile dal momento di presentazione dell’istanza e
vincola, in caso di stipula dell’accordo, i soggetti che hanno presentato l’istanza per i
predetti periodi di imposta.
Da un punto di vista procedurale, il soggetto estero, che intende avvalersi della
disposizione di cui all’art. 41 del D.L. 78/2010, deve interpellare preventivamente
l’amministrazione finanziaria, avvalendosi della procedura del cd. ruling internazionale,
46
Secondo Valz, Il regime fiscale di attrazione europea, in Fiscalità Internazionale, n. 6 del 2010, la
limitazione temporale confermerebbe l’obiettivo per il quale il regime è stato previsto, ovvero,
l’attrazione di capitali esteri.
64
e stipulare un accordo con l’Agenzia delle Entrate in cui sceglie di applicare la
normativa tributaria vigente in uno degli Stati membri dell’Unione Europea alla data di
presentazione dell’istanza.
Attraverso l’interpello può essere chiesta l’applicazione della disciplina fiscale
prescelta anche per i dipendenti e collaboratori assunti in Italia presso i soggetti che
hanno trasferito la residenza nel territorio dello Stato, salvo che i dipendenti e
collaboratori non optino per l’applicazione della normativa tributaria statale italiana.
In caso di estensione del regime prescelto ai dipendenti, l’opzione rimane valida
fino al periodo d’imposta in cui termina per il datore di lavoro.
L’accordo resta invariato in caso di evoluzione del sistema normativo scelto,
ovvero, in presenza di modifiche normative intervenute nell’ordinamento prescelto
durante il periodo di vigenza dell’accordo.
5.2 segue: profili di compatibilità con l’ordinamento comunitario e le libertà
fondamentali
Tracciato brevemente il perimetro giuridico della disposizione di cui all’art. 41 del
D.L. 78/2010, appare opportuno soffermarsi, per le finalità che sono alla base del
presente lavoro, sulle possibili implicazioni di tale disciplina con il diritto comunitario.
Come già anticipato nel paragrafo che precede, l’attuazione del regime fiscale in
commento è stata demandata alla sola emanazione definitiva del decreto di natura non
regolamentare da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze attraverso il quale
saranno stabilite le disposizioni attuative del suddetto regime, non contemplando la
necessità di ottenere una decisione positiva da parte degli organi comunitari in merito
alla compatibilità della misura 47.
In ordine a quest’ultimo aspetto, autorevole dottrina non ha mancato di sottolineare
che, sebbene la norma non preveda la previa notifica della misura alle Istituzioni
47
Nella conferenza stampa d’illustrazione delle disposizioni del D.L. n. 78/2010 tuttavia, il Ministro
Tremonti ha precisato che verrà data attuazione alla misura soltanto dopo il via libera della Commissione
UE.
65
comunitarie, sarebbe auspicabile che il Governo provvedesse a comunicare il nuovo
regime fiscale al fine di evitare di incorrere in violazioni della normativa dell’unione48.
Ciò posto, occorre chiedersi se il regime fiscale di attrazione europea possa essere
ritenuto compatibile con i principi comunitari, ed in particolare, con i principi
fondamentali dell’UE (libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali), con il
principio di non discriminazione ed, infine, con il divieto di aiuti di stato.
Ebbene, da un primo esame della disposizione non sembra che il regime in
commento sia contrario né alle libertà fondamentali stabilite dal Trattato dell’Unione, né
al principio di non discriminazione.
Le libertà fondamentali perseguono la finalità dell’integrazione comunitaria ed
esprimono l’esigenza di promuovere l’abbattimento delle barriere fisiche e giuridiche
che possano ostacolare la realizzazione del processo di unificazione economica e
commerciale.
In ragione del perseguimento di tale scopo, sono vietate tutte quelle misure che
direttamente, o indirettamente, impediscono, o hanno l’effetto di impedire, la libera
circolazione di persone, merci, servizi e capitali.
Sono pertanto vietate, quelle misure, anche di carattere fiscale, che hanno l’effetto
di ostacolare il commercio introducendo un trattamento più oneroso, e quindi
discriminatorio, nei confronti del non residente, rispetto al residente, così da impedire o
ostacolare il non residente nell’esercizio delle proprie libertà.
Le libertà fondamentali appaiono strettamente collegate al principio di non
discriminazione, in quanto la violazione di una delle libertà spesso viene accertata in
presenza di misure nazionali che introducono uno svantaggio del cittadino non residente
rispetto a quello residente. Ragione per cui, la giurisprudenza comunitaria sostiene che
la non discriminazione costituisca una specie dell’ampio genere della libertà di
circolazione.
In ambito fiscale tuttavia, il principio di non discriminazione trova pieno
riconoscimento in alcune disposizioni del Trattato.
I sistemi fiscali nazionali, rispetto ai principi fondamentali dell'UE debbono avere
un carattere di neutralità ovvero non incidere negativamente sul loro concreto esercizio.
48
Secondo Valz, op. ult. Cit. “Una misura come quella relativa al regime di attrazione europea,
andrebbe comunicata alla Commissione Europea prima della sua effettiva implementazione. La
valutazione comunitaria avrebbe un ruolo fondamentale”
66
Le norme del Trattato, segnatamente gli articoli 110-112 TFUE (ex artt. 90-92
TCE), prevedono “limiti di ordine negativo” alla potestà tributaria degli Stati membri,
consistenti nel divieto di introdurre discriminazioni di natura tributaria a carico di
soggetti esteri comunitari e, più in generale, di “condizionare la neutralità degli
investimenti all’interno della Comunità” ostacolando le quattro libertà fondamentali del
mercato comune49.
Emblematico a questo proposito è il contenuto del primo comma dell’art. 110 del
TFUE secondo cui “Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai
prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a
quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari”.
La disposizione citata, a ben vedere, scongiura l’ipotesi di discriminazioni (di
natura tributaria) dei soggetti comunitari, lasciando invece, impregiudicata la possibilità
per lo Stato membro, di assoggettare ad un trattamento più oneroso il residente rispetto
al non residente.
Le situazioni interne, infatti, secondo l’orientamento prevalente in ambito
comunitario, non vietano che i cittadini ed i prodotti nazionali possano essere
assoggettati a requisiti più severi rispetto ai cittadini di altri stati membri, in quanto, le
libertà fondamentali si applicano alle attività transfrontaliere e il diritto dell’unione non
può fare nulla rispetto alle discriminazioni in senso inverso.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia è diretta a scongiurare le eventuali
pratiche discriminatorie nei confronti dei soggetti economici comunitari non residenti e
non anche quelle che, paradossalmente, potrebbero essere discriminatorie nei confronti
di soggetti residenti.
Ne consegue che, la norma in commento appare essere coerente con le libertà
fondamentali garantite dal Trattato.
In particolare, il regime pare essere coerente con la libertà di stabilimento, in ordine
alla quale, la Corte di Giustizia si è espressa ritenendo che la circostanza che la società
sia stata creata in uno Stato membro al fine di fruire di una legislazione fiscale più
vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso della libertà di stabilimento.
49
Cfr. Lupi, Stevanato, Carpentieri, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, pagg.
28 ss.
67
Il regime inoltre, considerato il carattere sistematico derivante dalla sua
applicazione a tutti i non residenti che investono in Italia, salvaguarda anche la scelta
dalla violazione del divieto di discriminazione.50
Non manca comunque, in dottrina, chi contrariamente a quanto detto sopra, ha
sostenuto che il regime fiscale di attrazione europea, proprio perché favorisce
l’imprenditore non residente, attribuisce un vantaggio a quest’ultimo, rispetto al
competitor residente, che potenzialmente potrebbe violare il principio di uguaglianza
sancito dall’art. 2 della Costituzione e il generale divieto di non discriminazione
previsto dall’articolo 18 (ex art. 12del TCE) secondo cui “Nel campo di applicazione
dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è
vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.51
5.3 segue: Il tema della concorrenza fiscale dannosa e gli aiuti di stato
Diversamente da quanto detto in merito alla compatibilità del regime di cui all’art.
41 del D.L. 78/2010 con le libertà fondamentali, sin dai primi commenti alla novella
legislativa, da più parti, sono stati sollevati dubbi circa il possibile contrasto della norma
con il divieto di concorrenza fiscale dannosa e conseguentemente con la disciplina in
tema di aiuti di Stato.52
In effetti, se si guarda al codice di condotta in materia di tassazione delle imprese,
adottato mediante le conclusioni del Consiglio Ecofin dell'1 dicembre 1997, si può
notare come, tra le misure potenzialmente dannose, siano annoverate quelle misure
fiscali che determinano un livello di imposizione effettivo nettamente inferiore ai livelli
generalmente applicati nello Stato membro interessato.
Il codice di condotta, che per espressa previsione si applica alle misure che hanno o
possono avere una sensibile incidenza sull’ubicazione di attività imprenditoriali nel
territorio della Comunità, prevede che il livello d’imposizione effettivo, cui fare
50
Adriano Di Pietro, Residenti a rischio discriminazione, in Il sole 24 ore del 19 luglio 2010.
Mario Damiani, La fiscalità delle imprese: dall’attrazione europea a quella del mezzogiorno, in
Corriere Tributario n. 33 del 2010.
52
A. Di Pietro, op. ult. Cit. e Guglielmo Maisto, Per il tax shopping il rischio aiuti di Stato, in il Sole 24
ore del 12 aprile 2011.
51
68
riferimento, può risultare dall’aliquota nominale, dalla base imponibile, o da altri
elementi pertinenti.
Nel valutare il carattere pregiudizievole di tali misure si deve tenere conto, tra le
altre cose, se le agevolazioni sono riservate esclusivamente ai non residenti.
In caso di violazione, ovvero di fattispecie ritenute dannose per la concorrenza, si è
ritenuto che la misura rientri nel campo di applicazione delle disposizioni sugli aiuti di
Stato di cui agli articoli 107 e ss. del TFUE.
In particolare, è stato ritenuto che le misure fiscali suscettibili di produrre
concorrenza fiscale dannosa siano affini rispetto agli aiuti di Stato cosicché, alle
predette misure, può essere applicata la disciplina prevista dall’art. 108 TFUE.53
La riconducibilità delle misure fiscali rientranti nell’ambito della concorrenza
fiscale dannosa alla categoria degli aiuti di Stato, ha trovato riconoscimento nella
Comunicazione della Commissione C- 384/03, in cui è stata esplicitata l’applicabilità
della disciplina di cui all’art. 107 TFUE alle misure di politica fiscale.
Il codice di condotta, sino al 2003, non ha avuto effetti vincolanti per gli Stati
membri, rappresentando una sorta di impegno politico per questi ultimi, a non
introdurre nuove misure fiscali pregiudizievoli della concorrenza.
Orbene, tenuto conto delle considerazioni che precedono, il fatto che, da un lato, sia
possibile applicare alle imprese non residenti un livello di imposizione effettivo, che in
alcuni casi, può essere nettamente inferiore ai livelli generalmente applicati nello Stato
membro interessato e, dall’altra, la circostanza che le agevolazioni sono riservate
esclusivamente ai non residenti, porta a ritenere che la disposizione in commento possa
essere considerata di tipo selettivo e quindi, incorrere nella disciplina del divieto di aiuti
di Stato.54
Il regime di attrazione europea introduce, infatti, un trattamento tributario
differenziato tra imprese residenti, che rimangono assoggettate alla disciplina fiscale
interna, imprese residenti in Stati membri che già operavano in Italia alla data del 31
maggio 2010 e imprese residenti in Stati membri che intraprendono una nuova attività
53
P. Boria, op. ult. Cit.
Secondo Maisto, op. ult. Cit., “la norma si potrebbe giustificare con la semplificazione
dell’imposizione per le imprese straniere in Italia, ma a tal fine sarebbe sufficiente consentire
l’applicazione del regime impositivo dello Stato di residenza. L possibilità di scegliere un regime
impositivo diverso da quello dello stato di origine avrebbe, invece, la sola finalità di permettere
l’applicazione delle aliquote in assoluto più basse tra quelle vigenti in Europa”.
54
69
economica in Italia che invece, sono libere di scegliere il regime fiscale vigente in uno
qualsiasi degli Stati dell’Unione, anche se di livello sensibilmente inferiore a quello
nazionale.
Il nuovo regime fiscale quindi, secondo alcuni autori, sembra possedere tutti i
requisiti sostanziali per essere considerato alla stregua di un aiuto di Stato.55
In esso sarebbero presenti:
• la natura statale del soggetto che eroga l’aiuto che si traduce in minor gettito per
l’Erario;
• l’incidenza della misura nel mercato interno (o comunitario), ovvero il
potenziale effetto distorsivo della concorrenza a causa dei minori oneri che il
soggetto che si avvale di tale regime deve probabilmente sopportare ;
• il vantaggio economico per l’impresa, o le imprese, che beneficiano dell’aiuto,
derivante dal risparmio d’imposta;
• la selettività, ovvero il fatto che la misura sia diretta a favorire talune imprese, e
in particolare il soggetto non residente che intraprende in Italia una nuova
attività.
Ciò posto, in conclusione, alla luce delle suesposte considerazioni, si può ritenere
che il regime fiscale di attrazione europea rappresenta un’importante opportunità per
attrarre aziende ed investimenti sul territorio dello Stato.
Da una prima sommaria analisi della relativa disciplina, la disposizione non sembra
presentare profili di incompatibilità con l’ordinamento comunitario, per ciò che
concerne il tema delle libertà fondamentali.
Appare invece essere dubbia, come sollevato da più parti, la compatibilità della
misura con la disciplina sul divieto degli aiuti di Stato.
Essa infatti, appare essere potenzialmente dannosa per la concorrenza a causa del
trattamento riservato ai non residenti, che intraprendono una nuova attività nel territorio,
rispetto a coloro che operano già in Italia, ed a causa del livello d’imposizione
sensibilmente inferiore rispetto al livello generalmente applicato alle imprese operanti
nello Stato che potrebbe trovare applicazione per effetto dell’opzione.
55
C. Valz, op. ult. Cit.e Fabio Antonacchio, Regime fiscale di attrazione europea: i potenziali abusi con
effetti discorsivi, in il Fisco, n. 10 del 2011.
70
Capitolo VI
Brevi cenni sull’abuso del diritto in materia fiscale ed in
particolare, sulle proposte di legge depositate in Parlamento
che intendono codificare tale materia
6.1 L’abuso del diritto in materia fiscale
Una delle tematiche nelle quali, nel corso degli anni, si è registrata una forte
incidenza del diritto comunitario e, in special modo, della giurisprudenza della Corte di
Giustizia, è rappresentata dal principio del divieto di abuso del diritto.
L’abuso del diritto, secondo costante giurisprudenza, è definito come l’utilizzo di
singole disposizioni dell’ordinamento giuridico secondo modalità che, pur rispettando la
lettera delle specifiche norme utilizzate, portano a un risultato difforme o addirittura
antitetico rispetto ai principi e alle finalità che sottendono all’ordinamento giuridico di
cui quelle stesse norme sono parte.
In ambito tributario, l’abuso del diritto consiste nell’utilizzo, anche combinato, delle
norme di diritto positivo che disciplinano il sistema fiscale, al fine di ottenere risparmi
di imposta che, seppure coerenti rispetto alla lettera delle specifiche norme di
riferimento, risultano contrari alle logiche e ai principi cui è informato l’intero
ordinamento tributario.
Il tema dell’abuso del diritto nella materia fiscale ha trovato pieno riconoscimento
sia nella giurisprudenza di matrice comunitaria che in quella nazionale.
In ambito comunitario, la prima pronuncia che ha riconosciuto esistente
nell’ordinamento giuridico europeo il principio generale dell’abuso del diritto, trae
origine dalla nota sentenza Halifax (causa C- 225/02), nella quale, i giudici europei
hanno riqualificato ai fini IVA un’operazione posta in essere dal contribuente, in
ragione della natura abusiva del comportamento tenuto.
La Corte di Giustizia in quell’occasione ha precisato che, per parlarsi di
comportamento abusivo le operazioni controverse devono - nonostante l'applicazione
formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della legislazione
comunitaria e della legislazione nazionale di recepimento - procurare un vantaggio
fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse
71
disposizioni. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette
operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.
Il risparmio fiscale inoltre, non deve assumere il carattere dell’esclusività (Sentenza
Part Service causa C-425/2006), in quanto il carattere abusivo dell’operazione potrebbe
emergere anche in presenza di ragioni economiche marginali.
Il vantaggio fiscale, infatti, non costituisce di per sé pratica abusiva, ma rappresenta
uno degli elementi che servono per individuare il comportamento abusivo.
A tal proposito, si è ritenuto che l’imprenditore abbia il diritto di scegliere la forma
di conduzione dei propri affari, ivi compresa la possibilità di limitare il proprio carico
fiscale, mediante lo stabilimento della propria attività anche in un paese in cui l’onere
fiscale è più basso rispetto a quello di origine, purché l’insediamento in tale Stato non
costituisca una costruzione di mero artificio.56
Il principio dell’abuso del diritto, il cui riconoscimento a livello comunitario è stato
dapprima, limitato ai soli tributi armonizzati, nel corso degli anni è stato esteso anche a
quelli non armonizzati, quali le imposte dirette, in quanto ritenuto un principio che deve
essere applicato tutte le volte in cui il comportamento abusivo si ponga in contrasto con
gli obiettivi comunitari e le libertà previste dal Trattato.
Nell’ambito dell’ordinamento interno il percorso evolutivo della Corte di
Cassazione è stato alquanto ondivago poiché, in un determinato periodo storico, ha
ritenuto il principio dell’abuso del diritto di matrice comunitaria, alla stregua di un
canone interpretativo che il giudice deve seguire per contrastare fenomeni di tipo
antielusivo .57
Successivamente, con le sentenze n. 10353 del 2006 e n. 25374 del 2008, la Corte
di Cassazione ha invece, riconosciuto la piena operatività di tale principio
nell’ordinamento interno, anche in materia di tributi non armonizzati quali le imposte
dirette, precisando nel primo caso, che “pur non esistendo nell'ordinamento fiscale
italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio
56
Sentenza Cadbury Schweppes, Causa C- 196/04.
Ad avviso della Corte di Cassazione, sentenza n. 20398 del 21.10.2005, “pur non essendo stata
affermata in modo radicale, e valevole per tutti i settori dell'imposizione fiscale, l'esistenza di una regola
che reprima - attraverso l'inopponibilità dell'atto all'Amministrazione finanziaria - il cosiddetto abuso del
diritto, non pare contestabile l'emergenza di un principio tendenziale, che - in attesa di ulteriori
specificazioni della giurisprudenza comunitaria - deve spingere l'interprete alla ricerca di appropriati
mezzi all'interno dell'ordinamento nazionale per contrastare tale diffuso fenomeno.
57
72
tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto
elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da
operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale.
Con la seconda sentenza invece la Corte di Cassazione ha invece affermato il
principio di diritto secondo cui “La nozione di abuso del diritto assume di ruolo di
clausola generale dell’ordinamento tributario e la matrice comunitaria comporta, da
un lato, un ambito operativo esteso a tutte le fattispecie di entrate tributarie (oltre,
pertanto, le ipotesi di armonizzazione normativa relativa all’imposta sul valore
aggiunto, accise, prelievi doganali) e, dall’altro, l’obbligo per il giudice nazionale di
applicazione d’ufficio anche al di fuori di specifica deduzione ed allegazione di parte”.
Di recente, nel 2008, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con tre sentenze (n.
30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008), si sono nuovamente pronunciate
sulla questione, enunciando alcuni fondamentali principi di diritto:
In primo luogo, esiste nell’ordinamento tributario un generale principio
antielusivo, la cui fonte va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria, quanto
piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario
italiano, segnatamente nell’articolo 53 della Costituzione che afferma i principi di
capacità contributiva (comma 1) e di progressività dell'imposizione (comma 2).
Essi, secondo quanto dedotto dalla Corte di Cassazione, costituiscono il fondamento
sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al
contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme
evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi.
In virtù di tale principio generale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi
fiscali dall’utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale,
“in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione,
diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.
In secondo luogo, l’esistenza di questo principio non contrasta né con le successive
norme antielusive sopravvenute, che appaiono “mero sintomo” dell’esistenza di una
regola generale, né con la riserva di legge di cui all’articolo 23 della Costituzione, in
quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso non si traduce
nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, ma
73
solamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo
scopo di eludere l’applicazione delle norme fiscali.
Infine, l’inopponibilità del negozio abusivo all'erario è rilevabile d’ufficio, anche in
sede di legittimità.
La Corte di Cassazione, a tal proposito, ricorda che “per costante giurisprudenza,
sono infatti rilevabili d'ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell'amministrazione in
una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile; il carattere elusivo
dell'operazione può d'altro canto desumersi, senza necessità di alcuna ulteriore
indagine di fatto, sulla base della compiuta descrizione che se ne rinviene in atti”.
Interessante ai fini di che trattasi, ovvero al fine di una breve ricostruzione storica
dell’indirizzo giurisprudenziale in tema di abuso del diritto, appare essere quanto
stabilito, di recente, dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1372 del 21 gennaio
2011.
In tale occasione, la Corte, come sottolineato da autorevole dottrina58, ha posto un
argine interpretativo ad un utilizzo indiscriminato di tale principio.
La Suprema Corte, pur confermando la validità del principio del divieto di abuso
del diritto, ha ritenuto che quest’ultimo possa trovare un limite nella libertà di iniziativa
economica costituzionalmente garantita, sul piano del diritto interno, nonché nella
libertà di stabilimento sul piano del diritto comunitario.
L’applicazione del principio deve, infatti essere guidata da una particolare cautela,
essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale
eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando
si tratta di attività d’impresa.
In tale ultima ipotesi, se l’operazione rientra in una normale logica di mercato, si
deve affermare che il carattere abusivo deve essere escluso per la compresenza, di
ragioni extra fiscali che non si identificano necessariamente in una redditività
immediata dell’operazione, ma possono essere anche di natura meramente
organizzativa, e consistere in miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa.
La Corte di Cassazione, inoltre, con la medesima sentenza, si è pronunciata sul tema
dell’onere della prova nel caso sia contestato al contribuente l’abuso del diritto,
58
Mauro Farina, Abuso del diritto e ripartizione dell’onere probatorio, in La lente sul Fisco del
14.02.2011.
74
precisando che compete all’amministrazione finanziaria l’onere di provare le anomalie
delle operazioni intraprese dal contribuente, il quale deve solo dimostrare l’esistenza di
un contenuto economico diverso dal mero risparmio fiscale.
6.2 L’esigenza di certezze delle regole nel rapporto fisco-contribuente
Il tema dell’abuso del diritto, per ciò che è stato possibile brevemente evidenziare
nelle considerazioni che precedono, rappresenta quindi, una materia, allo stato attuale,
ancora in evoluzione, soggetta a possibili mutamenti interpretativi, che generano
incertezza soprattutto quando si pongono in essere operazioni complesse.
Lo stato di incertezza che ne deriva, la cui causa principale è data dall’assenza di
regole precise che delimitino, in maniera circoscritta, cosa costituisca abuso e cosa sia
invece lecito, non appare privo di conseguenze laddove le violazioni ricondotte
nell’abuso del diritto siano idonee a realizzare fattispecie penalmente rilevanti.
In effetti, in un sistema processuale-penalistico come quello italiano, caratterizzato
dal fatto che la sentenza di condanna deve essere pronunciata dal giudice, se l’imputato
risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio, appare
difficile sostenere che fattispecie penali, la cui fonte d’innesco è data dalla
contestazione del divieto di abuso del diritto, possano resistere al vaglio del giudice
penale.
Il principio di diritto che vuole assolto l’imputato qualora la prova sia
contraddittoria, rappresenta il limite alla libertà di convincimento del giudice, apprestato
dall’ordinamento per evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti
discrezionali, soggettivi e confinanti con l’arbitrio.
Tali considerazioni quindi, portano a ritenere che, sino a quando non sarà codificato
nell’ordinamento italiano il principio dell’abuso del diritto, la circostanza che la
maggior parte delle contestazioni viene fatta attenendosi a principi di elaborazione
giurisprudenziale, magari non ancora noti quando è stata posta in essere la condotta,
rende difficile il lavoro sia dei funzionari dell’amministrazione finanziaria che quello
dei giudici penali chiamati a pronunciarsi sulla materia, con il rischio concreto di
75
operare numerose segnalazioni di reato che, difficilmente, saranno sostenibili innanzi ad
un giudice.
La certezza dei rapporti giuridici attraverso regole certe in materia di abuso del
diritto che, ad avviso dei più, non può non passare attraverso la codificazione delle
fattispecie ritenute elusive, ha trovato l’avallo anche da parte dell’amministrazione
finanziaria.
Al riguardo, è stato chiesto l’intervento del legislatore affinché adotti specifici
interventi normativi, il cui fine deve essere la formulazione di una norma antielusiva di
carattere generale che, tenendo conto della giurisprudenza nazionale e comunitaria,
potrà consentire di contrastare i comportamenti elusivi nell’ambito di tutti i settori
impositivi, nel rispetto delle garanzie procedimentali concesse al contribuente con
l’art.37 bis del D.P.R. 600/1973.59
La necessità di provvedere in tempi brevi all’identificazione normativa del principio
dell’abuso del diritto, è stata segnalata anche in sede ministeriale, nel corso di
un’interrogazione parlamentare del 26 ottobre 2011.
In tale sede, è stato osservato che preso atto del controverso dibattito
giurisprudenziale sul tema dell’abuso del diritto, si rende necessaria l’emanazione di
una norma di diritto positivo che garantisca il contribuente e che codifichi il principio
dell’abuso di diritto, delineando, nel contempo, una linea di demarcazione precisa tra
legittimo risparmio d’imposta e indebito vantaggio fiscale.60
Di recente, la volontà di intervenire in modo definitivo su tale materia è stata
ribadita all’interno della relazione tecnica che accompagna la manovra di dicembre
2011, nella quale il Governo si è impegnato in tempi brevi a disciplinare l’abuso del
diritto fissando regole precise che possano far recuperare certezza delle norme fiscali.
In particolare, nel documento viene ulteriormente precisato che “la codificazione
dell’abuso è la via maestra per consentire alle imprese di operare in quadro normativo
stabile. Le esigenze di contrasto dell’elusione, sostenute attraverso l’introduzione di
norme generali, vanno contemperate con la certezza delle regole, da preservare
evitando formule normative generiche”.
59
Audizione di Attilio Befera alla Commissione Finanze del Senato.
È stato osservato inoltre, che “il varo di una norma generale andrebbe a superare l’elencazione
tassativa delle operazioni alle quali è applicabile ora la norma antielusiva di carattere generale,
trasformando tale previsione in una norma generale antilelusiva in materia tributaria”.
60
76
L’assenza di una normativa in materia di abuso del diritto genera incertezza per le
imprese italiane, soprattutto per le operazioni più complesse, che a volte possono essere
sindacate sulla base di orientamenti giurisprudenziali che non erano ancora noti quando
l’operazione fu effettuata.
Il governo inoltre, probabilmente al fine di accelerare i tempi della riforma,
potrebbe puntare sulle proposte di legge presentate e in discussione presso la
Commissione Finanze della Camera, in quanto, “Il tema dell’abuso è già oggi oggetto
di lavori parlamentari; tre proposte di legge, finalizzate ad estendere la portata
applicativa dell’attuale disposizione antielusiva prevista per le imposte dirette (art. 37bis del DPR 600/1973) e a regolare i rapporti tra Amministrazione e contribuenti, sono
attualmente in discussione”.
A tal proposito è stato evidenziato come, già in sede i lavori parlamentari, sia stato
ritenuto necessario un intervento normativo, al fine di definire in maniera esplicita il
concetto di abuso del diritto all’interno del diritto positivo, rendendo distinguibile il
risparmio d’imposta legittimo dal vantaggio fiscale indebito.
E’ stata inoltre sottolineata la necessità che un principio generale anti-abuso, allo
stato ancora mancante, si applichi a tutte le imposte, non sia vincolato da
un’elencazione tassativa di fattispecie elusive e venga realizzata una piena
assimilazione, a livello normativo, tra elusione fiscale e abuso.
La distinzione tra risparmio d’imposta legittimo e vantaggio fiscale indebito
dovrebbe far leva sul concetto di aggiramento delle norme tributarie.
La norma generale dovrebbe essere provvista di garanzie procedurali a favore del
contribuente: attraverso la puntuale regolazione del principio potrebbero essere rimossi
alcuni fattori di criticità emersi in sede giurisprudenziale, legati, fra l’altro, alla
rilevazione d’ufficio dell’abuso e all’incertezza sulle sanzioni applicabili.
6.3 Le proposte di legge in tema di abuso del diritto
Dopo avere cercato di delineare almeno nelle linee essenziali il tema dell’abuso del
diritto, e dopo avere dato contezza della necessità manifestata da parte di tutti gli
operatori, sia di parte privata che pubblica, di avere in tempi rapidi regole certe che
77
possano circoscrivere in maniera chiara e precisa quali situazioni costituiscano abuso
del diritto, appare opportuno soffermarsi brevemente sulle proposte di legge attualmente
in discussione presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati.
Al riguardo, occorre premettere che tutte le proposte di legge in commento hanno
come denominatore comune la modifica dell’art. 37 bis del D.P.R. 600/1973, e
propongono di codificare e disciplinare nell’ordinamento tributario la fattispecie
dell’abuso del diritto, intervenendo sulla disciplina concernente il contrasto all’elusione
fiscale e prevedendo l’esclusione della rilevanza penale del comportamento abusivo o
elusivo.
6.3.1 La Proposta di legge Leo A.C. 2521
Passando in rassegna gli aspetti principali della prima delle tre proposte di legge,
ovvero quella del deputato Leo, atto C. 2521, si può notare come in questo caso, la
proposta di legge sia diretta a codificare il divieto di abuso del diritto, così come
interpretato dalla giurisprudenza, e fornire al contribuente un minimo di garanzie
procedimentali affinché possa essere esercitato a pieno il diritto di difesa.
Più specificatamente, la codificazione del principio dell’abuso del diritto passa in
primo luogo, attraverso la riformulazione del primo comma del citato art. 37 bis nel
quale viene introdotta la previsione secondo cui l’inopponibilità degli atti di cui indicati
nella prima parte del comma de1l’art. 37 bis si applica solo a condizione che i
comportamenti siano diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento
tributario.
Al riguardo, la relazione illustrativa alla proposta di legge precisa che “Il
riferimento, contenuto nel comma 1, alla nozione di aggiramento di obblighi e di divieti
ha un’evidente ricaduta anche dal punto di vista procedimentale. Ciò in quanto, in
applicazione del medesimo comma 1, l’avviso di accertamento non potrà operare un
generico e acritico riferimento alla sopra citata norma (che assume, come evidente, il
carattere di norma antielusiva generale), ma dovrà individuare con chiarezza gli
obblighi e i divieti aggirati dal contribuente. Conseguentemente, l’amministrazione
finanziaria ha un penetrante obbligo motivazionale, in quanto essa dovrà evidenziare
78
sia il comportamento assunto dal contribuente (e le motivazioni per le quali tale
comportamento configura una pratica elusiva o abusiva) sia il comportamento che
correttamente il contribuente avrebbe dovuto tenere per non incorrere in una censura
da parte del fisco”.
Di notevole rilevanza, soprattutto alla luce delle considerazioni esposte sulla
possibile rilevanza penale delle operazioni poste in essere in violazione del divieto di
abuso del diritto, appare essere la proposta di modifica al comma 2 dell’art. 37 bis, nel
quale viene previsto che a seguito della riqualificazione dell’operazione operata
dall’amministrazione finanziaria non venga applicata alcuna sanzione penale.
In altri termini, viene chiarito che nel caso in cui si rilevi una fattispecie elusiva o
abusiva non sarà possibile applicare sanzioni penali.
Dal punto di vista delle garanzie procedimentali la proposta di legge Leo modifica
sensibilmente i commi 3 e 4 dell’art. 37 bis, equiparando, dal punto di vista delle
garanzie procedimentali, tutte le contestazioni aventi ad oggetto l’elusione,
l’aggiramento o l’abuso di norme tributarie e prevedendo che, in nessun caso le
disposizioni antielusive contenute nel comma 1 possano essere applicate d’ufficio dal
giudice, in mancanza di specifica e motivata contestazione nell’avviso di accertamento.
Al riguardo, la relazione illustrativa precisa che con tale previsione si vuole
restituire certezza al contribuente e tutelare il legittimo affidamento dello stesso,
evitando così, che “l'affidamento del contribuente venga compromesso dalla rilevazione
d'ufficio, da parte del giudice, del cosiddetto ‘abuso del diritto’. Ciò in quanto l'assenza
della contestazione nell'atto impositivo originario renderebbe impossibile al
contribuente l'adeguato esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito”.
Per effetto della modifica del comma 3, scompare dal testo di legge l’attuale
elencazione tassativa delle cui è possibile applicare le norme antielusive.
In ragione di ciò viene proposta l’intera riformulazione del comma 8 che sancisce
l’applicazione delle norme in materia di abuso alle imposte sui redditi e indirette, alle
tasse ed a ogni altra prestazione avente natura tributaria, anche a carattere locale,
ampliando, di fatto, l’ambito applicativo attualmente vigente.
La Relazione illustrativa precisa al riguardo che “sulla base delle conclusioni
interpretative cui è pervenuta la Corte di Cassazione saranno censurabili, ai sensi della
normativa proposta, tutti i comportamenti elusivi o abusivi indipendentemente dal
79
comparto impositivo di riferimento”.
Infine, il comma 2 dell’articolo 1 della proposta conferisce efficacia retroattiva alla
novella introdotta, derogando alle disposizioni poste a tutela dei diritti del contribuente
dall'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212.
Tale disposizione, si legge nella Relazione, “è volta in realtà a favorire la certezza
dei rapporti tra il cittadino e l'amministrazione finanziaria. Considerata, infatti, la
natura delle norme che la presente proposta di legge mira ad introdurre, la loro
applicazione retroattiva ai rapporti ancora pendenti (ossia per i quali non sia
intervenuta una sentenza definitiva) alla data di entrata in vigore della legge evita - per
quanto possibile - disparità nell'applicazione di norme aventi un carattere solo
formalmente innovativo, ma sostanzialmente volte a consolidare e precisare alcuni
elementi di garanzia nell'applicazione delle già vigenti misure antielusive”.
6.3.2 La proposta di legge Strizzolo A.C. 2578
Così come la precedente proposta di legge, anche questa iniziativa legislativa
interviene sull’art. 37 bis del D.P.R. 600/19673, che tuttavia, diversamente dalla prima
ipotesi di legge, non viene riformulato, ma solo parzialmente modificato.
La prima proposta di modifica riguarda la rubrica dell’art. 37 bis, nella quale,
accanto alle parole disposizioni antielusive, viene aggiunto “e per il contrasto
dell’abuso del diritto”, intendendo così, sottolineare l’esigenza di colmare il vuoto
legislativo e garantire la certezza del diritto.
Si propone inoltre di sostituire il comma 1 dell’art. 37 bis, specificando che
l’aggiramento degli obblighi e dei divieti tributari può avvenire mediante abuso del
diritto. A tal proposito, viene definito cosa costituisce abuso del diritto, intendendosi
come tale “l'utilizzo distorto o artificioso di una o più disposizioni di legge,
precipuamente finalizzato a ottenere vantaggi fiscali illegittimi o, comunque, contrari
alle finalità perseguite dalla normativa tributaria”.
Dopo il comma 1 si propone di inserire il comma 1 bis diretto a salvaguardare la
facoltà del contribuente di scegliere legittimamente, nel rispetto di quanto più volte
affermato dalla Corte di Cassazione, le forme giuridiche negoziali che comportano
80
l’applicazione del regime d’imposizione più favorevole.
Interessante appare infine le proposte di modifica dl comma 5 dell’art. 37 bis in cui
viene specificato che l'obbligo di motivazione specifica dell’avviso di accertamento non
deve più riguardare le giustificazioni del contribuente, bensì le circostanze di fatto per le
quali si ritiene applicabile il disposto delle disposizioni antielusive di cui al comma 1, e
che si debba tener conto delle suddette giustificazioni del contribuente.
Tale disposizione, si legge nella Relazione, “garantisce un uso corretto della
prescrizione normativa, prevedendo la sanzione di nullità per gli accertamenti non
analiticamente motivati con riferimento alle precipue circostanze di fatto, relative al
singolo caso, che li hanno originati. Il preciso riferimento alla motivazione dell’avviso
di accertamento, quale insostituibile fonte della pretesa, in combinazione con il
puntuale richiamo alle disposizioni del comma 1, che disciplinano le ipotesi di abuso
del diritto, è inteso a colmare, anche da un punto di vista procedimentale, il vuoto
legislativo rilevato dalla Corte di cassazione: conseguentemente, l’abuso del diritto,
non rappresentando più un principio interpretativo derivante dall’articolo 53 della
Costituzione, ma configurando una precisa ipotesi elusiva, prevista e disciplinata da
norme positive, non potrà più essere rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del
procedimento, anche senza una specifica richiesta della pubblica amministrazione,
come recentemente affermato dalla Suprema Corte”.
6.3.3 La proposta di legge Jannone A.C. 2709
Così come le precedenti proposte di legge, anche questa iniziativa legislativa
interviene sull’art. 37 bis del D.P.R. 600/19673, che viene parzialmente modificato.
Da un sommario esame della proposta di legge si evince che essa reca disposizioni
analoghe a quelle contenute nell’iniziativa legislativa del deputato Strizzolo.
Le uniche differenze tra le due proposte di legge riguardano la circostanza che la
proposta Jannone prevede, l’inapplicabilità di sanzioni penali in presenza di condotte
abusive o elusive e l’abrogazione totale del comma 3 del vigente art. 37 bis.
81
Conclusioni
Nelle pagine che precedono si è inteso affrontare, senza alcuna pretesa di
completezza, il complesso tema dei rapporti tra il diritto comunitario e l’ordinamento
interno attraverso l’analisi sia di alcune delle norme di origine comunitaria, che di
alcuni casi pratici decisi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
È stato possibile osservare come ad oggi, il diritto comunitario, nelle sue diverse
forme, ovvero sia quello che promana dalle istituzioni comunitarie che quello che
proviene dai principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, in forza del principio
dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione e del principio della preminenza del
diritto dell’Unione sul diritto nazionale, incide in modo determinante sulla legislazione
domestica dei diversi Stati membri.
Tuttavia, mentre in alcuni settori della fiscalità, quali ad esempio i tributi
armonizzati o il tema degli aiuti di Stato, l’incidenza delle norme comunitarie è
maggiormente penetrante negli ordinamenti interni, per altre materie, come le imposte
dirette, la strada appare lunga.
La circostanza secondo cui gli Stati sono ancora restii a vedere limitare la propria
sovranità su tale materia, rinunciandovi a favore delle Istituzioni comunitarie, rende più
difficile la possibilità che in tempi brevi si arrivi all’armonizzazione anche in tale
settore impositivo.
Non mancano di certo, le idee, quale ad esempio, la proposta di definizione di un
sistema di regole comuni per il consolidato fiscale europeo (CCCTB) che stabilisca un
regime per una base imponibile comune per l’imposta sulle società e preveda le regole
relative al calcolo e all'uso di tale base, che consentirebbe di evitare fenomeni di
sovratassazione e doppia imposizione.
Non deve essere trascurato, a tal proposito, che l’eventuale insediamento di
un’impresa, presso un altro Stato membro, comporta che questa sia soggetta ad oneri
amministrativi gravosi e ad elevati costi di adeguamento alla normativa interna.
La CCCTB avrebbe invece, il duplice effetto di rispettare un unico regime fiscale
europeo per il calcolo del loro reddito imponibile, invece che 27 regimi fiscali diversi
senza incidere necessariamente, sul potere discrezionale dei paesi dell’UE riguardo alle
aliquote nazionali di imposizione delle società, garantendo così, la coerenza dei regimi
82
fiscali nazionali degli Stati membri senza armonizzare le aliquote d'imposta.
Un apporto determinante verso la creazione di un diritto europeo in tema di imposte
dirette lo ha comunque dato, e continua a darlo, la Corte di Giustizia, che attraverso
l’interpretazione delle norme comunitarie ha stabilito principi giuridici validi in tutti i
paesi membri.
Si tratta, come già più volte ribadito, di principi vincolanti sia per gli operatori che
per i giudici domestici, che non possono, pertanto, essere disattesi, e dei quali si deve
tenere conto allorché, tali soggetti sono chiamati a decidere un questione nella quale vi
sia un contrasto tra una norma interna e una comunitaria, disapplicando, in tali casi, la
norma domestica che risulta contrastante con il diritto dell’Unione.
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