SCUOLA SUPERIORE DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE MASTER IN DIRITTO TRIBUTARIO “EZIO VANONI” I Edizione Siracusa _________________________________________________ L’incidenza del diritto comunitario e della giurisprudenza della Corte di Giustizia negli ordinamenti interni Tesi di fine master di: Pietro Cascio ____________________________________________________ Anno 2010-2011 Indice Capitolo I Le fonti del Diritto Comunitario 1.1 Il sistema giuridico europeo e le fonti del diritto dell’Unione…………………….5 1.2 Il diritto originario………………………………………………………………………8 1.3 Il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea……………………………..9 1.4 Il diritto derivato……………………………………………………………………….10 1.5 Gli atti atipici…………………………………………………………………………..13 Capitolo II L’incidenza del diritto comunitario in materia di tributi armonizzati: brevi cenni 2.1 L’armonizzazione in materia di IVA…………………………………………….......14 2.2 L’IVA e la direttiva 2006/112/CE…………………………………………………...16 2.3 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione dell’IVA: il caso Banca Antoniana Popolare Veneta Spa……………………………………..19 Capitolo III L’incidenza del diritto comunitario e delle sentenze della Corte di Giustizia in tema di tributi non armonizzati mediante l’analisi di casi pratici 3.1 L’armonizzazione in materia di imposte dirette……………………………………24 3.2 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione delle imposte dirette…………………………………………………………………………………….26 3.3 La libertà fondamentali e gli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia mediante l’analisi di casi pratici……………………………………………………..30 3.3.1 La libera circolazione delle persone: il caso Sckumacker e la tassazione dei non residenti in Italia……………………………………………………….31 3.3.2 Segue: il diritto di stabilimento e la sentenza Cadbury Schwepps……….36 2 3.3.3 Segue: la libertà di stabilimento e il caso National Grid Indus BV, la cd. exit tax…………………………………………………………………………….37 3.3.4 La libera circolazione dei servizi: il caso Gerritse………………………….42 3.3.5 La libera circolazione dei capitali : la sentenza Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, SA…………………………………………………………………...45 Capitolo IV Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di stato: problematiche relative al termine per l’esercizio dell’azione accertatrice da parte dell’amministrazione finanziaria e sul tema del recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis 4.1 Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di Stato……………………………………48 4.2 La disciplina degli aiuti di stato in materia fiscale………………………………..51 4.3 Il termine per l’esercizio da parte dell’amministrazione finanziaria dell’azione accertatrice diretta al recupero degli aiuti dichiarati incompatibili…………….53 4.4 Il recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis…..58 Capitolo V Il regime di attrazione europea: brevi considerazioni sulla compatibilità con l’ordinamento comunitario 5.1 Il regime di attrazione europea………………………………………………………62 5.2 Segue: profili di compatibilità con l’ordinamento comunitario e le libertà fondamentali…………………………………………………………………………….65 5.3 segue: il tema della concorrenza fiscale dannosa e gli aiuti di stato…………...68 Capitolo VI Brevi cenni sull’abuso del diritto in materia fiscale ed in particolare, sulle proposte di legge depositate in Parlamento che intendono codificare tale materia 6.1 L’abuso del diritto in materia fiscale……………………………………………….71 6.2 L’esigenza di certezze delle regole nel rapporto fisco-contribuente……………75 6.3 Le proposte di legge in tema di abuso del diritto………………………………….77 3 6.3.1 La proposta di legge Leo A.C. 2521…………………………………………..78 6.3.2 La proposta di legge Strizzolo A.C. 2578…………………………………….80 6.3.3 La proposta di legge Jannone A.C. 2709……………………………………..81 Conclusioni……………………………………………………………………...82 4 Capitolo I Le fonti del Diritto Comunitario 1.1 Il sistema giuridico europeo e le fonti del diritto dell’Unione Il sistema giuridico dell’Unione Europa è costituito dall’insieme di norme che regolano l’organizzazione e le competenze delle Istituzione comunitarie e i rapporti tra queste e gli Stati membri. L’ordinamento giuridico europeo presenta, quindi, la caratteristica di essere completamente autonomo rispetto a quello degli Stati membri. Con l’istituzione dell’Unione, gli Stati membri hanno infatti, limitato la propria potestà legislativa, creando un ordinamento giuridico autonomo, vincolante sia per i loro cittadini, sia per loro stessi, che deve essere applicato dai rispettivi organi giurisdizionali. Tali principi sono stati affermati, per la prima volta, nella sentenza Costa/ENEL1, nella quale la Corte di Giustizia ebbe modo di precisare che “istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in specie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”. L’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione impedisce quindi, che il diritto da essa elaborato sia superato dal diritto nazionale e ne garantisce l’applicazione uniforme in tutti gli Stati membri. Tuttavia, l’autonomia del diritto comunitario non implica una netta separazione con gli ordinamenti degli Stati membri, in quanto tra i due ordinamenti s’instaura una stretta integrazione e interdipendenza. 1 Causa C-6/64 5 La relazione che intercorre tra il diritto dell’Unione e il diritto nazionale è ben delineata all’art. 4 del TUE che, a tal proposito, prevede che “In conformità dell'articolo 5 (che enuclea i principi di attribuzione, sussidiarietà e competenza), qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione. Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione”. La stretta integrazione tra i due ordinamenti implica pertanto, che questi siano tra di loro coordinati. Laddove sorgano situazioni di conflitto tra l’ordinamento comunitario e quello nazionale, si dovrà fare riferimento ai principi elaborati dalla Corte di Giustizia, ovvero al principio dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione e al principio della preminenza del diritto dell’Unione sul diritto nazionale che gli si contrappone. In base al primo principio, “l'applicabilità diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità; dette norme sono quindi fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro che esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario; questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell'ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario”.2 In altri termini, qualora una disposizione del trattato o un atto delle istituzioni dell’Unione presenti determinate caratteristiche, esso crea diritti e obblighi non soltanto per le istituzioni dell’Unione e per gli Stati membri, ma anche per i cittadini dell’Unione. 2 Causa C- 106/77 6 In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, invece, “le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere «ipso jure» inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche — in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri — di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie; Il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della Comunità, o altrimenti incompatibili col diritto comunitario, equivarrebbe infatti a negare, sotto questo aspetto, il carattere reale d'impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità”. Ne consegue che, in caso di conflitto o di incompatibilità tra norme di Diritto dell’Unione Europea e norme nazionali, le prime prevalgono sulle seconde, e il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la disposizione interna contrastante con la legislazione comunitaria senza dover chiedere o attendere l'effettiva rimozione, ad opera degli organi nazionali all'uopo competenti, delle eventuali misure nazionali che ostino alla diretta e immediata applicazione delle norme comunitarie. Al fine di evitare i conflitti tra le norme del diritto dell’Unione e quelle nazionali tutte le istituzioni nazionali che sono chiamate concretamente ad applicare il diritto o a svolgere funzioni giurisdizionali possono ricorrere comunque, all’interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto dell’Unione. La Corte di Giustizia, secondo un orientamento ormai consolidato, ha individuato il fondamento giuridico dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione nel principio di leale cooperazione previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, sopra citato, il cui rispetto comporta anche l’obbligo degli organi nazionali di tener conto, nell’interpretare e applicare il diritto nazionale su cui prevale quello dell’Unione, del tenore letterale e delle finalità perseguite dal diritto dell’UE (dovere di lealtà verso l’Unione). Passando adesso, al tema delle fonti del diritto comunitario, la dottrina prevalente è solita distinguere il diritto dell’Unione in diritto originario e diritto derivato. 7 Il diritto originario o primario, trova la sua fonte nei Trattati istitutivi dell’Unione Europea, nonché negli atti che li hanno modificati o completati. Accanto ai trattati, vengono considerati diritto primario, anche i principi generali del diritto enunciati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Il diritto derivato è invece, costituito dagli atti provenienti dalle istituzioni dell’Unione per l’esercizio delle competenze loro assegnate dai Trattati. A tal proposito il diritto derivato può essere distinto in atti tipici, quali ad esempio i regolamenti e le direttive, e atti atipici, quali le comunicazioni, le risoluzioni e le dichiarazioni comuni, che pur non essendo vincolanti nei confronti dei destinatari esprimono un indirizzo o un orientamento delle Istituzioni europee. 1.2 Il diritto originario La prima fonte del diritto dell’Unione è costituita dai Trattati istitutivi dell’Unione Europea. Essi contengono i principi giuridici fondamentali concernenti gli obiettivi, l’organizzazione e la modalità di funzionamento dell’Unione, nonché parti del diritto economico. Essi stabiliscono il quadro giuridico costituzionale dell’UE, cui devono attenersi, nell’interesse dell’Unione, le istituzioni dotate, a tal fine, di appositi poteri legislativi e amministrativi. Il ruolo primario dei Trattati, tra le fonti del diritto dell’Unione, ha trovato un riconoscimento esplicito all’art. 1 del TUE che così recita “L'Unione si fonda sul presente trattato e sul trattato sul funzionamento dell'Unione europea (in appresso denominati «i trattati»). I due trattati hanno lo stesso valore giuridico”. Accanto ai trattati, costituiscono altresì, fonti primarie o diritto originario dell’Unione, i principi generali del diritto enucleati dalla Corte di Giustizia dell’ Unione Europea. Si tratta di norme che esprimono i concetti essenziali di diritto e giustizia ai quali si ispira ogni ordinamento giuridico. 8 I principi generali hanno la funzione di colmare eventuali lacune e dare un’interpretazione estensiva alle norme esistenti, secondo il principio di equità. I principi del diritto trovano applicazione, principalmente nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del trattato. I principi generali del diritto trovano le loro fondamenta, in primo luogo, nei principi comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Tra essi possono essere annoverati la certezza del diritto, l’affidamento dei terzi in buona fede, la forza maggiore. Essi possono essere desunti anche dai testi scritti dell’Unione, e tra questi, meritano di essere ricordati la protezione dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità, il principio della leale cooperazione o, ancora, il principio della responsabilità degli Stati membri in caso di violazione del diritto dell’Unione. 1.3 Il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea Secondo quanto previsto dall’art. 267 del TFUE la Corte di Giustizia ha il compito di assicurare l’uniformità di interpretazione e applicazione delle norme comunitarie in ciascuno degli Stati membri. Il giudizio della Corte è pertanto, diretto nei confronti della norma comunitaria della quale si chiede l’interpretazione. La norma nazionale viene valutata solo in termini di compatibilità con l’ordinamento comunitario e non viceversa. In altri termini, attraverso il giudizio di rinvio pregiudiziale viene chiesto ai giudici della Corte di interpretare la norma comunitaria e determinare se questa sia contraria ad una normativa nazionale che disponga un comportamento che può apparire difforme a quanto prevede la disposizione europea, Le sentenze interpretative rese da tale organo producono un effetto vincolante per il giudice nazionale che ha sollevato la questione, che pertanto, deve disapplicare la norma interna contrastante con quella comunitaria interpretata dalla Corte. 9 La sentenza, oltre ad essere vincolante per il giudice del rinvio, costituisce un precedente giurisprudenziale che produce effetti anche nei confronti di altri giudici, anche di paesi membri diversi. Essa esplica i suoi effetti ex tunc, ovvero, dal momento dell’entrata in vigore della norma interpretata, salvo che la Corte non ne riduca la portata applicativa. In merito al ruolo della giurisprudenza della Corte di Giustizia, si può ritenere che, con riferimento al settore fiscale, la materia in cui si registra il maggior numero di decisioni riguardi i tributi armonizzati, tra i quali il principale è sicuramente l’IVA. In tale campo, la Corte è riuscita ad elaborare i principi e i tratti fondamentali di tale disciplina sulla base delle diverse direttive che si sono susseguite nel tempo. Nell’ultimo periodo, si è tuttavia, assistito a sensibili interventi della Corte di Giustizia anche in altri settori impositivi, come ad esempio in materia di imposte dirette. La giurisprudenza comunitaria, facendo leva sul principio di non discriminazione e sulle norme relative all’esercizio delle libertà fondamentali, è riuscita ad elaborare principi generali in grado di influenzare la potestà legislativa degli Stati membri contribuendo in misura determinante alla definizione e allo sviluppo del diritto dell’Unione, in una materia in cui la possibilità di incidere delle Istituzioni europee è stata abbastanza limitata a causa della riluttanza degli Stati a rinunciare alla propria potestà. L’effetto lesivo e discriminante della norma nazionale è quindi, giudicato sulla base della possibilità di restringere l’esercizio di una delle libertà previste dal Trattato operando pertanto una discriminazione basata sulla residenza. 1.4 Il diritto derivato La seconda fonte del diritto dell’Unione è rappresentata dal cd. diritto derivato, ovvero, dagli atti provenienti dalle Istituzioni comunitarie emanati per la realizzazione dei loro obiettivi. Al riguardo, l’art. 288 del TFUE prevede che “Per esercitare le competenze dell'Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri”. 10 L’art. 288 del TFUE si preoccupa inoltre, di precisare chi siano i destinatari dei diversi tipi di atti e gli effetti che questi producono nei loro confronti. Più specificatamente, viene esplicitato che il regolamento ha portata generale ovvero, non si rivolge a destinatari determinati o determinabili. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri senza che sia necessario alcun atto di ricezione o di adattamento da parte di quest’ultimi. La direttiva invece, ha come destinatari gli Stati membri cui è rivolta, non è obbligatoria nei suoi elementi, ma si limita a fissare dei principi e dei criteri generali, imponendo un determinato risultato da raggiungere, fermo restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi da adottare. Nella prassi dell’Unione tuttavia, è sempre più frequente il ricorso a direttive dettagliate, le quali indicano con precisione il contenuto delle norme interne che gli Stati membri sono tenuti ad adottare. In tal caso, la discrezionalità dello Stato è limitata alla sola forma del mezzo giuridico da adottare al fine di recepire la norma già fissata sul piano europeo. A differenza dei regolamenti, la direttiva non ha efficacia diretta, ovvero non produce diritti e obblighi che i giudici devono fare osservare. Gli Stati membri sono gli unici destinatari diretti. Solo i successivi atti esecutivi delle autorità competenti degli Stati membri conferiscono diritti o impongono obblighi ai cittadini. La Corte di giustizia ha tuttavia chiarito, attraverso una giurisprudenza costante, che a determinate condizioni i cittadini dell’Unione possono appellarsi direttamente alle disposizioni di una direttiva, rivendicando i diritti che essa conferisce loro e, eventualmente, adire i tribunali nazionali. In tali casi si parla di direttive self- executing. La Corte ha ritenuto che si possa parlare di direttive self-executing, ovvero con efficacia diretta quando: • le disposizioni della direttiva stabiliscono in maniera sufficientemente chiara e precisa i diritti dei cittadini dell’Unione/delle imprese; • le disposizioni della direttiva chiariscono il contenuto di un obbligo già previsto dal Trattato; • le disposizioni della direttiva non implicano che il legislatore nazionale 11 abbia alcun margine discrezionale per quanto riguarda il contenuto della normativa; • il termine fissato per il recepimento della direttiva sia scaduto. L’orientamento dei giudici comunitari si basa fondamentalmente, sulla convinzione che uno Stato membro agisca in maniera contraddittoria e illegittima, qualora continui ad applicare il proprio diritto interno senza adempiere l’obbligo di adeguarlo alle disposizioni della direttiva. In ogni caso, comunque, l’efficacia diretta delle direttive è stata riconosciuta dalla Corte di Giustizia solo nei rapporti tra i cittadini dell’Unione e gli Stati membri, e solo quando l’effetto diretto è favorevole ai cittadini, non quando lo è a loro discapito ovvero, solo nei casi in cui il diritto dell’Unione prevede norme più favorevoli per i cittadini rispetto alla normativa nazionale che non e stata adeguata (cd. effetto diretto verticale). La Corte di giustizia ha invece negato l’efficacia diretta delle direttive nei rapporti tra cittadini, (cd. effetto diretto orizzontale), in quanto essi non possono essere considerati responsabili delle omissioni dello Stato. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Caratteristica principale è la portata individuale della decisione, i cui destinatari se individuati sono vincolati in tutti i suoi elementi dal contenuto di questa. Può essere destinata anche ai singoli Stati membri nei confronti dei quali ha effetto diretto. Le raccomandazioni e i pareri invece, diversamente dai primi tre, non hanno efficacia vincolante. Tramite essi, le istituzioni dell’Unione si esprimono senza imporre obblighi giuridici ai destinatari, nei confronti degli Stati membri e, in alcuni casi, anche dei cittadini dell’Unione. Una distinzione tra i due atti può essere fatta in funzione delle loro diverse finalità. Attraverso le raccomandazioni viene consigliato al destinatario un determinato comportamento più rispondente agli interessi comuni, senza però imporre un obbligo giuridico. Con i pareri le istituzioni intendono esprimere un giudizio su una situazione 12 oggettiva o su determinate fattispecie all’interno dell’Unione o in uno Stato membro. Entrambi gli atti non richiedono forme particolari per la loro formazione e possono avere come destinatari gli stati membri, le altee istituzioni o i soggetti di diritto dei singoli Stati. 1.5 Gli atti atipici Oltre agli atti giuridici previsti dai trattati, le istituzioni dell’Unione dispongono anche di altri atti, cd. atipici, in quanto non rientrano tra quelli elencati nell’art. 288 TFUE. Nella prassi dell’Unione gli strumenti più utilizzati sono le risoluzioni, le dichiarazioni, i programmi d’azione, i libri verdi. Le risoluzioni esprimono le intenzioni e le opinioni comuni sul processo d’integrazione in generale e su specifici compiti a livello di Unione e al di fuori di essa. Le dichiarazioni costituiscono impegni delle Istituzioni al rispetto di determinati principi. I Programmi d’azione sono finalizzati alla realizzazione dei programmi legislativi e degli obiettivi generali previsti dai trattati. I libri verdi sono documenti pubblicati allo scopo di avviare consultazioni su specifici argomenti nell’ambito dell’Unione. 13 Capitolo II L’incidenza del diritto comunitario in materia di tributi armonizzati: brevi cenni 2.1 L’armonizzazione in materia di IVA In ambito fiscale, il settore nel quale si assiste maggiormente, all’incidenza del diritto comunitario e delle sentenze della Corte di Giustizia è rappresentato dai cd. tributi armonizzati. Come si avrà modo di osservare nel capitolo successivo, la materia fiscale rappresenta un settore nel quale gli Stati membri sono piuttosto restii a cedere o, a vedere limitata la propria sovranità. Ed invero, se per ciò che concerne le imposte dirette i singoli Stati conservano ancora piena autonomia decisionale, seppure nel rispetto del diritto comunitario, tale prerogativa è stata sensibilmente limitata per le imposta indirette, ed in particolare per quelle imposte che direttamente o indirettamente, possono incidere sul raggiungimento degli scopi dell’Unione. Le ragioni di fondo che stanno alla base dell’Unione europea sono infatti, principalmente, di tipo economico e finalizzate alla creazione di un mercato unico all’interno del quale merci, persone, servizi e capitali possano liberamente circolare. A tal proposito, appare utile richiamare quanto previsto dall’art. 3, del TFUE secondo cui “L'Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima. L'Unione instaura un mercato interno”. Il concreto raggiungimento di un mercato comune europeo presuppone quindi, che vengano adottate tutte le misure necessarie affinché il mercato possa instaurarsi e funzionare3, e tra queste, di primaria importanza appare essere, in primo luogo, la creazione di una unione doganale che si estende al complesso degli scambi e comporta 3 Art. 28 TFUE 14 il divieto, ai sensi dell’art. 28 TFUE , di prevedere, fra gli Stati membri, dazi doganali all'importazione e all'esportazione e qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure l'adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi. Funzionale a tale scopo è anche, la creazione di un unico territorio doganale, che si sostituisce ai territori doganali degli Stati membri, e la messa in comune dell’importo globale dei dazi doganali riscossi in virtù della tariffa doganale comune. Affinché si possano raggiungere tali scopi, ovvero si possa costituire un mercato comune occorre comunque, procedere all’eliminazione di tutte le barriere fisiche e giuridiche che possono incidere sul processo di unificazione economica e commerciale. Tra queste, la materia fiscale riveste una specifica rilevanza. Proprio per tali motivi, alla fiscalità viene dedicato uno specifico capo delle disposizioni del TFUE che, dagli articoli 110 a 113, prevede disposizioni volte ad evitare che nei confronti di prodotti provenienti da altri Stati membri siano applicate direttamente o indirettamente, imposte di qualsiasi natura superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali e disposizioni dirette a favorire l’armonizzazione delle imposte indirette in quanto idonee ad influire in maniera determinante sul funzionamento del mercato interno. Su tale versante, secondo il citato art. 113 viene infatti, previsto che “Il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, adotta le disposizioni che riguardano l'armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d'affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di concorrenza”. Tale norma rappresenta quindi, la base attraverso cui le Istituzioni dell’Unione possono adottare tutte le misure necessarie al fine di realizzare un modello impositivo unitario e ridurre le diversità esistenti tra le varie legislazioni degli Stati così da consentire la piena integrazione economica e commerciale. All’interno dell’opera di armonizzazione delle imposte indirette, un ruolo primario è stato attribuito all’armonizzazione dell’IVA, mediante la quale è stato possibile creare un sistema comune di imposta sul valore aggiunto caratterizzato, principalmente, dalla neutralità della prestazione rispetto alle varie fasi del ciclo produttivo o distributivo, 15 attraverso un sistema che indipendentemente dal numero delle operazioni effettuate, consente ai soggetti passivi di IVA di detrarre dall’imposta dovuta l'importo dell'imposta da essi pagata ad altri soggetti imponibili. L’importanza di procedere in tempi rapidi verso questa direzione era già stata riconosciuta all’interno della I Direttiva del Consiglio CEE (Direttiva 67/227), nella quale il legislatore comunitario affermò l'idea che la eliminazione delle barriere di natura fiscale sarebbe stata ottenuta soltanto con l'eliminazione progressiva dei sistemi di imposta cumulativa a cascata (in Italia, la vecchia IGE) e con la adozione, da parte di tutti gli Stati, di un sistema comune di imposta sul valore aggiunto, ovverosia di una imposta generale sul consumo esattamente proporzionale al prezzo dei beni o servizi, a prescindere dal numero di transazioni intervenute nel processo di produzione o distribuzione antecedente alla fase della imposizione4. 2.2 L’IVA e la direttiva 2006/112/CE Le considerazioni esposte nel paragrafo precedente consentono ormai di definire l’Iva come un tributo avente natura comunitaria o comunque, di origine comunitaria. L’esigenza di perseguire gli scopi dell’Unione, ovvero la necessità di ridurre quanto più possibile gli ostacoli alla libera circolazione e gli squilibri fiscali sui prezzi di beni e servizi che circolano all’interno del mercato comune, e la circostanza che la concorrenza tra gli Stati membri nell'ambito del mercato interno non sia falsata da disparità di aliquote e di regimi d'imposizione a livello della fiscalità indiretta, hanno visto infatti, proliferare proprio in materia di IVA sia l’attività legislativa delle Istituzioni comunitarie che quella giurisprudenziale della Corte di Giustizia. Se a tutto ciò si aggiunge che, insieme ai dazi doganali, l’Iva è considerata risorsa propria dell’Unione Europea appare evidente come la disciplina di tale materia è oggi interamente demandata al legislatore comunitario e all’interpretazione data dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. 4 Art. 1, par. 1, della Direttiva 67/227. 16 Il legislatore domestico infatti, in tale materia ha visto sempre più restringere le proprie competenze, limitandosi a recepire e trasporre nella normativa interna le regole e i principi stabiliti a livello comunitario. Emblematica, proprio al fine di comprendere quanto su questo tema il diritto dell’Unione incida sul diritto interno, appare essere la questione relativa al recepimento delle nuove norme in materia di territorialità di servizi previste dalla Direttiva 2008/8/CE, che hanno trovato applicazione a decorrere dal 1 gennaio 2010. In quell’occasione, in sede di prima applicazione delle nuove regole, considerato che ancora non era ancora intervenuto alcun atto di recepimento da parte del legislatore interno della nuova disciplina, la stessa amministrazione finanziaria ebbe modo di specificare che alcune delle disposizioni contenute nella Direttiva Servizi erano sufficientemente dettagliate e tali da consentirne la diretta applicazione almeno per ciò che riguarda le regole generali5. Pertanto, nelle more dell'adozione del formale provvedimento di recepimento delle norme comunitarie nell’ordinamento interno6, sono state fornite istruzioni operative di massima, sulla base delle norme contenute nella direttiva che apparivano oggettivamente suscettibili di immediata applicazione. Ciò, concludeva l’Agenzia delle Entrate “allo scopo di evitare che si verifichino fenomeni di doppia tassazione o di detassazione in contrasto con i dettami dell'IVA e con un coerente funzionamento del mercato interno, che potrebbero emergere qualora dal 1 gennaio 2010 in Italia si continuassero ad applicare le previgenti norme”. Volendo adesso ripercorrere, brevemente, le tappe che hanno portato a disciplinare l’IVA a livello comunitario, il contributo probabilmente più decisivo all’armonizzazione dell’imposta si è avuto, inizialmente, con la Direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977 con la quale fu stabilito il sistema comune dell’IVA, introducendo una serie di regole comuni che definivano il campo di applicazione dell’imposta, la territorialità, i soggetti passivi, le operazioni imponibili e quelle esenti, il luogo di riscossione e vari altri elementi relativi all’applicazione dell’imposta. Tra queste, particolare importanza ha avuto l’art. 27 della direttiva che nelle more delle completa realizzazione del progetto di armonizzazione dell’imposta, ha consentito agli Stati membri, dietro autorizzazione del Consiglio, di mantenere o introdurre, per 5 6 Circolare 58/E del 31.12.2009 Intervenute con il decreto legislativo 11 febbraio 2010, n. 18. 17 periodi limitati, misure particolari di deroga alla presente direttiva, allo scopo di semplificare la riscossione dell’imposta o di evitare talune frodi o evasioni fiscali. Nel tempo, a causa delle significative modifiche apportate al predetto testo legislativo dai molteplici interventi normativi, e degli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia, si è reso necessario rivedere la direttiva 388 ed, a tal fine, è stata emanata la Direttiva 2006/112/CE del 28.11.2006, con la quale si è cercato di riorganizzare la materia mediante la creazione di un unico testo di riferimento comunitario. La direttiva 2006/112/CE ha proceduto alla rifusione delle norme che costituiscono il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto, contenute principalmente nella direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977, più volte modificata nel corso degli anni da numerosi altri provvedimenti.. La nuova direttiva 2006/112/CE costituisce pertanto, una sorta di testo unico di tutte le norme sul sistema comune di IVA, che ha razionalizzato e coordinato le numerose e sostanziali modifiche intervenute nel tempo. Il nuovo testo è entrato in vigore dal 1° gennaio 2007 in tutti i Paesi dell’Unione europea. La direttiva 2006/112/CE si compone di 414 articoli, raggruppati in 15 titoli e 12 allegati. La rifusione, come previsto espressamente nel terzo considerando, ha apportato solo poche modifiche sostanziali alla legislazione esistente. La maggior parte dei cambiamenti sono strutturali e redazionali e servono a rendere il testo più chiaro e comprensibile, ovvero a correggere errori e divergenze linguistiche. Oltre alla rielaborazione del testo, sono state introdotte alcune modifiche sostanziali recependo anche sentenze della Corte di giustizia. La direttiva 2006/112 non ha comunque, rappresentato l’ultimo intervento comunitario in tema di IVA. A questo provvedimento, nel corso degli ultimi anni, ne sono seguiti altri che hanno definito o modificato alcuni aspetti della materia che ancora risultavano non disciplinati. Tra questi, meritano di essere ricordati, la Direttiva 2008/8/CE del 12 febbraio 2008, per quanto riguarda il luogo delle prestazioni di servizi; la Direttiva 2008/117/CE del 16 dicembre 2008, per combattere la frode fiscale connessa alle operazioni intracomunitarie; la Direttiva 2009/69/CE del 25 giugno 2009 in relazione all’evasione 18 fiscale connessa all’importazione; la Direttiva 2010/23/UE del 16 marzo 2010, per quanto concerne l’applicazione facoltativa e temporanea del meccanismo dell’inversione contabile alla prestazione di determinati servizi a rischio di frodi; la Direttiva 2010/45/UE del 13 luglio 2010, per quanto riguarda le norme in materia di fatturazione ed infine, il Regolamento 282/2011 che interpreta alcune fattispecie contenute nella Direttiva 2006/112, chiarendo alcuni concetti, quale, ad esempio quello di stabile organizzazione. Di recente, tuttavia, si sente parlare ancora di nuovi interventi in materia di IVA. Da poco tempo, l’Unione europea ha infatti, elaborato un progetto di risoluzione attraverso il quale s’intende rivedere la legislazione in materia, attraverso maggiore contrasto alle frodi e la riduzione di sistemi di esenzione e tariffe diverse tra gli Stati, limitando al massimo l’utilizzo in deroga delle aliquote ridotte. 2.3 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione delle IV: il caso Banca Antoniana Popolare Veneta Spa. Come si è già avuto modo di anticipare, la capacità della Corte di Giustizia di incidere sugli ordinamenti interni si deve comunque, principalmente, agli effetti che le sentenze sono in grado di produrre. È stato già detto al riguardo, che le sentenze interpretative del diritto dell’Unione sono vincolanti sia per il giudice del rinvio che per gli altri giudici che sono chiamati a esaminare casi aventi ad oggetto questioni analoghe. L’incidenza della giurisprudenza della Corte sugli ordinamenti interni rileva inoltre, sia in ordine alle pronunce rese nei confronti dello Stato che per quelle rese nei confronti di altri Stati membri. Qualunque giudice,di qualsiasi Stato membro pertanto, nel momento in cui è chiamato a pronunciarsi su una questione analoga ad una già decisa dalla Corte di Giustizia, è tenuto ad attenersi ai principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria, salva la possibilità di riproporre una nuova questione pregiudiziale. La sentenza costituisce infatti, un precedente giurisprudenziale vincolante per gli altri giudici, anche di paesi diversi. 19 Si parla in tali casi di efficacia erga omnes delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Ebbene, proprio in ambito Iva, un apporto sicuramente significativo a favore dell’armonizzazione lo si deve alla giurisprudenza comunitaria la quale, attraverso il compito di garantire l’uniformità di interpretazione e applicazione delle norme comunitarie in ciascuno degli Stati membri, è riuscita ad elaborare principi generali in grado di influenzare la potestà legislativa degli Stati membri contribuendo in misura determinante alla definizione e allo sviluppo del diritto dell’Unione. Tra le pronunce che meritano di essere ricordate in tema di IVA e che meglio sono in grado di far capire quanto sia importante il ruolo della Giurisprudenza comunitaria in ordine tale materia, si può citare la recente sentenza Banca Antoniana Popolare Veneta Spa/Ministero delle Finanze7 del 15 dicembre 2011. La questione in esame trae origine dal rifiuto dell’amministrazione finanziaria di rimborsare alla BAPV l’Iva che quest’ultima, nel periodo 1984-1994, aveva riscosso sulle prestazioni di servizi consortili. Più in particolare, sulla scorta che tali prestazioni andavano assoggettate ad IVA la società aveva applicato e versato l’imposta sui compensi relativi alla riscossione dei contributi consortili. Con un successivo documento di prassi del 1999, l’amministrazione finanziaria comunicava di aver mutato l’originaria interpretazione della disposizione citata, ritenendo che i contributi consortili avessero natura tributaria e che, conseguentemente, i compensi dovuti dai consorzi per i servizi di riscossione di detti contributi dovessero essere considerati esenti da IVA, ai sensi dell’art. 10, n. 5, del DPR. n. 633/72. Di conseguenza i consorzi richiedevano alla società la restituzione a titolo di indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c. di quanto corrisposto a titolo di IVA. La società, a sua volta, presentava all’amministrazione finanziaria domanda di rimborso dell’IVA corrispondente alle somme che le erano state richieste dai committenti dei suoi servizi, che veniva tuttavia rigettato per decorrenza del termine di due anni dal pagamento dell’IVA, previsto dall’art. 21 del D.Lgs 546/1992, in considerazione del fatto che la circolare amministrativa non può costituire presupposto a partire dal quale decorre il termine di due anni per effettuare la richiesta. 7 Causa C-427/10. 20 In relazione a quanto sopra, è stato chiesto ai giudici comunitari di stabilire se i principi di effettività, di non discriminazione e di neutralità fiscale in materia di IVA siano contrari ad una disciplina o prassi nazionale secondo cui l’azione di ripetizione del cliente nei confronti del soggetto passivo va esercitata nel termine di prescrizione decennale, davanti al giudice ordinario, mentre l’istanza di ripetizione del soggetto passivo nei confronti del fisco va presentata entro il termine biennale, posto che da tali norme possono derivare situazioni che si risolvono in una sostanziale negazione del diritto al rimborso dell’IVA pagata a torto. In altri termini, è stato chiesto di stabilire se il diritto comunitario sia contrario ad una normativa nazionale come quella sulla ripetizione d’indebito che prevede in ambito tributario dei termini di decadenza più brevi rispetto a quelli previsti per l’azione civile, il cui effetto sarebbe quello di consentire il rimborso dell’Iva al proprio cliente da parte del fornitore entro il termine decennale, senza che quest’ultimo, a sua volta, possa ottenere il rimborso dell’IVA da parte dell’amministrazione finanziaria laddove siano trascorsi più di due anni da quando si è verificato il presupposto. La Corte di giustizia chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità comunitaria del sistema nazionale italiano ha avuto modo di precisare, in primo luogo, che, “in mancanza di disciplina comunitaria in materia di domande di rimborso delle imposte indebitamente prelevate, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possano essere presentate, purché i requisiti in questione rispettino i principi di equivalenza e di effettività, vale a dire non siano meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi di natura interna e non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario”. Ragione per cui, si è ritenuto, secondo costante giurisprudenza, che sia compatibile con il diritto dell’Unione, l’esistenza di termini di ricorso previsti a pena di decadenza, nell’interesse della certezza del diritto, purché non siano tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione8. Di conseguenza ritiene la Corte il fatto che esista un termine biennale per potere richiedere il rimborso dell’indebito all’amministrazione finanziaria, e un termine 8 Causa C-35/05 21 decennale, tra privati non è in linea generale in contrasto con l’ordinamento comunitario. Sennonché, qualora il rimborso dell’IVA pagata risultasse impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere gli strumenti necessari per consentire al destinatario dei servizi, o come nel caso di specie, al prestatore dei servizi, di recuperare l’imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il principio di effettività. A tal proposito, già in passato la Corte di Giustizia ha avuto modo di precisare che “il principio di effettività sarebbe violato nell’ipotesi in cui il soggetto passivo non avesse avuto né il diritto di ottenere il rimborso del tributo in questione durante il termine a sua disposizione per l’azione nei confronti dell’amministrazione finanziaria, né, in seguito a un’azione di ripetizione dell’indebito esperita nei suoi confronti dai propri clienti successivamente alla scadenza di detto termine, la possibilità di rivalersi contro l’amministrazione finanziaria, cosicché le conseguenze dei pagamenti indebiti dell’IVA imputabili allo Stato sarebbero sopportate esclusivamente dal soggetto passivo di tale imposta”. Allo stesso modo, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che un’autorità nazionale non può eccepire il decorso di un termine di prescrizione ragionevole se il comportamento delle autorità nazionali, in combinazione con l’esistenza di un termine di prescrizione, finisca col privare totalmente un soggetto della possibilità di far valere i suoi diritti dinanzi ai giudici nazionali9. Ed in effetti, nel caso in esame, per la società sarebbe stato impossibile o eccessivamente difficile ottenere, con una azione proposta nel termine di prescrizione biennale, il rimborso dell’IVA versata negli anni 1984-1994 in quanto, la posizione dell’amministrazione finanziaria è stata espressa solo nel 1999 e l’azione civile di ripetizione da parte dei clienti è intervenuta solo a seguito dell’emanazione della circolare, e quindi ben oltre il termine di prescrizione biennale. Ciò detto, considerato che secondo la Corte di Giustizia, in una situazione come quella in esame, la società finisce per sopportare il pagamento dell’IVA non dovuta, senza avere la possibilità di reclamarne effettivamente il rimborso nei confronti dell’amministrazione finanziaria, anche se tale situazione non le sia imputabile, ma anzi 9 Cause riunite C-89/10 e 96/10. 22 sia dovuta al fatto che in quel periodo l’imposta è stata versata in quanto la prassi del tempo così prevedeva, si deve concludere che, in circostanze del genere, l’amministrazione finanziaria deve tenere conto delle situazioni particolari venutesi a creare e prevedere gli strumenti idonei a consentire il recupero dell’imposta indebitamente fatturata. In conclusione, ad avviso dei giudici comunitari, pur non essendoci, in linea di principio, ostacoli comunitari alla previsione di termini diversi per l’esercizio dell’azione di recupero dell’indebito in ambito tributario e civile, tale differenza temporale non deve produrre l’effetto di limitare il diritto del soggetto passivo di potere effettivamente esercitare la richiesta di rimborso dell’imposta nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Ebbene, tenuto conto delle considerazioni svolte dalla Corte di Giustizia nella sentenza in esame, si può evidenziare che a differenza di quanto accade solitamente in presenza di pronunce della Corte di Giustizia, il cui effetto vincolante comporta la disapplicazione della norma interna in contrasto, nel caso di specie i giudici comunitari hanno ritenuto compatibili con l’ordinamento dell’Unione le norme interne, che pertanto, non dovranno essere disapplicate ma interpretate in ragione del principio comunitario di effettività. In altri termini, come peraltro sottolineato da autorevole dottrina10, il diritto del contribuente a chiedere il rimborso, che a causa della differenza temporale tra le due azioni avrebbe potuto essere limitato, viene definitivamente tutelato non attraverso la caducazione della norma dei due anni, rispetto all’altra dei dieci anni, ma con la convivenza delle due disposizioni, con l’obiettivo di non rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritto, e con lo spostamento in avanti del termine biennale a favore del fornitore, al momento dell’attivazione della domanda di rimborso avanzata nei suoi confronti dal cliente. 10 Paolo Centore, La sentenza supera l’effetto sandwich, in Il Sole 24 Ore del 16 dicembre 2011. 23 Capitolo III L’incidenza del diritto comunitario e delle sentenze della Corte di Giustizia in tema di tributi non armonizzati mediante l’analisi di casi pratici 3.1 L’armonizzazione in materia di imposte dirette Come già anticipato nella parte introduttiva sulle fonti del diritto e sul ruolo della Corte di Giustizia, la materia fiscale, ed in particolare quella relativa alle imposte dirette, costituisce un settore nel quale gli Stati membri, da sempre, sono riluttanti a cedere parte della loro potestà impositiva. Diversamente da quanto è accaduto in materia di imposte indirette, dove si è proceduto ad una graduale armonizzazione, ovvero, al raggiungimento di un sistema omogeneo di tassazione attraverso la riduzione delle diversità che ciascuna legislazione nazionale prevede, in materia di imposte dirette tale percorso appare più complicato. Oltre che a difficoltà riconducibili ai singoli Stati, che vedrebbero ridimensionata il più importante strumento interno di manovra economica, il processo di armonizzazione in materia di imposte dirette appare difficile anche a causa del fatto che tale materia, difficilmente, è in grado di incidere sugli scopi perseguiti dall’Unione e quindi sul corretto funzionamento del mercato. La normativa comunitaria lascia quindi, agli Stati membri grande discrezionalità nella concezione dei loro sistemi di imposizione diretta, consentendo loro di adattarli in funzione di obiettivi nazionali. L’intervento delle Istituzioni comunitarie in tale materia si ha soltanto, laddove le disposizioni fiscali nazionali comportino incoerenze nel trattamento fiscale quando sono applicate in un contesto transfrontaliero, per cui un contribuente, che si tratti di un privato o di un'impresa, può essere vittima di discriminazione o di doppia imposizione. Coerentemente a tali scopi, che rispondono comunque alla logica della tutela del mercato comune e della libera concorrenza, si possono ricordare gli interventi legislativi comunitari in tema di tassazione delle imprese volte ad evitare forme ostruzionistiche da parte degli Stati membri rispetto alle imprese non residenti. 24 Tra queste misure, le più significative hanno riguardato in primo luogo, la tassazione dei dividendi tra società comunitarie, cd. direttiva madre-figlia11, attraverso la quale l’Unione europea introduce, per i gruppi di società di Stati membri diversi, disposizioni fiscali neutre sotto il profilo della concorrenza. Essa sopprime la doppia imposizione degli utili distribuiti in forma di dividendi dalle società figlie stabilite in uno Stato membro alle proprie società madri stabilite in un altro Stato membro. Ed ancora, si può ricordare la Direttiva sulle operazioni di riorganizzazione societaria che istituisce un regime fiscale comune per le operazioni di ristrutturazione transfrontaliere12. Sempre in materia di tassazione degli utili societari, si può citare la Direttiva concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate13, il cui obiettivo, anche in questo caso, è ipotesi di doppia imposizione nell’ambito degli Stati membri. Coerente con tale logica, appare essere anche la proposta di definizione di un sistema di regole comuni per il consolidato fiscale europeo14 (CCCTB) che stabilisca un regime per una base imponibile comune per l’imposta sulle società e preveda le regole relative al calcolo e all'uso di tale base. Come risulta dal quadro di sintesi pubblicato sul sito dell’Unione Europea15, la base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB) è un unico insieme di regole che le società che operano all’interno dell’Unione europea (UE) potranno utilizzare per calcolare i loro profitti tassabili. Ciò significa che le società avranno l’obbligo di rispettare un unico regime fiscale europeo per il calcolo del loro reddito imponibile, invece che 27 regimi fiscali diversi. La CCCTB non inciderà necessariamente sul potere discrezionale dei paesi dell’UE riguardo alle aliquote nazionali di imposizione delle società. Questo approccio garantirebbe la coerenza dei regimi fiscali nazionali degli Stati membri senza armonizzare le aliquote d'imposta. 11 Direttiva 90/435/CEE, modificata dalla Direttiva 2003/123/CE e dalla Direttiva 2006/98/CE. Direttiva 90/434/CEE, abrogata dalla Direttiva 2009/133/CE. 13 Direttiva 2003/49/CE. 14 COM 2011/121 - Proposta di direttiva del Consiglio, del 16 marzo 2011, relativa a una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB). 15 www.eur-lex.europa.eu.it 12 25 La CCCTB sarà disponibile per le società di qualsiasi dimensione, costituite conformemente alle leggi di un paese dell’UE, qualora rivestano una delle forme previste dalla proposta di direttiva o siano soggette ad una delle imposte sul reddito delle società di cui alla medesima proposta o ad un'imposta analoga introdotta successivamente. Accanto a tali atti legislativi, riguardanti in massima parte la tassazione delle imprese, le istituzioni dell’Unione Europea hanno emanato anche alcune direttive aventi ad oggetto la tassazione dei privati. Significative al riguardo, appaiono essere la Direttiva sulla tassazione del risparmio16, il cui obiettivo finale è permettere che i redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi corrisposti in uno Stato membro a beneficiari effettivi, che sono persone fisiche residenti ai fini fiscali in un altro Stato membro, siano soggetti a un’effettiva imposizione secondo la legislazione di quest’ultimo Stato, e la Direttiva sulla tassazione di interessi e royalties di gruppo17. In ordine alla tassazione del risparmio, in particolare, la Direttiva prevede che il mezzo fissato per permettere la reale imposizione su tali pagamenti nello Stato membro di residenza fiscale del beneficiario effettivo sia lo scambio automatico di informazioni tra gli Stati membri sui pagamenti di interessi. 3.2 Il ruolo della Corte di Giustizia sul processo di armonizzazione delle imposte dirette Al di fuori delle ipotesi individuate nel paragrafo precedente, il processo di armonizzazione in materia di imposte dirette continua ad essere molto lontano. Un apporto sicuramente significativo in tal senso, soprattutto lo si deve alla giurisprudenza comunitaria la quale, facendo leva sul principio di non discriminazione e sulle norme relative all’esercizio delle libertà fondamentali, è riuscita ad elaborare principi generali in grado di influenzare la potestà legislativa degli Stati membri 16 17 Direttiva 2003/48/CE, modificata dalla Direttiva 2004/66/CE e dalla Direttiva 2006/98/CE. Direttiva 2003/49/CE. 26 contribuendo in misura determinante alla definizione e allo sviluppo del diritto dell’Unione. Tra questi, di particolare rilievo, soprattutto per gli effetti che ne derivano, appare essere il principio di diritto affermato in numerose sentenze secondo cui “pur se la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario, astenendosi quindi da qualsiasi discriminazione, palese o dissimulata, basata sulla cittadinanza.”18 Conformemente a tali principi, la Corte di Giustizia, in taluni casi, ha dichiarato l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario di talune disposizioni nazionali in tema di tributi personali o patrimoniali che interferiscono con le libertà fondamentali del mercato unico, ritenendo, conseguentemente, inammissibili le regole nazionali che determinano un discriminazione fiscale nel trattamento del soggetto non residente rispetto al soggetto residente. Va comunque osservato che il ragionamento della Corte di giustizia, sia in ordine alla discriminazione che alla mera restrizione delle libertà, presuppone un giudizio di comparabilità delle situazioni rispetto alle quali si afferma sussistere un effetto lesivo delle norme comunitarie. In altri termini, prima di stabilire l’illegittimità di una norma nazionale per violazione del diritto comunitario, occorre preventivamente accertare la similarità delle situazioni giuridiche esaminate, secondo il principio di diritto, affermato dalla Corte, secondo cui “una discriminazione può consistere solo nell’applicazione di norme diverse a situazioni analoghe ovvero nell’applicazione della stessa norma situazioni diverse”. 19 Nonostante tale divieto generale di non discriminazione, la Corte ha tuttavia individuato alcune ipotesi in cui, per motivi di interesse generale del singolo Stato membro, è possibile derogare e quindi restringere l’esercizio delle libertà fondamentali. Uno dei motivi, ad avviso della Corte di Giustizia, può riguardare la salvaguardia della coerenza del sistema fiscale interno, intesa come salvaguardia degli equilibri di finanza pubblica che potrebbero comportare incontrollabili fuori uscite di gettito fiscale e che quindi giustificano il diverso trattamento fiscale tra residenti e non residenti. 18 19 Causa C- 279/93 Causa C-279/93 27 Un secondo motivo è riconducibile all’esigenza di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale in quanto le pratiche abusive sono fortemente idoneo a pregiudicare l’effettività dei sistemi fiscali interni. L’intervento in questione è quindi, finalizzato a proteggere la fiscalità nazionale degli Stati membri. Un terzo motivo è dato dall’esigenza di garantire la tutela dell’effettività dei controlli e degli accertamenti tributari. Sono quindi, vietate quelle misure che costituiscono o possono costituire ostacoli al controllo. Secondo giurisprudenza costante invece, la perdita di entrate fiscali non può mai costituire una giustificazione ad una restrizione all'esercizio di una libertà fondamentale.20 La capacità della Corte di Giustizia di incidere sugli ordinamenti interni si deve comunque, principalmente, agli effetti che le sentenze sono in grado di produrre. Si è già avuto modo di anticipare al riguardo, che le sentenze interpretative del diritto dell’Unione sono vincolanti sia per il giudice del rinvio che per gli altri giudici che sono chiamati a esaminare casi aventi ad oggetto questioni analoghe. L’incidenza della giurisprudenza della Corte sugli ordinamenti interni rileva inoltre, sia in ordine alle pronunce rese nei confronti dello Stato che per quelle rese nei confronti di altri Stati membri. Qualunque giudice, di qualsiasi Stato membro pertanto, nel momento in cui è chiamato a pronunciarsi su una questione analoga ad una già decisa dalla Corte di Giustizia, è tenuto ad attenersi ai principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria, salva la possibilità di riproporre una nuova questione pregiudiziale. La sentenza costituisce infatti, un precedente giurisprudenziale vincolante per gli altri giudici, anche di paesi diversi. Si parla in tali casi di efficacia erga omnes delle sentenze interpretative della Corte di giustizia. L’evoluzione del pensiero giurisprudenziale della Corte ha, inizialmente, preso le mosse dal principio di non discriminazione, per poi evolversi verso la tutela delle libertà fondamentali e verso la rimozioni di questi ostacoli posti dagli Stati membri al libero esercizio di queste. 20 Causa C-264/96 28 In base al primo principio infatti, a norma dell’art. 18 del TFUE “Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”. In altri termini, è fatto divieto agli Stati membri di adottare legislazioni e comportamenti idonei a determinare un trattamento diverso in funzione della nazionalità o della residenza, così da trattare situazioni uguali in modo diverso e situazioni diverse in modo uguale in virtù dello Stato di residenza. In ambito fiscale la discriminazione sostanzialmente, comporta un trattamento impositivo meno favorevole e può manifestarsi, secondo un orientamento della giurisprudenza ormai consolidato, in maniera diretta, indiretta o a rovescio. Nel primo caso, la norma nazionale stabilisce un trattamento diverso, quindi discriminatorio, in ragione della nazionalità o della cittadinanza del soggetto. Nel secondo caso, ovvero nelle ipotesi di discriminazione indiretta, la norma nazionale realizza un trattamento diverso in funzione della residenza del soggetto. Si parla invece, di discriminazione a rovescio quando la norma nazionale discrimina il cittadino non residente rispetto al cittadino residente. In questo caso, la particolarità è data dal fatto che la controversia vene instaurata dal cittadino non residente nei confronti del proprio Stato membro al fine di vedere tutelata la propria posizione a fronte ad una norma che discrimina tra residenti e non residenti, anche se cittadini dello Stato. A ben vedere comunque, quasi tutte le ipotesi di discriminazione, di recente sono state esaminate dalla giurisprudenza attraverso gli effetti negativi che le norme nazionali hanno sul libero esercizio di taluna delle libertà fondamentali. In effetti, mancando comunque una norma specifica che vieti la discriminazione in materia di imposte dirette, ad eccezione della sopra citata norma di carattere generale, la giurisprudenza ha spostato la propria attenzione in relazione all’effetto restrittivo che questa può avere per una delle quattro libertà fondamentali previste dai Trattati, ovvero nei confronti della libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. L’effetto evolutivo della giurisprudenza comunitaria verso le applicazioni del principio di restrizione è motivato dal fatto che attraverso la tutela delle libertà previste 29 dal trattato sia possibile realizzare gli scopi e le finalità che stanno alla base del progetto comunitario mediante la creazione di un mercato unico europeo. Ed infatti, ai sensi dell’art. 3, nn. 2 e 3, del TUE “L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima. L'Unione instaura un mercato interno”. La creazione di un mercato interno comune rappresenta quindi, uno degli scopi dell’Unione, la cui realizzazione non può prescindere dalla creazione di uno spazio in cui persone, beni e capitali possano circolare liberamente. A tal proposito è previsto che “L'Unione adotta le misure destinate all'instaurazione o al funzionamento del mercato interno,conformemente alle disposizioni pertinenti dei trattati. Il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei trattati”. La realizzazione del mercato interno avviene mediante l’abbattimento delle barriere fisiche e delle restrizioni giuridiche, ivi comprese le misure fiscali, istituite dai vari Stati membri, che possano impedire o limitare la libera circolazione Il concreto esercizio di tale libertà è, infatti, essenziale al fine di raggiungere una piena integrazione comunitaria, alla quale, gli Stati membri sono tenuti a collaborare e cooperare. 3.3 La libertà fondamentali e gli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia mediante l’analisi di casi pratici Abbiamo già anticipato come la realizzazione del mercato interno e quindi degli scopi dell’Unione implichi l’eliminazione tra gli Stati membri di tutti gli ostacoli alla libera circolazione. Tra questi, la materia fiscale riveste una particolare rilevanza proprio per gli effetti restrittivi che essa può avere sul libero esercizio delle libertà, sia in termini di ostacolo al commercio, che di minore mobilità dei lavoratori e delle persone. 30 Passando in rassegna alcune delle pronunce della Corte di Giustizia, distinte in relazione alle singole libertà, è stato possibile notare come, a volte, le disposizioni fiscali contenute negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri abbiano ostacolato il raggiungimento degli scopi dell’Unione attraverso delle misure che hanno avuto l’effetto di limitare o ostacolare l’esercizio delle libertà fondamentali da parte dei cittadini dell’Unione. Alla luce dei casi esaminati dalla Corte, aventi ad oggetto la normativa di Stati membri diversi dall’Italia, è stato altresì, possibile effettuare un raffronto tra i principi interpretativi stabiliti dai giudici comunitari e quanto previsto dal nostro ordinamento sulla medesima questione. Ed invero, pur se tali decisioni vanno lette nei limiti della questione prospettata dal giudice remittente, non è trascurabile il fatto che quanto stabilito dai giudici comunitari costituisce un precedente del quale i giudici interni devono tenere conto al momento dell’interpretazione delle disposizioni del Trattato. A seguito di tale comparazione è emerso che in taluni casi la normativa interna risponde ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte di Giustizia, mentre in altri casi le disposizioni del nostro ordinamento potrebbero essere in contrasto con quanto previsto dalla normativa comunitaria. 3.3.1 La libera circolazione delle persone: il caso Sckumacker e la tassazione dei non residenti in Italia La libera circolazione delle persone, intesa come possibilità per i cittadini di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione, trova il suo fondamento giuridico negli artt. 45 e 49 del TFUE. L’art. 45 prende in considerazione la libera circolazione dei lavoratori subordinati disponendo che “La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro”. 31 In sostanza, essa attribuisce il diritto a rispondere alle offerte di lavoro effettive, di spostarsi liberamente nel territorio degli Stati membri, di prendere dimora in uno degli Stati membri per svolgervi un’attività lavorativa e di rimanervi dopo avere occupato un impiego. L’abolizione di qualsiasi forma di discriminazione trova applicazione anche in ordine alla materia fiscale, ragione per cui ogni norma fiscale che introduce un regime tributario dei redditi di lavoro dipendente che penalizzi le attività svolte da non residenti è incompatibile con l’ordinamento comunitario. L’art. 49 invece, riguarda prevalentemente la libertà di stabilimento, vale a dire la facoltà, per le persone fisiche diverse dai lavoratori e per le persone non fisiche, di esercitare la propria attività economica, di impresa o di lavoro autonomo in ciascuno degli stati membri. Tale libertà si estende anche alla costituzione in tali Stati di agenzie e succursali. In tal senso, il Trattato prevede che “le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali”. Al pari della libera circolazione delle persone, il diritto di stabilimento vieta pertanto, che si possano applicare norme che ostacolino tale libertà, e comporta il diritto per i non residenti al medesimo trattamento nazionale previsto per i residenti. Ne deriva che, sono vietate, sia le norme che direttamente discriminano i non residenti, che le norme che rendono più difficile l’accesso allo svolgimento di un attività economica per questi ultimi. Una delle più rilevanti decisioni comunitarie in tema di libera circolazione delle persone è il caso Schumacker21, relativo ad cittadino belga che produceva la totalità del 21 Causa C-279/93. I principi di diritto comunitario espressi dalla Corte di Giustizia sono stati ribaditi dalle successive sentenza Asscher Causa C-107/94. 32 proprio reddito in Germania, ma che in quest’ultimo paese, ai fini del riconoscimento delle deduzioni personali dal reddito, veniva trattato come un soggetto non residente. Allo stesso modo, nel proprio paese di residenza, ovvero il Belgio, lo stesso non aveva diritto ad alcuna deduzione in quanto non produceva alcun tipo di reddito in quel paese. Chiedeva pertanto, al pari dei residenti in Germania, di avere riconosciute le deduzioni personali dal reddito. Chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 48 del Trattato CEE (ora art. 45 TFUE), la Corte di Giustizia ha, in primo luogo, stabilito che “se è vero che allo stato attuale del diritto comunitario la materia delle imposte dirette non rientra, in quanto tale, nella competenza della Comunità, ciò non toglie tuttavia che gli Stati membri sono tenuti ad esercitare le competenze loro attribuite nel rispetto del diritto comunitario. Per quanto riguarda più in particolare la libera circolazione delle persone all'interno della Comunità, l'art. 48, n. 2, del Trattato implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla cittadinanza, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda in particolare la retribuzione, e comporta inoltre, che i lavoratori cittadini di uno Stato membro devono godere nel territorio di un altro Stato membro delle stesse agevolazioni fiscali dei lavoratori nazionali. Per effetto di tale ragionamento, la Corte ha ritenuto che il diritto alla libera circolazione dei lavoratori, in linea di principio, non consenta ad uno Stato membro di trattare un cittadino di altro Stato in modo meno favorevole rispetto al cittadino nazionale che si trovi nella stessa situazione. Inoltre, la Corte, basandosi sul principio di non discriminazione ha ritenuto che agevolazioni fiscali riservate solo ai residenti di uno Stato membro possono costituire una discriminazione indiretta legata alla cittadinanza. Tuttavia, affinché vi sia discriminazione occorre che situazioni analoghe siano trattate in modo diverso e situazioni diverse siano trattate in modo analogo. Nel caso delle imposte dirette, la situazione dei residenti e dei non residenti, di regola, non sono analoghe, in quanto il reddito percepito all’estero costituisce parte del reddito complessivo del non residente che pertanto, nel proprio paese di residenza, 33 avrebbe la possibilità di fruire di eventuali deduzioni derivanti dalla propria situazione personale. Sennonché, laddove il reddito percepito all’estero costituisce la totalità dei redditi del non residente, non vi sarebbe alcun obiettiva situazione di diversità tale da giustificare una disparità di trattamento in quanto, si avrebbe come unico effetto di non prendere in considerazione né nello Stato di residenza né in quello di lavoro, la situazione personale del contribuente. In tali casi, ad avviso della Corte, non sarebbe possibile nemmeno eccepire il principio della salvaguardia della coerenza dei sistemi fiscali interni, che permetterebbe di limitare l’esercizio dei una delle libertà fondamentali. Ragione per cui, secondo la Corte di Giustizia, “l'art. 48 del Trattato va interpretato nel senso che osta all'applicazione di una normativa di uno Stato membro che tassi un lavoratore cittadino di un altro Stato membro, il quale risiede in quest'ultimo Stato e svolge un'attività lavorativa subordinata nel territorio del primo Stato, in misura maggiore rispetto a un lavoratore residente nel territorio del primo Stato e che ivi svolge la stessa attività, quando, come nel caso di specie, il cittadino del secondo Stato trae il proprio reddito totalmente o quasi esclusivamente dall'attività svolta nel primo Stato e non percepisce nel secondo Stato redditi sufficienti per esservi soggetto a un'imposizione che consenta di prendere in considerazione la sua situazione personale e familiare”. In altri termini, secondo il diritto comunitario, la persona che non avrebbe diritto in base alla normativa dello Stato di residenza ad applicare il sistema delle deduzioni dal proprio reddito, non può perdere il diritto ad avere considerata la propria situazione personale per effetto dello svolgimento dell’attività lavorativa in un altro paese dell’Unione. Ebbene, tenuto conto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia, nell’ottica comparatistica che sta alla base del presente capitolo, bisogna verificare se la nostra normativa possa ritenersi compatibile con il diritto dell’Unione. In ordine alla tassazione dei redditi prodotti dai soggetti non residenti il nostro TUIR prevede che ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 23, l’imposta sul reddito per i non residenti si applichi sui redditi prodotti nel territorio dello Stato, 34 intendendo come tali, tra gli altri, i redditi da lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato. Tale metodologia di tassazione appare in sintonia con quanto previsto dal modello OCSE contro le doppie imposizioni. Ai fini della determinazione del reddito imponibile e dell’imposta dovuta dai non residenti, l’art. 24 del TUIR prevede che “Dal reddito complessivo sono deducibili soltanto gli oneri di cui alle lettere a), g), h), i) e l) del comma 1 dell'articolo 10. 3. Dall'imposta lorda si scomputano le detrazioni di cui all'articolo 13 nonché quelle di cui all'articolo 15, comma 1, lettere a), b), g), h), h-bis) e i), e dell’articolo 16-bis (1). Le detrazioni per carichi di famiglia non competono”. Come si può facilmente rilevare, le deduzioni e detrazioni spettanti ai non residenti sono numericamente inferiori rispetto a quelle riconosciute ai cittadini residenti. A ben vedere, quindi, se da un lato, laddove il soggetto non residente produca redditi anche nel proprio territorio di residenza, la normativa italiana può essere ritenuta compatibile con i principi di diritto stabiliti dalla Corte di Giustizia, dall’altro, qualche perplessità desta il fatto che nei casi in cui la totalità dei redditi sia prodotta in Italia, lo stesso fruirebbe di deduzioni e detrazioni limitate. In tale ultima ipotesi, la normativa italiana potrebbe dare luogo a profili di presunta incompatibilità con l’ordinamento comunitario in quanto il non residente che presta attività lavorativa esclusivamente in Italia e che qui trae gli unici suoi redditi, verrebbe tassato in misura maggiore rispetto al cittadino residente che svolge la stessa attività. Per effetto del sistema di deduzioni e detrazioni limitate che caratterizzano la tassazione dei non residenti, quest’ultimo non avrebbe la possibilità di avere presa in considerazione la propria situazione personale né nel proprio Stato di residenza, in quanto in quello stato non produce reddito, né nel paese in cui viene svolta l’attività lavorativa In ragione di ciò, l’art. 24 del TUIR potrebbe essere ritenuto in contrasto con il diritto comunitario in quanto non tiene conto dei principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria e conseguentemente, viola il principio del primato del diritto dell’Unione così come affermato dalla Corte di Giustizia. 35 3.3.2 Segue: il diritto di stabilimento e la sentenza Cadbury Schwepps La rilevanza del diritto comunitario, e specialmente dei principi elaborati dalla Corte di Giustizia, sull’ordinamento interno può essere valutato sia in termini di compatibilità di una norma già esistente con quanto stabilito dagli organismi comunitari che attraverso la funzione di indirizzo per il futuro legislatore di quanto precisato innanzi la Corte di giustizia. Emblematico al riguardo appare essere la sentenza Cadbury Schwepps22, nella quale, tra le altre cose, è stata elaborata la nozione di costruzione di puro artificio ripresa dal legislatore italiano all’interno delle disposizioni contenute nell’art. 167 del TUIR in materia di imprese estere controllate (CFC). La Corte di Giustizia, muovendo i suoi passi da una presunta violazione della libertà di stabilimento da parte della normativa interna di uno Stato membro, ha definito cosa deve intendersi per costruzione di puro artificio ed ha affermato il principio della compatibilità delle normative CFC con il principio della libertà di stabilimento sancito dall’articolo 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (ex articolo 43 del TCE), limitatamente alle ipotesi di società controllate residenti in uno Stato membro che non rappresentano costruzioni di puro artificio destinate a eludere l'imposta nazionale normalmente dovuta. Ad avviso della Corte di Giustizia, una costruzione societaria non è da considerare meramente artificiosa ove “da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive”. Ciò in quanto “la circostanza che le attività corrispondenti agli utili della società estera controllata ben avrebbero potuto essere effettuate anche da una società stabilita sul territorio dello Stato membro in cui si trova la società residente non può permettere di concludere per l’esistenza di una costruzione di puro artificio”. In altri termini, se vi è genuinità nel diritto di stabilimento in un altro Stato membro, non vi è violazione della disciplina sulle CFC e pertanto il diritto ad esercitare tale libertà non può essere escluso o limitato dalla norma interna. 22 Causa C-196/04 36 La nozione di costruzione di puro artificio, come elaborata dalla Corte, è stata accolta dal legislatore domestico all’interno dell’art. 167, comma 8 ter, del TUIR secondo cui “le disposizioni del comma 8-bis non si applicano se il soggetto residente dimostra che l’insediamento all'estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale. Ai fini del presente comma il contribuente deve interpellare l’amministrazione finanziaria secondo le modalità indicate nel precedente comma 5.” In altri termini, la CFC rule non si estende a controllate localizzate in Paesi o territori a fiscalità ordinaria, anche qualora queste siano nelle condizioni di cui alle lett. a) e b) del predetto comma 8-bis, quando queste ultime sono rappresentative di insediamenti effettivi, ovvero costituiscono costruzioni non artificiose, come tali non volte a conseguire un indebito vantaggio fiscale. A ben vedere quindi, il legislatore nazionale nel momento in cui ha dovuto predisporre il testo normativo confluito nell’art. 167 del TUIR ha tenuto conto di quanto precisato dai giudici comunitari. L’espressione utilizzata appare infatti, in linea con la terminologia adottata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. 3.3.3 Segue: la libertà di stabilimento e il caso National Grid Indus BV, la cd. exit tax Ai sensi dell’art. 166 del TUIR “il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti che svolgono impresa commerciale, che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo al valore normale dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale del soggetto trasferito, salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato”. In altri termini, nel caso di trasferimento all’estero della residenza si ha l’imposizione immediata delle imprese che trasferiscono la residenza fiscale in un altro pese UE mediante la tassazione dei cd. plusvalori latenti, quindi non ancora realizzati, senza alcuna deroga o eccezione. La disposizione di cui all’art. 166 del TUIR nell’attuale formulazione, secondo la tesi sostenuta dall’Associazione Italiana Dottori commercialisti sarebbe in contrasto con 37 la normativa comunitarie, e in particolare, con il principio di libertà di stabilimento in quanto, avrebbe come effetto di rendere più onerosa la scelta imprenditoriale di localizzare la propria attività all’estero.23 La scelta del legislatore nazionale, secondo l’AIDC non sarebbe giustificata nemmeno dall’esigenza di contrastare le pratiche abusive o elusive, o in ragione del contrasto all’evasione fiscale, né potrebbe trovare un giustificazione nella tutela della riscossione delle imposte e dell’efficacia dei controlli fiscali, le quali, come già ricordato, costituiscono delle cause di limitazione dell’esercizio dei diritti fondamentali. Nelle more, la norma in commento è stata oggetto della procedure d’infrazione avviata da parte della Commissione Europea, a seguito della quale il nostro paese si è impegnato a modificare la norma in vigore al fine di renderla compatibile con i principi comunitari24. Sul punto di recente, è comunque, intervenuta la Corte di giustizia che con la sentenza del 29 novembre 201125, è stata chiamata a stabilire se la libertà di stabilimento sia contraria ad un normativa interna che imponga ad una società costituita secondo il diritto di tale Stato membro, che da esso trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, un’imposta di liquidazione finale per il trasferimento della sede, ed in caso affermativo, se un’imposta di liquidazione finale, come quella in esame, che include nell’imposizione le plusvalenze degli elementi patrimoniali della società trasferiti dallo Stato membro di provenienza a quello ospitante, come valutati al momento del trasferimento della sede, senza possibilità di differimento né di prendere in considerazione perdite successive, sia contraria all’art. 43 CE (divenuto art. 49 TFUE). Nel merito la questione sottoposta ai giudici comunitari aveva ad oggetto una questione sostanzialmente analoga alle fattispecie riconducibili all’art. 166 del TUIR, ovvero riguardava una controversia tra una società di diritto olandese con sede sociale nei Paesi Bassi e l’ispettore del servizio tributario di Rotterdam relativamente alla tassazione delle plusvalenze latenti degli agli attivi di tale società in occasione del trasferimento nel Regno Unito della sua sede amministrativa effettiva. 23 Exit tax, riforma in vista, di Maria Carla De Cesari in il Sole 24 ore del 24 novembre 2011. Via d’uscita con la sospensione d’imposta di Alessandro Savorana in il Sole 24 ore del 24 novembre 2011. 25 Causa C- 371/10. 24 38 La corte di Giustizia chiamata pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 49 del TFUE ha precisato in primo luogo che “dal momento che il trasferimento nel Regno Unito della sede amministrativa effettiva della National Grid Indus non ha inciso sul suo status di società di diritto olandese, detto trasferimento non ha avuto effetto sulla possibilità, per tale società, di invocare l’art. 49 TFUE. In quanto società costituita conformemente alla legislazione di uno Stato membro ed avente la sede sociale nonché l’amministrazione centrale all’interno dell’Unione, essa beneficia, in forza dell’art. 54 TFUE, delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento e può pertanto avvalersi dei diritti che le derivano dall’art. 49 TFUE, in particolare al fine di mettere in discussione la legittimità di una tassazione impostale da tale Stato membro in occasione del trasferimento in un altro Stato membro della sua sede amministrativa effettiva”. Ne deriva che “una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, senza che tale trasferimento di sede incida sul suo status di società del primo Stato membro, può invocare l’art. 49 TFUE al fine di mettere in discussione la legittimità di un'imposta ad essa applicata dal primo Stato membro in occasione di tale trasferimento di sede”. Chiarito questo primo punto in merito alla possibilità di invocare legittimamente il principio della libertà di stabilimento, la Corte si è pronunciata sulla possibilità di tassare le plusvalenze latenti, all’atto del trasferimento di residenza, senza che, in tali casi, sia possibile sospendere il pagamento dell’imposta sino al momento dell’effettivo realizzo. Nel merito, la Corte riconosce che una società che intenda trasferire la propria sede amministrativa effettiva fuori dal territorio di tale Stato, nell’ambito dell’esercizio del diritto garantitole dall’art. 49 TFUE, subisce uno svantaggio finanziario rispetto ad una società analoga che mantenga la propria sede amministrativa effettiva nel primo Stato. La circostanza secondo cui il trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società in un altro Stato membro comporta l’immediata tassazione delle plusvalenze latenti relative agli attivi trasferiti, mentre siffatte plusvalenze non sono tassate qualora una siffatta società trasferisca la propria sede all’interno del territorio dello Stato, può dar luogo ad una disparità di trattamento relativa alla tassazione delle plusvalenze così da scoraggiare una società dal trasferire la propria residenza in un altro Stato membro. 39 La Corte ha tuttavia, ritenuto che secondo giurisprudenza costante una restrizione alla libertà di stabilimento può essere ammessa solo se giustificata da motivi imperativi di interesse generale e tra questi vi possono rientrare l’esigenza di garantire l’equilibrata ripartizione del carico impositivo tra gli Stati membri. In altri termini, ad avviso dei giudici comunitari la possibilità di trasferire la sede effettiva da uno Stato membro ad un altro, non può comportare rinuncia al diritto dello Stato all’imposizione. In ragione di ciò la Corte di Giustizia ritiene legittima la cd. exit tax, ovvero, la possibilità di tassare le plusvalenze latenti all’atto del trasferimento. Ritiene altresì, che la riscossione dell’imposta possa essere differita al momento in cui la società emigrata realizzerà o non realizzerà la plusvalenza potendo scegliere tra, da un lato, il pagamento immediato dell’imposta, che crea uno svantaggio in termini finanziari per tale società ma la dispensa da oneri amministrativi successivi, e, dall’altro, il pagamento differito di tale imposta, se del caso corredato da interessi conformemente alla normativa nazionale applicabile, che necessariamente comporta per la società interessata un onere amministrativo, legato all’individuazione degli attivi trasferiti. Tale modalità di riscossione, ad avviso dei giudici, non comporterebbe nemmeno un onere eccessivo per gli Stati membri legato alla sorveglianza di tutti gli elementi dell’attivo di un società per i quali sia stata constatata un plusvalenza, in quanto il debito d’imposta è già determinato e conseguentemente gli oneri gravanti sull’amministrazione finanziaria dello Stato membro di provenienza non possono essere ritenuti eccessivi. Ed invero, concludono i giudici comunitari, le disposizioni vigenti sull’assistenza reciproca in materia di recupero dei crediti per imposte sono sufficienti a consentire allo Stato membro di provenienza di ottenere dalla competente autorità dello Stato membro ospitante informazioni relative al realizzo o al mancato realizzo degli elementi attivi di una società che ha trasferito la propria sede amministrativa effettiva in quello Stato, nei limiti in cui esse siano necessarie al fine di consentire allo Stato membro di provenienza di riscuotere un credito fiscale originato al momento di tale trasferimento di sede. 40 Ebbene, dalla lettura della sentenza della Corte di Giustizia, e tenuto conto dei principi in essa affermati, appare di tutta evidenza come la normativa nazionale prevista dall’art. 166 del TUIR, a prescindere dalla questione pendente presso la Commissione Europea, oggi più di ieri, necessiti di essere modificata ed adattata alla disciplina comunitaria. L’imposizione immediata dei plusvalori latenti all’atto del trasferimento di sede all’estero, deve infatti, tenere conto di quanto statuito dai giudici comunitari consentendo quindi, il differimento opzionale del pagamento dell’imposta mediante una modifica dell’art. 166. Alla data del presente lavoro, tuttavia, il legislatore pare che abbia preso atto di tale esigenza e abbia adattato la disciplina della cd. exit tax ai principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria. Ed invero, all’interno del cd. decreto sulle liberalizzazioni26, è stato previsto l’art. 91 rubricato “Modifiche alla disciplina del trasferimento all’estero della residenza fiscale dei soggetti che esercitano imprese commerciali. Procedura d’infrazione n. 2010/4141) mediante il quale il legislatore ha apportato delle modifiche all’art. 166 del TUIR, prevedendo un meccanismo per sospendere, in caso di trasferimento della residenza all’estero, la tassazione dei componenti aziendali. La novella legislativa, la cui operatività si avrà solo dopo l’emanazione di un decreto del Ministero dell’Economia, dispone che: “1. All’articolo 166 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, dopo il comma 2-ter sono aggiunti i seguenti: “2-quater. I soggetti che trasferiscono la residenza, ai fini delle imposte sui redditi, in Stati appartenenti all’Unione europea ovvero in Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo sulla reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari comparabile a quella assicurata dalla direttiva 2010/24/UE del Consiglio, del 16 marzo 2010, in alternativa a quanto stabilito al comma 1, possono richiedere la sospensione degli effetti del realizzo ivi previsto in conformità ai principi sanciti dalla sentenza 29 novembre 2011, causa C-371-10, National Grid Indus BV. 2-quinquies. Con decreto del 26 Decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, pubblicato nella G.U. n. 19 del 24.01.2012. 41 Ministro dell’economia e delle finanze di natura non regolamentare sono adottate le disposizioni di attuazione del comma 2-quater, al fine di individuare, tra l’altro, le fattispecie che determinano la decadenza della sospensione, i criteri di determinazione dell’imposta dovuta e le modalità di versamento.”. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai trasferimenti effettuati successivamente alla data di entrata in vigore del presente provvedimento. 3. Il decreto da adottare ai sensi del comma 2-quinquies dell’articolo 166 del citato testo unico delle imposte sui redditi, come modificato dal comma 1 del presente articolo, è emanato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento”. 3.3.4 La libera circolazione dei servizi: il caso Gerritse Strettamente connessa dal punto di vista soggettivo alla libertà di stabilimento è la libera prestazione dei servizi prevista dall’art. 56 del TFUE. A tal fine è previsto che “le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno dell'Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione”. Ai sensi del successivo art. 57 TFUE, “sono considerate come servizi le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone”. Tale libertà concerne la possibilità di prestare la propria attività in un altro Stato dell’Unione Europea, alle stesse condizioni dei professionisti residenti, anche senza un insediamento permanente in tale Stato. Rientra nella libera circolazione dei servizi, oltre che la libertà di prestare il servizio anche quella di riceverlo. Anche per l’esercizio di tale libertà si applica il principio del trattamento nazionale, per cui sono nulle le norme contenenti clausole di nazionalità, o di residenza indispensabili per la prestazione di determinati servizi sul territorio di uno Stato, essendo discriminatorie verso soggetti che risiedono in uno Stato diverso da quello nel quale effettuano la prestazione. 42 L’effetto restrittivo della norma nazionale, in contrasto con la norma comunitaria, può infatti, manifestarsi tanto nei confronti del prestatore del servizio dissuadendolo dallo svolgimento della propria attività nello Stato membro, quanto nei confronti dei destinatari del servizio a cui la norma nazionale può rendere più difficile l’accesso. Una delle più rilevanti decisioni comunitarie in tema libera circolazione dei servizi è la sentenza Gerritse27, relativa ad un cittadino olandese, residente nei Paesi Bassi che aveva svolto un prestazione in Germania. In tale ultimo paese il compenso per la prestazione seguita era stato assoggettato a ritenuta alla fonte, senza tuttavia potere portare in detrazione le spese professionali sostenute, al pari dei cittadini residenti in Germania. In ragione di ciò era stato chiesto alla Corte di Giustizia di stabilire se l’esercizio della libertà di prestare servizi sia contrario ad una normativa nazionale, la quale di regola, da una parte, prende in considerazione, in sede di assoggettamento ad imposta dei non residenti, i redditi lordi senza detrazione delle spese professionali mentre i residenti sono tassati sui loro redditi netti previa detrazione delle spese professionali. Chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 49 del Trattato CEE (ora art. 56 TFUE), la Corte di Giustizia ha, in primo luogo, stabilito “che le spese professionali di cui si tratta sono direttamente connesse all'attività che ha generato i redditi imponibili in Germania, cosicché i residenti e i non residenti sono, sotto questo profilo, posti in una situazione analoga”. Ciò considerato, una normativa nazionale che, in materia di imposizione fiscale, nega ai non residenti la detrazione delle spese professionali, concessa invece ai residenti, rischia di sfavorire principalmente i cittadini di altri Stati membri e comporta pertanto una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalità, contraria, in via di principio, agli artt. 59 e 60 del Trattato. In ragione di ciò, conclude la Corte “si deve dichiarare che gli artt. 59 e 60 del Trattato ostano a una normativa nazionale come quella in discussione nella causa principale nella parte in cui esclude la facoltà, per le persone parzialmente soggette a imposta, di detrarre le spese professionali dai propri redditi imponibili, laddove una facoltà del genere è riconosciuta alle persone integralmente soggette a imposta”. 27 Causa C-234/01 43 In altri termini, affinché si possa garantire il pieno esercizio della libera circolazione dei servizi si deve evitare che un reddito derivante da un prestazione svolta da un non residente venga trattato e tassato in modo diverso qualora la medesima prestazione sia svolta da un residente nello Stato. Ebbene, tenuto conto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia, nell’ottica comparatistica che sta alla base del presente capitolo, bisogna verificare se anche in questo caso la nostra normativa possa ritenersi compatibile con il diritto dell’Unione. In ordine alla tassazione dei redditi prodotti dai soggetti non residenti il nostro TUIR prevede che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 23, l’imposta sul reddito per i non residenti si applichi sui redditi prodotti nel territorio dello Stato, intendendo come tali, tra gli altri, i redditi da lavoro autonomo derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato . Il soggetto che eroga il reddito è tenuto, ai sensi dell’art. 25 del DPR 600/1973, ad effettuare una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 30%. La base imponibile su cui applicare la ritenuta è costituita dal compenso lordo corrisposto dal soggetto residente senza alcuna possibilità di potere dedurre i costi sostenuti dal percipiente. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate28 ha avuto modo di precisare che tale modalità di tassazione è corretta in quanto, l’art. 25, comma 2, assoggetta a ritenuta gli stessi compensi di lavoro autonomo corrisposti ai residenti, differenziando unicamente l’entità (30 per cento anziché 20) ed il titolo (d’imposta anziché di acconto) della ritenuta. Anche per i soggetti residenti, infatti, la ritenuta, ancorché di acconto, è applicata sul compenso lordo corrisposto, senza possibilità di far valere, in sede di applicazione della medesima ritenuta, i costi sostenuti dal percipiente. Tali motivazioni, ad avviso dell’amministrazione finanziaria, appaiono suffragate anche dalle insuperabili difficoltà che il sostituto incontrerebbe nel procedere alla determinazione del reddito netto (in termini, soprattutto, di valutazione dell'inerenza delle spese). Una tassazione “secca” operata sul reddito lordo, invece, comporta una semplificazione degli adempimenti tributari, sia per colui che eroga il compenso, sia per il percettore che non è obbligato a dichiarare in Italia il compenso medesimo. 28 Risoluzione n. 56 del 3 maggio 2005. 44 A ben vedere tuttavia, tali motivazioni, alla luce dei principi espressi dalla Corte di Giustizia e dell’ormai riconosciuta supremazia del diritto comunitario sugli ordinamenti interni, non appaiono condivisibili. La normativa italiana, se oggetto di rinvio pregiudiziale in quanto in contrasto con le libertà previste dal Trattato, potrebbe dare luogo a profili di incompatibilità con l’ordinamento comunitario in quanto, produrrebbe l’effetto di favorire il cittadino residente a danno dei cittadini residenti in altri Stati membri che, come tali, subirebbero una tassazione di gran lunga superiore a quella dei residenti. 3.3.5 La libera circolazione dei capitali: la sentenza Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, SA Secondo quanto previsto dall’art. 63 del TFUE “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”. Tale libertà si esprime attraverso due fattispecie: la libertà di raccogliere capitali per lo svolgimento di attività economiche e di impresa e la libertà di investire capitali. L’ambito applicativo della libertà di circolazione dei capitali non coincide con quello delle altre libertà. In effetti, se si guarda al testo della norma è possibile notare come in questo caso sono vietate le restrizioni sia ai movimenti di capitale effettuati all’interno dell’Unione, che ai movimenti effettuati con i paesi terzi, ovvero con i paesi non appartenenti all’Unione Europea. Passando all’esame di alcune delle pronunce aventi ad oggetto il tema della libera circolazione di capitali si può ricordare quanto affermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, SA29 dell' 8 dicembre 2011. Al centro della controversia esaminata dalla Corte di Giustizia vi è la richiesta della società ricorrente di portare in detrazione, dall’imposta sulle società, nel regime del reddito mondiale, l’imposta dovuta in uno Stato membro mai versata per effetto di esenzioni previste dalla legislazione dello Stato. In particolare, i giudici, sono stati chiamati a decidere sulla compatibilità con l’art. 63 del TFUE della normativa nazionale, conforme ad una convenzione contro le doppie 29 Causa C-157/10 45 imposizioni, che non consente di detrarre dall’imposta sulle società, quanto dovuto per i redditi prodotti in altri Stati membri, nel caso in cui l’imposta non sia stata effettivamente pagata per effetto di esenzioni, sgravi o altri vantaggi fiscali. Nel merito, i giudici hanno precisato che “In mancanza di disposizioni di unificazione o di armonizzazione dell’Unione, gli Stati membri rimangono competenti a definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione del loro potere impositivo, in particolare al fine di eliminare le doppie imposizioni. Spetta agli Stati membri adottare le misure necessarie per prevenire le situazioni di doppia imposizione utilizzando, in particolare, i criteri seguiti nella prassi fiscale internazionale”. Orbene, nel caso di specie, il comportamento adottato dallo Stato membro è in linea con quanto previsto dalla convenzione contro le doppie imposizioni e lo svantaggio asseritamente subito, nella fattispecie, dal ricorrente non consiste nella doppia imposizione sugli interessi percepiti dalla società, dal momento che questi sono stati assoggettati a tassazione unicamente nel paese di residenza, bensì nell’impossibilità di beneficiare, per il calcolo dell’imposta dovuta in Spagna, del vantaggio fiscale sotto forma di esenzione attribuito dalla normativa belga. Considerato altresì, che la Corte ha già avuto modo di affermare che le conseguenze svantaggiose che possono derivare dall’esercizio parallelo da parte di diversi Stati membri della loro competenza fiscale, in quanto tale esercizio non sia discriminatorio, non costituiscono restrizioni alle libertà di circolazione, si deve concludere che la normativa comunitaria “non osta alla normativa di uno Stato membro che, nell’ambito dell’imposta sulle società e delle disposizioni contro la doppia imposizione, vieta di detrarre l’importo dell’imposta dovuta in altri Stati membri dell’Unione europea su redditi soggetti a detta imposta e realizzati nel territorio di questi, nel caso in cui l’importo, sebbene dovuto, non sia stato pagato in virtù di esenzioni, sgravi o altri vantaggi fiscali, nei limiti in cui siffatta normativa non sia discriminatoria rispetto al trattamento cui sono assoggettati gli interessi realizzati in detto Stato membro”. Nell’ottica che sta alla base del presente lavoro, ovvero nell’intenzione di svolgere alcune considerazioni circa la verifica di compatibilità della nostra normativa con l’ordinamento comunitario, si rileva che, a prima vista, la normativa domestica appare in linea con quanto stabilito dalla Corte di Giustizia. 46 In effetti, l’art. 165 del TUIR riconosce un credito d’imposta derivante dalle imposte corrisposte all’estero da portare in detrazione dall’imposta netta dovuta, laddove queste siano state effettivamente pagate a titolo definitivo. Tuttavia, alcune convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia contengono una clausola in base alla quale, se lo Stato estero ha esentato da imposta, in tutto o in parte, un determinato reddito prodotto nel proprio territorio, il soggetto residente in Italia ha comunque diritto a chiedere il credito per l’imposta estera come se questa fosse stata effettivamente pagata. 47 Capitolo IV Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di stato: problematiche relative al termine per l’esercizio dell’azione accertatrice da parte dell’amministrazione finanziaria e sul tema del recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis 4.1 Brevi cenni sulla disciplina degli aiuti di Stato Uno dei temi rispetto ai quali risulta assai rilevante l’incidenza del diritto comunitario, sia di fonte giurisprudenziale che di fonte derivata, è rappresentato dalla disciplina degli aiuti di Stato. L’instaurazione di un mercato comune, infatti, necessita di un sistema di regole che garantiscano la libera concorrenza tra gli Stati membri, evitando che la potestà legislativa di ogni singolo Stato non incida in modo determinante su tale aspetto, pregiudicando il libero svolgimento delle transazioni commerciali mediante misure dirette a favorire talune imprese nazionali a discapito di operatori economici non nazionali. In quest’ottica, ovvero con lo scopo di tutelare il mercato comunitario e la libera concorrenza tra gli operatori economici interni e degli Stati membri, il TFUE prevede una serie di disposizioni che, da un lato, sanciscono per gli Stati membri il divieto di erogazione di aiuti che possano falsare o minaccino di falsare la concorrenza, mentre dall’altro, consentono ai singoli Stati di intervenire mediante l’adozione di misure finanziarie che, a determinate condizioni, sono o possono essere ritenute compatibili con il mercato interno in quanto dirette a favorire lo sviluppo di categorie deboli. Rientrano in quest’ultima tipologia di aiuti, che sono compatibili con il mercato interno o che possono considerarsi compatibili con il mercato interno, gli aiuti previsti dall’articolo 107, paragrafi 2 e 3 del TFUE. In questa sede tuttavia, ci si soffermerà esclusivamente sulla prima fattispecie di aiuti ovvero, su quelli incompatibili previsti dall’articolo 107, paragrafo 1, del TFUE. A tal proposito, l’articolo 107 del TFUE (ex articolo 87del TCE) dispone che “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, 48 nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Al fine di verificare se una misura costituisca aiuto di Stato e sia quindi, idonea a falsare la concorrenza tra gli Stati membri, bisogna valutare: • la natura del soggetto che eroga l’aiuto; • l’incidenza della misura nel mercato interno (o comunitario), ovvero il potenziale effetto distorsivo della concorrenza; • il vantaggio economico per l’impresa, o le imprese, che beneficiano dell’aiuto; • la selettività, ovvero il fatto che la misura sia diretta a favorire talune imprese o talune produzioni, a discapito di altre. In ordine al primo requisito, l’articolo 107 TFUE dispone che l’aiuto deve essere concesso dallo Stato, anche mediante risorse statali. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che rientrano nel novero degli aiuti concessi dagli Stati sia quelli accordati direttamente da questi, che quelli erogati dagli enti pubblici territoriali (ad es. le regioni). La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha chiarito che il termine Stato non può essere interpretato restrittivamente ma deve comprendere qualsiasi entità pubblica, territoriale o non territoriale, ivi comprese le società controllate dallo Stato e gli enti privati.30 In ordine al secondo requisito, ovvero, in ordine al fatto che la misura sia idonea a falsare o minaci di falsare la concorrenza tra i diversi operatori economici degli Stati membri, la giurisprudenza comunitaria è dell’avviso che tale caratteristica sussista tutte le volte in cui per effetto della misura si provochi il rafforzamento della posizione dell’impresa beneficiaria rispetto ai suoi concorrenti, anche mediante una riduzione dei costi. Sono pertanto, considerati idonei a falsare la concorrenza gli interventi che, sotto qualsiasi forma, sono atti a favorire direttamente o indirettamente determinate imprese o che devono ritenersi un vantaggio economico che l’impresa beneficiaria non avrebbe ottenuto in condizioni normali di mercato. 30 Sentenza del 17.03.1993, causa C-72/1991, Sloman Neptum. 49 Presupposto indefettibile è che comunque, l’impresa beneficiaria degli aiuti svolga un’attività economica che dà luogo a scambi tra gli stati membri. L’aiuto deve inoltre attribuire un vantaggio economico per l’impresa beneficiaria che può derivare sia da una sovvenzione, sia da qualsiasi misura che comporti un mancata entrata nelle casse dello Stato o di altri enti pubblici di risorse dovute loro dalle imprese. A tal proposito, si è ritenuto che possano rientrare nell’ambito oggettivo degli aiuti anche le rinunce ad introiti da parte dello Stato membro, sotto forma sia di esonero dal pagamento di imposte sia di agevolazioni fiscali a favore di determinate imprese nazionali.31 Secondo un orientamento, ormai consolidato, uno Stato potrà violare il divieto di aiuti di Stato sia ricorrendo a strumenti di diritto privato sia ricorrendo a strumenti di diritto pubblico. Nel primo caso, le istituzioni dell’Unione, per l’individuazione dell’esistenza di un aiuto, utilizzano il criterio del comportamento dell’investitore privato in normali condizioni di mercato, ovvero, “è violato il divieto di aiuti di Stato ogni qualvolta, uno Stato, nel fornire assistenza alle imprese, applichi condizioni più favorevoli rispetto al comportamento di un investitore privato in normali condizioni di mercato”.32 In ordine al requisito della selettività, l’orientamento prevalente ritiene che ricorra tale situazione, ovvero l’aiuto sia di tipo selettivo, allorquando, l’intervento favorisca certe imprese o certe produzioni rispetto alle altre che si trovano nella stessa situazione di fatto e giuridica. Per converso, non può essere considerata selettiva una misura che sia estesa a tutte le imprese di uno Stato membro, poiché non introduce alcuna selezione su scala nazionale, ma è diretta allo sviluppo del sistema nel suo insieme. Il requisito della selettività deve quindi, essere valutato di volta in volta, avendo cura di verificare se la misura sia giustificata in base ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme ovvero, rappresenti una deviazione rispetto 31 Secondo P. Boria , Diritto Tributario Europeo, pag. 222, Giuffrè 2010, “rientrano nell’ambito oggettivo degli aiuti di Stato tanto le misure finanziarie positive, (cioè che consistono in contributi finanziari ) quanto le misure finanziarie negative, le quali determinano una riduzione delle spese che avrebbe dovuto originariamente sostenere il beneficiario”. 32 Sentenza 17.09.1980, Causa C- 730/79 e Sentenza 10.07.1986, Belgio c. Commissione, Causa C40/85. 50 all’assetto dello stesso diretta a ridurre gli oneri finanziari a vantaggio di specifici settori.33 4.2 La disciplina degli aiuti di stato in materia fiscale In ambito fiscale, le norme relative agli aiuti di stato hanno trovato una propria disciplina nella comunicazione della Commissione 98/C 384/03 sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese. La Commissione, al fine di stabilire quando una misura introdotta dagli Stati debba essere considerata aiuto ai sensi dell'art. 87, paragrafo 1, del Trattato (ora art. 107 TFUE) ha precisato che una misura fiscale viene qualificata come aiuto se risponde ai seguenti requisiti: - innanzitutto, la misura deve conferire ai beneficiari un vantaggio che alleggerisca gli oneri normalmente gravanti sul loro bilancio. Tale vantaggio può risultare da una riduzione dell'onere fiscale dell'impresa, sotto varie forme tra cui: • una riduzione della base imponibile (deduzione derogatoria, ammortamento straordinario o accelerato, iscrizione di riserve in bilancio ...); • una riduzione totale o parziale dell'ammontare dell'imposta (esenzione, credito d'imposta ...); • un differimento oppure un annullamento, o anche una rinegoziazione eccezionale del debito fiscale. In secondo luogo, il vantaggio deve essere concesso dallo Stato o mediante risorse statali. Una perdita di gettito fiscale è equivalente al consumo di risorse statali sotto forma di spesa fiscale. Questo criterio vale, altresì, per gli aiuti concessi da enti territoriali degli Stati membri (sentenza della Corte di Giustizia del 14 ottobre 1987, in causa n. 248/84). In terzo luogo, la misura deve incidere sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati membri. Infine, la misura deve essere specifica o selettiva nel senso che favorisce "talune imprese o talune produzioni". Il criterio della selettività costituisce l’elemento peculiare 33 Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Livia Salvini, Cedam 2007. 51 che differenzia un aiuto di Stato dalle misure di carattere generale a favore di tutti gli agenti economici operanti sul territorio di uno Stato membro. Sul punto la Commissione, richiamando l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia34, secondo cui costituiscono aiuti di Stato le misure dirette ad esonerare – totalmente o parzialmente – le imprese di un particolare settore dagli oneri derivanti dalla normale applicazione del sistema generale, senza alcuna giustificazione, indica, quale principale criterio per applicare l’art. 87 (ora art. 107) ad una misura fiscale, il fatto che quest’ultima instauri, a favore di talune imprese dello Stato membro, un'eccezione all'applicazione del sistema tributario. Ne consegue che, nel caso in cui la misura fiscale costituisca un’eccezione all’applicazione del sistema tributario, (salvo che l’eccezione sia giustificata dalla natura o dalla struttura del sistema stesso, ossia discenda direttamente dai principi informatori o basilari del sistema tributario dello Stato membro interessato), e sia diretta a favore di specifiche imprese e produzioni, si può qualificare la stessa come aiuto di Stato soggetto al divieto previsto dalla norma comunitaria. Al verificarsi delle suddette condizioni, l’articolo 108 del TFUE prevede che la Commissione ne dichiari l’incompatibilità con il mercato comune e quindi dichiari l’aiuto come vietato. Il giudizio di compatibilità da parte della Commissione, fatto in funzione degli effetti derivanti dalle misure oggetto sulla concorrenza e sull’incidenza sugli scambi può condurre ad una decisione in forza della quale lo Stato membro deve modificare o sopprimere gli aiuti di cui la Commissione ne abbia constatato l’incompatibilità con il mercato comune. Nel caso in cui le misure in questione siano già state poste in esecuzione, in violazione delle norme procedurali, la loro soppressione implica, in linea di principio, che lo Stato membro debba recuperare gli aiuti dal beneficiario o dai beneficiari. In questa ipotesi, diversamente dal giudizio di incompatibilità, l’aiuto è ritenuto illegale in quanto la misura è stata adottata dagli Stati membri senza il rispetto della procedura prevista dall’articolo 108 del TFUE. 34 (sentenza del 2 luglio 1974, causa n. 173/73) 52 4.3 Il termine per l’esercizio da parte dell’amministrazione finanziaria dell’azione accertatrice diretta al recupero degli aiuti dichiarati incompatibili Tra le questioni maggiormente dibattute in tema di aiuti di Stato, sia da parte della dottrina che della giurisprudenza, di particolare interesse, alla luce delle recenti pronunce della giurisprudenza della Corte di Cassazione appare essere, ad avviso dello scrivente, la tematica relativa ai termini per l’esercizio dell’azione accertatrice da parte degli organi preposti al recupero degli aiuti dichiarati incompatibili e/o illegittimi. In ordine a tale tematica, si era dibattuto in dottrina, se alla disciplina in esame dovesse essere applicato il termine di decadenza previsto per l’accertamento ai fini delle imposte sui redditi oppure, se si debba tenere conto del termine decennale previsto dall’art. 15 previsto dal Regolamento CE 659/99 del 22.03.1999. Autorevole dottrina35, pur ritenendo che a prima vista, in virtù del richiamo effettuato dal legislatore ai principi ed alle ordinarie procedure di accertamento e riscossione, sembrerebbe potersi applicare il termine quinquennale previsto dalle norme in materia di accertamento, è dell’avviso che la normativa interna debba tenere conto di quanto previsto dall’ordinamento comunitario, ed in particolare dall’art. 15 del Reg. CE 659/1999 secondo cui “I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un periodo limite di 10 anni. Il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti”. Affinché possano essere garantiti ed attuati il principio del primato del diritto comunitario sull’ordinamento interno e il principio di effettività delle norme comunitarie, l’azione di recupero da parte dell’amministrazione finanziaria deve beneficiare del termine più lungo previsto dalla normativa comunitaria. Diversamente, concludono gli autori, si correrebbe il rischio che le norme comunitarie siano ricondotte a semplici raccomandazioni senza nessun tipo di vincolo 35 Decreto anti-crisi (D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito) - Il recupero degli aiuti di Stato concessi alle ex municipalizzate di Gianfranco Antico e Mauro Farina (in "il fisco" n. 8 del 23 febbraio 2009). 53 per lo Stato che rimarrebbe libero di non procedere al recupero o di eccepire norme o istituti di diritto interno tali da ostacolare o rendere inefficaci le decisioni stesse. In ragione di ciò “appare corretto ritenere che il termine decennale previsto dall’art. 15, si riferisca non solo all’esercizio da parte della Commissione dei poteri in materia di recupero degli aiuti di Stato, ma comprenda, nel caso di decisione negativa, anche la fase di concreta attuazione, di spettanza nazionale, delle modalità di recupero dell’aiuto”. Il tema del recupero degli aiuti e del relativo termine, entro il quale deve essere data attuazione alle decisioni della Commissione che hanno stabilito l’incompatibilità della misura con il diritto comunitario, sono state affrontate in una recente sentenza della Corte di Cassazione, nella quale è stato affermato il principio di diritto secondo cui “in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva”.36 La Suprema Corte ha posto l’accento sulla doverosità degli Stati membri di procedere al recupero delle agevolazioni indebitamente fruite, in quanto incompatibili con il diritto comunitario, in ragione del quale, anche eventuali norme interne sulla prescrizione, come l’art. 2946 c.c., possono essere disapplicate dal giudice nazionale al fine di far prevalere il diritto comunitario, laddove tale normativa ostacoli il recupero dell’aiuto illegittimo. La doverosità dell’azione statale volta al recupero della misura è un effetto diretto rilevabile dalla lettura dell’art. 288 TFUE ( ex art. 249 TCE), che impone di dare obbligatoria attuazione alle decisioni delle Istituzioni dell’Unione. Il principio dell’effettività del diritto comunitario vuole, infatti, che lo Stato sia obbligato a procedere al recupero delle agevolazioni dichiarate incompatibili con l’ordinamento comunitario a seguito di una decisione della Commissione. L’obbligatorietà dell’azione, volta al recupero della misura dichiarata incompatibile, riverbera effetti anche in ordine alla decorrenza dell’eventuale prescrizione decennale prevista dall’art. 2946, che, ad avviso della Corte di Cassazione, verrebbe interrotta a seguito dell’inizio dell’azione innanzi la Commissione. 36 Cassazione n. 23418 del 19.11.2010. In senso conforme anche Cassazione da n.23415 a n. 23421 del 2010 e da ultimo, Cassazione 11228 del 20.05.2011 54 Laddove, infatti, uno Stato membro fosse libero scegliere se eseguire o meno una decisione, il principio di effettività e di supremazia del diritto comunitario sarebbe violato e verrebbe ricondotto a mere prescrizioni di principio. L’obbligatorietà delle decisioni delle Istituzioni dell’Unione emerge anche dall’esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in base alla quale “il diritto comunitario osta all'applicazione del principio dell'autorità della cosa giudicata ove lo stesso contrasti con il principio di effettività, nei limiti in cui l'applicazione del primo principio impedisce il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva”.37 Ne deriva che, qualora un regime di aiuti sia stato dichiarato incompatibile agli effetti del diritto comunitario, il recupero della misura fruita dal beneficiario non trova ostacolo nella formazione di una decisione avente autorità di cosa giudicata secondo l’art. 2909 del codice civile italiano e, conseguentemente, il giudice nazionale è tenuto, all'occorrenza, alla disapplicazione della disciplina di diritto interno, nei limiti in cui è possibile garantire piena efficacia alla norma di diritto comunitario. L’interpretazione data dai giudici di legittimità, e gli sviluppi applicativi che ne derivano, hanno quindi come effetto di estendere la possibilità di procedere al recupero di quelle misure dichiarate incompatibili con la disciplina in esame, ampliando il tempo per l’azione accertatrice da parte dell’amministrazione finanziaria ben oltre gli ordinari termini di prescrizione decennali previsti dal diritto interno. A nulla rileva la circostanza che, aderendo a tale tesi, si correrebbe il rischio che rapporti giuridici ormai divenuti definitivi a causa del notevole lasso di tempo trascorso da quando è stato adottato il comportamento, ovvero, si è beneficiato della misura dichiarata incompatibile, verrebbero rimessi in discussione a seguito della decisione comunitaria d’incompatibilità. Come, infatti, sostenuto da una parte della dottrina, che ritiene inviolabile il principio della certezza del diritto, anche alla luce del principio del legittimo affidamento sancito sia dalla Costituzione che dallo Statuto del contribuente, non sarebbe possibile rimettere in discussione situazioni giuridiche cristallizzate solo perché le Istituzioni dell’Unione, ha distanza di diversi anni (ad es. più di dieci) dall’adozione 37 Corte Giustizia sentenza 18 luglio 2007 in causa C-l19/05 Lucchini. 55 della misura, hanno stabilito l’illegittimità dell’aiuto e quindi l’obbligatorietà dello Stato membro di procedere al recupero. La giurisprudenza di legittimità è invece, dell’avviso che tali situazioni non possono legittimare l’utilizzo di una misura ritenuta incompatibile con il diritto comunitario, posto che, è onere degli stessi beneficiari verificare che la procedura comunitaria per la concessione degli aiuti di Stato sia stata rispettata, senza che, in tal caso, sia possibile vantare alcun legittimo affidamento sull’utilizzo di una misura per la quale non è stata adottata la prescritta procedura. Secondo un orientamento ormai consolidato, infatti, l’affidamento tutelato è quello legittimo e, specialmente in tema di recupero di aiuti di Stato, l’interpretazione data, sia dai giudici nazionali che dai giudici comunitari di suddetto principio, è stata alquanto, restrittiva38. In tali casi, non sarebbe nemmeno possibile fare ricorso alla cd. teoria dei contro limiti secondo cui, il rispetto dei diritti inviolabili della persona e dei principi fondamentali costituiscono un limite invalicabile da qualsiasi disposizione, anche comunitaria. Tale teoria, elaborata dalla Corte Costituzionale a difesa della sovranità statale di fronte al diritto comunitario, ad avviso della Corte di Cassazione, non può applicarsi alla prescrizione in quanto tale valore non rientra tra quelli irrinunciabili dell’ordinamento. Inoltre, per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ed a seguito del pieno riconoscimento, all’interno di questo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, i diritti inviolabili e i principi fondamentali, costituiscono parte integrante dell’ordinamento giuridico europeo. Nel corso degli ultimi anni, infatti, la Corte di Giustizia ha riconosciuto, quali diritti fondamentali dell’ordinamento giuridico europeo, una serie di valori che già trovavano pieno riconoscimento nelle carte costituzionali degli stati membri, tra cui il diritto di proprietà, il libero esercizio della professione, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di opinione, i diritti generali della personalità, la libertà in campo economico. Conseguentemente, tenuto conto che oggi tali valori costituiscono diritti inviolabili dell’ordinamento giuridico comunitario, appellarsi alla teoria dei contro limiti, per 38 Comunicazione della Commissione 2007/C 272/05, punto 17. 56 difendere la sovranità nazionale nei casi in cui il diritto europeo violi principi costituzionali non avrebbe più alcun senso. Ciò posto, le uniche eccezioni all’obbligo posto a carico di uno Stato membro di dare esecuzione a una decisione di recupero ad esso destinata, possono derivare dall’esistenza di circostanze eccezionali a fronte delle quali vi sia l’impossibilità assoluta per lo Stato membro di dare corretta esecuzione alla decisione. A tal proposito, nella Comunicazione della Commissione “Verso l'esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli Stati membri di recuperare gli aiuti di Stato illegali e incompatibili” 2007/C 272/05, il cui compito è stato di spiegare la politica della Commissione in materia di esecuzione delle decisioni di recupero, la Commissione ha chiarito e indicato le azioni che gli Stati membri potrebbero adottare al fine di conformarsi alle regole ed ai principi enunciati dal diritto europeo, ed in particolare, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. In quella sede, la Commissione ha chiarito che il concetto di assoluta impossibilità è stato da sempre, interpretato in maniera molto restrittiva dalla giurisprudenza comunitaria per la quale non costituisce, comunque, impossibilità oggettiva al recupero, l’esistenza di una normativa nazionale sulla prescrizione39. A tal proposito, appaiono interessanti le conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo cui in materia di aiuti di Stato dichiarati incompatibili, gli Stati membri non dispongono di alcun potere discrezionale quanto alla revoca di una decisione di concessione. Il compito delle autorità nazionali, consiste solo nel dare esecuzione alle decisioni della Commissione e conseguentemente, “L'autorità competente è tenuta, in forza del diritto comunitario, a revocare la decisione di concessione di un aiuto attribuito illegittimamente, conformandosi alla decisione definitiva con cui la Commissione dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il 39 “le Corti comunitarie hanno interpretato il concetto di «assoluta impossibilità» in maniera alquanto restrittiva. Le Corti hanno confermato in varie occasioni che uno Stato membro non può invocare l'esistenza di prescrizioni nazionali, ad esempio le norme nazionali in materia di prescrizione oppure l'assenza di un'ordinanza di recupero in base al diritto nazionale per giustificare l'inosservanza degli obblighi derivanti dalla decisione di recupero. Del pari, la Corte di giustizia europea ha statuito che l'obbligo di recupero non risente di circostanze connesse alla situazione economica del beneficiario. Essa ha chiarito che un'impresa in difficoltà finanziaria non costituisce prova dell'impossibilità di esecuzione del recupero. In siffatte circostanze la Corte ha statuito che la mancanza di attivi recuperabili è il solo mezzo per uno Stato membro di dimostrare l'assoluta impossibilità di recuperare l'aiuto”. 57 recupero, anche quando abbia lasciato scadere il termine previsto a tal fine dal diritto nazionale a tutela della certezza del diritto40. In conclusione, quindi, alla luce degli orientamenti sopra esposti, si può ritenere che il primato del diritto dell’Unione e l’esigenza che venga data piena attuazione al principio comunitario di effettività, fanno si che gli Stati membri siano obbligati al recupero degli aiuti di Stato dichiarati incompatibili. Lo Stato membro, in quanto parte integrante dell’ordinamento comunitario, nei cui confronti ha rinunciato ad una fetta di sovranità, è tenuto ad eseguire le decisioni comunitarie a lui indirizzate. In presenza di una normativa interna, quale ad esempio la regola sulla prescrizione, che possa ostacolare l’attuazione del diritto dell’Unione, è tenuto a disapplicare la norma per contrasto con il diritto comunitario, senza alcun margine di discrezionalità in ordine alla possibilità di scegliere se attuare o no una decisione divenuta definitiva. 4.4 Il recupero degli aiuti fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis Secondo quanto esposto nei paragrafi che precedono, l’art. 107 TFUE prevede l’incompatibilità con il mercato interno degli aiuti selettivi concessi dagli Stati membri che possono incidere sugli scambi tra di essi. Se è pur vero quindi, che qualsiasi intervento finanziario dello Stato è in grado di falsare la concorrenza tra l’impresa beneficiaria e chi non lo riceve, non tutti gli aiuti sono però, in grado di impattare sensibilmente sugli scambi e sulla concorrenza tra gli Stati. Ciò vale, in particolare, per gli aiuti di importo poco elevato. A tal proposito, la Commissione ha introdotto una regola detta de minimis che fissa una cifra quale soglia di aiuto al di sotto della quale l’art. 108 TFUE non deve essere applicato, ovvero, non è obbligatoria la previa notifica della misura agli organi comunitari. 40 Causa C-24/95 Alcan. 58 Sono quindi, definiti aiuti di minima entità (de minimis) quegli aiuti che, indipendentemente dalla forma, dall’oggetto e dall’obiettivo, non eccedono la soglia di 200.000 euro in un triennio41. Gli aiuti pubblici da prendere in considerazione ai fini del rispetto del massimale sono quelli concessi dalle autorità nazionali, regionali o locali a prescindere dal fatto che le risorse provengano interamente dagli Stati membri. La regola è applicabile a prescindere dalle dimensioni delle imprese beneficiarie, con esclusione solo di alcuni settori. L’area degli aiuti di minima entità rappresenta, quindi, un ambito di libero intervento della disciplina nazionale al di fuori della competenza della Commissione. Al fine di garantire la trasparenza e la certezza del diritto, la Commissione stessa ha ritenuto opportuno, essendo già stata autorizzata dal Consiglio dell'Unione, fissare la regola nel Regolamento n. 69/2001, modificato ed integrato dal regolamento 1998/2006. Con il predetto Regolamento 69/2001 è stata stabilità quindi, l’esenzione dall’obbligo di notifica, per quelle misure non eccedenti un massimale di 200 000 EUR su un periodo di tre anni in quanto, non incidono sugli scambi tra gli Stati membri e non falsano, né minacciano di falsare la concorrenza e non rientrano pertanto nel campo di applicazione dell'articolo 107, paragrafo 1, del trattato. Il periodo di riferimento di tre anni deve avere carattere mobile, nel senso che, in caso di nuova concessione di un aiuto de minimis, l’importo complessivo degli aiuti de minimis concessi nei tre anni precedenti deve essere ricalcolato. L’aiuto de minimis si deve considerare erogato nel momento in cui sorge per il beneficiario il diritto a ricevere l'aiuto stesso. Secondo quanto previsto dal settimo considerando del Reg. 69/2001 la Commissione ha il compito di assicurare il rispetto delle condizioni attinenti alla regola de minimis. Gli Stati, in forza del dovere di collaborazione, sono tenuti a facilitare tale compito, instaurando modalità di controllo tali da garantire che l'importo complessivo degli aiuti accordati ad uno stesso beneficiario, a titolo della regola de minimis, non ecceda il massimale di 200.000 euro su un periodo di tre anni. 41 Per effetto delle Comunicazione della Commissione – Quadro di riferimento temporaneo comunitario per le misure di aiuto a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi finanziaria ed economica – 2009/C 16/01 del 22.01.2009 l’importo è stato elevato a € 500.000 per gli aiuti concessi sino al 31.12.2010. Il limite di € 500.000 ha trovato applicazione sino al 31.12.2011 ( com. 2011/C 6/05 del 11.01.2011. 59 A tal fine, quando uno Stato eroga un aiuto rispondente a tale regola informa il beneficiario della natura de minimis dell’aiuto e si fa rilasciare dall'impresa informazioni esaurienti su eventuali altri aiuti de minimis dalla stessa ricevuti nei tre anni precedenti. Alcune delle condizioni previste nel Reg. 69/2001 sono state riviste e sostituite dal successivo Reg. 1998/2006 del 15.12.2006. In particolare, il nono considerando ha specificato che gli anni da prendere in considerazione ai fini del calcolo sono gli esercizi finanziari utilizzati per scopi fiscali dall’impresa nello Stato membro. Per evitare che le intensità massime d’aiuto previste nei vari strumenti comunitari siano aggirate, gli aiuti de minimis non dovrebbero essere cumulati con aiuti statali relativamente agli stessi costi ammissibili se tale cumulo porta a un’intensità d’aiuto superiore a quella fissata. Ai sensi dell’art. 2, commi 2 e 3, del Reg. 1998/2006 infine, “i massimali si applicano a prescindere dalla forma dell’aiuto de minimis o dall’obiettivo perseguito ed a prescindere dal fatto che l’aiuto concesso dallo Stato membro sia finanziato interamente o parzialmente con risorse di origine comunitaria. Il periodo viene determinato facendo riferimento agli esercizi finanziari utilizzati dall'impresa nello Stato membro interessato. Qualora l’importo complessivo dell’aiuto concesso nel quadro di una misura d'aiuto superi il suddetto massimale, tale importo d’aiuto non può beneficiare dell’esenzione prevista dal presente regolamento, neppure per una parte che non superi detto massimale”. Fatta questa breve ricostruzione storica della disciplina degli aiuti di importanza minore, ad avviso dello scrivente, un’altra tematica che merita di essere approfondita, ha per oggetto il recupero degli aiuti di Stato fruiti oltre il limite della cd. regola del de minimis. In altri termini occorre chiedersi se, laddove il beneficiario abbia fruito dell’aiuto in misura superiore alla soglia che si presume non idonea a alterare la concorrenza, si debba procedere al recupero dell’intero beneficio fruito oppure, se l’atto di recupero debba essere limitato alla somma eccedente l’importo tollerato. Ebbene, nonostante la formulazione letterale della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 3, del Reg. 1998/2006, non sia delle più felici, laddove dispone che l’importo d’aiuto non può beneficiare dell’esenzione prevista dal presente regolamento, neppure 60 per una parte che non superi detto massimale, sembrerebbero non emergere dubbi circa il fatto che in caso di aiuto fruito oltre il detto massimale consentito lo Stato membro debba procedere al recupero dell’intero beneficio42. Tale interpretazione, in assenza di documenti di prassi sull’argomento, risulta confermata anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 11228 del 20.05.2011, nella quale è stato affermato il seguente principio di diritto “Le disposizioni relative al regime “de minimis” non devono interpretarsi come una franchigia della quale il contribuente possa beneficiare sempre e non invece come una soglia entro la quale si presume che non si possa verificare alcuna alterazione della concorrenza per la pochezza della somma in questione. Gli aiuti “de minimis”, proprio perché tali sono inidonei ad incidere sul piano della concorrenza e perciò vengono tollerati. Ma proprio per questa stessa ragione, quando la soglia viene superata riacquista vigore in pieno la disciplina del divieto che involge l’intera somma e non soltanto la parte che eccede la soglia di tolleranza”. La sentenza, che rappresenta la prima pronuncia di legittimità sul tema del recupero degli aiuti fruiti oltre il massimale, si può ritenere che mostri l’innegabile pregio di indirizzare gli operatori in merito all’entità del recupero nell’ipotesi in cui il beneficiario ne abbia fruito oltre la somma relativa agli aiuti di importanza minore. La Suprema Corte chiarisce, infatti, che il limite cd. de minimis entro il quale è possibile beneficiarie dell’aiuto senza il rispetto delle procedure comunitarie, serve a tracciare la linea di confine tra gli aiuti che sono incompatibili con l’art. 87 (ora 107) paragrafo 1 del Trattato istitutivo della UE, ovvero quelli idonei ad incidere sugli scambi e quelli che invece, in quanto di minore entità, sono tollerati. Il regime de minimis serve quindi, a giustificare una deroga alla regola del divieto degli aiuti di Stato, sulla base della pochezza dell’aiuto stesso, ritenuto inidoneo ad influire sulla concorrenza. Quando però, la soglia dell'irrilevanza viene superata, il recupero deve necessariamente riguardare l’aiuto nella sua interezza, in quanto l’aiuto non può più essere considerato di tipo minore. 42 Sul punto, P. Boria, Diritto tributario Europeo, op cit., secondo cui “qualora l’importo complessivo dell’aiuto superi il massimale, l’intera misura di vantaggio verrà sottoposta alla disciplina comunitaria degli aiuti di Stato ( e pertanto non potrà beneficiare dell’esenzione neanche per la parte che rientri entro il massimale)”. 61 Capitolo V Il regime di attrazione europea: brevi considerazioni sulla compatibilità con l’ordinamento comunitario 5.1 Il regime di attrazione europea Il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, ha introdotto nell’ordinamento tributario domestico, con l’art. 41, il cd. regime di attrazione europea, volto ad incoraggiare le imprese europee ad intraprendere nuove iniziative in Italia. La norma, la cui finalità è quella di attrarre investimenti esteri nel nostro paese43, introduce il principio secondo cui “Alle imprese residenti in uno Stato membro dell'Unione europea diverso dall’Italia che intraprendono in Italia nuove attività economiche, comprese quelle di direzione e coordinamento, nonché ai loro dipendenti e collaboratori, per un periodo di tre anni, si può applicare, in alternativa alla normativa tributaria statale italiana, la normativa tributaria statale vigente in uno degli Stati membri dell'Unione europea”. Come si rileva dalla relazione illustrativa al D.L. 78/2010, l’articolo 41 del D.L. n. 78/2010 dispone una parziale autolimitazione della sovranità impositiva da parte dello Stato italiano, favorendo la circolazione di sottosistemi giuridici all’interno dell’Unione Europea, mediante la possibilità, per le imprese non residenti comunitarie, di scegliere la normativa fiscale più favorevole fra le ventisette esistenti all’interno dell’Unione. La concreta attuazione della disposizione in commento, ai sensi del comma 2 del citato art. 41, è subordinata all’emanazione di un decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, allo stato attuale, è stato pubblicato in bozza, e la cui stesura definitiva è aperta alle proposte di miglioramento e cambiamento che possono provenire anche da fonti esterne al Ministero. 43 Relazione illustrativa alla bozza di decreto del Direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze. 62 Come sottolineato da autorevole dottrina il regime di attrazione europea rappresenta una norma che non ha precedenti diretti negli ordinamenti tributari degli altri Paesi appartenenti all'Unione Europea.44 In sostanza, l’Italia si rende disponibile ad abdicare a parte della propria potestà impositiva per lasciare posto alle norme di un altro ordinamento. Secondo alcuni autori, il regime presenta alcune caratteristiche che ricordano il progetto sperimentale della Commissione Europea, Home State Taxation, secondo cui, una piccola e media impresa, che intende stabilire una succursale o una stabile organizzazione in un altro Stato membro, può utilizzare le regole fiscali del proprio paese di residenza al fine di ridurre i costi che le stesse devono sostenere per adeguarsi alla legislazione del paese estero nel quale si va ad investire. 45 L’articolo 41 del D.L. n. 78/2010, sembra appunto sfruttare tale orientamento introducendo nell’ordinamento tributario domestico la possibilità, per le imprese europee che investono in Italia, di scegliere il regime fiscale, sia per ciò che concerne le regole di determinazione della base imponibile che per misura dell’aliquota applicabile, a cui essere assoggettate nel nostro Paese fra uno di quelli adottati negli altri Paesi dell’Unione Europea. Volendo evidenziare brevemente i tratti salienti della disciplina in commento, anche alla luce di quanto previsto dalla bozza di decreto ministeriale pubblicata, appare evidente che il regime in commento potrebbe rappresentare, per le aziende che optano per esso, un’opportunità di ottenere importanti vantaggi fiscali, data dalla possibilità di scegliere uno dei diversi regimi fiscali previsti in uno qualunque degli Stati membri, anche diverso da quello di residenza. Il regime fiscale, dal quale sono escluse le imprese residenti in Italia, si applica sia alle persone fisiche che alle persone giuridiche, svolgenti attività d’impresa ai sensi della normativa tributaria dello Stato membro della UE di residenza, che siano residenti da almeno 24 mesi in uno degli Stati membri dell’Unione Europea, e che nello stesso Stato siano effettivamente operativi, a condizione che intraprendano in Italia una nuova attività economica. 44 Albano Giacomo; Miele Luca, All’esame degli operatori la bozza aperta del decreto sul regime di attrazione europea, in Corriere Tributario, n. 18 del 2011. 45 Nicola Lanteri, Alle imprese estere in Italia la scelta del regime fiscale, in Il sole 24 ore del 6 agosto 2010. 63 Tale requisito, come sottolineato dalla relazione illustrativa alla bozza di decreto risponde a finalità meramente antielusive, al fine di scongiurare che imprese extra UE, o imprese italiane che possano trasferire la propria residenza in un paese comunitario al fine di beneficiare della suddetta misura. Per ciò che concerne il termine residenza, la relazione illustrativa alla bozza di decreto fa riferimento alla nozione contenuta nella Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata dall’Italia con il Paese membro dell' UE di residenza del soggetto che intende avviare in Italia la nuova attività. Per nuova attività economica deve intendersi un’attività avviata dopo la data di entrata in vigore del decreto legge, ovvero, dopo il 31 maggio 2010, che sia effettivamente svolte nel territorio dello Stato. Il regime fiscale può essere esteso anche ai collaboratori e dipendenti dell’impresa, che pertanto, pur se residenti nello Stato, potrebbero beneficiare di un regime fiscale più favorevole scelto dall’impresa europea che si sia fiscalmente trasferita in Italia. Esso è soggetto a limitazioni di tipo temporale in quanto, si applica per il periodo di imposta nel corso del quale è presentata l’istanza e per i due successivi (tre anni). A partire dal quarto periodo d’imposta si rendono applicabili, ai fini della determinazione del reddito di impresa e della relativa aliquota di imposizione, le disposizioni della normativa tributaria statale italiana46. Il regime fiscale è circoscritto alla normativa tributaria statale, di conseguenza, la disciplina estera non si intende alternativa anche ai tributi diversi da quelli erariali, che continueranno ad applicarsi secondo le regole proprie. In altri termini, restano escluse dall’ambito di applicazione della norma in commento, le imposte locali di competenza di Comuni, Province e Regioni. La scelta del regime è irrevocabile dal momento di presentazione dell’istanza e vincola, in caso di stipula dell’accordo, i soggetti che hanno presentato l’istanza per i predetti periodi di imposta. Da un punto di vista procedurale, il soggetto estero, che intende avvalersi della disposizione di cui all’art. 41 del D.L. 78/2010, deve interpellare preventivamente l’amministrazione finanziaria, avvalendosi della procedura del cd. ruling internazionale, 46 Secondo Valz, Il regime fiscale di attrazione europea, in Fiscalità Internazionale, n. 6 del 2010, la limitazione temporale confermerebbe l’obiettivo per il quale il regime è stato previsto, ovvero, l’attrazione di capitali esteri. 64 e stipulare un accordo con l’Agenzia delle Entrate in cui sceglie di applicare la normativa tributaria vigente in uno degli Stati membri dell’Unione Europea alla data di presentazione dell’istanza. Attraverso l’interpello può essere chiesta l’applicazione della disciplina fiscale prescelta anche per i dipendenti e collaboratori assunti in Italia presso i soggetti che hanno trasferito la residenza nel territorio dello Stato, salvo che i dipendenti e collaboratori non optino per l’applicazione della normativa tributaria statale italiana. In caso di estensione del regime prescelto ai dipendenti, l’opzione rimane valida fino al periodo d’imposta in cui termina per il datore di lavoro. L’accordo resta invariato in caso di evoluzione del sistema normativo scelto, ovvero, in presenza di modifiche normative intervenute nell’ordinamento prescelto durante il periodo di vigenza dell’accordo. 5.2 segue: profili di compatibilità con l’ordinamento comunitario e le libertà fondamentali Tracciato brevemente il perimetro giuridico della disposizione di cui all’art. 41 del D.L. 78/2010, appare opportuno soffermarsi, per le finalità che sono alla base del presente lavoro, sulle possibili implicazioni di tale disciplina con il diritto comunitario. Come già anticipato nel paragrafo che precede, l’attuazione del regime fiscale in commento è stata demandata alla sola emanazione definitiva del decreto di natura non regolamentare da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze attraverso il quale saranno stabilite le disposizioni attuative del suddetto regime, non contemplando la necessità di ottenere una decisione positiva da parte degli organi comunitari in merito alla compatibilità della misura 47. In ordine a quest’ultimo aspetto, autorevole dottrina non ha mancato di sottolineare che, sebbene la norma non preveda la previa notifica della misura alle Istituzioni 47 Nella conferenza stampa d’illustrazione delle disposizioni del D.L. n. 78/2010 tuttavia, il Ministro Tremonti ha precisato che verrà data attuazione alla misura soltanto dopo il via libera della Commissione UE. 65 comunitarie, sarebbe auspicabile che il Governo provvedesse a comunicare il nuovo regime fiscale al fine di evitare di incorrere in violazioni della normativa dell’unione48. Ciò posto, occorre chiedersi se il regime fiscale di attrazione europea possa essere ritenuto compatibile con i principi comunitari, ed in particolare, con i principi fondamentali dell’UE (libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali), con il principio di non discriminazione ed, infine, con il divieto di aiuti di stato. Ebbene, da un primo esame della disposizione non sembra che il regime in commento sia contrario né alle libertà fondamentali stabilite dal Trattato dell’Unione, né al principio di non discriminazione. Le libertà fondamentali perseguono la finalità dell’integrazione comunitaria ed esprimono l’esigenza di promuovere l’abbattimento delle barriere fisiche e giuridiche che possano ostacolare la realizzazione del processo di unificazione economica e commerciale. In ragione del perseguimento di tale scopo, sono vietate tutte quelle misure che direttamente, o indirettamente, impediscono, o hanno l’effetto di impedire, la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali. Sono pertanto vietate, quelle misure, anche di carattere fiscale, che hanno l’effetto di ostacolare il commercio introducendo un trattamento più oneroso, e quindi discriminatorio, nei confronti del non residente, rispetto al residente, così da impedire o ostacolare il non residente nell’esercizio delle proprie libertà. Le libertà fondamentali appaiono strettamente collegate al principio di non discriminazione, in quanto la violazione di una delle libertà spesso viene accertata in presenza di misure nazionali che introducono uno svantaggio del cittadino non residente rispetto a quello residente. Ragione per cui, la giurisprudenza comunitaria sostiene che la non discriminazione costituisca una specie dell’ampio genere della libertà di circolazione. In ambito fiscale tuttavia, il principio di non discriminazione trova pieno riconoscimento in alcune disposizioni del Trattato. I sistemi fiscali nazionali, rispetto ai principi fondamentali dell'UE debbono avere un carattere di neutralità ovvero non incidere negativamente sul loro concreto esercizio. 48 Secondo Valz, op. ult. Cit. “Una misura come quella relativa al regime di attrazione europea, andrebbe comunicata alla Commissione Europea prima della sua effettiva implementazione. La valutazione comunitaria avrebbe un ruolo fondamentale” 66 Le norme del Trattato, segnatamente gli articoli 110-112 TFUE (ex artt. 90-92 TCE), prevedono “limiti di ordine negativo” alla potestà tributaria degli Stati membri, consistenti nel divieto di introdurre discriminazioni di natura tributaria a carico di soggetti esteri comunitari e, più in generale, di “condizionare la neutralità degli investimenti all’interno della Comunità” ostacolando le quattro libertà fondamentali del mercato comune49. Emblematico a questo proposito è il contenuto del primo comma dell’art. 110 del TFUE secondo cui “Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari”. La disposizione citata, a ben vedere, scongiura l’ipotesi di discriminazioni (di natura tributaria) dei soggetti comunitari, lasciando invece, impregiudicata la possibilità per lo Stato membro, di assoggettare ad un trattamento più oneroso il residente rispetto al non residente. Le situazioni interne, infatti, secondo l’orientamento prevalente in ambito comunitario, non vietano che i cittadini ed i prodotti nazionali possano essere assoggettati a requisiti più severi rispetto ai cittadini di altri stati membri, in quanto, le libertà fondamentali si applicano alle attività transfrontaliere e il diritto dell’unione non può fare nulla rispetto alle discriminazioni in senso inverso. La giurisprudenza della Corte di Giustizia è diretta a scongiurare le eventuali pratiche discriminatorie nei confronti dei soggetti economici comunitari non residenti e non anche quelle che, paradossalmente, potrebbero essere discriminatorie nei confronti di soggetti residenti. Ne consegue che, la norma in commento appare essere coerente con le libertà fondamentali garantite dal Trattato. In particolare, il regime pare essere coerente con la libertà di stabilimento, in ordine alla quale, la Corte di Giustizia si è espressa ritenendo che la circostanza che la società sia stata creata in uno Stato membro al fine di fruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso della libertà di stabilimento. 49 Cfr. Lupi, Stevanato, Carpentieri, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, pagg. 28 ss. 67 Il regime inoltre, considerato il carattere sistematico derivante dalla sua applicazione a tutti i non residenti che investono in Italia, salvaguarda anche la scelta dalla violazione del divieto di discriminazione.50 Non manca comunque, in dottrina, chi contrariamente a quanto detto sopra, ha sostenuto che il regime fiscale di attrazione europea, proprio perché favorisce l’imprenditore non residente, attribuisce un vantaggio a quest’ultimo, rispetto al competitor residente, che potenzialmente potrebbe violare il principio di uguaglianza sancito dall’art. 2 della Costituzione e il generale divieto di non discriminazione previsto dall’articolo 18 (ex art. 12del TCE) secondo cui “Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.51 5.3 segue: Il tema della concorrenza fiscale dannosa e gli aiuti di stato Diversamente da quanto detto in merito alla compatibilità del regime di cui all’art. 41 del D.L. 78/2010 con le libertà fondamentali, sin dai primi commenti alla novella legislativa, da più parti, sono stati sollevati dubbi circa il possibile contrasto della norma con il divieto di concorrenza fiscale dannosa e conseguentemente con la disciplina in tema di aiuti di Stato.52 In effetti, se si guarda al codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, adottato mediante le conclusioni del Consiglio Ecofin dell'1 dicembre 1997, si può notare come, tra le misure potenzialmente dannose, siano annoverate quelle misure fiscali che determinano un livello di imposizione effettivo nettamente inferiore ai livelli generalmente applicati nello Stato membro interessato. Il codice di condotta, che per espressa previsione si applica alle misure che hanno o possono avere una sensibile incidenza sull’ubicazione di attività imprenditoriali nel territorio della Comunità, prevede che il livello d’imposizione effettivo, cui fare 50 Adriano Di Pietro, Residenti a rischio discriminazione, in Il sole 24 ore del 19 luglio 2010. Mario Damiani, La fiscalità delle imprese: dall’attrazione europea a quella del mezzogiorno, in Corriere Tributario n. 33 del 2010. 52 A. Di Pietro, op. ult. Cit. e Guglielmo Maisto, Per il tax shopping il rischio aiuti di Stato, in il Sole 24 ore del 12 aprile 2011. 51 68 riferimento, può risultare dall’aliquota nominale, dalla base imponibile, o da altri elementi pertinenti. Nel valutare il carattere pregiudizievole di tali misure si deve tenere conto, tra le altre cose, se le agevolazioni sono riservate esclusivamente ai non residenti. In caso di violazione, ovvero di fattispecie ritenute dannose per la concorrenza, si è ritenuto che la misura rientri nel campo di applicazione delle disposizioni sugli aiuti di Stato di cui agli articoli 107 e ss. del TFUE. In particolare, è stato ritenuto che le misure fiscali suscettibili di produrre concorrenza fiscale dannosa siano affini rispetto agli aiuti di Stato cosicché, alle predette misure, può essere applicata la disciplina prevista dall’art. 108 TFUE.53 La riconducibilità delle misure fiscali rientranti nell’ambito della concorrenza fiscale dannosa alla categoria degli aiuti di Stato, ha trovato riconoscimento nella Comunicazione della Commissione C- 384/03, in cui è stata esplicitata l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 107 TFUE alle misure di politica fiscale. Il codice di condotta, sino al 2003, non ha avuto effetti vincolanti per gli Stati membri, rappresentando una sorta di impegno politico per questi ultimi, a non introdurre nuove misure fiscali pregiudizievoli della concorrenza. Orbene, tenuto conto delle considerazioni che precedono, il fatto che, da un lato, sia possibile applicare alle imprese non residenti un livello di imposizione effettivo, che in alcuni casi, può essere nettamente inferiore ai livelli generalmente applicati nello Stato membro interessato e, dall’altra, la circostanza che le agevolazioni sono riservate esclusivamente ai non residenti, porta a ritenere che la disposizione in commento possa essere considerata di tipo selettivo e quindi, incorrere nella disciplina del divieto di aiuti di Stato.54 Il regime di attrazione europea introduce, infatti, un trattamento tributario differenziato tra imprese residenti, che rimangono assoggettate alla disciplina fiscale interna, imprese residenti in Stati membri che già operavano in Italia alla data del 31 maggio 2010 e imprese residenti in Stati membri che intraprendono una nuova attività 53 P. Boria, op. ult. Cit. Secondo Maisto, op. ult. Cit., “la norma si potrebbe giustificare con la semplificazione dell’imposizione per le imprese straniere in Italia, ma a tal fine sarebbe sufficiente consentire l’applicazione del regime impositivo dello Stato di residenza. L possibilità di scegliere un regime impositivo diverso da quello dello stato di origine avrebbe, invece, la sola finalità di permettere l’applicazione delle aliquote in assoluto più basse tra quelle vigenti in Europa”. 54 69 economica in Italia che invece, sono libere di scegliere il regime fiscale vigente in uno qualsiasi degli Stati dell’Unione, anche se di livello sensibilmente inferiore a quello nazionale. Il nuovo regime fiscale quindi, secondo alcuni autori, sembra possedere tutti i requisiti sostanziali per essere considerato alla stregua di un aiuto di Stato.55 In esso sarebbero presenti: • la natura statale del soggetto che eroga l’aiuto che si traduce in minor gettito per l’Erario; • l’incidenza della misura nel mercato interno (o comunitario), ovvero il potenziale effetto distorsivo della concorrenza a causa dei minori oneri che il soggetto che si avvale di tale regime deve probabilmente sopportare ; • il vantaggio economico per l’impresa, o le imprese, che beneficiano dell’aiuto, derivante dal risparmio d’imposta; • la selettività, ovvero il fatto che la misura sia diretta a favorire talune imprese, e in particolare il soggetto non residente che intraprende in Italia una nuova attività. Ciò posto, in conclusione, alla luce delle suesposte considerazioni, si può ritenere che il regime fiscale di attrazione europea rappresenta un’importante opportunità per attrarre aziende ed investimenti sul territorio dello Stato. Da una prima sommaria analisi della relativa disciplina, la disposizione non sembra presentare profili di incompatibilità con l’ordinamento comunitario, per ciò che concerne il tema delle libertà fondamentali. Appare invece essere dubbia, come sollevato da più parti, la compatibilità della misura con la disciplina sul divieto degli aiuti di Stato. Essa infatti, appare essere potenzialmente dannosa per la concorrenza a causa del trattamento riservato ai non residenti, che intraprendono una nuova attività nel territorio, rispetto a coloro che operano già in Italia, ed a causa del livello d’imposizione sensibilmente inferiore rispetto al livello generalmente applicato alle imprese operanti nello Stato che potrebbe trovare applicazione per effetto dell’opzione. 55 C. Valz, op. ult. Cit.e Fabio Antonacchio, Regime fiscale di attrazione europea: i potenziali abusi con effetti discorsivi, in il Fisco, n. 10 del 2011. 70 Capitolo VI Brevi cenni sull’abuso del diritto in materia fiscale ed in particolare, sulle proposte di legge depositate in Parlamento che intendono codificare tale materia 6.1 L’abuso del diritto in materia fiscale Una delle tematiche nelle quali, nel corso degli anni, si è registrata una forte incidenza del diritto comunitario e, in special modo, della giurisprudenza della Corte di Giustizia, è rappresentata dal principio del divieto di abuso del diritto. L’abuso del diritto, secondo costante giurisprudenza, è definito come l’utilizzo di singole disposizioni dell’ordinamento giuridico secondo modalità che, pur rispettando la lettera delle specifiche norme utilizzate, portano a un risultato difforme o addirittura antitetico rispetto ai principi e alle finalità che sottendono all’ordinamento giuridico di cui quelle stesse norme sono parte. In ambito tributario, l’abuso del diritto consiste nell’utilizzo, anche combinato, delle norme di diritto positivo che disciplinano il sistema fiscale, al fine di ottenere risparmi di imposta che, seppure coerenti rispetto alla lettera delle specifiche norme di riferimento, risultano contrari alle logiche e ai principi cui è informato l’intero ordinamento tributario. Il tema dell’abuso del diritto nella materia fiscale ha trovato pieno riconoscimento sia nella giurisprudenza di matrice comunitaria che in quella nazionale. In ambito comunitario, la prima pronuncia che ha riconosciuto esistente nell’ordinamento giuridico europeo il principio generale dell’abuso del diritto, trae origine dalla nota sentenza Halifax (causa C- 225/02), nella quale, i giudici europei hanno riqualificato ai fini IVA un’operazione posta in essere dal contribuente, in ragione della natura abusiva del comportamento tenuto. La Corte di Giustizia in quell’occasione ha precisato che, per parlarsi di comportamento abusivo le operazioni controverse devono - nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della legislazione comunitaria e della legislazione nazionale di recepimento - procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse 71 disposizioni. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Il risparmio fiscale inoltre, non deve assumere il carattere dell’esclusività (Sentenza Part Service causa C-425/2006), in quanto il carattere abusivo dell’operazione potrebbe emergere anche in presenza di ragioni economiche marginali. Il vantaggio fiscale, infatti, non costituisce di per sé pratica abusiva, ma rappresenta uno degli elementi che servono per individuare il comportamento abusivo. A tal proposito, si è ritenuto che l’imprenditore abbia il diritto di scegliere la forma di conduzione dei propri affari, ivi compresa la possibilità di limitare il proprio carico fiscale, mediante lo stabilimento della propria attività anche in un paese in cui l’onere fiscale è più basso rispetto a quello di origine, purché l’insediamento in tale Stato non costituisca una costruzione di mero artificio.56 Il principio dell’abuso del diritto, il cui riconoscimento a livello comunitario è stato dapprima, limitato ai soli tributi armonizzati, nel corso degli anni è stato esteso anche a quelli non armonizzati, quali le imposte dirette, in quanto ritenuto un principio che deve essere applicato tutte le volte in cui il comportamento abusivo si ponga in contrasto con gli obiettivi comunitari e le libertà previste dal Trattato. Nell’ambito dell’ordinamento interno il percorso evolutivo della Corte di Cassazione è stato alquanto ondivago poiché, in un determinato periodo storico, ha ritenuto il principio dell’abuso del diritto di matrice comunitaria, alla stregua di un canone interpretativo che il giudice deve seguire per contrastare fenomeni di tipo antielusivo .57 Successivamente, con le sentenze n. 10353 del 2006 e n. 25374 del 2008, la Corte di Cassazione ha invece, riconosciuto la piena operatività di tale principio nell’ordinamento interno, anche in materia di tributi non armonizzati quali le imposte dirette, precisando nel primo caso, che “pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio 56 Sentenza Cadbury Schweppes, Causa C- 196/04. Ad avviso della Corte di Cassazione, sentenza n. 20398 del 21.10.2005, “pur non essendo stata affermata in modo radicale, e valevole per tutti i settori dell'imposizione fiscale, l'esistenza di una regola che reprima - attraverso l'inopponibilità dell'atto all'Amministrazione finanziaria - il cosiddetto abuso del diritto, non pare contestabile l'emergenza di un principio tendenziale, che - in attesa di ulteriori specificazioni della giurisprudenza comunitaria - deve spingere l'interprete alla ricerca di appropriati mezzi all'interno dell'ordinamento nazionale per contrastare tale diffuso fenomeno. 57 72 tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. Con la seconda sentenza invece la Corte di Cassazione ha invece affermato il principio di diritto secondo cui “La nozione di abuso del diritto assume di ruolo di clausola generale dell’ordinamento tributario e la matrice comunitaria comporta, da un lato, un ambito operativo esteso a tutte le fattispecie di entrate tributarie (oltre, pertanto, le ipotesi di armonizzazione normativa relativa all’imposta sul valore aggiunto, accise, prelievi doganali) e, dall’altro, l’obbligo per il giudice nazionale di applicazione d’ufficio anche al di fuori di specifica deduzione ed allegazione di parte”. Di recente, nel 2008, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con tre sentenze (n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008), si sono nuovamente pronunciate sulla questione, enunciando alcuni fondamentali principi di diritto: In primo luogo, esiste nell’ordinamento tributario un generale principio antielusivo, la cui fonte va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria, quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano, segnatamente nell’articolo 53 della Costituzione che afferma i principi di capacità contributiva (comma 1) e di progressività dell'imposizione (comma 2). Essi, secondo quanto dedotto dalla Corte di Cassazione, costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. In virtù di tale principio generale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, “in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”. In secondo luogo, l’esistenza di questo principio non contrasta né con le successive norme antielusive sopravvenute, che appaiono “mero sintomo” dell’esistenza di una regola generale, né con la riserva di legge di cui all’articolo 23 della Costituzione, in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, ma 73 solamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione delle norme fiscali. Infine, l’inopponibilità del negozio abusivo all'erario è rilevabile d’ufficio, anche in sede di legittimità. La Corte di Cassazione, a tal proposito, ricorda che “per costante giurisprudenza, sono infatti rilevabili d'ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell'amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile; il carattere elusivo dell'operazione può d'altro canto desumersi, senza necessità di alcuna ulteriore indagine di fatto, sulla base della compiuta descrizione che se ne rinviene in atti”. Interessante ai fini di che trattasi, ovvero al fine di una breve ricostruzione storica dell’indirizzo giurisprudenziale in tema di abuso del diritto, appare essere quanto stabilito, di recente, dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1372 del 21 gennaio 2011. In tale occasione, la Corte, come sottolineato da autorevole dottrina58, ha posto un argine interpretativo ad un utilizzo indiscriminato di tale principio. La Suprema Corte, pur confermando la validità del principio del divieto di abuso del diritto, ha ritenuto che quest’ultimo possa trovare un limite nella libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita, sul piano del diritto interno, nonché nella libertà di stabilimento sul piano del diritto comunitario. L’applicazione del principio deve, infatti essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa. In tale ultima ipotesi, se l’operazione rientra in una normale logica di mercato, si deve affermare che il carattere abusivo deve essere escluso per la compresenza, di ragioni extra fiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione, ma possono essere anche di natura meramente organizzativa, e consistere in miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa. La Corte di Cassazione, inoltre, con la medesima sentenza, si è pronunciata sul tema dell’onere della prova nel caso sia contestato al contribuente l’abuso del diritto, 58 Mauro Farina, Abuso del diritto e ripartizione dell’onere probatorio, in La lente sul Fisco del 14.02.2011. 74 precisando che compete all’amministrazione finanziaria l’onere di provare le anomalie delle operazioni intraprese dal contribuente, il quale deve solo dimostrare l’esistenza di un contenuto economico diverso dal mero risparmio fiscale. 6.2 L’esigenza di certezze delle regole nel rapporto fisco-contribuente Il tema dell’abuso del diritto, per ciò che è stato possibile brevemente evidenziare nelle considerazioni che precedono, rappresenta quindi, una materia, allo stato attuale, ancora in evoluzione, soggetta a possibili mutamenti interpretativi, che generano incertezza soprattutto quando si pongono in essere operazioni complesse. Lo stato di incertezza che ne deriva, la cui causa principale è data dall’assenza di regole precise che delimitino, in maniera circoscritta, cosa costituisca abuso e cosa sia invece lecito, non appare privo di conseguenze laddove le violazioni ricondotte nell’abuso del diritto siano idonee a realizzare fattispecie penalmente rilevanti. In effetti, in un sistema processuale-penalistico come quello italiano, caratterizzato dal fatto che la sentenza di condanna deve essere pronunciata dal giudice, se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio, appare difficile sostenere che fattispecie penali, la cui fonte d’innesco è data dalla contestazione del divieto di abuso del diritto, possano resistere al vaglio del giudice penale. Il principio di diritto che vuole assolto l’imputato qualora la prova sia contraddittoria, rappresenta il limite alla libertà di convincimento del giudice, apprestato dall’ordinamento per evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti discrezionali, soggettivi e confinanti con l’arbitrio. Tali considerazioni quindi, portano a ritenere che, sino a quando non sarà codificato nell’ordinamento italiano il principio dell’abuso del diritto, la circostanza che la maggior parte delle contestazioni viene fatta attenendosi a principi di elaborazione giurisprudenziale, magari non ancora noti quando è stata posta in essere la condotta, rende difficile il lavoro sia dei funzionari dell’amministrazione finanziaria che quello dei giudici penali chiamati a pronunciarsi sulla materia, con il rischio concreto di 75 operare numerose segnalazioni di reato che, difficilmente, saranno sostenibili innanzi ad un giudice. La certezza dei rapporti giuridici attraverso regole certe in materia di abuso del diritto che, ad avviso dei più, non può non passare attraverso la codificazione delle fattispecie ritenute elusive, ha trovato l’avallo anche da parte dell’amministrazione finanziaria. Al riguardo, è stato chiesto l’intervento del legislatore affinché adotti specifici interventi normativi, il cui fine deve essere la formulazione di una norma antielusiva di carattere generale che, tenendo conto della giurisprudenza nazionale e comunitaria, potrà consentire di contrastare i comportamenti elusivi nell’ambito di tutti i settori impositivi, nel rispetto delle garanzie procedimentali concesse al contribuente con l’art.37 bis del D.P.R. 600/1973.59 La necessità di provvedere in tempi brevi all’identificazione normativa del principio dell’abuso del diritto, è stata segnalata anche in sede ministeriale, nel corso di un’interrogazione parlamentare del 26 ottobre 2011. In tale sede, è stato osservato che preso atto del controverso dibattito giurisprudenziale sul tema dell’abuso del diritto, si rende necessaria l’emanazione di una norma di diritto positivo che garantisca il contribuente e che codifichi il principio dell’abuso di diritto, delineando, nel contempo, una linea di demarcazione precisa tra legittimo risparmio d’imposta e indebito vantaggio fiscale.60 Di recente, la volontà di intervenire in modo definitivo su tale materia è stata ribadita all’interno della relazione tecnica che accompagna la manovra di dicembre 2011, nella quale il Governo si è impegnato in tempi brevi a disciplinare l’abuso del diritto fissando regole precise che possano far recuperare certezza delle norme fiscali. In particolare, nel documento viene ulteriormente precisato che “la codificazione dell’abuso è la via maestra per consentire alle imprese di operare in quadro normativo stabile. Le esigenze di contrasto dell’elusione, sostenute attraverso l’introduzione di norme generali, vanno contemperate con la certezza delle regole, da preservare evitando formule normative generiche”. 59 Audizione di Attilio Befera alla Commissione Finanze del Senato. È stato osservato inoltre, che “il varo di una norma generale andrebbe a superare l’elencazione tassativa delle operazioni alle quali è applicabile ora la norma antielusiva di carattere generale, trasformando tale previsione in una norma generale antilelusiva in materia tributaria”. 60 76 L’assenza di una normativa in materia di abuso del diritto genera incertezza per le imprese italiane, soprattutto per le operazioni più complesse, che a volte possono essere sindacate sulla base di orientamenti giurisprudenziali che non erano ancora noti quando l’operazione fu effettuata. Il governo inoltre, probabilmente al fine di accelerare i tempi della riforma, potrebbe puntare sulle proposte di legge presentate e in discussione presso la Commissione Finanze della Camera, in quanto, “Il tema dell’abuso è già oggi oggetto di lavori parlamentari; tre proposte di legge, finalizzate ad estendere la portata applicativa dell’attuale disposizione antielusiva prevista per le imposte dirette (art. 37bis del DPR 600/1973) e a regolare i rapporti tra Amministrazione e contribuenti, sono attualmente in discussione”. A tal proposito è stato evidenziato come, già in sede i lavori parlamentari, sia stato ritenuto necessario un intervento normativo, al fine di definire in maniera esplicita il concetto di abuso del diritto all’interno del diritto positivo, rendendo distinguibile il risparmio d’imposta legittimo dal vantaggio fiscale indebito. E’ stata inoltre sottolineata la necessità che un principio generale anti-abuso, allo stato ancora mancante, si applichi a tutte le imposte, non sia vincolato da un’elencazione tassativa di fattispecie elusive e venga realizzata una piena assimilazione, a livello normativo, tra elusione fiscale e abuso. La distinzione tra risparmio d’imposta legittimo e vantaggio fiscale indebito dovrebbe far leva sul concetto di aggiramento delle norme tributarie. La norma generale dovrebbe essere provvista di garanzie procedurali a favore del contribuente: attraverso la puntuale regolazione del principio potrebbero essere rimossi alcuni fattori di criticità emersi in sede giurisprudenziale, legati, fra l’altro, alla rilevazione d’ufficio dell’abuso e all’incertezza sulle sanzioni applicabili. 6.3 Le proposte di legge in tema di abuso del diritto Dopo avere cercato di delineare almeno nelle linee essenziali il tema dell’abuso del diritto, e dopo avere dato contezza della necessità manifestata da parte di tutti gli operatori, sia di parte privata che pubblica, di avere in tempi rapidi regole certe che 77 possano circoscrivere in maniera chiara e precisa quali situazioni costituiscano abuso del diritto, appare opportuno soffermarsi brevemente sulle proposte di legge attualmente in discussione presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati. Al riguardo, occorre premettere che tutte le proposte di legge in commento hanno come denominatore comune la modifica dell’art. 37 bis del D.P.R. 600/1973, e propongono di codificare e disciplinare nell’ordinamento tributario la fattispecie dell’abuso del diritto, intervenendo sulla disciplina concernente il contrasto all’elusione fiscale e prevedendo l’esclusione della rilevanza penale del comportamento abusivo o elusivo. 6.3.1 La Proposta di legge Leo A.C. 2521 Passando in rassegna gli aspetti principali della prima delle tre proposte di legge, ovvero quella del deputato Leo, atto C. 2521, si può notare come in questo caso, la proposta di legge sia diretta a codificare il divieto di abuso del diritto, così come interpretato dalla giurisprudenza, e fornire al contribuente un minimo di garanzie procedimentali affinché possa essere esercitato a pieno il diritto di difesa. Più specificatamente, la codificazione del principio dell’abuso del diritto passa in primo luogo, attraverso la riformulazione del primo comma del citato art. 37 bis nel quale viene introdotta la previsione secondo cui l’inopponibilità degli atti di cui indicati nella prima parte del comma de1l’art. 37 bis si applica solo a condizione che i comportamenti siano diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. Al riguardo, la relazione illustrativa alla proposta di legge precisa che “Il riferimento, contenuto nel comma 1, alla nozione di aggiramento di obblighi e di divieti ha un’evidente ricaduta anche dal punto di vista procedimentale. Ciò in quanto, in applicazione del medesimo comma 1, l’avviso di accertamento non potrà operare un generico e acritico riferimento alla sopra citata norma (che assume, come evidente, il carattere di norma antielusiva generale), ma dovrà individuare con chiarezza gli obblighi e i divieti aggirati dal contribuente. Conseguentemente, l’amministrazione finanziaria ha un penetrante obbligo motivazionale, in quanto essa dovrà evidenziare 78 sia il comportamento assunto dal contribuente (e le motivazioni per le quali tale comportamento configura una pratica elusiva o abusiva) sia il comportamento che correttamente il contribuente avrebbe dovuto tenere per non incorrere in una censura da parte del fisco”. Di notevole rilevanza, soprattutto alla luce delle considerazioni esposte sulla possibile rilevanza penale delle operazioni poste in essere in violazione del divieto di abuso del diritto, appare essere la proposta di modifica al comma 2 dell’art. 37 bis, nel quale viene previsto che a seguito della riqualificazione dell’operazione operata dall’amministrazione finanziaria non venga applicata alcuna sanzione penale. In altri termini, viene chiarito che nel caso in cui si rilevi una fattispecie elusiva o abusiva non sarà possibile applicare sanzioni penali. Dal punto di vista delle garanzie procedimentali la proposta di legge Leo modifica sensibilmente i commi 3 e 4 dell’art. 37 bis, equiparando, dal punto di vista delle garanzie procedimentali, tutte le contestazioni aventi ad oggetto l’elusione, l’aggiramento o l’abuso di norme tributarie e prevedendo che, in nessun caso le disposizioni antielusive contenute nel comma 1 possano essere applicate d’ufficio dal giudice, in mancanza di specifica e motivata contestazione nell’avviso di accertamento. Al riguardo, la relazione illustrativa precisa che con tale previsione si vuole restituire certezza al contribuente e tutelare il legittimo affidamento dello stesso, evitando così, che “l'affidamento del contribuente venga compromesso dalla rilevazione d'ufficio, da parte del giudice, del cosiddetto ‘abuso del diritto’. Ciò in quanto l'assenza della contestazione nell'atto impositivo originario renderebbe impossibile al contribuente l'adeguato esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito”. Per effetto della modifica del comma 3, scompare dal testo di legge l’attuale elencazione tassativa delle cui è possibile applicare le norme antielusive. In ragione di ciò viene proposta l’intera riformulazione del comma 8 che sancisce l’applicazione delle norme in materia di abuso alle imposte sui redditi e indirette, alle tasse ed a ogni altra prestazione avente natura tributaria, anche a carattere locale, ampliando, di fatto, l’ambito applicativo attualmente vigente. La Relazione illustrativa precisa al riguardo che “sulla base delle conclusioni interpretative cui è pervenuta la Corte di Cassazione saranno censurabili, ai sensi della normativa proposta, tutti i comportamenti elusivi o abusivi indipendentemente dal 79 comparto impositivo di riferimento”. Infine, il comma 2 dell’articolo 1 della proposta conferisce efficacia retroattiva alla novella introdotta, derogando alle disposizioni poste a tutela dei diritti del contribuente dall'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212. Tale disposizione, si legge nella Relazione, “è volta in realtà a favorire la certezza dei rapporti tra il cittadino e l'amministrazione finanziaria. Considerata, infatti, la natura delle norme che la presente proposta di legge mira ad introdurre, la loro applicazione retroattiva ai rapporti ancora pendenti (ossia per i quali non sia intervenuta una sentenza definitiva) alla data di entrata in vigore della legge evita - per quanto possibile - disparità nell'applicazione di norme aventi un carattere solo formalmente innovativo, ma sostanzialmente volte a consolidare e precisare alcuni elementi di garanzia nell'applicazione delle già vigenti misure antielusive”. 6.3.2 La proposta di legge Strizzolo A.C. 2578 Così come la precedente proposta di legge, anche questa iniziativa legislativa interviene sull’art. 37 bis del D.P.R. 600/19673, che tuttavia, diversamente dalla prima ipotesi di legge, non viene riformulato, ma solo parzialmente modificato. La prima proposta di modifica riguarda la rubrica dell’art. 37 bis, nella quale, accanto alle parole disposizioni antielusive, viene aggiunto “e per il contrasto dell’abuso del diritto”, intendendo così, sottolineare l’esigenza di colmare il vuoto legislativo e garantire la certezza del diritto. Si propone inoltre di sostituire il comma 1 dell’art. 37 bis, specificando che l’aggiramento degli obblighi e dei divieti tributari può avvenire mediante abuso del diritto. A tal proposito, viene definito cosa costituisce abuso del diritto, intendendosi come tale “l'utilizzo distorto o artificioso di una o più disposizioni di legge, precipuamente finalizzato a ottenere vantaggi fiscali illegittimi o, comunque, contrari alle finalità perseguite dalla normativa tributaria”. Dopo il comma 1 si propone di inserire il comma 1 bis diretto a salvaguardare la facoltà del contribuente di scegliere legittimamente, nel rispetto di quanto più volte affermato dalla Corte di Cassazione, le forme giuridiche negoziali che comportano 80 l’applicazione del regime d’imposizione più favorevole. Interessante appare infine le proposte di modifica dl comma 5 dell’art. 37 bis in cui viene specificato che l'obbligo di motivazione specifica dell’avviso di accertamento non deve più riguardare le giustificazioni del contribuente, bensì le circostanze di fatto per le quali si ritiene applicabile il disposto delle disposizioni antielusive di cui al comma 1, e che si debba tener conto delle suddette giustificazioni del contribuente. Tale disposizione, si legge nella Relazione, “garantisce un uso corretto della prescrizione normativa, prevedendo la sanzione di nullità per gli accertamenti non analiticamente motivati con riferimento alle precipue circostanze di fatto, relative al singolo caso, che li hanno originati. Il preciso riferimento alla motivazione dell’avviso di accertamento, quale insostituibile fonte della pretesa, in combinazione con il puntuale richiamo alle disposizioni del comma 1, che disciplinano le ipotesi di abuso del diritto, è inteso a colmare, anche da un punto di vista procedimentale, il vuoto legislativo rilevato dalla Corte di cassazione: conseguentemente, l’abuso del diritto, non rappresentando più un principio interpretativo derivante dall’articolo 53 della Costituzione, ma configurando una precisa ipotesi elusiva, prevista e disciplinata da norme positive, non potrà più essere rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, anche senza una specifica richiesta della pubblica amministrazione, come recentemente affermato dalla Suprema Corte”. 6.3.3 La proposta di legge Jannone A.C. 2709 Così come le precedenti proposte di legge, anche questa iniziativa legislativa interviene sull’art. 37 bis del D.P.R. 600/19673, che viene parzialmente modificato. Da un sommario esame della proposta di legge si evince che essa reca disposizioni analoghe a quelle contenute nell’iniziativa legislativa del deputato Strizzolo. Le uniche differenze tra le due proposte di legge riguardano la circostanza che la proposta Jannone prevede, l’inapplicabilità di sanzioni penali in presenza di condotte abusive o elusive e l’abrogazione totale del comma 3 del vigente art. 37 bis. 81 Conclusioni Nelle pagine che precedono si è inteso affrontare, senza alcuna pretesa di completezza, il complesso tema dei rapporti tra il diritto comunitario e l’ordinamento interno attraverso l’analisi sia di alcune delle norme di origine comunitaria, che di alcuni casi pratici decisi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. È stato possibile osservare come ad oggi, il diritto comunitario, nelle sue diverse forme, ovvero sia quello che promana dalle istituzioni comunitarie che quello che proviene dai principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, in forza del principio dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione e del principio della preminenza del diritto dell’Unione sul diritto nazionale, incide in modo determinante sulla legislazione domestica dei diversi Stati membri. Tuttavia, mentre in alcuni settori della fiscalità, quali ad esempio i tributi armonizzati o il tema degli aiuti di Stato, l’incidenza delle norme comunitarie è maggiormente penetrante negli ordinamenti interni, per altre materie, come le imposte dirette, la strada appare lunga. La circostanza secondo cui gli Stati sono ancora restii a vedere limitare la propria sovranità su tale materia, rinunciandovi a favore delle Istituzioni comunitarie, rende più difficile la possibilità che in tempi brevi si arrivi all’armonizzazione anche in tale settore impositivo. Non mancano di certo, le idee, quale ad esempio, la proposta di definizione di un sistema di regole comuni per il consolidato fiscale europeo (CCCTB) che stabilisca un regime per una base imponibile comune per l’imposta sulle società e preveda le regole relative al calcolo e all'uso di tale base, che consentirebbe di evitare fenomeni di sovratassazione e doppia imposizione. Non deve essere trascurato, a tal proposito, che l’eventuale insediamento di un’impresa, presso un altro Stato membro, comporta che questa sia soggetta ad oneri amministrativi gravosi e ad elevati costi di adeguamento alla normativa interna. La CCCTB avrebbe invece, il duplice effetto di rispettare un unico regime fiscale europeo per il calcolo del loro reddito imponibile, invece che 27 regimi fiscali diversi senza incidere necessariamente, sul potere discrezionale dei paesi dell’UE riguardo alle aliquote nazionali di imposizione delle società, garantendo così, la coerenza dei regimi 82 fiscali nazionali degli Stati membri senza armonizzare le aliquote d'imposta. Un apporto determinante verso la creazione di un diritto europeo in tema di imposte dirette lo ha comunque dato, e continua a darlo, la Corte di Giustizia, che attraverso l’interpretazione delle norme comunitarie ha stabilito principi giuridici validi in tutti i paesi membri. Si tratta, come già più volte ribadito, di principi vincolanti sia per gli operatori che per i giudici domestici, che non possono, pertanto, essere disattesi, e dei quali si deve tenere conto allorché, tali soggetti sono chiamati a decidere un questione nella quale vi sia un contrasto tra una norma interna e una comunitaria, disapplicando, in tali casi, la norma domestica che risulta contrastante con il diritto dell’Unione. 83