NORMATIVA FISCALE INTERNA IN CONTRASTO CON DIRETTIVA COMUNITARIA: RESPONSABILITÀ DELLO STATO-LEGISLATORE E DIRITTO AL RISARCIMENTO EX ART. 2043 C.C. Sommario: 1. Premessa – 2. L’armonizzazione fiscale – 3. La giurisprudenza della Corte di giustizia e dei giudici interni – 4. L’intervento della Corte costituzionale – 5. I profili concernenti la responsabilità – 6. La controversia decisa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta – Conclusioni. 1. PREMESSA L'applicazione, da parte degli stati membri, delle direttive ex art. 249, comma 9, tratt. CE (Cee) ha determinato una serie di problemi interpretativi che si sono riversati in altrettante pronunce della Corte di giustizia europea e delle giurisdizioni interne ai singoli stati. Le direttive sono vincolanti per gli stati membri quanto al risultato prefissato dalle stesse mentre la predisposizione dei mezzi necessari e la scelta della forma per raggiungere quel risultato restano di competenza dei singoli stati. In linea più generale con le direttive si è cercato e si cerca di armonizzare le legislazioni nazionali, in particolare di ridurre al minimo il differenziale tra gli stati per quanto concerne l'imposizione fiscale diretta ed indiretta. Infatti agendo sulla leva fiscale è facile aggirare il principio della libera concorrenza e porre nel nulla tutti gli sforzi che, fin dalla sua istituzione, i membri della comunità economica europea hanno sostenuto e continuano a sostenere per garantire la libera circolazione delle persone e delle merci. Le direttive rivolte a tutti gli stati membri devono essere motivate e fare riferimento alle proposte ed ai pareri obbligatori richiesti. Entrano in vigore dal momento in cui vengono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della comunità ex art. 254, commi 1 e 2. Le direttive rivolte ai singoli stati invece divengono efficaci una volta perfezionatasi la notifica alla stato destinatario. Generalmente non sono direttamente applicabili ma hanno bisogno di un atto di recepimento da parte degli stati membri. Detto recepimento, di regola, avviene mediante l’emanazione di una legge comunitaria. Soltanto a questo punto possono insorgere in capo ai privati posizioni giuridiche tutelabili. Il recepimento delle direttive non può avvenire attraverso prassi amministrative o mediante l'adozione di circolari ma soltanto facendo ricorso a fonti scritte cogenti sul piano interno (CGE 6 maggio 1980, causa C-102/79; 28 febbraio 1991, causa C-131/88). Tuttavia la corte costituzionale ha ammesso la possibilità di attuare una direttiva anche attraverso un regolamento governativo. È il caso in cui lo stato si deve sostituire alle regioni inadempienti (principio di sussidiarietà). La giurisprudenza della Corte di giustizia pur riconoscendo che la direttiva comunitaria a differenza dei regolamenti non è dotata di efficacia diretta ha individuato tuttavia alcune tipologie di direttive che invece hanno carattere cogente e dirette per gli stati membri. Ad esempio le direttive che impongono agli stati membri un obbligo negativo, tendenti cioè a vietare un certo comportamento. È il caso del divieto di introdurre negli ordinamenti interni norme e prassi amministrative in contrasto con le direttive esistenti in materia. Anche le direttive dettagliate e particolareggiate (CGE 4 marzo 1999, causa C-258/97) hanno efficacia diretta negli ordinamenti interni ed il mancato rispetto di quelle direttive da parte degli stati membri fanno nascere obblighi risarcitori a favore dei privati che si ritengano lesi da detto comportamento. Obblighi risarcitori dei quali possono essere chiamati a rispondere gli organi interni degli stati competenti in materia rimasti inadempienti. Con l’art. 3B, introdotto dal Trattato di Maastricht, da un lato si sono distinte le diverse competenze rispettivamente della Comunità e degli Stati membri, e dall’altro si sono garantite le peculiarità individuali delle singole realtà nazionali attraverso un sistema basato sul principio di 1 sussidiarietà, che individua la specifica linea di demarcazione tra le competenze statali e gli atti comunitari. Il principio di sussidiarietà individuato dall’art. 3B, esprime un criterio di ripartizione verticale delle competenze; tale nuova formulazione riconosce una competenza comunitaria secondaria e limitata, in quanto la comunità può intervenire solo se gli obiettivi non possono essere conseguiti in maniera soddisfacente dagli Stati membri. Con il Trattato di Maastricht si è operato, quindi, un tentativo di ripartizione delle competenze, distinguendo, nella logica di un sistema federale, quelle esclusive della Comunità Europea, quelle concorrenti e quelle riservate agli Stati membri. 2. L’ARMONIZZAZIONE FISCALE L’armonizzazione fiscale è da sempre un obiettivo da raggiungere della comunità europea. Armonizzazione non uguaglianza di sistemi fiscali. Gli artt. dal 90 al 93 tratt. CE (Cee) disciplinano il cammino da seguire per raggiungere quell’obiettivo. In base all'art. 90 è vietato agli stati membri di gravare i prodotti provenienti dagli altri stati della comunità di imposte superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali similari. Ai sensi dell'art. 91 agli stati è riconosciuto il diritto di restituire agli operatori le imposte interne pagate all'atto dell'esportazione di merci. Si tratta dell’applicazione del principio della tassazione nel paese di destinazione attraverso il quale la comunità europea cerca di raggiungere un regime fiscale quanto più omogeneo per tutti i beni scambiati in un determinato paese a prescindere dalla loro provenienza. In stretta connessione vi è poi l'altro principio cosiddetto della non discriminazione fiscale in base al quale è vietata ogni tipo di discriminazione in base alla nazionalità. L'armonizzazione fiscale è tuttora un problema aperto. La Commissione doveva esaminare la legislazione dei singoli stati membri in materia di imposta sulla cifra d'affari, di imposte di consumo e di altre imposte indirette e poi doveva sottoporre al Consiglio una serie di proposte da deliberare all'unanimità. Era stato fissato anche un termine temporale al 31 dicembre 1992. Nonostante i progressi compiuti le legislazioni nazionali in materia fiscale sono ben lungi dalla prevista armonizzazione. Nel 1997 i ministri delle finanze hanno adottato un codice di condotta fiscale. In materia societaria ad esempio si ritengono misure potenzialmente nocive tutte quelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative di uno stato che stabiliscono un livello impositivo sostanzialmente inferiore rispetto a quello normalmente applicato. I maggiori passi avanti si sono fatti in materia d’IVA con l’abolizione delle barriere doganali con il venir meno della riscossione dell'IVA nelle importazioni intracomunitarie. Attualmente ci troviamo in un regime transitorio che prevede la tassazione ai fini d’IVA secondo il principio della tassazione nel paese di destinazione. Con la dir. cons. 19 gennaio 2001 n. 41 tale regime è stato prorogato fino al 2005. Con riferimento alle imposte dirette c'è ancora molto da fare in quanto si tratta del sistema più usato dai governi nazionali per attuare le proprie manovre economiche. Pertanto si è intervenuti soltanto con i seguenti atti: - con la dir. (CE) n. 90/434 a disciplinare il regime fiscale delle fusioni, scissioni e conferimento d'attivo tra società appartenenti a stati diversi; - con la dir. (CE) n. 90/435 si è cercato di evitare che una stessa società sia tassata quanto agli utili per due volte. Una prima volta nello stato in cui la società ha realizzato gli utili ed una seconda nello stato in cui sono stati trasferiti come conferimenti alla società controllante; - con la Convenzione "procedura arbitrale" (n. 90/436/CEE) sono state previste procedure destinate a risolvere le controversie in materia di utili di imprese consociate situate in Stati membri differenti. Occorre rilevare peraltro che l’azione della Comunità sulla legislazione nazionale in materia di imposte dirette, non essendo esplicitamente prevista dalle norme del Trattato, non può andare al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi previsti da esso e non è regolata dal principio di sussidiarietà posto dall’art. 3B. Infatti, in mancanza di una norma specifica comunitaria che riconosca una competenza specifica alla Comunità nel settore delle imposte dirette, l’art. 3B non può regolare tale 2 competenza appunto perché non prevista, né può fornire un fondamento giuridico ad un’azione della comunità nell’ambito dell’imposizione diretta. 3. LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA E DEI GIUDICI INTERNI La Corte di giustizia delle Comunità Europee - C.g.c.e. - (artt. 164-188 tratt. CE (Cee)), decide le controversie aventi ad oggetto inadempimenti degli Stati membri, illegittimità degli atti comunitari, richieste di interpretazioni, in via pregiudiziale, dei Trattati o degli atti comunitari. Essa ha giurisdizione esclusiva nei ricorsi contro atti normativi o atti di interesse generale. Il Tribunale di primo grado (art. 168 A tratt. CE (Cee)) è stato istituito con dec. Cons. 24 ottobre 1988 n. 88/951, in attuazione degli artt. 4, 11 e 26 dell'Atto Unico europeo (del 17 febbraio 1986). L’efficacia diretta assume rilevanza in materia di discriminazione fiscale, poiché il singolo può adire direttamente il giudice nazionale al fine di ottenere la tutela della propria posizione giuridica soggettiva, vantata in forza della norma comunitaria. Il riconoscimento dell’idoneità delle norme del trattato a creare diritti che i privati possono invocare anche nei rapporti reciproci, costituisce un dato originale dell’ordinamento comunitario rispetto al diritto internazionale, che contempla solo gli Stati quali soggetti di diritto. La diretta efficacia si collega strettamente ad una ulteriore qualità delle norme comunitarie, che consiste nel loro primato sulle norme interne con esse contrastanti, sia precedenti che successive, di qualsiasi rango. In caso di conflitto, il giudice nazionale deve applicare le norme comunitarie e la prevalenza di queste ultime deve intendersi nel senso che la legge interna non interferisce nella sfera soggetta alla normativa comunitaria; il limite che le norme comunitarie trovano è, però, certamente costituito dai principi fondamentali ed inderogabili della Costituzione. Nel contrasto tra diritto interno e diritto comunitario, l'applicazione di quest'ultimo avviene in via diretta, in luogo di quello interno da disapplicare e, tale disapplicazione, fa carico non solo il giudice ma anche agli organi della pubblica amministrazione e nello svolgimento della loro attività amministrativa, cioè anche d'ufficio, indipendentemente da richieste o sollecitazione di parte; con la conseguenza che ove siano stati adottati atti o provvedimenti in applicazione o in conseguenza della norma da disapplicare, deve discenderne il loro annullamento chiuse, (Cons. St., sez. IV, 18 gennaio 1996 n. 541). In virtù del rapporto di eterointegrazione tra i due ordinamenti, il giudice amministrativo non può disapplicare gli atti amministrativi nazionali contrastanti col diritto comunitario, i quali viceversa vanno impugnati nell'ordinario termine di decadenz per vizio di illegittimità-annullabilità, senza per questo che risulti leso il principio di primauté del predetto diritto, là dove la diversa forma patologica della nullità (o dell'inesistenza) risulta configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento interno è stato adottato sulla base di una norma (attributiva del potere cui esercizio è stato adottato l'atto) incompatibile (e quindi disapplicabile) col diritto comunitario, (Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2003, n. 352). 4. L’INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE La Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168 ha affermato il principio secondo il quale la diretta applicabilità, in tutto od in parte, delle prescrizioni delle direttive comunitarie non discende unicamente dalla qualificazione formale dell'atto fonte, ma richiede ulteriormente il riscontro di alcuni presupposti sostanziali: la prescrizione deve essere incondizionata (si da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati membri nella loro attuazione) e sufficientemente precisa (nel senso che la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile devono essere determinati con compiutezza, in tutti i loro elementi), ed inoltre lo Stato destinatario - nei cui confronti (e non già nei confronti di altri) il 1 2 In Foro amm. 1996, p. 110. In Foro amm. CdS 2003, p. 99. 3 singolo faccia valere tale prescrizione-deve risultare inadempiente per essere inutilmente decorso il termine previsto per dar attuazione alla direttiva. La ricognizione in concreto di tali presupposti costituisce l'esito di un'attività di interpretazione della direttiva comunitaria e delle sue singole disposizioni, che il giudice nazionale può effettuare direttamente ovvero rimettere alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 177, comma 2, del Trattato di Roma, facoltà quest'ultima che invece costituisce obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza (art. 177, comma 3, cit.), sempre che-secondo quanto ritenuto dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia (CGE 6 ottobre 1982, causa C-283/81)-il precetto della norma comunitaria non si imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla sua esegesi. Nel caso all'esame di questa Corte - la quale, ferma restando la facoltà di sollevare anch'essa questione pregiudiziale di interpretazione ai sensi dell'art. 177 cit., può procedere, al fine suddetto, alla diretta interpretazione della normativa comunitaria (come in Corte cost. n. 64 del 1990 e n. 403 del 1987, anche se talora in passato - v. ord. n. 206 del 1976 - ha demandato tale compito al giudice a quo) - risulta con chiara evidenza che l'art. 11 della direttiva del Consiglio delle Comunità Europee del 17 luglio 1969 (concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali) pone agli Stati membri una prescrizione incondizionata (perchè non lascia margine di discrezionalità ai legislatori nazionali escludendo in ogni caso la tassazione dell'emissione di obbligazioni) e sufficientemente precisa (trattandosi di un obbligo di astenersi dall'imposizione fiscale compiutamente definito e non abbisognevole di alcuna ulteriore puntualizzazione di dettaglio); risulta inoltre che lo Stato italiano non ha dato attuazione alla direttiva nel previsto termine del 10 gennaio 1972, ma solo successivamente con il nuovo testo unico sull'imposta di registro. Pertanto-in applicazione dei principi finora esposti-già nel periodo di tempo tra la scadenza del termine suddetto e l'entrata in vigore del T.U. n. 131 del 1986, nonchè anche successivamente nei limiti in cui quest'ultimo, non avendo piena efficacia retroattiva, non ha sanato ogni situazione pregressa, il contribuente poteva opporre all'amministrazione statale la diretta applicabilità della norma comunitaria contenuta nella direttiva citata ed il giudice adito in sede contenziosa era tenuto a non applicare la corrispondente norma nazionale con essa confliggente con la conseguenza di accertare la non debenza dell'imposta de qua. La Corte era chiamata a decidere se il disposto dell'art. 4, lettera e), della tariffa, parte prima, Allegato A, al D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634 (Disciplina dell'imposta di registro) - che, fino alla modifica apportata dall'art. 4 della tariffa allegata al T.U. 26 aprile 1986 n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro), ha assoggettato all'imposta di registro la (delibera di) emissione di obbligazioni da parte di società - risultasse costituzionalmente legittimo in relazione all'art. 76 Cost. per aver violato i principi posti dalla L. delega 9 ottobre 1971 n. 825 non avendo dato attuazione alla dir. cons. 17 luglio 1969 n. 335 (concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali) nella parte in cui questa (all'art. 11) escludeva da qualsiasi imposizione tributaria l'emissione di obbligazioni da parte di società. 5. I PROFILI CONCERNENTI LA RESPONSABILITÀ La fattispecie della violazione delle norme comunitarie è tema complesso che dottrina e giurisprudenza non hanno ancora sviscerato in tutte le sue implicazioni. La prima responsabilità di cui la Corte di giustizia si è occupata è quella dello stato-legislatore, per omesso o non corretto recepimento delle direttive comunitarie; si ricordano, oltre alla sentenza Francovich del 1991 anche la sentenza del 1996 Brasserie du pecheur e altre ancora. Successivamente è stata presa in considerazione la responsabilità per attività amministrativa in violazione del diritto comunitario, sia dello Stato che, in aggiunta o in alternativa, di altri soggetti pubblici substatali (sentenze Konle del 1999 ed Haim II del 2000). Infine si è giunti in epoca ancora più recente, con le sentenze Kobler e Commissione/Italia del 2003, a riconoscere la responsabilità dello Stato per atti imputabili ai giudici nazionali supremi3. 3 C. Pinotti, La responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto comunitario, Roma 25 febbraio 2005, in www.corteconti.it. 4 La Corte di giustizia ha più volte riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale derivato al cittadino dalla mancata attuazione in uno stato membro di una disposizione comunitaria, di un regolamento o di una direttiva. Il principio per il quale gli stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati dalle violazioni del diritto comunitario trova applicazione anche quando l'inadempimento contestato è riconducibile a legislatore nazionale; infatti il principio ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno stato membro qualunque sia l'organo di quest'ultimo la cui azione o omissione ha dato origine alla trasgressione. Pertanto, la circostanza che in base a normative interne l'inadempimento sia imputabile al legislatore nazionale non può compromettere le esigenze relative alla tutela dei singoli che fanno valere il diritto addotte nella riparazione del danno. Nell'ipotesi in cui una violazione del diritto comunitario da parte di uno stato membro si è imputabili al legislatore nazionale che operi in un settore nel quale esso disponga di un ampio potere discrezionale in ordine alle scelte normative, i singoli soggetti resi a detto risarcimento coloro a norma comunitaria violata sia preordinata attribuire loro diritti, la violazione si manifesta grave e ricorra un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito dai singoli 4. Il risarcimento dei danni per violazione del diritto comunitario viene riconosciuto dalla Corte di giustizia anche se l'inadempimento è imputabile ad un soggetto di larga discrezionalità (il legislatore)5. 6. LA CONTROVERSIA DECISA DALLA CORTE D ’APPELLO DI CALTANISSETTA L'art. 10 dir. (CE) 17 luglio 1969 n. 335 contiene il divieto di sottoporre ad imposizione alcune tipologie di operazioni societarie in aggiunta a quella già prevista sui conferimenti. Il legislatore italiano invece con l'art. 7 L. n. 904 del 1977 ha stabilito che le fusioni di società, di qualunque tipo, fossero soggette all'imposta di registro con l'aliquota dell'1 per cento dell'ammontare imponibile di cui all'art. 47, comma 6, D.P.R. n. 74 del 1972. Il caso in questione riguardava l'atto di fusione per incorporazione della “S. s.r.l.” e della “Ing. P. Di V. & C. s.p.a.” nella “G. s.p.a.”. Il giudice di Caltanissetta ha deciso vari motivi di appello avverso la sentenza del tribunale di Caltanissetta n. 248 del 1997 che aveva accolto la domanda di risarcimento ed aveva condannato la repubblica italiana pagamento in favore della società attrice della somma di lire 69.690.000 oltre agli interessi legali a decorrere dalla data del 24 dicembre 1991 sino al saldo. L'amministrazione, tra i vari motivi d’appello, sosteneva che il contribuente poteva astenersi dal pagare l'imposta. Il giudice d’appello ha ritenuto che tale facoltà non era data al contribuente che invece era tenuto al pagamento del tributo previsto dalla normativa vigente. Soltanto l'autorità giudiziaria ha il potere-dovere di interpretare le leggi, di sollevare questione di legittimità costituzionale ovvero disapplicare la norma interna in contrasto con le disposizioni comunitarie. Sull'eccezione di decadenza per non aver presentato istanza di rimborso nel termine di tre anni sollevata pure dall'amministrazione il giudice d'appello ha chiarito che la società appellata ha inteso far valere una azione di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. che soggiace alla prescrizione di cinque anni dal giorno in cui il fatto illecito ebbe a verificarsi. Pertanto l’appello è stato respinto e sono state poste a carico dello Stato € 4.591,87 per spese ed onorari. C’è da chiedersi se proprio fosse necessario giungere alla sentenza de qua e non fosse possibile chiudere prima la controversia accordando al contribuente il rimborso di quanto pagato in contrasto con la direttiva CEE vigente in materia. CONCLUSIONI Si è visto che la dir. (CE) n. 335 è del 1969. Il legislatore è intervenuto per adeguarsi nel 1996. Nel 2005 presso la Corte d’Appello di Caltanissetta ancora si controverte sulla restituzione delle somme pagate dal contribuente in contrasto con la citata direttiva. CGE 5 marzo 1996 n. 46, in Codice di diritto amministrativo, a cura di G. N. Carugno, Scuola superiore dell’economia e delle finanze - Master edizioni 2003 Roma, pp. 156 e ss.. 5 Trib. Caltanissetta 15 settembre 1997, in Codice di diritto amministrativo, a cura di G. N. Carugno, cit. a nt. 4, che precede. 4 5 Eppure con la circ. 10 aprile 2001 n. 38/E - Trattamento fiscale, conforme alle direttive CE, delle operazioni societarie di conferimento, fusione e cessione. Applicabilità dell'art. 10, comma 5, lettera c), D.L. 26 giugno 1996, n.323, convertito dalla L. 8 agosto 1996, n. 425 - l’Amministrazione finanziaria ha preso atto che le norme comunitarie, ove siano chiare, precise e non sottoposte a condizioni né al potere discrezionale degli stati membri o delle istituzioni comunitarie, hanno carattere cogente, imponendo se non attuate la disapplicazione delle disposizioni nazionali ad esse contrarie. Pertanto l'imposta proporzionale di registro applicata nella misura dell'1 per cento, in luogo di quella fissa di lire 250.000, agli atti societari posti in essere anteriormente al 20 giugno 1996 data di entrata in vigore del succitato art. 10 D.L. n. 323 del 1996 deve essere rimborsata. Nella circolare poi si fa riferimento ad una serie di fattispecie a cui il rimborso non si applica. La circolare termina con la previsione che il contribuente debba presentare istanza di rimborso a pena di decadenza entro tre anni dal giorno del pagamento ovvero se posteriore da quello in cui è sorto il diritto alla restituzione. Ecco forse spiegato l’arcano di Caltanissetta. L’imposta è stata pagata nel 1991. Il ricorso al giudice ordinario è stato presentato nel 1996 nel termine prescrizionale di cinque anni probabilmente in quanto il contribuente era decaduto dalla facoltà di presentare istanza di rimborso. Paolo Bevilacqua Funzionario tributario 6