2. Breve storia dello spettacolo
A “storia dello spettacolo” si è aggiunto l’aggettivo “breve”: forse si poteva
anche dire “parziale” o “mirata”!
Questa storia ha oltre 2500 anni, ma solo nell’ultimo secolo si è arricchita di forme e discipline diverse, quasi tutte sottoponibili a un processo di
serializzazione (il cinema, la televisione, la musica riprodotta ecc.) rispetto
alle originarie forme dal vivo, quindi irriproducibili (il teatro e la festa).
La “parzialità” discende da una scelta precisa: non si ritiene che l’operatore professionale del turismo debba avere conoscenze di questa storia così
approfondite come quelle di un classico operatore dello spettacolo; si è
insistito pertanto, nell’approfondimento delle fasi storiche, su quelle che
naturalmente, e per personale esperienza e convinzione di chi scrive, manifestano possibilità d’uso più vivaci nelle strategie di marketing turisticoterritoriale (indicando peraltro in bibliografia amplissime possibilità di approfondimento di questa materia).
Per esempio: si ritiene che il fenomeno della Commedia dell’Arte presenti opportunità d’incontro con l’attività di animazione turistica e territoriale assai più ricche rispetto al teatro psicologico dell’Ottocento!
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S
inché lo spettacolo è “atto di culto” o rito, ne esiste un solo genere e la
sua storia corrisponde alla storia del teatro.
Nei millenni esso elabora forme tra loro diversissime, fino a quelle contemporanee che adoperano strumenti meccanici per riprodurre e interpretare la
realtà, come il cinema o la televisione. Rimane comunque sottesa all’attività di
chi fa professionalmente teatro una forte aspirazione all’unità e dal suo ritorno
alle origini esso trae costantemente vita ed energia.
Il teatro conosce, nel suo evolversi, si è detto, forme diverse: se ne accennerà al maggior numero possibile, ma per una più completa conoscenza della
storia di questo fenomeno si invita a far riferimento a pubblicazioni già esistenti;
tra queste si indicano A. Attisani, 1989 oppure L. Chancerel, 1967 (vedi bibliografia).
Alcune fasi della storia del teatro risultano particolarmente coerenti col tipo
di sapere che è richiesto da una specializzazione universitaria come questa. Se
si indagherà sugli elementi comuni a queste varie fasi, si scoprirà che avranno
per noi particolare rilevanza quelle forme teatrali (e quindi quelle fasi della
storia del teatro) che coniugheranno la natura popolare della disciplina, la sua
natura festiva e la sua gratuità (o quantomeno il fatto che la produzione degli
eventi fosse a carico della collettività, almeno quando essa socialmente si manifesta) e infine il fatto che la scena fosse posta in un luogo di autoriconoscimento del gruppo sociale, quindi in un luogo pubblico e accessibile a tutti; non
ultimo elemento, il suo legame con la condizione delle origini, ovvero la sua
natura di culto. Su questi argomenti ci si soffermerà comunque di volta in volta,
per ritornarvi allorché si affronteranno argomenti come la festa, il tempo e il
luogo dello spettacolo, gli aspetti economici e giuridici eccetera.
Le fasi della storia del teatro che rispondono a queste caratteristiche e che
pertanto ci interessano particolarmente riguardano l’esperienza ellenica, quella
dell’Europa medioevale, il Rinascimento, quella principesca del ’500 e del ’600,
la Commedia dell’Arte (che ci conduce sino alla metà del ’700) e infine il coacervo di esperienze e “recuperi” del ’900. Si cercherà di creare situazioni di
collegamento tra le diverse fasi, ma, si ripete, per una più organica indagine
sugli sviluppi storici della disciplina, sarà opportuno documentarsi sui testi
menzionati sopra (o su altri indicati in bibliografia).
Queste forme e fasi storiche sono da privilegiare perché, se si vorranno
utilizzare con finalità turistiche e territoriali le discipline dello spettacolo, sarà
ad esse che converrà fare riferimento, sia in termini produttivi che linguistici: se
sarà infatti possibile costruire o promuovere eventi spettacolari nell’ambito dell’incoming, si scoprirà che necessariamente l’offerta territoriale si arricchirà, in
maniera fortemente caratterizzata, grazie a queste particolari forme di attività
spettacolare. Più brevemente: molto difficilmente si potrà definire il rapporto
tra un territorio e la sua storia (quindi le sue peculiarità) prescindendo dal
teatro. Alla fine del nostro percorso capiremo perché.
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Breve storia dello spettacolo
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La nascita del teatro nella civiltà greca
Prima di cominciare a parlare di quanto e quando accadde, conviene sgombrare il campo da alcuni equivoci diffusi: il teatro greco è un fenomeno di tale
rilevanza e di conoscenza così diffusa talché tutti ne parlano liberamente dicendo talora anche qualche imprecisione. L’immagine più diffusa, quasi infantile,
che se ne offre è quella di descrivere Eschilo che compone le proprie tragedie,
poi le mette in scena, recitandole lui stesso, in grandi teatri di pietra (come
quelli che ci ha restituito l’archeologia in tutto il Mediterraneo), illuminati da
grandi torce e fuochi, calzando alti coturni, di fronte a un pubblico pensoso e
“impegnato”, come quello che frequenta oggi i teatri, in qualsiasi stagione,
purché non piovesse, ripetendo lo spettacolo ogni sera.
In realtà tra Eschilo e i grandi teatri di pietra (e anche tutto il resto, dai
coturni alle repliche) passano almeno due secoli e mezzo! I grandi teatri non
sono altro che il segno della decadenza di questa disciplina in Grecia, il sintomo
dello spostamento dell’attenzione di un popolo e dei suoi governanti da quanto
accadeva sulla scena (il drama, il vero teatro) a dove la scena era posta (l’edificio teatrale): è in qualche modo l’allarmante fenomeno che si manifesta, ad
esempio in Italia, da cinquanta anni a questa parte.
Dunque: tra l’VIII e il VII secolo prima di Cristo finisce di compiersi in
Grecia quel lunghissimo processo di trasformazione del rito in spettacolo di cui
si è parlato in precedenza in termini generali. La teatralità perde progressivamente la sua matrice religiosa per secolarizzarsi e rendersi coerente con la
società politica e civile che la esprimeva. La Grecia, e in particolare Atene,
realizza processi assolutamente originali da questo punto di vista: in essa nasce
una nuova forma di gestione del potere, della cosa pubblica, la democrazia,
pur se diversa da come la concepiamo noi oggi; si trattava infatti di una democrazia aristocratica, fondata su una sorta di religio (ossia su di un legame culturale della collettività), che presupponeva l’esistenza di una libera adesione ad
essa da parte dei cittadini (il consenso): non vigeva più soltanto e semplicemente “la legge del più forte”, com’era stato ovunque sino ad allora, ma iniziava a
manifestarsi “la legge del più giusto”, come disse lo stesso Platone.
L’esistenza di un regime democratico presupponeva, si è detto, l’esistenza
del consenso politico da parte dei cittadini: il teatro, il cui presupposto storico e
mitico era proprio quello di una religio collettiva, diventa il massimo veicolo di
controllo di questo consenso, un po’ come sono oggi l’editoria e la televisione.
Esso diventa luogo di trasmissione del sapere (e quindi del potere), attraverso
l’esplicitazione di questa religio, ossia di una comune visione del mondo espressa
ed enfatizzata proprio dalle opere teatrali.
Non bisogna pensare però al teatro greco come a una disciplina espressiva
venduta o assoggettata al potere tout court: i valori che esso celebrava (appunto
questa religio) erano reali valori comuni della collettività e non principi surrettiziamente introdotti dai potenti o da essi commissionati agli artisti perché li
introducessero nella società attraverso il grimaldello dell’arte.
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12 Capitolo 2
Di fatto il teatro, e il contesto festivo e logistico nel quale si realizzava,
impegnava ingenti risorse economiche pubbliche e private, generava corporazioni professionali assai potenti, disegnava l’opportunità di nuove professioni
(l’attore, il tecnico, l’artigiano, l’autore, il regista, il coreuta, il musicista eccetera), sino ad allora assenti non solo nelle società arcaiche ma anche nella stessa
società greca.
Vediamo, comunque, come si realizzava in Grecia il teatro, individuando la
collocazione temporale delle sue forme all’apogeo della civiltà ellenica, cioè
nell’Atene di Pericle, nel V secolo a.C., dopo la cacciata degli invasori Persiani e
la distruzione e ricostruzione della città.
Esso non era, come oggi, una disciplina espressiva completamente autonoma: la sua effettuazione era connessa al tempo della festa. Ma quale festa? Molte
erano nella Grecia di allora le feste dedicate a culti diversi, a dei, a eroi; ad
esempio le Olimpiadi, che si celebravano ogni quattro anni a Olimpia, le feste
Pitiche celebrate a Delfo, quelle Istmiche a Corinto, quelle Nemee a Fliunte; ma
ancora maggiore importanza ebbero, per la nascita del teatro, le feste orfiche
(dedicate al culto di Orfeo, basato sul principio del progressivo raggiungimento
dell’indipendenza dell’anima dal corpo) e quelle dionisiache (dedicate al culto
di Dioniso, dio dell’estasi, della fertilità e del vino, Bacco nella cultura latina).
In occasione di queste festività, che vedevano un concorso impressionante
ed entusiasta di popolo in forma assolutamente interclassista, venivano allestite
rappresentazioni che evocavano il dio celebrato: protagonisti di queste rappresentazioni erano il coro (guidato da un corifeo) e quella sorta di sacerdotenarratore di cui si è parlato anche in precedenza. L’argomento delle rappresentazioni era mitologico: vi si parlava delle gesta del dio, della sua nascita, della
sua morte, dei suoi amori, del suo valore in battaglia.
Queste feste vennero arricchite, pare per iniziativa del tiranno ateniese Pisistrato, verso la fine del VI secolo (qualcuno dice che il primo si sia tenuto nel
535 a.C.), dell’agone drammatico, una vera e propria gara teatrale, dotata di
premi anche ricchi, che vedeva impegnati dei poeti (gli autori dei testi rappresentati), che inizialmente, oltre alla stesura del testo, curavano la regia dello
spettacolo e vi interpretavano anche dei personaggi. Nella festa la componente
teatrale assunse col tempo sempre maggiore rilevanza, tanto da marginalizzare
qualunque altra componente.
La struttura della festa era più o meno questa: il pubblico si recava all’alba
nel luogo della rappresentazione (meglio, delle rappresentazioni) in maniera
spontanea e indistinta, recando con sé cibo e bevande, visto che la prospettiva
era quella di trascorrere lì l’intera giornata. Il luogo delle rappresentazioni era
una rozza arena, dotata di scena in legno e, nel migliore dei casi, di tribune per
il pubblico, sempre in legno; spesso, specialmente in occasione delle feste
dionisiache ad Atene, in prossimità o all’interno di essa era collocato l’altare del
dio evocato; il luogo era assai grande, se riusciva a contenere, come viene
riferito, fino a quindicimila persone.
I primi fatti del mattino erano la messa in scena delle tragedie, in numero di
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una al giorno (in totale erano tre e ognuna aveva una durata rigidamente definita dall’organizzazione e uguale per tutti, tale da impegnare non più dell’intero
mattino); poi veniva lasciato spazio al cibo: durante il pasto, che veniva consumato comunitariamente, gli spettatori commentavano e discutevano di quanto
avevano visto (ricordate ...spectare..., cioè guardare, vedere!); nel pomeriggio,
quando l’attenzione del pubblico scemava, si rappresentavano le commedie e
gli altri tipi più leggeri di spettacolo. Al tramonto dell’ultimo giorno, dopo la
proclamazione del vincitore dell’agone drammatico a opera di una giuria fatta
di esperti e anche di pubblico normale, tutti rientravano nelle loro case.
Sarà bene tenere presente - in particolare ci serve per spiegare la nascita del
teatro cosiddetto moderno in quell’epoca - che queste feste (ricordiamolo, assai
costose; più avanti si vedrà come venivano pagate) si tenevano solo nelle principali città, non a caso le più ricche: ciò non toglie che anche nei paesi, nelle
campagne e nelle città minori esse venissero celebrate. Certamente, in questi
luoghi, era più difficile procurarsi (cioè pagare) gli artisti in grado di mettere in
scena le rappresentazioni teatrali. Per questo nacquero delle formazioni itineranti di piccoli professionisti del teatro che, senza particolari pretese, mettevano
in scena, in forme ridotte e per un pubblico più semplice, le gesta del dio
celebrato, spesso attingendo dal loro ricchissimo repertorio di situazioni e battute. Queste micro compagnie teatrali giravano su carretti che, in occasione
delle rappresentazioni, diventavano palcoscenici sopraelevati, così da consentire a tutti di vedere. Queste rappresentazioni si tenevano sulle aie o nelle piazze
dei paesi, in luoghi cioè privi di tribune, talché il pubblico doveva assistervi
stando in piedi o seduto per terra.
L’animatore di una di queste compagnie fu Tespi, un poeta e attore che
visse appunto nel VI secolo a.C.: a lui viene attribuita una riforma del processo
spettacolare che rivoluziona realmente la materia (qualcuno parla del carro di
Tespi come del fenomeno che origina il teatro; questo è stato, ad esempio, nei
secoli, il nome più utilizzato da compagnie teatrali di qualsiasi nazionalità).
Tespi, in quanto personaggio scenico, si stacca dal coro e parla con esso,
interpretando il dio Dioniso (del cui culto egli era un adepto) nelle diverse
circostanze rappresentate: nasce così il dialogo teatrale e con esso un nuovo
modo di scrivere e fare teatro; gli autori non si preoccupano più soltanto della
canzone, dell’ode, della poesia del coro ditirambico, ma immaginano un’azione, uno sviluppo del pensiero e della storia espresso appunto dal dialogo. Nello
sviluppo drammatico successivo (che vedrà la presenza di un numero sempre
maggiore di personaggi) l’interprete principale sarà il protagonista, il suo avversario l’antagonista, il personaggio di supporto al protagonista sarà il deuteragonista: si veda come il concetto di agone, cioè di gara, sia insito fortemente
nell’attività teatrale dei greci!
Qui vale la pena di aprire una breve parentesi che speriamo esplicativa, pur
servendoci di un paragone paradossale: bisogna pensare l’attività teatrale dell’antichità greca come qualcosa dotato di una valenza assai simile a quella della
partita di calcio contemporanea. Si vedano le similitudini: è in atto una gara non
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cruenta, che si conclude con la vittoria o la sconfitta, ma senza la morte fisica, di
uno dei contendenti; la segue un pubblico enorme, che è unito da un fondamentale elemento comune: la competenza, ossia la conoscenza delle regole; la
collettività contemporanea si identifica nel suo campione (o nel suo gruppo di
campioni) tanto quanto quella ateniese si identificava nel coro che parlava con
il dio. Si sottolinea questo, perché sia ben chiaro che in ogni società vive il
senso e il bisogno della gara e dell’identificazione col protagonista o l’antagonista: ciò è tipico oggi del teatro e anche dei mezzi di comunicazione più diffusi,
come il cinema e la televisione ... ma torniamo ad Atene!
Gli specialisti discettano se questa rivoluzionaria trasformazione dell’azione
scenica sia stata solo e soltanto opera di Tespi o se sia stata perfezionata dal suo
successore Frinico, il massimo poeta drammatico della generazione successiva
a Tespi. Sta di fatto che, chiunque sia stato il grande riformatore, Frinico vive a
cavallo tra il VI e il V secolo a.C. ed è parte della generazione precedente a
quella di Eschilo, il primo grande autore drammatico dell’antica Grecia e uno
dei più grandi tragici della storia mondiale del teatro. Ciò che preme sottolineare è il risultato di questa trasformazione: il rito, succedaneo dell’atto di culto
originario, tende a perdere il suo senso puramente religioso per secolarizzarsi e
trasformarsi in “spettacolo di argomento religioso”, in una rilettura laica del mito
dell’origine degli dei (o del dio) e dell’uomo; la dimensione magica della teatralità delle origini perde progressivamente questa sua peculiarità: essa verrà trasformandosi, negli anni, in una narrazione nella quale gli dei somiglieranno
sempre di più agli uomini; con Euripide, addirittura, le vicende degli dei si
coloreranno di connotati psicologici assolutamente umani, tanto da far scomparire la distinzione narrativa tra umano e divino e riportare tutto, simbolicamente, sulla terra, facendo dell’uomo la vera divinità.
Prima di parlare di Eschilo, e di Sofocle, Euripide, Aristofane, nonché degli
altri grandi autori teatrali di quei secoli, vale forse la pena di soffermarsi brevemente su quelle che erano le modalità organizzative delle feste e degli agoni
teatrali, perché questo ci fa comprendere quali fossero i legami (fortissimi, in
verità) tra la pratica del teatro e l’organizzazione socio-politica della polis, la
città-stato degli ateniesi ma anche di tutti gli altri greci. Sull’argomento, comunque, si tornerà in maniera più approfondita.
Responsabile organizzativo ed economico della festa e dell’agone teatrale è
l’arconte, il capo annuale della polis: a lui devono rivolgersi i drammaturghi che
intendono partecipare alla gara. Essi vengono da lui selezionati in numero di
tre; alle spese provvede lo stato in collaborazione con un cittadino particolarmente facoltoso (uno per ogni drammaturgo selezionato): quello che oggi si
direbbe una specie di sponsor! La divisione delle spese avviene più o meno
così: lo stato mette a disposizione di ogni drammaturgo una cifra minima fissata
per legge; il coro (in numero di componenti variabile – si passa dai 12/15
componenti originari a oltre 50) con il suo istruttore, i musicanti, la scenografia
sono invece a carico dello sponsor, che può investire la cifra che meglio crede;
il drammaturgo, quantomeno inizialmente, svolge funzioni di autore, regista e
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interprete, oltre che, spesso, di compositore, realizzando in pratica un coordinamento generale della produzione.
Questa parentesi non è aperta a caso: il concorso economico pubblicoprivato che, a seconda delle diverse fasi, è prevalente ora in un senso ora
nell’altro, rimanda a una distinzione fondamentale; quanto più il teatro tende a
essere veicolo della trasmissione dei valori della religio, quel patrimonio culturale comune a tutti i cittadini, tanto più l’intervento dello stato sarà importante e
decisivo; quanto più lo spettacolo si laicizzerà, divenendo via via sempre più
simile a quello che noi oggi chiamiamo intrattenimento, tanto più l’intervento
dei privati sarà decisivo e importante.
Grosso modo la prima fase dell’esperienza teatrale dei greci (quella che noi
individuiamo nel periodo che va dal VI al IV secolo a.C.) è segnata da una
prevalenza dell’intervento pubblico, cioè dello stato; la fase successiva, quella
che si incentra fondamentalmente sul periodo dell’ellenismo (III e II secolo
a.C.), vede la prevalenza dell’intervento privato: questo fenomeno ha straordinarie attinenze con l’attualità, che vede la tendenza a caricare su soggetti privati
il peso economico del teatro e delle attività culturali in generale. Ma anche su
questo si ritornerà!
Il V secolo a.C. è quello che si può definire il secolo d’oro della drammaturgia e del teatro greco: è il secolo, appunto, della grande tragedia, di Eschilo, di
Sofocle e di Euripide.
Pronunciare questi tre nomi equivarrebbe oggi, in ambito letterario, a dire
Dante, Shakespeare e Goethe: solo che i primi vedono la loro esperienza concentrata all’interno di un secolo, mentre i secondi manifestano lo sviluppo della
loro azione artistica in ben sei secoli; inoltre i secondi vengono da differenti
paesi d’Europa, i primi tutti dalla stessa città! Questo dice che la grandezza
dell’esperienza teatrale ateniese, che si è tentati talvolta di pensare sviluppata
sul lungo periodo, risulta invece, storicamente, estremamente concentrata, per
di più con evidenti caratteri effimeri, come è poi connaturato alla teatralità.
Eschilo nacque a Eleusi, non si sa se il 525 o il 524 a.C.; fondamentale, nella
sua esperienza di vita e anche nella formazione del suo sistema di pensiero,
risulta la sua diretta partecipazione alle guerre persiane, ossia a quelle guerre
dalle quali la Grecia (o quantomeno le sue città) esce come paese libero, forte
e dotato di un bagaglio culturale e di una visione dello stato destinati a determinare gli assetti della cultura dell’Occidente per interi millenni e comunque,
certamente, sino a oggi. Egli combatté le due più celebri e decisive battaglie di
quell’epopea: a Maratona, che vide la sconfitta dell’invasore Dario, e a Salamina, la battaglia navale nella quale i Greci riscattarono la sconfitta delle Termopili
e il devastante incendio di Atene, all’epoca costruita per la massima parte da
edifici di legno.
Egli è il classico autore che provvede a tutti gli aspetti della produzione
teatrale: scrive il testo, lo recita, cura la regia, segue minuziosamente anche
aspetti che parrebbero marginali, ma che risultano invece enormi passi avanti
nel processo di riforma della pratica teatrale. Nelle sue opere, oltre al coro, a
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volte costituito da un numero imponente di coreuti (fino a 50), appaiono sempre almeno due attori, il che prevede una mobilità dell’azione drammatica alla
quale, sino ad allora, non si era abituati; inoltre cura con particolarissima attenzione la maschera, che risulterà un elemento di fondamentale importanza nel
percorso di modifica del teatro. Eschilo non recita le sue tragedie nei grandi
teatri di pietra che si è abituati a vedere diffusi in tutta l’area mediterranea:
quelli arriveranno circa due secoli dopo; recita ad Atene, in quello che si disse
il teatro di Dioniso, struttura in cui tutte le componenti architettoniche erano
fatte in legno, ma che già comprendeva uno spazio riservato all’orchestra, collocato tra la scena e gli spettatori; non recitava ancora sollevato sui coturni,
quelle grandi calzature che in qualche modo somigliano ai trampoli contemporanei: anch’essi appariranno nella fase manieristica dell’ellenismo. Il suo lavoro
sulla maschera ha particolare rilevanza: essa era uno strumento di scena essenzialmente destinato a distinguere i personaggi femminili da quelli maschili, visto che in realtà solo gli uomini potevano dedicarsi all’attività teatrale e quindi
interpretavano anche i ruoli femminili. La maschera femminile era chiara mentre quella maschile era scura; prima della sua introduzione gli attori (come
Tespi) si dipingevano il volto di bianco o usavano rudimentali maschere di
sughero. Essa è certamente un portato della fase di culto e rituale del teatro,
quando l’apparizione della divinità evocata avveniva a opera di un attore (o
direttamente del sacerdote) con il volto coperto da una maschera immobile:
ciò, anche nella fase della tragedia eschilea, non comportava problemi espressivi, in quanto la recitazione non tendeva a sottolineare gli aspetti psicologici
del comportamento di un personaggio ma solo la sua presenza epica in scena.
Eschilo ne cura con grande attenzione la realizzazione, affidandosi ad artigiani
che si specializzano nella sua costruzione, costituendo una sorta di industria
parallela a quella dell’attività di produzione teatrale. La maschera consentiva
inoltre a un attore di cambiare personaggio nel corso della recita: la sua realizzazione comportava quindi, da parte dell’artigiano su suggerimento dell’autore,
la caratterizzazione del soggetto evocato o rappresentato in senso comico o
tragico, maschile o femminile, giovane o vecchio, ricco o povero, umile o potente.
Le principali tragedie di Eschilo che ci sono giunte, meno del 10% della sua
produzione complessiva, sono l’Orestea (una trilogia comprendente Agamennone, Coefore ed Eumenidi), Supplici, Persiani, Sette contro Tebe e Prometeo
incatenato. Le sue opere parlano spesso di eventi a lui coevi; in esse il rapporto tra l’uomo e la divinità è ancora presente come rapporto fisico e deterministico e non ancora come rapporto ideologico o culturale: ne è un esempio
lampante l’intervento della divinità a modificare una decisione dell’Areopago
(il tribunale ateniese) nelle Eumenidi. Di particolare rilevanza e originalità
risultano i Persiani: in essa si narra la vicenda delle guerre di conquista della
Grecia, come si sa fallite, dal punto di vista degli sconfitti; se questo può
apparire oggi assolutamente normale, si qualificava invece per l’epoca come
grande segno di originalità e di indipendenza dai valori della retorica naziona-
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le dopo la grande vittoria; ciò pare gli inimicasse, ancor prima della sua salita
al potere, la figura di Pericle.
Partecipò a molti agoni drammatici, sembra a partire dal 498 a.C., ma vinse
il suo primo premio solo una quindicina di anni dopo. Il suo più grande successo fu l’Orestea, che rappresentò in occasione delle feste dionisiache del 458
a.C.: gli dette fama mondiale (che ai tempi significava mediterranea) e lo fece
chiamare in diverse corti e città a rappresentare le sue opere. In occasione di un
suo soggiorno in Sicilia, dove forse ebbe l’intenzione di trasferirsi per evitare la
concomitanza della sua attività con il dominio di Pericle, morì, pare a Gela, nel
456 o 455 a.C.
Malgrado la straordinaria grandezza della sua opera, il suo successo presso
i contemporanei non fu pari a quello che in seguito la storia gli ha attribuito.
Sofocle, ad esempio, lo sconfisse più volte in occasione degli agoni drammatici
ai quali presero parte insieme; egli venne riconosciuto come autore sommo,
forse il più grande, solo in epoca ellenistica, quando il suo repertorio venne
rappresentato stabilmente non solo in Grecia ma in tutto il Mediterraneo. Sebbene siano trascorsi duemilacinquecento anni, è uno degli autori più e meglio
rappresentati della scena contemporanea.
Sofocle nasce ad Atene da famiglia abbiente circa 30 anni dopo Eschilo (497
a.C.): quando questi partecipa al suo primo agone drammatico, Sofocle non è
ancora nato, ma i due si scontreranno spesso sulla scena, dove quest’ultimo
prevarrà, riportando per ben 18 volte il primo premio.
Egli visse l’epoca più felice, dal punto di vista sociale ed economico, della
democrazia ateniese, quella di Pericle, di cui fu amico e fiduciario; strinse amicizia anche con i maggiori artisti e intellettuali dell’epoca, dallo scultore Fidia
allo storico Erodoto.
Anche di lui ci giunge una minima parte dell’imponente produzione drammatica, solo sette tragedie su oltre novanta scritte. Sono: Aiace, Antigone, Le
Trachinie, Edipo re, Filottete, Elettra ed Edipo a Colono.
Sofocle procede nella riforma del teatro in atto a partire da Tespi e da
Eschilo: riveste per la prima volta esclusivamente il ruolo di autore, astenendosi
dalla recitazione, quindi avvicinandosi alla funzione moderna del drammaturgo; utilizza più attori oltre al coro, immettendo il terzo e, non recitando lui,
comincia a costituire un organico “artistico” cospicuo; privilegia il dialogo tra i
personaggi principali, marginalizzando lentamente il coro; annette particolarissima rilevanza alla scenografia, limitata allora a quello che oggi chiamiamo il
fondale. Ma, con spericolato sperimentalismo, rompe definitivamente l’unità di
luogo, ambientando le azioni, all’interno della stessa opera, in posti diversi:
questi sono segnalati agli spettatori dal ruotare di due prismi triangolari speculari posti ai lati della scena, sulle facce dei quali sono rappresentati simbolicamente i luoghi interessati dall’azione, ad esempio l’interno di un palazzo o di
una casa, la foresta, la spiaggia, la piazza della città, il porto, il mercato eccetera.
Utilizza la parte finale delle sue opere in modo sorprendente per il pubblico: la narrazione della vicenda che si snoda non suggerisce assolutamente come
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questa andrà a finire; inventa in pratica il colpo di scena finale, al termine di un
processo narrativo che nel cinema e in letteratura si definisce la suspence; risulta chiaro che con lui il teatro si avvia alla conquista di una specificità spettacolare ed espressiva autonoma dalla narrazione del mito e dal contesto religioso e
pseudo-religioso nel quale era immerso sino a quel momento: questo prevede
un nuovo professionismo della scena e Sofocle ne è il primo, rinnovato e rivoluzionario interprete; questo professionismo parte dalla funzione di autore, quindi da quella della scrittura, per giungere alle più specifiche attività di messa in
scena ed espressive.
La sua ultima opera è Edipo a Colono, che scrive all’età di novant’anni; è
un’opera dolorosa e potremmo dire terminale, non solo della sua singola esistenza ma anche di un secolo (il V a.C.) in cui Atene e la Grecia si costituiscono
a modello di funzionamento delle società coeve e a venire: un vero e proprio
testamento spirituale e culturale contraddistinto dalla modernità del dolore generato dalla ricerca. È il problema del rapporto tra anima e corpo quello che
vi emerge, il conflitto tra realtà materiale e aspirazione spirituale: Sofocle tenta
di risolverlo in chiave di armonia tra le due componenti, ma in realtà questo
non è un patrimonio della cultura occidentale, di cui l’Atene di allora è la culla,
quanto piuttosto un traguardo raggiunto dalle filosofie e religioni d’Oriente. Il
problema è però drammaticamente avvertito dall’autore, che comprende l’impotenza dell’uomo (e quindi in qualche modo il parziale fallimento dell’esperienza ellenica) di fronte a questo bivio: non a caso il coro, nel corso della
rappresentazione, ripete più volte che l’uomo non dovrebbe nascere o dovrebbe morire subito dopo la giovinezza, così da non assistere alla corruzione del
corpo.
Sofocle manifesta infine un’intuizione assolutamente moderna, riguardante
la necessità per l’artista di coltivare buoni rapporti con il potere politico: tra i tre
grandi tragici è colui che, attraverso il rapporto con Pericle, lo fa meglio.
Euripide è cronologicamente l’ultimo dei tre: nasce presumibilmente nel
485 a.C. ad Atene da un proprietario terriero. Con lui la tragedia consuma il
definitivo distacco dal mondo del mito e degli dei: in sintesi il teatro si stacca in
forma definitiva dalla sua fase rituale per diventare a tutti gli effetti sofisticata e
raffinata forma di spettacolo.
Il coro, questa sorta di voce dell’altra dimensione, degli dei e del tempo, del
passato e della memoria, vede ridotta ulteriormente la propria funzione a favore
dell’intreccio dell’azione tra i singoli personaggi, che aumentano di numero,
dando definitivo spazio alla creazione teatrale come arte autonoma: ed è proprio nell’apogeo della teatralità e della floridezza della civiltà ateniese che si
manifestano i primi segni della corruzione di una idea di stato, di cultura, di
vita, di un sistema di rapporto col divino che aveva segnato in maniera assolutamente originale e immortale l’esperienza ellenica.
Euripide, più degli altri, è interprete di questa crisi: sulla scena allarga la
funzione dei valori scenografici e d’effetto, introduce la macchina teatrale,
un marchingegno mosso dagli uomini (talora dal suo interno) tendente a
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rappresentare l’irrappresentabile, attingendo quindi a vertici assoluti in termini di cattura dell’attenzione del pubblico, di fascinazione e di stupore;
allarga ulteriormente e solidifica definitivamente la scelta dell’intreccio psicologico: i protagonisti della vicenda narrata ormai sono solo uomini, per di
più attanagliati dalla sofferenza, dalla difficoltà di rispondere alle domande,
dalla furia dell’impotenza.
Le sue opere più importanti giunteci, molto poche rispetto a quelle scritte,
sono Medea, Le Troiane, Elettra e Le Baccanti. I suoi personaggi non sono
uomini e donne consolati dalla presenza della fede, dalla certezza del mito:
sono figure sole, insidiate dalla vita, che costituiscono una straordinaria anticipazione, un vero e proprio annuncio della modernità in concomitanza con la
crisi definitiva del sistema ateniese.
Lo stato comincia a manifestare qualche disinteresse nei confronti dell’agone drammatico e riduce il suo impegno economico; il suo posto viene preso dai
privati, che lo usano per finalità personali, per lo più di autopromozione politica e come segno distintivo dal punto di vista sociale ed economico (oggi diremmo come status symbol): l’esperienza della grande tragedia greca va a chiudersi,
lasciandoci un uso teatrale completamente trasformato, una abitudine del popolo a goderne sempre più in chiave di intrattenimento piuttosto che in chiave
di momento di autoriconoscimento sociale e culturale della collettività. Dalla
piccola tribù delle origini, che si riuniva intorno al fuoco per pregare i propri
dei e narrare le proprie storie e memorie, si è giunti a una grande collettività che
utilizza il teatro come divertimento, non nel senso convenzionale e moderno di
“comicità” (anche se vedremo di qui a poco quale importanza verrà a rivestire
la commedia) ma nel senso etimologico di divertere, ossia indirizzare altrimenti il corso della propria giornata o addirittura della propria vita, spesso per
dimenticare quanto non si ama ricordare: e questo è fatto ben noto al potere e
agli uomini di ieri e di oggi!
Il grande secolo della tragedia, pertanto, si compie e lascia al mondo una
teatralità strutturata che vivrà gloriosamente per millenni, togliendo quello stesso mondo da una sorta di condizione delle origini che non tornerà più e che si
ripresenterà solo talvolta, qua e là, nella storia del teatro e dell’uomo: finisce il
tempo dell’uomo-bambino, che vive a tu per tu con gli dei, e nasce quello di un
uomo che progressivamente conquista una condizione di coscienza sociale e
individuale moderna, che vive immerso nella materialità, che ormai molto bene
e molto in fretta ha compreso le regole della storia.
Nel teatro greco dopo Euripide il solo grande autore sarà Aristofane e dopo
di lui vivrà solo la commedia.
Aristofane nacque vicino ad Atene nel 445 a.C. e in città visse la fase cruciale del crollo della democrazia periclea. Realizza per primo il genere comico in
teatro. Partecipa sì alle feste dionisiache e ai relativi agoni drammatici e lavora
pertanto nel grande teatro di Dioniso, quello che contiene fino a quindicimila
persone; ma lavora anche per allestimenti che si realizzano in un teatro più
piccolo, il Leneo (vedi figura 2.1), che ne contiene solo duemila, un po’ come
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20 Capitolo 2
Resti della scena
“Teatro di Dioniso
nella palude”
Altare di Dioniso
Teatro Leneo
Platea
Resti della scena
Figura 2.1 Ricostruzione in pianta del teatro Leneo di Atene (circa V secolo a.C.).
Vi lavorò molto Aristofane nei periodi nei quali il teatro di Dioniso
non veniva utilizzato. Nella parte in alto a destra è ricostruita un’altra
area teatrale sacralizzata, dedicata al culto di Dioniso, che veniva indicata
convenzionalmente come “teatro di Dioniso nella palude”.
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Breve storia dello spettacolo
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un grande teatro contemporaneo, e che funziona però tutto l’anno, non solo in
occasione della grande festa dionisiaca della fine di marzo.
Egli è un conservatore aristocratico che assiste impotente al declino della
grandezza della sua città: è animato da un robusto rimpianto dei tempi passati
e protesta un convinto pacifismo (siamo alla vigilia della guerra fratricida del
Peloponneso), che non risparmia critiche a nessuno, fosse pure a un potente
della città. Assiste con dolore alle guerre del Peloponneso e al drammatico
conflitto con Sparta, ma non rinuncia mai alla sua sfrenata goliardia e al suo
spirito carnevalesco.
Scrive una quarantina di commedie, di cui ce ne sono giunte meno di una
dozzina; alcune sono veri gioielli di sarcasmo, peraltro dotati di virtù liriche
degne della più alta poesia letteraria: parla ai cittadini della contemporaneità e,
come detto, non risparmia nessuno; divide la sua produzione nei grandi eventi
comici da rappresentare al teatro di Dioniso alla fine di marzo e in una serie di
allestimenti invernali da rappresentare nel piccolo teatro Leneo: ciò significa
che per tutto l’anno gli ateniesi possono assistere alla rappresentazione delle
sue commedie.
Queste sono sì opere comiche, ma gli argomenti affrontati sono profondi e
riguardano la pace, la condizione femminile, l’onestà politica, il rapporto tra
bene e male: alla base della comicità si trovano come sempre gli istinti bassi (il
bisogno di cibo e di sesso, per esempio) che risultano però emblematici di
condizioni e riflessioni più alte. Egli fu quello che i latini dissero che ...ridendo
castigat mores...!
Le sue più importanti opere giunteci sono Gli uccelli, Le rane, I cavalieri, Le
nuvole, Pluto, Le donne a Parlamento e Lisistrata.
I cavalieri, ad esempio, è una feroce satira contro il demagogo Cleone
(personaggio storico realmente esistito), adombrato dietro la figura dell’intrigante e astuto servo Paflagone: nella conquista dei favori di Popolo a lui si
oppone il salsicciaio Agoracrito, che ne avrà ragione; ma il destino di Popolo
(un personaggio vero e proprio, il signor Popolo!) non cambia perché il salsicciaio non è certo migliore di Paflagone. È un classico esempio di satira sulla
contemporaneità politica, di fronte alla quale gli spettatori ridono senza però
modificare il proprio atteggiamento passivo nei confronti della gestione della
cosa pubblica in Atene.
Le rane, invece, è un vero caso di polemica culturale, anzi addirittura teatrale: Dioniso, dio del teatro, è un grande ammiratore di Euripide e decide di
riportarlo sulla terra dopo morto; per questo si consulta con Eracle (per i latini
Ercole), esperto di viaggi nell’aldilà, e decide di partire con il suo servo Xantia
alla ricerca del grande drammaturgo scomparso; alla fine lo trova nell’Ade,
dopo aver attraversato il fiume infernale sulla barca di Caronte, accompagnato
da un coro di rane (da cui il titolo), ma con lui vi è anche Eschilo; Dioniso li
mette allora alla prova e pesa con una speciale bilancia i loro lavori, per
convincersi infine, malgrado l’ammirazione iniziale per Euripide, della superiorità artistica di Eschilo.
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Il mondo che circonda Aristofane è comunque un mondo in progressivo
disfacimento: dopo di lui (morto nel 385 a.C.) esisterà solo la commedia, che
conoscerà momenti diversi nella successiva epoca ellenistica: malgrado il teatro
conosca con queste fasi (Aristofane è il padre della commedia antica, cui seguirà la commedia di mezzo, di cui restano poche tracce, e poi la commedia
nuova, nel III e II secolo a.C., i cui massimi esponenti sono Filemone e Menandro) una notevole involuzione e una crisi quasi irreversibile, è proprio allora
che nascono i grandi teatri di pietra che ancor oggi possiamo ammirare nelle
più grandi città mediterranee (vedi figure 2.2 e 2.3); è proprio allora che i
professionisti del teatro attingono a piene mani dal repertorio dei grandi tragici
e di Aristofane, forti del fatto che l’assenza dell’autore dona ad essi una libertà
di interpretazione di quei testi (ma più spesso una libertà di stravolgimento) mai
avuta in precedenza.
Qui si annida il paradosso del teatro greco, ma forse quello di ogni grande
fase teatrale della storia: proprio nel momento di massima crisi si cerca di resuscitarne lo splendore attraverso la costruzione di grandiosi teatri, attraverso
investimenti economici (per lo più però ormai privati) che mai si erano manifestati nell’epoca d’oro.
Il professionismo teatrale dilaga: attori, tecnici e autori si riuniscono in potentissime corporazioni tese a garantire la continuità di privilegi sociali maturati
dai loro predecessori in epoche culturalmente più felici; i ricchi e i principi
Figura 2.2 Il teatro di Epidauro, costruito in epoca ellenistica (III-I secolo a.C.
circa). Si noti come venissero sfruttate le pendenze naturali per la
costruzione delle tribune.
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Figura 2.3 La ricostruzione “virtuale” del teatro di Efeso rende molto realisticamente
l’idea di come era organizzata la scena.
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24 Capitolo 2
commissionano loro opere di intrattenimento per le proprie feste private: il
teatro non è più il momento di autocoscienza e di autoriconoscimento della
collettività, ma solo una occasione di divertimento convenzionale, meglio se
facile e privo di interrogativi sull’esistenza e sulla società.
Anche la struttura di festa lentamente si ripiega su se stessa, rifugiandosi nel
manierismo della tradizione: ed è questa la situazione che trovano i conquistatori romani al loro arrivo nella culla della nostra civiltà.
Se in sintesi si deve dire cosa fu il teatro per la Grecia antica, piuttosto che
come fu, bisognerà ricordare proprio l’immagine del corpo sociale che all’alba
si reca al teatro di Dioniso: il teatro greco fu un grandioso rito laico, sempre più
svincolato dalla componente magica e religiosa, ma che seppe sostituire ai
valori di fede, che i nuovi tempi andavano scalzando, nuovi valori sociali collettivi e caratterizzanti. Non fu, in altre parole, un teatro aristocratico che morì
della propria intelligenza, ma una grande e popolare esperienza politica e culturale, uno strumento fondamentale e moderno dello sviluppo di una idea come
quella di democrazia. Lo stato era piccolo, addirittura cittadino; l’individuo non
era protetto da una grande entità pubblica di cui non conosceva, come accade
spesso oggi, neppure la natura, da grandiosi eserciti che tenevano la guerra
lontano dalla porta di casa; lo stato perciò doveva essere consapevole di se
stesso, attraverso la consapevolezza individuale di ogni cittadino e collettiva
della comunità: questa fu la funzione svolta da quella teatralità, che si valse del
soffio dell’arte di sommi poeti, quanti mai più nessuna terra o civiltà produrrà in
un periodo così breve.
Dalla Grecia classica all’Europa medioevale cristiana,
attraverso Roma repubblicana e imperiale
Tanti sono i rapporti tra teatro greco e teatro romano quanti sono i rapporti tra le
due civiltà: che, è noto, furono intensissimi per la vicinanza e per la possibilità di
utilizzo della più veloce e straordinaria via di comunicazione dell’epoca, il mare.
Abbiamo visto che il teatro greco, ma soprattutto la civiltà che lo esprime,
muore della sua stessa grandezza, della complessità e dell’altezza in qualche
modo utopica del suo progetto politico: la polis libera e autonoma, fiera della
sua specificità anche di fronte a un’altra polis sorella collocata a pochi chilometri di distanza, genera un progresso continuo ma un parallelo conflitto logorante, anche se spesso solo piccolo e locale. Di questo logorio morì Atene e con lei
la grande civiltà dell’Attica.
Roma capisce la lezione: dieci secoli di storia testimoniano di una civiltà
pragmatica, aristocratica, impegnata solo in grandi e redditizi conflitti, dominata
dal valore del denaro e del successo, dove le distinzioni sociali sono forti, dove
ricchezza e povertà convivono ma spesso di malavoglia, in cui nasce il problema di tener quiete delle ingenti plebi urbane strappate alle campagne: si pensi
che la Roma imperiale ebbe oltre tre milioni di abitanti; era perciò più grande di
qualsiasi città esistente oggi in Italia!
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