STORIA DELLA FISICA DELLE PARTICELLE ELEMENTARI III. La

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STORIA
DELLA FISICA DELLE
PARTICELLE ELEMENTARI
III. La teoria quantistica relativistica dei campi
Prof. Attilio Maccari
Via Alfredo Casella 3
00013 Mentana RM
E-mail: [email protected]
1. Introduzione
Come abbiamo visto in un precedente lavoro, la meccanica quantistica relativistica, pur con i
suoi successi, come la predizione dell’esistenza del positone, non è sufficiente per la trattazione dei casi in cui il numero delle particelle non si mantiene costante, fenomeno molto comune nelle interazioni ad alta energia [1].
Mediante i principi d’indeterminazione, si vede facilmente che non si può rimanere
nell’ambito di una teoria quantistica relativistica ad una sola particella. Supponiamo che ∆x ,
incertezza sulla posizione di un elettrone, sia uguale alla lunghezza d’onda Compton
dell’elettrone,
∆x =
mc
,
(1.1)
e scriviamo il primo principio di indeterminazione nella forma
∆p ≈
∆x
= mc .
(1.2)
Si vede che l’energia può diventare sufficiente a creare una coppia elettrone-positone, perché,
per il secondo principio di indeterminazione,
∆E ≈
∆t
=
c
= mc 2 .
∆x
(1.3)
Di fatto, quindi, l’incertezza sulla posizione di un elettrone non può scendere al di sotto della
lunghezza d’onda Compton, perché, quando si raggiunge il limite (1.1), si creano coppie elettrone-positone.
Si può ritenere, inoltre, che ogni elettrone in moto sia accompagnato da una nuvola virtuale di
coppie elettrone-positone. Con il termine virtuale, si sottolinea il fatto che tali coppie vengono
create violando il principio di conservazione dell’energia di una quantità ∆E , ma la loro esistenza dura solamente un tempo
2
∆t ≈
∆E
=
mc 2
,
(1.4)
come risulta dal secondo principio di indeterminazione.
Si deve quindi arrivare ad una teoria a molti corpi, per descrivere l’interazione elettromagnetica delle particelle, ed in primo luogo dell’elettrone, ad alta energia.
Fu subito chiaro che occorreva realizzare una teoria quantistica relativistica dei campi ed in
particolare del campo elettromagnetico in interazione con gli elettroni e i positoni, la QED (elettrodinamica quantistica) [2]. Su questa strada però, fra la fine degli Anni Venti e per tutti
gli Anni Trenta, emersero ben presto tre differenti metodi. Già nel 1927, Dirac affronta lo studio dell’interazione fra materia e campo elettromagnetico, nell’ambito di un formalismo di tipo hamiltoniano, introducendo, per la prima volta, gli operatori di creazione e distruzione che
agiscono su un vettore di stato del campo elettromagnetico, caratterizzato dal numero di fotoni, riuscendo a derivare le leggi di Einstein sull’assorbimento ed emissione di radiazione (§
2). Per la prima volta, viene elaborato un coerente modello teorico nel quale non è necessario
che una particella sia presente in un sistema, per poter essere emessa. Quando un atomo eccitato compie una transizione ad un livello energeticamente più basso, appare un fotone, che
precedentemente prima non era presente in nessuna parte del sistema, perché viene creato nel
momento stesso in cui è emesso dall’atomo. Questa caratteristica verrà sfruttata da Fermi nella sua teoria del decadimento β , riguardo all’emissione dal nucleo di un elettrone ed un neutrino, e da H. Yukawa nello studio delle interazioni nucleari, con la predizione di una particella, poi identificata con il pione π , come mediatrice dell’interazione. Attualmente è diventata
un fatto comune e quasi ovvio nell’odierna fisica delle particelle elementari.
Il metodo di Dirac presenta due aspetti notevoli: da una parte, nella quantizzazione del campo
elettromagnetico, e più in generale nei calcoli riguardanti i processi elettrodinamici, ha ben
presente l’esigenza di rispettare le prescrizioni della relatività ristretta, dall’altra, tuttavia, non
3
ritiene opportuno applicare la quantizzazione anche ai campi materiali, come per esempio
quello dell’elettrone.
Il secondo metodo è dovuto a Fermi e si contraddistingue sia per la sua semplicità che per la
sua efficacia (§ 3). Fermi dimostra che l’elettrodinamica quantistica è in grado di fornire delle
predizioni per tutti i casi di interesse pratico, l’unico problema essendo costituito
dall’autoenergia dell’elettrone e, più in generale, dagli infiniti che nascono nei calcoli perturbativi di ordine superiore. Tuttavia, il fatto che ben presto si sia dedicato ad altri interessi,
principalmente la fisica nucleare, gli ha impedito di proseguire sulla strada del miglioramento
della teoria, tramite l’eliminazione degli infiniti, anche se qualche accenno a questa problematica è presente nei suoi lavori.
Un terzo metodo, completamente diverso, inizia con Jordan, con la seconda quantizzazione
dei campi materiali, e sarà proseguito, con alcune modifiche, da Heisenberg e Pauli (§ 4). A
differenza di Dirac, non viene data molta importanza ad una formulazione relativisticamente
covariante della teoria, che viene usata solo nei casi strettamente necessari, mentre la quantizzazione è estesa a tutti i campi materiali, sia bosonici che fermionici.
Per tutti gli Anni Trenta, non si riuscirà a venire a capo degli infiniti presenti nella QED, e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie ai lavori di R. P. Feynman, S. Tomonaga e J.
Schwinger, ma in realtà anticipati da E. C. G. Stueckelberg, la tecnica della rinormalizzazione
porterà ad una teoria che fornisce previsioni finite a tutti gli ordini perturbativi, in stupefacente accordo con i dati sperimentali.
4
2. Il metodo di Dirac
Nel 1927, appare un importante articolo di Dirac, [3], The Quantum Theory of the Emission
and
Absorption
of
Radiation,
che
costituisce
probabilmente
l’atto
di
nascita
dell’elettrodinamica quantistica e che verrà considerato in dettaglio, data la sua fondamentale
importanza. Si legge nell’introduzione: “I problemi di come trattare un sistema dove le forze
si propagano con la velocità della luce e non istantaneamente, della generazione di un campo
elettromagnetico da parte di un elettrone in movimento e della reazione del campo
sull’elettrone non sono ancora stati affrontati.”, [3, pag. 243]
La meccanica quantistica non relativistica, così come l’aveva formulata Dirac, trova la sua origine nel formalismo hamiltoniano della meccanica classica, relativo al movimento delle particelle ovvero ad una visione corpuscolare della realtà fisica. Se si vuole applicare la meccanica quantistica all’elettromagnetismo, quindi, si deve partire dalla sua descrizione corpuscolare, tralasciando quella ondulatoria. Si devono introdurre i principi della meccanica quantistica
nella teoria classica dell’elettromagnetismo di Maxwell, sia per spiegare l’esistenza dei fotoni
sia per spiegare l’interazione fra materia e campo elettromagnetico.
Dirac considera un insieme statistico di particelle non interagenti fra loro e soggette ad una
perturbazione comune che seguono l’equazione di Schrodinger. Il valore medio che corrisponde al numero di particelle ad una data energia risulta essere reale e se vogliamo, invece,
che sia intero, come deve essere, si devono introdurre le condizioni di quantizzazione. Come
osservabili quantistiche non commutabili vengono considerati il numero di fotoni e la fase del
campo. Le particelle diventano così dei bosoni, ovvero seguono la statistica di Bose-Einstein.
Gli stati del campo, ni (k ) , caratterizzati da un certo numero di fotoni, ni, alle varie frequen-
ze
5
ν=
ck
,
2π
(2.1)
ed in un determinato stato di polarizzazione i (=1,2), sono collegati fra di loro mediante gli
operatori di creazione, a, e distruzione, a+, con le proprietà
a i ( k ) n i ( k ) = n i ( k ) ni ( k ) − 1 ,
a i+ (k ) ni (k ) = ni ( k ) + 1 ni (k ) + 1 .
(2.2)
e
a i ( k ) 0 = 0 , a i+ (k ) 0 = 1 .
(2.3)
Con l’introduzione di tali operatori, per la prima volta, si giunge alla possibilità di descrivere
quelle transizioni in cui il numero delle particelle (in questo caso fotoni) non rimane costante.
In pratica, gli operatori di creazione sono responsabili dei processi di emissione spontanea (ultima della (2.3)) ed emissione stimolata (ultima della (2.2)), mentre gli operatori di distruzione descrivono l’assorbimento di fotoni (prima delle (2.2)). In questo modo, viene dimostrata
la relazione di proporzionalità fra emissione stimolata e spontanea, già ottenuta da Einstein
[4].
Dirac dimostra che l’operatore hamiltoniano del campo elettromagnetico si può esprimere in
termini degli operatori di creazione e distruzione,
H EM =
i =1, 2
d 3k ω a i+ (k )a i ( k ) +
1
,
2
(2.4)
con autovalori
E EM =
i =1, 2
d 3k ω ni (k ) +
1
.
2
(2.5)
Le relazioni (2.4-2.5) possono fornire una interessante reinterpretazione del dualismo ondacorpuscolo, uno degli aspetti caratteristici della meccanica quantistica. Poiché Dirac ha scelto
come variabili non commutanti il numero di fotoni e la fase del campo e l’hamiltoniana commuta con l’operatore del numero dei fotoni, possiamo dire che, quando il sistema si trova in
uno stato caratterizzato da un ben determinato numero di fotoni alle varie frequenze e manife6
sta quindi delle proprietà corpuscolari, la fase del campo elettromagnetico è completamente
indeterminata, essendo assente ogni tipo di comportamento ondulatorio. Viceversa, se si fossero scelti degli autostati della fase del campo, allora il comportamento corpuscolare sarebbe
scomparso.
Dirac passa poi a considerare l’interazione fra un atomo ed il campo elettromagnetico e scrive
l’hamiltoniana totale come somma di tre parti,
H = H A + H EM + H INT ,
(2.6)
rispettivamente descriventi l’atomo, il campo elettromagnetico (già considerato in precedenza) e la loro interazione reciproca.
Viene considerato un atomo nello stato fondamentale, Ψi = Ψ ( −∞) , al tempo t= − ∞ , e si
vuole calcolare la probabilità che l’atomo si trovi in uno stato eccitato Ψ f , dopo aver assorbito energia dal campo elettromagnetico. Secondo la meccanica quantistica la probabilità è il
modulo quadrato dell’ampiezza di probabilità Ψ f Ψ (+∞) .
Si considera l’equazione di Schrodinger per l’atomo,
i
∂
Ψ (t ) = ( H A + H INT ) Ψ(t ) ,
∂t
(2.7)
e si utilizza la cosiddetta rappresentazione d’interazione definita da
ΨINT (t ) = exp
iH A t
Ψ (t ) .
(2.8)
Dalla meccanica quantistica ordinaria è noto che gli elementi di matrici di un operatore sono
invarianti sotto una trasformazione unitaria, U, come è appunto quella della rappresentazione
d’interazione,
Ψ A Φ = Ψ'A'Φ ',
se
7
(2.9)
Ψ '= U Ψ ,
A'= UAU + .
Φ '= U Φ ,
(2.10)
E’ facile verificare che nella rappresentazione d’interazione il vettore di stato segue
l’equazione di Schrodinger, nella quale figura il solo operatore d’interazione, da risolvere con
la condizione iniziale ΨINT ( −∞) = Ψi .
Una soluzione, al primo ordine perturbativo in HINT, risulta essere
ΨINT ( +∞) = Ψi −
+∞
i
dtH INT (t ) Ψi ,
(2.11)
−∞
per cui l’ampiezza di diffusione diventa
ΨINT , f ΨINT ( +∞) = −
i
+∞
dt ΨINT , f H INT (t ) Ψi ,
(2.12)
−∞
con
e
d x(t )
e2
2
H INT = − A( x, t ).
+
A( x, t ) ,
c
dt
2mc 2
(2.14)
dove il potenziale vettore, A( x, t ) , del campo elettromagnetico si può esprimere, tramite uno
sviluppo di Fourier, in termini degli operatori di creazione e distruzione,
A( x, t ) =
i =1, 2
[
d 3 k a i ( k )ε i ( k ) f k ( x, t ) + a i+ (k )ε i (k ) f k* ( x, t )
]
(2.15)
essendo ε i (k ) i vettori di polarizzazione diretti nella direzione del campo elettrico e magnetico, mentre
f k ( x, t ) ≈ exp − i (ω t − k . x ) , ω = ck .
(2.16)
Si vede subito che esistono due distinte possibilità. Se si considera il primo termine della
(2.14), si ottengono, al primo ordine perturbativo, delle transizioni in cui il numero di fotoni
aumenta o diminuisce di uno, e che ovviamente rispettano la conservazione dell’energia,
hν = E f − E i ,
dove Ef ed Ei indicano l’energia finale ed iniziale dell’atomo.
8
(2.17)
Se si considera il secondo termine della (2.14) si possono avere transizioni a due fotoni, ovvero l’emissione (o l’assorbimento) di due fotoni oppure l’assorbimento e riammissione di un
singolo fotone (è il cosiddetto termine seagull).
D’altra parte, processi analoghi nascono anche al secondo ordine perturbativo, dove
l’ampiezza di transizione per passare da un generico stato iniziale i ad uno finale f , si ottiene mediante una somma estesa a tutti i possibili stati intermedi, n ,
f H INT n n H INT f
n
Ei − E f
.
(2.18)
E’ importante osservare che in nessuna delle transizioni presenti nella (2.18) si conserva
l’energia, perché gli stati n vanno considerati come stati virtuali, compatibili con i principi
di indeterminazione di Heisenberg. La presenza degli stati virtuali diventerà uno dei tratti caratteristici dell’elettrodinamica quantistica.
Si noti che, nella parte iniziale della suo lavoro, Dirac non è ricorso in alcun modo alle proprietà ondulatorie del campo ed alle equazioni di Maxwell. Solamente alla fine, nel momento
in cui devono ottenere le espressioni esplicite per le probabilità di transizione, considera
l’hamiltoniana classica dell’interazione fra cariche e campo elettromagnetico, per derivare la
costante che lega l’ampiezza del campo con il corrispondente numero di fotoni.
Nel formalismo hamiltoniano usato da Dirac, quindi, rimane nell’ombra il collegamento con
la teoria classica di Maxwell e sarà questo, come vedremo, uno dei principali punti di divergenza con Jordan. Dirac rimarrà sempre coerente con queste assunzioni iniziali ed in particolare con il fatto che questo procedimento di quantizzazione potesse essere applicato solo al
campo elettromagnetico, proprio perché radicalmente diverso da un insieme di particelle materiali. Al contrario, Jordan estenderà il procedimento della quantizzazione a tutti i campi materiali, perché partendo da un modello ondulatorio e definendo delle opportune regole di
9
commutazioni per le ampiezze si possono riottenere le proprietà corpuscolari sia dei fermioni
che dei bosoni.
Nel frattempo Dirac pubblica The Principles of Quantum Mechanics, che consocerà varie edizioni e sarà un punto di riferimento permanente [5]. Nel 1933 riceverà il Premio Nobel insieme ad Erwin Schrodinger.
10
3. Il metodo di Fermi
In una serie di articoli, [6], Fermi sviluppa un approccio all’elettrodinamica quantistica, che
colpisce per il suo stile diretto e pragmatico nell’affrontare i problemi, nonché semplice e
chiaro nella costruzione del procedimento di calcolo. Fermi vuole trattare il caso
dell’interazione fra elettroni e campo elettromagnetico, integrando la teoria di Dirac che aveva
considerato solamente il campo elettromagnetico di radiazione, che può essere considerato
come la somma di onde piane, proprietà che ovviamente non è più valida nelle vicinanze di
un elettrone. Nel primo articolo della serie, scrive: “Per esempio, non si potrebbe trattare
[….] il problema dell’interazione tra due elettroni dello stesso atomo o di atomi vicini tenendo conto che il campo si propaga dall’uno all’altro per potenziali ritardati; similmente non si
può trattare, con la teoria di Dirac, il problema della teoria quantistica della massa elettromagnetica, ecc.”.
Numerose sono le difficoltà che sorgono, a partire dal fatto che il potenziale vettore, A( x, t ) ,
e scalare, V ( x, t ) , del campo elettromagnetico non sono univocamente definiti dalla conoscenza del campo elettrico e magnetico. Come è ben noto, le equazioni di Maxwell per il
campo elettrico, E , e magnetico, B , possono essere scritte con i potenziali elettromagnetici,
E=−
1 ∂A
1 ∂E
− ∇V , H = rot A , div E = ρ , rot H = j +
,
c ∂t
c ∂t
(3.1)
dove ρ è la densità di carica e J la densità di corrente.
I campi non sono definiti univocamente dai potenziali, perché se si cambiano i potenziali,
mediante una cosiddetta trasformazione di gauge,
A'= A + ∇χ , V '= V −
11
1 ∂χ
,
c ∂t
(3.2)
con χ = χ ( x, t ) funzione arbitraria, si ritrovano, mediante la (3.1), esattamente gli stessi campi elettrici e magnetici.
Il termine invarianza di gauge fu coniato da H. Weyl nel 1919 in un modello di unificazione
della gravitazione con l’elettromagnetismo [7]. Dopo la formulazione della meccanica quantistica, si vide che se si considera l’equazione di Schrodinger, per una particella in un campo
elettromagnetico,
i
∂
1
e
Ψ ( x, t ) =
− i ∇ − A( x, t )
∂t
2m
c
2
+ eV ( x, t ) Ψ( x, t ) ,
(3.3)
e, accanto alla trasformazione sui campi (3.2), si compie anche una trasformazione sulla fase
della funzione d’onda,
Ψ'( x, t ) = exp
ie
χ ( x, t ) Ψ ( x, t ) ,
c
(3.4)
allora l’equazione di Schrodinger rimane invariata [8]. L’invarianza di gauge è strettamente
legata all’invarianza della carica elettrica, che corrisponde la caso particolare χ =costante.
Visto la libertà che esiste nella scelta dei potenziali elettromagnetici, di solito si usa una scelta
adatta a semplificare i calcoli e nello stesso tempo relativisticamente invariante, detta gauge
di Lorentz,
∂V
− ∇A = 0,
∂t
(3.5)
A µ = (V ; A) , ∂ µ = (∂ t ; ∇) .
(3.6)
∂ µ Aµ = ∂ 0V − ∇ A =
dove
Nel momento in cui si vuole quantizzare la teoria, si presenta il problema che la gauge di Lorentz è incompatibile con le regole di commutazione che le variabili quantistiche devono soddisfare. Il problema viene risolto considerando la condizione di Lorentz un vincolo sugli stati
del sistema e non una relazione fra variabili.
12
Inizialmente, gli elettroni vengono trattati nell’approssimazione non relativistica e, per descrivere il campo elettromagnetico, Fermi non usa il potenziale scalare e vettore, che sono funzioni del tempo e dello spazio, ma i coefficienti del loro sviluppo di Fourier, che sono funzioni del tempo soltanto, e considera le equazioni canoniche classiche per il campo ed il moto
delle cariche. Per passare alla versione quantistica, trasforma l’hamiltoniana in un operatore
sostituendo l’impulso con l’operatore − i ∇ .
Nel secondo articolo, dimostra che il metodo di Dirac, (§ 2), è in grado di spiegare anche le
usuali proprietà d’interferenza della luce. Supponiamo di avere un atomo emittente, A, inizialmente eccitato, ed un altro assorbitore, B, inizialmente nello stato fondamentale. Fermi
dimostra che la probabilità di eccitazione di B dipende dalla sua posizione secondo la teoria
classica dell’interferenza della luce.
Nel terzo articolo, passa al caso degli elettroni relativistici, trattandoli con l’equazione di Dirac. “Naturalmente, come abbiamo già accennato, anche questa teoria conserva in sé due difetti fondamentali, che però più che di origine elettrodinamica, possono considerarsi derivanti dalla non completa conoscenza della struttura elettronica. Essi sono la possibilità che ha
l’elettrone di Dirac di passare a livelli energetici con energia negativa ed il fatto che
l’energia intrinseca ha valore infinito se si ammette l’elettrone esattamente puntiforme”.
Nel quarto articolo, affronta il problema dell’autoenergia infinita dell’elettrone, tentando di risolverlo con l’ipotesi di una dimensione finita dell’elettrone, che tuttavia presenta difficoltà
insormontabili. Il problema è presente ovviamente anche nell’elettromagnetismo classico ed
un calcolo elementare mostra che, assimilando un elettrone ad una sferetta rigida carica,
l’autoenergia è proporzionale ad Q2/R, dove Q è la carica e R il raggio della sferetta.
L’espressione diverge per R tendente a zero, cioè nel caso di un elettrone puntiforme. Con la
relatività, nasce la possibilità che la massa dell’elettrone sia tutta energia elettromagnetica ed
in questo caso si ottiene, come fece Lorentz nel 1904, [9],
13
R=
e2
≈ 2.8 10-15 m.
mc 2
(3.7)
detto raggio classico dell’elettrone, da confrontare con la lunghezza d’onda Compton
dell’elettrone
λC =
mc
≈ 3.8 10-13 m.
(3.8)
Malgrado il fatto che la meccanica quantistica rivoluzioni molti aspetti della fisica classica, ed
in particolare il concetto stesso di posizione, il problema si presenta inalterato anche nella
nuova elettrodinamica.
Ciò nonostante è in grado di sviluppare alcune interessanti considerazioni. Se l’elettrone ha
una estensione finita e viene colpito da un’onda elettromagnetica, due situazioni completamente diverse si presentano a seconda che la lunghezza d’onda sia molto più grande o molto
più piccola della dimensione dell’elettrone. Nel primo caso, l’elettrone si comporta a tutti gli
effetti come se fosse puntiforme, perché tutti i suoi punti hanno la stessa fase, e la sua interazione con il campo sarà molto forte, nel secondo, l’onda avrà fasi diverse nei punti diversi
dell’elettrone e quindi l’interazione sarà praticamente nulla.
Di conseguenza, “l’elettrone interagisce con le componenti armoniche di alta frequenza del
campo come se avesse una carica elettrica efficace più piccola di quella che determina
l’interazione con le componenti armoniche di bassa frequenza, e che naturalmente coincide
con l’ordinario valore della carica elettrica quale è data da misure statiche o quasi statiche”.
Non solo, quindi, in questo articolo, si presenta in qualche modo una anticipazione della rinormalizzazione, ma si trova anche una delle migliori giustificazioni fisiche che siano mai
state date di tale tecnica matematica.
Scrive un articolo riassuntivo, nel 1932, su Review of Modern Physics, dove inserisce le lezioni tenute all’Università del Michigan, nell’estate 1930. Il lavoro sarà in punto di riferimento per tutti coloro che in quegli anni si avvicineranno all’elettrodinamica quantistica. Fermi
14
sottolinea come la teoria sia in grado di fornire delle previsioni accurate in tutti i calcoli di interesse pratico, perché solo i problemi sulla struttura dell’elettrone rimanevano insoluti.
Nell’ultimo articolo della serie, scritto in collaborazione con Bethe, nel 1933, rideriva le due
formule di Moller e Bethe per la sezione d’urto della diffusione fra due elettroni ed introduce
la rappresentazione, che oggi troviamo su tutti i libri della teoria quantistica dei campi,
dell’interazione coulombiana fra due cariche mediante lo scambio di fotoni virtuali [10].
15
4. Il metodo di Jordan, Heisenberg e Pauli
Per comprendere questa terza via alla teoria quantistica dei campi, bisogna tornare indietro, al
Dreimannerarbeit del 1925, [11], nel quale M. Born, W. Heisenberg e P. Jordan avevano sviluppato la teoria formale della meccanica delle matrici. L’ultimo paragrafo, scritto essenzialmente da Jordan, riconsidera un lavoro di Einstein del 1909, nel quale era stata trovata la formula per le fluttuazioni energetiche della radiazione del corpo nero, usando la formula di
Planck come sperimentalmente nota [12]. Einstein aveva scoperto che le fluttuazioni erano la
somma di due contributi, che esprimevano il doppio comportamento ondulatorio e corpuscolare della radiazione elettromagnetica. Jordan è in grado di dimostrare la formula di Einstein
per le fluttuazioni, assimilando il campo elettromagnetico ad un insieme di oscillatori armonici quantizzati.
Partendo dalla descrizione ondulatoria del campo elettromagnetico, si considerano le ampiezze delle onde stazionarie in una cavità come variabili quantistiche e si mostra che il campo è
assimilabile ad un insieme di oscillatori armonici e acquista delle proprietà corpuscolari, che
appaiono quindi come conseguenza delle condizioni di non commutabilità delle variabili
quantistiche di campo. Come è ben noto nell’oscillatore armonico (unidimensionale) l’energia
dell’ n-esimo livello è data
En = n +
1
2
ω,
n=1,2…,
(4.1)
dove ω è la frequenza (circolare) dell’oscillatore.
La novità consiste nel fatto che lo stato n dell’oscillatore può essere interpretato come composto da n fotoni di energia ω . Le particelle (fotoni) quindi non esistono nel limite classico,
dove appare solo il campo esteso con continuità nello spazio e nel tempo.
16
Proprio perché in realtà le particelle non esistono, bisogna dimostrare sotto quali condizioni
appaiono nella teoria. Jordan fa vedere che nel momento in cui la teoria viene trasportata nello
spazio tridimensionale, allora appaiono sia la natura ondulatoria che quella corpuscolare. Anche in questo caso, come già visto nel paragrafo precedente, il commutatore fra l’hamiltoniana
e la fase del campo non è nullo, [H ,ϕ ] ≠ 0 , ovvero l’interpretazione corpuscolare basata sugli
autostati di H non è compatibile con la descrizione ondulatoria, che si dovrebbe invece basare
sugli autostati dell’ampiezza del campo. Essendo tuttavia il commutatore fra il numero di particelle e l’ampiezza del campo non nullo, [N , q] = −ip / ω , dove p è l’impulso associato, le due
descrizioni si escludono vicendevolmente ed è questa la chiave della dualità onda corpuscolo.
Il lavoro di Dirac del 1927 viene considerato da Jordan (a differenza da quanto ritenuto dallo
stesso Dirac) la quantizzazione di un campo classico, per cui lo stesso metodo si deve applicare ad i campi materiali, che obbediscono all’equazione di Schrodinger o di Dirac. Siamo
quindi arrivati alla cosiddetta seconda quantizzazione, nella quale le condizioni di quantizzazione vengono applicate anche ai campi materiali, come quello dell’elettrone (ricordiamo che
invece Dirac riteneva di dover applicare la quantizzazione solo al campo elettromagnetico).
Per Jordan, infatti, le onde di materia sono l’analogo delle onde elettromagnetiche (e quindi in
qualche modo classiche), mentre le particelle emergono dalle condizioni di quantizzazione.
In una serie di cinque articoli, scritti fra il 1927 e il 1928, tre dei quali in collaborazione rispettivamente con O. B. Klein, E. Wigner, W. Pauli, Jordan dimostra che le particelle che nascono dalla seconda quantizzazione delle onde di materia, seguono la statistica di Fermi-Dirac
o Bose-Einstein, a seconda della scelta delle regole di anticommutazione o commutazione per
gli operatori di campo [13].
In particolare, nell’articolo scritto in collaborazione con Klein, viene considera un campo generico che soddisfa l’equazione di Schrodinger
Hui ( x ) = Ei ui ( x ) ,
17
(4.2)
dove le ui (x ) sono le autofunzioni con autovalori Ei.
Il campo viene sviluppato mediante la base costituita dalle autofunzioni dell’hamiltoniana,
Ψ ( x, t ) =
a i ( t )u i ( x ) ,
(4.3)
i
e si dimostra che
a i (t ) = exp −
iEi t
ai (0) = ai .
ai ,
(4.4)
Allo stesso modo, si potrà scrivere
Ψ ∗ ( x, t ) =
a i+ (t )ui∗ ( x ) .
(4.5)
i
Si introducono, a questo punto, le regole di commutazione, considerando i coefficienti ai non
più come numeri ma come variabili quantistiche e trasformandoli in operatori di creazione e
distruzione, mediante le definizioni
[a , a ] = δ
i
+
j
ij
[a , a ] = [a
,
i
j
+
i
]
, a +j = 0 .
(4.6)
Essendo
a i ni = ni ni − 1 , a i+ ni = ni + 1 ni + 1 ,
(4.7)
dove l’autostato ni , corrisponde a ni particelle che possiedono una energia Ei e che soddisfano la statistica di Bose-Einstein. Si veda facilmente che risulta
0 Ψ ( x, t ) 1i = ui ( x ) exp( −i
Ei
t ) , 1i Ψ + ( x, t ) 0 = ui∗ ( x ) exp(i
Ei
t) .
(4.8)
Si noti che, in base alla (4.2), la seconda quantizzazione non è limitata al caso delle particelle
libere, perché l’hamiltoniana può contenere anche un potenziale. Risulta inoltre, utilizzando
(4.3) e (4.5),
[Ψ( x, t ), Ψ
+
]
( x'
, t ) = δ 3 ( x − x ') ,
[Ψ( x, t ), Ψ( x', t )] = [Ψ + ( x, t ), Ψ + ( x', t )] = 0 . (4.9)
Due osservazioni sono importanti riguardo alle (4.9): i) non sono relativisticamente invarianti,
a conferma della scarsa importanza data alla relatività dai fisici tedeschi, come già accennato
18
nell’Introduzione; ii) possono essere il punto di partenza per la seconda quantizzazione direttamente nello spazio delle configurazioni (V. Foco).
Nel 1928, Jordan e Wigner risolvono il problema della quantizzazione dei campi di FermiDirac. Come è noto dalla meccanica quantistica ordinaria, se consideriamo un sistema di fermioni, per esempio elettroni, la funzione d’onda complessiva deve essere antisimmetrica nello
scambio degli indici relativi agli elettroni, per assicurare la validità del Principio di Pauli: non
possono esistere due elettroni con gli stessi numeri quantici. Se considero due elettroni, che si
trovano nei livelli definiti da numeri quantici indicati complessivamente con a e b, per esempio, le funzioni d’onda ammissibili sono
Ψ1 =
(
)
1
(ψ a (1)ψ b (2) −ψ b (1)ψ a (2) ) 1 ↑ 2 ↓ + 1 ↓ 2 ↑ ,
2
(4.10a)
Ψ2 =
1
(ψ a (1)ψ b (2) −ψ b (1)ψ a (2) ) 1 ↑ 2 ↑
2
(4.10b)
Ψ3 =
1
(ψ a (1)ψ b (2) −ψ b (1)ψ a (2) ) 1 ↓ 2 ↓ ,
2
(4.10c)
ed anche
Ψ4 =
(
)
1
(ψ a (1)ψ b (2) + ψ b (1)ψ a (2) ) 1 ↑ 2 ↓ − 1 ↓ 2 ↑ ,
2
(4.11)
dove 1 e 2 indicano le coordinate spaziali dei due elettroni e gli autostati della componente z
dello spin, Sz, sono indicati con delle frecce (ad esempio, 1 ↑ corrisponde al primo elettrone
con autovalore ½ di Sz). Nella (4.10) lo spin complessivo vale 1 (stato di tripletto), nella
(4.11) vale zero (stato di singoletto). Si noti che se a=b l’unica possibilità che rimane è la
(4.11) corrispondente a due elettroni nello stato di singoletto (spin totale = 0).
Per ottenere funzioni d’onda antisimmetriche, Jordan e Wigner dimostrano che è sufficiente
assumere regole di anticommutazione per gli operatori di creazione e distruzione,
{a , a }= a a
i
+
j
i
+
j
+ a +j a i = δ ij ,
{a , a }= {a
i
j
19
+
i
, a +j }= 0 .
(4.12)
In particolare, dato che non è possibile creare dal vuoto due particelle identiche,
( a i+ ) 2 0 = 0 ,
(4.13)
si riottiene il Principio di Pauli, perché la (4.13) è equivalente ad affermare che non possono
esistere due particelle con gli stessi numeri quantici. Sviluppando il campo, analogamente alla
(4.3), si scrive
Ψ ( x, t ) =
a n ( t )u n ( x ) ,
(4.13)
n
e si ottiene (si confronti con la (4.9))
{Ψ( x, t ), Ψ
+
( x'
, t )}= δ 3 ( x − x ') ,
{Ψ( x, t ), Ψ( x', t )} = {Ψ + ( x, t ), Ψ + ( x', t )}= 0 .
(4.14)
Il tassello finale della seconda quantizzazione è la quantizzazione della teoria di campo
dell’equazione di Dirac. In questo caso, bisogna includere anche le energie negative e si ottiene una espansione del tipo
Ψ ( x, t ) =
i =1, 2
[
]
d 3 k a (i , k ) f i , k ( x , t ) + b (i , k ) g i , k ( x , t ) ,
(4.15)
dove i è il grado di libertà di spin e a (i, k ) ( b(i, k ) ) l’operatore di distruzione di una particella
a energia positiva (negativa). Nel 1933, V. Fock nota che gli operatori di distruzione relativi
alle energie negative possono essere sostituiti con operatori di creazione delle rispettive ‘lacune’ o antiparticelle. Sparisce il riferimento ad infiniti stati ad energia negativa e la necessità di
postulare il ‘mare di Dirac’, cioè che gli stati ad energia negativa siano tutti occupati. La stessa ricetta, a differenza di quella di Dirac, si poteva applicare anche all’equazione di KleinGordon ed in generale ai campi bosonici.
In conclusione, Jordan ritiene di aver dimostrato, con la sua serie di lavori, che la seconda
quantizzazione porti come conseguenza il superamento definitivo del materialismo “Le nuove
idee nate dagli esperimenti di fisica quantistica e dai loro sviluppi teorici portano alla liquidazione della concezione materialista del mondo sviluppata dalla scienza occidentale classica, che a sua volta deriva dalla filosofia materialista degli antichi greci”
20
Apriamo una parentesi per ricordare che nel 1940 Pauli dimostrerà il cosiddetto ‘Teorema
spin statistica’, secondo il quale i campi di spin intero seguono la statistica di Bose-Einstein,
mentre per quelli di spin semintero vale la statistica di Fermi-Dirac [14].
Fra il 1929 ed il 1930, appaiono due articoli, “Sull’elettrodinamica dei campi d’onda”, nei
quali Heisenberg e Pauli espongono un metodo generale per la quantizzazione di qualunque
campo relativistico, utilizzando una formulazione lagrangiana delle leggi classiche, mediante
un principio di minimo per l’azione dei campi. Come coordinate lagrangiane vengono utilizzate le ampiezze dei campi in ciascun punto dello spazio, il metodo di Dirac è usato per la
quantizzazione del campo elettromagnetico e quello di Jordan per la quantizzazione dei sistemi di particelle [15]. E’ interessante notare che, nel secondo articolo, si tiene conto del metodo di Fermi, traducendo la sua impostazione nel formalismo lagrangiano.
Heisenberg e Pauli non si rendono ancora pienamente conto dei problemi collegati con i calcoli perturbativi agli ordini superiori e con l’autoenergia infinita dell’elettrone, considerato
come una carica puntiforme, perché la ritengono una costante che scompare nei calcoli sulla
differenza di energia fra i livelli, come si è soliti fare nella teoria delle perturbazioni (in realtà,
il termine infinito non è costante, ma varia al variare degli stati quantici).
Chi si rende conto per primo delle gravi difficoltà collegate con lo sviluppo della teoria quantistica dei campi è invece Jordan che giudica la natura dell’interazione fra elettrone e campo
elettromagnetico ancora inadeguata, perché l’energia propria dell’elettrone, ottenuta quando si
considera l’interazione di una particella carica con se stessa, è infinita ed è un serio ostacolo
alle applicazioni pratiche [16]. Il problema degli infiniti appare, quindi, in tutta la sua gravità
e rimarrà un ostacolo insormontabile per parecchi anni.
Come è stato sottolineato da M. Cini, i differenti punti di vista della comunità dei fisici tedeschi riguardo ai rapporti fra meccanica quantistica e classica, rispetto alla tradizione inglese di
Dirac, hanno pesantemente influenzato lo sviluppo della teoria quantistica dei campi [17]. Per
21
quest’ultimo, erede di una tradizione che va da Newton passando per Hamilton fino a Whittaker, la meccanica quantistica si collocava su una strada di sostanziale continuità con la meccanica classica ed in particolare il formalismo hamiltoniano rimaneva inalterato, con la sola
avvertenza di tener conto della natura speciale che assumevano le variabili dinamiche, soggette ora ad opportune regole di commutazione. Di conseguenza, la teoria della relatività, che era
il culmine della fisica classica, doveva essere incorporata fin dall’inizio nella teoria quantistica.
Completamente diversa era la posizione dei fisici tedeschi ed in particolare di Heisenberg,
Pauli e Jordan. La meccanica quantistica era una teoria completamente nuova che rompeva
con la fisica classica, che appariva ora solo come una teoria approssimata valida nel limite di
grandi numeri quantici (principio di corrispondenza). La teoria della relatività era quindi solo
una complicazione classica, della quale tener conto solo nel caso di particelle in moto a velocità vicine a quelle della luce. La poca importanza data ad una formulazione relativistica della
teoria quantistica dei campi sarebbe quindi all’origine degli insuccessi che per tutti gli Anni
Trenta caratterizzarono i tentativi di eliminazione degli infiniti.
Solo quando verranno ripresi alcuni articoli di Dirac degli Anni Trenta che formulavano la teoria in senso strettamente covariante fu possibile, dopo la Seconda Guerra Mondiale, rinormalizzare la teoria [18].
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Fermi, Rend. Acc. Lincei 12, 431, 1930; E. Fermi, Nuovo Cimento 8, 121, 1931; E. Fermi, Re-
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23
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[14] W. Pauli, Physical Review 58, 716, 1940.
[15] W. Heisenberg, W. Pauli, Zeitschrift fur Physik 56, 1, 1929; W. Heisenberg, W. Pauli,
Zeitschrift fur Physik 59, 160, 1930.
[16] P. Jordan, Zeitschrift fur Physik 30, 700, 1929
[17] M. Cini in Enrico Fermi, SIF, Editrice Compositori, Bologna, 2001, p.126.
[18] P. A. M. Dirac, Proceedings of the Royal Society of London 133, 60, 1931; P. A. M.
Dirac, Proceedings of the Royal Society of London 136, 453, 1932; P. A. M. Dirac, in Sep-
tiéme Conseil de Physique Solvay: Structure et Propertiétés des Noyaux Atomiques, 22 – 29
October 1933, Gautier Villars, Paris, 1934, p. 203.
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