Teorema - Atlante digitale del `900 letterario

Atlante digitale del '900 letterario
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Teorema
di Pier Paolo Pasolini
«Paolo è uno di quegli uomini abituati da
sempre al possesso. Egli ha […] sempre
posseduto; non gli è balenato neanche per un
istante il sospetto di non possedere» (Pier
Paolo Pasolini, Teorema, p. 82)
Nato come testo
teatrale nel 1965 e
divenuto
opera
cinematografica scritta e
diretta da Pier Paolo
Pasolini
nel
1968,
Teorema
viene
pubblicato nello stesso
Fig. 2
anno da Garzanti, sotto
forma di romanzo (Fig. 2-3). L’opera
riproduce tutte le vicissitudini sociali, politiche
e ideali dell’epoca: il boom economico, il
dissenso politico, l’avvento della cultura pop,
hanno portato una rivoluzione culturale, che
negli anni successivi andrà a determinare e
definire la società che conosciamo oggi.
Pasolini riflette su queste tematiche in
Teorema, creando una trama che si sviluppa
sul piano simbolico; tramite una successione
di eventi sostanzialmente semplice, lancia
una forte critica alla società consumistica
dell’epoca, di cui la classe borghese è sia
latrice sia vittima, come l’opera dimostra. Il
poeta bolognese mostra ancora una volta
una particolare lungimiranza, ora riflettendo
sugli “effetti collaterali” che il sistema
capitalistico da poco affermatosi susciterà: un
materialismo incombente, che demistifica i
valori tradizionali e spirituali, lascia la società
vuota e spoglia di qualsiasi identità.
Pasolini stesso
definisce
il
cinismo
della
nuova
rivoluzione
capitalista
«la
vera rivoluzione
da parte della
destra che, da
un punto di
Fig. 3
vista
antropologico, implica la presenza di uomini
senza alcun legame con il passato, che
vivono “l’imponderabilità”» (in Pannella e il
dissenso, articolo uscito sul «Corriere della
Sera» il 18 luglio 1975), quindi, l’unica loro
possibile aspettativa esistenziale è il
consumismo e la soddisfazione dei loro
impulsi edonistici.
Il cinema di Pasolini rompe le regole
narrative e le convenzioni consolidatesi fino
agli anni ’60, passando da un cinema “che
narra”, ad un cinema “lirico”, soggettivo, in
cui lo spettatore si possa rendere conto della
presenza della macchina da presa, attraverso
il montaggio e le inquadrature insolite.
Dunque non è una sorpresa che il film riceva
forti critiche sia dalla sinistra che dalla
destra; la prima definisce Pasolini un
reazionario e lo accusa di misticismo. Il
critico cinematografico Adelio Ferrero, tra le
altre cose, afferma: «[…]tutti i personaggi di
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Teorema, da quelli dichiaratamente borghesi
all’ospite
misterioso
alla
domestica
miracolata, sono le provvisorie e labili figure
di una metafora lirico-autobiografica, a
mezza strada tra il referto psicoanalitico e la
confessione per poesia, di cui è protagonista
assoluto l’autore stesso» (Il cinema di Pier
Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 1942, pp.
99-100).
Contraria a questa posizione è l’opinione di
Giuseppe Conti Calabrese, il quale reputa che
il modo in cui Pasolini affronta le tematiche è
quello di chi «getta sempre il corpo nella
lotta»,
non
di
chi
è
interessato
all’affermazione di posizioni ragionevoli ed
equilibrate, ma piuttosto alla volontà di
affrontare verità parziali, quindi scomode, e
al limite anche scorrette; la posizione quindi
di chi è immerso nella realtà in cui vive, e ne
viene influenzato. Dunque, attraverso questa
opera, l’autore non vuole semplicemente
trasporre i propri pensieri e giudizi, ma
manifesta una partecipazione emotiva,
attraverso la quale mette in discussione una
serie di valori, sia sulla società borghese ma
anche sul modo di analizzare la realtà
secondo
tutti
i
punti
di
vista.
Da parte sua la destra rimprovera il modo in
cui è stato affrontato il tema della sessualità.
Né l’una né l’altra fazione politica
comprendono davvero l’intento dell’autore. Il
rifiuto e l’intolleranza sono principalmente
dovuti ai due elementi fulcro dell’intera
trama:
sessualità
e
sacro,
che
concettualmente si trovano agli antipodi, ma
sono strettamente collegati. Il Divino,
rappresentato dall’ospite, attraverso la
propria componente irrazionale, mette in
discussione le personalità dei membri della
famiglia, facendo così perdere a ciascuno di
essi tutte le certezze tipicamente borghesi.
L’amore per l’ospite, distruggendo le fragili
barriere convenzionali che col tempo i
personaggi si erano creati, dà origine ad una
disperata ricerca d’identità che li porta ad
isolarsi sempre di più e ad alimentare il
proprio
dissidio
interiore. Dunque,
al
contempo, l’ospite rappresenta gli impulsi
carnali che, rifiutati e repressi dalle normali
convenzioni del tempo, colorano l’opaca
monotonia delle superficiali vite dei
personaggi, aggrappati a sterili e opprimenti
valori sociali. Folgorati dall’eros che l’ospite
suscita in loro, mano a mano tutti i familiari
subiscono
un
viscerale
cambiamento,
accompagnato dalla scoperta della loro
natura umana e dalle passioni da cui essa è
caratterizzata.
Scrive ancora il critico Serafino Murri: «Lo
sforzo espressivo di Pasolini è tutt’altro che
irrazionalista, tutt’altro che reazionario o
mistico. Infatti, va a toccare le basi
concettuali di una cultura che del proprio
mezzo, la ragione illuministica, aveva fatto la
gabbia in cui imbalsamare definitivamente,
con tutto il carico di ingiustizia presente, la
società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi
antagonismi tutti interni ad essa.» (in Pier
Paolo Pasolini, Il Castoro-l’Unità, 1995).
Ed è Pasolini stesso a descrivere la propria
opera, sulla rivista francese «Quinzaine
littéraire»: «Dio è lo scandalo. Il Cristo, se
tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai
suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio
sconosciuto, interpretato da Terence Stamp,
non è Gesù inserito in un contesto attuale,
non è neppure Eros identificato con Gesù; è il
messaggero del Dio impietoso, di Jehovah
che attraverso un segno concreto, una
presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro
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falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la
buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al
riparo della quale vivono o piuttosto
vegetano i benpensanti, i borghesi, in una
falsa
idea
di
se
stessi».
Il premio dell’OCIC (Organizzazione Cattolica
Internazionale per il cinema e l’audiovisivo) è
uno dei pochi riconoscimenti che il film
ottiene, sicuramente in minoranza rispetto
alle numerose diffamazioni ricevute: la Santa
Sede vieta la visione del film alla comunità di
cattolici osservanti, e lo stesso papa Paolo VI
lo definisce «l’inammissibile film»;
il 6 settembre 1968 la
visione viene vietata ai
minori di 18 anni; il 13
settembre, la Procura
della
Repubblica
di
Roma
sequestra
la
pellicola «Per oscenità e
per le diverse scene di
rapporti carnali, alcune
delle
quali
particolarmente
impudiche e oscene e
per i rapporti omosessuali tra un ospite e un
membro della famiglia che lo ospitava».
Segue una serie di altre accuse, per
concludersi con la sentenza del Tribunale di
Venezia, il 23 novembre, con la quale sia
Pasolini sia il produttore Donato Leoni
vengono assolti dall’accusa di oscenità e il
sequestro del film viene annullato: «Lo
sconvolgimento che Teorema provoca non è
affatto di tipo sessuale, è essenzialmente
ideologico
e
mistico.
Trattandosi
incontestabilmente di un’opera d’arte,
Teorema non può essere sospettato di
oscenità».
Sicuramente il film desta più scalpore,
proprio perché riesce a individuare delle
immagini che, anche se non dettagliate e
chiare come quelle del libro, rappresentano in
maniera
molto
nascosta
l'epoca
del
cambiamento, soprattutto dal punto di vista
della sessualità; ed è proprio sulle immagini
che la critica si concentra, travisando ciò
Pasolini intende realmente.
Parole e immagini si trovano ad avere, in
questi due poli espressivi, un ruolo analogo;
ciò che Pasolini fa in entrambi i casi è
infrangere norme stilistiche della forma
artistica in cui si cimenta: nel film il regista
bolognese muta l’essenza della narrazione,
puntando su una soggettività che passa
attraverso il peculiare uso della macchina da
presa e delle tecniche cinematografiche. Per
quanto riguarda il romanzo, Pasolini rinuncia
al realismo narrativo e si muove su un piano
allegorico, il cui scopo non è quello di
rappresentare una vicenda in quanto tale, ma
in relazione all’exemplum che mette in
risalto: le immagini stesse dimostrano una
tesi che si sviluppa attraverso lo svolgimento
del film: da qui il titolo Teorema. Questa
forte essenza simbolica è presente sia nella
rappresentazione letteraria che in quella
cinematografica; in quest’ultima è presente
un’evidente scarsità di dialoghi, e ad
imprimere di significato la pellicola sono le
immagini, che diventano appunto araldo di
un’espressività
concettuale
che
passa
attraverso l’allegoria artistica. Nell’opera
letteraria, l’allegoria è data dall’ampio uso di
metafore, dall’aggettivazione mirata, dai
rimandi a opere esterne al romanzo stesso.
Le vicende, sebbene ambientate a Milano, si
svolgono in un luogo senza tempo; lo stesso
autore usa spesso parole come «forse» e
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«probabilmente», senza dare veramente
importanza allo svolgimento cronologico degli
eventi: i vari rapporti e interazioni tra i
personaggi possono accadere prima o dopo o
contemporaneamente, in una stagione che
«può essere primavera o autunno». In
questa confusione e irrealtà, gli eventi
finiscono per sovrapporsi e susseguirsi: il
tempo sembra diventare circolare, tipico di
una realtà più naturale, della cultura popolare
contadina che va a opporsi alla mentalità
lineare borghese. È una realtà divina, biblica,
che nel film viene rappresentata attraverso il
continuo alternarsi di scene senza continuità,
dando esattamente l’idea del tempo onirico
nel quale sono immersi i personaggi, la cui
inespressività, specchio del mondo vuoto che
li circonda, è spesso catturata da particolari
inquadrature. Ferrero sostiene che bastino
solamente pochi, rapidi scorci di una
quotidianità allontanata e esautorata, ad
avvertire lo spettatore che quella cui sta per
assistere è una sorta di “allucinazione
poetica”. Tutto è ridotto all'essenziale:
inizialmente la macchina da presa mostra in
campo lungo un paesaggio con una fabbrica,
un liceo, una villa. Queste immagini
precedono la presentazione del personaggio,
ne divengono il simbolo, come se l'ambiente
sociale in cui le persone sono inserite
rappresentasse
la
loro
caratteristica
dominante; lo spazio diviene, quindi,
specchio della psicologia dei personaggi. La
scena è vuota, senza alcuna traccia della
presenza umana: l’industria, solitaria e
avvolta nella nebbia, diviene metafora della
desolazione interiore di Paolo. Lo stesso
avviene per le immagini delle scuole,
entrambe monumentali, circondate dalla
confusione cittadina. Persino la villa di
famiglia è mostrata nella sua immobile e
muta imponenza. È un deserto urbano quello
che viene presentato, in stretto rapporto con
continui rimandi al deserto vero e proprio che
Pasolini più volte menziona e mostra,
rendendolo uno degli elementi fondamentali
dell’intera opera: è il luogo dell’anima, terra
arida e brulla in cui il sacro non può
prosperare.
L’autore nella prima pagina del romanzo
inserisce la citazione biblica del Libro
dell’Esodo (13,18): «Dio fece quindi piegare il
popolo per la via del deserto», dando sempre
più l’idea che la famiglia si sia “persa”,
spiritualmente e fisicamente, in questo
ambiente desolato. Il padre, Paolo, è
l’esempio più lampante: egli alla fine delle
vicende vagherà nudo e perso (Fig. 4)
in un deserto
molto simile a
quello in cui gli
ebrei
si
incamminano,
descritto in una
Fig. 4
delle
tante
digressioni poste tra un capitolo e l’altro.
Dunque, attraverso i panorami viene
rappresentata la personalità dei personaggi e
attraverso questi ultimi, come afferma
Pasolini ispirandosi al poeta e scrittore Béla
Balàzs, c’è una definizione dell’intera realtà a
cui appartengono: «La caratteristica classista
è spesso più evidente dei tratti comuni alla
razza e alla nazione. […] I volti rivelano la
classe degli individui; non rivelano l'uomo
nella classe sociale, ma la classe sociale
nell'uomo».
I personaggi hanno un comportamento
cauto, timoroso di oltrepassare i limiti loro
imposti, che va a contrapporsi con quello
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confidente e sicuro dell’ospite; nella sua
sacralità e sensualità, la sua figura si discosta
dal resto dei componenti della famiglia,
elevandosi a un piano “non-umano”.
Rappresenta l’incognita, lo stravolgimento di
una normalità basata su pregiudizi e su
differenze sociali e di genere, la riscoperta di
desideri taciuti; il suo unico compito è quello
di provocare una crisi insanabile, portando
alla luce l’interiorità degli altri personaggi.
Con loro si rapporta in modo distaccato:
nonostante sembri amarli, i suoi gesti e i suoi
occhi
esprimono
un
comportamento
impassibile, perfettamente consapevole del
degradante destino che attende loro e la
classe sociale a cui appartengono. Una volta
svolto il suo incarico, scompare, lasciando
dietro di sé nient’altro che un deserto, un
vuoto privo di emozioni. Il suo nome non
viene mai citato: un’ulteriore indicazione di
come, in realtà, il giovane non sia nient’altro
che
un
espediente
narrativo.
Pietro, il primogenito, viene totalmente
sconvolto
dalla
presenza
inaspettata
dell’ospite; grazie a lui, il ragazzo comprende
le sue doti artistiche e anche il suo
orientamento sessuale. Tutto ciò lo porta ad
un totale alienamento dal mondo circostante,
che si accentua ancora di più quando l’ospite
lo abbandona. Pietro si rinchiude in sé stesso
e, ossessionato da mille domande e
frustrazioni, scappa di casa, dedicandosi
esclusivamente all’arte, ma non riuscirà mai a
creare opere che lo rispecchino appieno e
impazzirà
del
tutto.
Odetta, la seconda figlia, ha una reazione
simile: quando l’ospite abbandona la casa, la
ragazza perde la ragione e viene portata in
manicomio. Rimane lì, completamente
immobile e vittima della solitudine; una
conclusione che è specchio di tutta la sua
vita:
deserta
e
miserabile.
Entrambi i fratelli sembrano precocemente
segnati dalle caratteristiche della loro
condizione sociale: il ragazzo appare timido,
debole; il viso della sorella è privo dei tratti
tipici
della
giovinezza
ed
assume
un'espressione seria, severa, precocemente
invecchiata.
Fig. 5
Si può dire che solo la serva Emilia trovi una
sorta di libertà poiché, facendosi sotterrare
viva, riesce a elevarsi allo stesso piano
dell’ospite e a fuggire dalla realtà a cui il
resto dei personaggi è ancorato (Fig. 5). Sia
film che libro, sono divisi in due fasi: una
prima parte, che contiene l’introduzione il
“contatto” con il sacro, e una seconda, nella
quale avviene la completa distruzione fisica e
psicologica dei familiari. A ogni sequenza
corrisponde un capitolo nel testo, rendendo
ancora più evidente quanto le due versioni
siano nate da un’unica idea di base; il modo
stesso in cui è scritto libro lo fa apparire
come la sceneggiatura della pellicola. Le
indicazioni temporali, come le descrizioni dei
personaggi, sono riportate spesso tra
parentesi e in una forma che sembra quella
delle didascalie dei copioni cinematografici.
In
realtà
non
sono
indicazioni
di
sceneggiatura, ma osservazioni a posteriori,
fatte a partire dal film dopo che Pasolini
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aveva già scelto gli attori e iniziato le riprese;
quindi inserite nel testo per evidenziare
elementi e rimandi simbolici presenti nella
pellicola e contribuendo a chiarirne il senso e
dimostrando come i due testi si compenetrino
e
si
completino
a
vicenda.
Fondamentali nel film sono i monologhi (Link
1-2-3) dei familiari, che si vanno a sostituire
alla voce narrante del romanzo, la quale ha il
preciso compito di spiegare il tumulto
interiore e la successiva metamorfosi di ogni
componente della famiglia: Paolo, nel libro,
rende palese la sua attrazione per l’ospite
poggiandogli una mano sulla gamba, mentre
nel film c'è la necessità di una spiegazione,
per far comprendere agli stessi spettatori la
trasformazione che Paolo sta subendo, per
cui Pasolini la manifesta con un monologo.
Una situazione simile accade quando l’ospite
conforta Emilia, e in particolare la madre,
Lucia, nel suo discorso esprime l’idea di base
su cui si fondano le vicende narrate: «[…]
quel vuoto era riempito da falsi e meschini
valori, da un orrendo accumulo di idee
sbagliate […] dunque partendo non distruggi
niente di ciò che c'era in me prima […] ma
l'amore, nel vuoto della mia vita, lasciandomi,
lo distruggi tutto.» Le espressioni degli attori,
dunque, non bastano: la voce, le parole sono
utilizzate per rendere chiaro il messaggio di
Pasolini, che appare come un ammonimento,
i cui echi si possono ritrovare anche nella
società moderna, che ha posto le sue radici
in queste convinzioni e convenzioni sociali,
fortemente criticate dall’autore.
Contributo
Sara Attanasio, Carola di Frischia, Filippo Guarna,
Francesca Pacelli, Giulia Musumeci, Lucia Russo,
IV D (L.C. Virgilio, Roma)
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