Petrolio - analisi appunti 122-23: "La Nuova periferia"

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“Il deserto era attraversato da una larga strada d'asfalto”:
la nuova periferia in Petrolio di P.P. Pasolini
Di Benedetta Maggi, V O – Liceo L. Galvani
La selva di palazzi, moderni nel loro asettico grigiore, all'avanguardia nel loro essere fitti, nel loro
sfruttare ogni centimetro di suolo all'inverosimile, si diradano a mostrare il deserto che, poco oltre
la periferia, è attraversato da un'unica strada: questa larga lingua d'asfalto unisce la città all'informe
realtà del suburbio. Qui i ragazzi, attirati dai colori del progresso, si aggirano con sguardi vuoti su
rombanti motociclette, rabbiosi e pallidi, i loro animi diversi da quelli dei vecchi che, seduti sugli
scrostati poggioli delle vecchie case oltre questa strada, tacciono le loro dignitose consapevolezze.
È il mondo dei capolinea degli autobus, le cui linee, sempre più lunghe, uniscono le vite di
conducenti e fattorini che attendono il loro turno alla fermata: lo sguardo presuntuoso e
indisponibile, essi non si parlano, il loro silenzio rotto solo dal vociare di una forzata e desolante
allegria portata da un gruppo di giovani.
Questa la dimensione che gli appunti 122 e 123 designano come la “nuova periferia” in
Petrolio di Pier Paolo Pasolini: una realtà piatta e rabbiosa, invidiosa del mostruoso progresso che
l'ha cambiata e deturpata, non ancora del tutto raggiunto esclusivamente per via di salari troppo
bassi, che non impediscono però l'acquisto di abiti dai colori artificiali, unica, fredda e finta luce,
nello scolorato panorama degli incarnati emaciati e delle case scrostate.
Carla Benedetti, in Quattro porte per “Petrolio” (in riferimento agli appunti dal 71 al 74, la
“Visione del Merda”), offre un'analisi di questa realtà che, desolata ai nostri occhi, appare
spaventosa a Pasolini: non è infatti semplice “omologazione”, secondo Benedetti una rozza
fotografia delle trasformazioni di questo “Nuovo potere” che è il progresso economico, ma un
dilagante desiderio indotto con una capacità livellante tale da penetrare “nelle zone più intime degli
individui, nel loro modo di essere, nella loro 'antropologia', plasmandone i corpi, la gestualità,
l'espressione” (dal testo sopracitato). Un causato “dover essere” dunque, ma molto voluto, che si fa
“pialla” sociale e che pertanto, oltre ad eliminare le ricchezze delle culture più primitive ed ingenue
(“cruccio” tipicamente pasoliniano, all'origine della sua attività letteraria), si spande
orizzontalmente in un abbaglio che, falsamente democratico, accorpa ed annulla, ma che abbaglio
resta: la “larga strada” raccontata nell'appunto 122 illude il lettore di trovarsi di fronte a un ponte di
solido accesso verso il miglioramento; ma essa “ha i margini slabbrati”, e ai lati vi sono rifiuti, e il
tempo sembra qui essersi fermato nelle espressioni spente di tanti ragazzi cresciuti uguali.
D'altronde Pasolini lo lascia intendere proprio nell'esergo, citando Mandel'stam, il filo che Petrolio
avrebbe seguito, ovvero l'ennesima testimonianza del suo teso rapporto coi tempi correnti, col
progresso dell'Italia degli anni '70, col denaro che, allora (come ora) è e regala potere: ed egli, con
questo “mondo del potere” non ha avuto “che vincoli puerili”. Legami dunque bambineschi,
infantili, di fatto leggeri e, paradossalmente, sciolti: lacci che si fanno lenti quando non servono più
allo scopo perseguito. Pasolini è qui il bambino che si scalza con noncuranza le scarpe nuove
allacciate dalla madre, dopo aver corso, senza sciogliere le stringhe: l'intellettuale che, ottenuto ciò
che di buono può dal demoniaco mondo in cui vive, se ne disfa e lo disprezza. “Demoniaca” è
anche la tecnica narrativa che l'autore rivendica per sé nella stesura di Petrolio: “è un romanzo, ma
non è scritto come sono scritti i romanzi veri […] io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in
carne ed ossa […] ho messo tale oggetto tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme”, scrive a
Moravia. L'opera risulta infatti complessa, difficile in lettura e comprensione sotto innumerevoli
aspetti: l'asprezza delle parole, delle immagini, combinate a formare, nei passaggi nodali, allegorie
del paradosso atte a spiegare proprio la dicotomia tra progresso economico e recessione culturale.
La “forma” che Pasolini ricrea è mista di stilemi di saggio, di romanzo, di poesia, e di sapori: si
ritrova una sorta di “verismo introspettivo” nel gusto provato dall'autore nel farsi specchio della
realtà delle periferie e allo stesso tempo attento interprete degli effetti di questa realtà sugli animi. Il
linguaggio, spesso empio e volgare, risulta a tratti poetico grazie ad allitterazioni, assonanze e
ripetizioni in un lavoro che si fa meta-testuale: “i capelli tagliati corti sulla fronte, e lasciati
lunghissimi dietro le orecchie a penzolare fino sulle spalle, davano loro un'aria di feticci femminili1
ridicoli e sinistri” (appunto 122). Nasce, nel lettore, disgusto; e cresce in lui la paura di ritrovarsi
dentro la realtà descritta come matrice di questa desolazione: “[...] Le costellazioni di casamenti si
erano incastrate l'una dentro l'altra, e i soli tagli che aprivano quella superficie compatta erano
quelli dei cavalcavia, specole sul disordine, percorsi rabbiosamente da migliaia di automobili e di
camion”. Proprio questo appunto (il 123) culmina con un'interpretazione pasoliniana della realtà,
che vede tramontata ogni speranza di trovare rimedio alla situazione creatasi: “la mattina era già
matura, il sole scomparso in una specie di velame”.
1
Allitterazione
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