Comprensione del diritto, non sul diritto Giuseppe Zaccaria A Practical – not Theoretical – Understanding of Law. This article, in which the author responds to the commentaries made on his book La comprensione del diritto, argues for the view of hermeneutics as a flexible approach open to different kinds of knowledge. Hermeneutics is a useful instrument for understanding law, as it is designed to overcome the discrepancies between theory and practice and to grasp the salient aspects of concrete situations. With regard to Francesco De Sanctis’s contribution, in which the legal hermeneutic approach is cast as an example of contemporary constitutionalism, the author argues that the latter, unlike hermeneutics, fails in its attempt to bridge the gap between theory and practice. The author then turns to and embraces the diagnosis made by Massimo Vogliotti, who points out that Italian criminal legal science is for the most part reluctant to open up to judicial opinion and reasoning, since it is tied to an Enlightenment view of legal certainty and thus ignores the need to reason about cases, which, contrary to the assumption made on the Enlightenment view, are to be seen as having a role in criminal law no less than in the other branches of law. Likewise, the author agrees with Mauro Barberis’s criticism of the tendency of analytical legal realism to disregard common practices and common law as irrelevant. Lastly, the author embraces Francesco Viola’s perspective, as it identifies one of the contemporary sources of legal hermeneutics in the Aristotelian notion of practical philosophy, with its connection between practical knowledge and concrete action. The author does call into question, however, the view of the hermeneutic approach as a series of deliberative activities, since that view seems hardly applicable to legal science. In summary, the argument presented in this paper is for a hermeneutic approach to law as a social practice, an approach which rejects the attempt to view law through the lens of grand theories applied to the law from the outside. Keywords: Hermeneutics, Legal Knowledge, Interpretation, Practical Reason, Creating New Law. 1. Quando, agli inizi degli anni Settanta, cominciai ad interessarmi di ermeneutica, accostandomi alla lettura di Hans-Georg Gadamer e ai saggi tedeschi di ermeneutica giuridica, non si disponeva ancora in Italia della traduzione di Wahrheit und Methode ed erano poco conosciuti i termini di un dibattito metodologico che coinvolgeva i maggiori giuristi della Germania che si risollevava dalla Rechtskatastrophe. Eppure la “folgorazione” di Rivista di filosofia del diritto [IV, 1/2015, pp. 119-126] ISSN 2280-482X © Società editrice il Mulino scoprire qualcosa di veramente nuovo, anche se profondamente radicato nella tradizione del pensiero umanistico dell’Occidente, qualcosa che poteva dire una parola originale nella lunga vicenda teorica di un’antitesi tra giusnaturalismo e giuspositivismo che già allora mostrava di aver consumato il suo spessore teorico originario, fu assai netta e consapevole. Da allora, la parabola dell’ermeneutica di derivazione gadameriana ha percorso un lungo tragitto, è stata accusata di relativismo e di tradizionalismo, è stata – ambiguamente – considerata come una sorta di koinè culturale nel campo della filosofia e delle scienze umane, ha intessuto un serrato confronto critico con gli sviluppi della filosofia analitica e con le derive scettiche del decostruzionismo; ma, almeno nella mia prospettiva, i termini di fondo dell’approccio ermeneutico non sono mai sostanzialmente mutati. “Chi pensa che assumere un atteggiamento ermeneutico significhi abbracciare il relativismo, o al contrario sostenere una qualche forma di tradizionalismo, non ha capito nulla dell’ermeneutica. Anzi ne mistifica il nucleo stesso” (Gadamer 2007, 168). Queste parole di Gadamer, pronunciate nel corso di un memorabile dialogo con Damiano Canale, illuminano bene quello che a mio avviso è, e resta, il nucleo essenziale dell’ermeneutica: un approccio costitutivamente aperto a prospettive diverse, a forme di dialogo con tradizioni e saperi diversi. È insomma un metodo di lavoro, uno stile di indagine filosofica e filosofico-giuridica, più che una prospettiva contenutisticamente connotata, un metodo ed uno stile di lavoro flessibili che pongono in dialogo posizioni contrapposte per attingere ciò che è loro comune. La riscoperta dell’ermeneutica come Ars Interpretandi, come suona il titolo della rivista che a partire dal 1996 ho contribuito a creare con Francesco Viola e il compianto amico Franco Volpi, più che tradursi in un orientamento filosofico e teorico particolare accanto ad altri, esprime programmaticamente l’approccio pratico di un’arte che si sviluppa dall’interno dei processi interpretativi e si edifica, rispettando le regole del bene agire, in base alle caratteristiche dei soggetti interpretanti e dell’oggetto da interpretare. Un ritorno, dunque, all’idea originaria dell’ermeneutica come Ars Interpretandi, che difende una concezione pratica del sapere, una concezione che pur attraversando l’intera storia della filosofia, antica, medioevale e moderna, fino alla fine degli anni Settanta era caduta in dimenticanza e non richiamava più alcun significato ben definito. Se questa concezione possa essere ricondotta alla filosofia pratica di Aristotele è questione che analizzeremo più avanti. 2. La comprensione del diritto, il volume cui la Rivista di filosofia del diritto dedica un proprio, specifico focus, muove nelle mie intenzioni da una serie di esigenze diverse: quella di ricomporre e ripensare i contributi da me elaborati nell’ultimo decennio, quella di offrire un quadro interpretativo 120 Giuseppe Zaccaria unitario e dotato di un minimo di organicità alle profondissime modificazioni – di struttura e di paradigma – intervenute nel diritto contemporaneo con l’effetto di destrutturare un intero arsenale teorico con il quale erano cresciuti i giuristi nati dopo la seconda metà del Novecento; quella, infine, di riprendere il tema del rapporto tra teoria e pratica del diritto, interrogandosi su quale tipo di conoscenza si connetta alla “cosa diritto”. Fin dal titolo, La comprensione del diritto vuol esprimere l’idea che l’interpretare indica il processo ermeneutico, mentre il comprendere indica il suo risultato. L’idea, insomma, che l’ermeneutica non è un fine e un obiettivo ultimo, quanto piuttosto uno strumento attivo per comprendere il diritto e le attività che in esso si articolano e per superare la dannosa separazione tra la teoria e la pratica, calandosi all’interno del fenomeno giuridico. Al centro dell’analisi rimane ben fermo il fulcro dell’interpretazione, che “si conferma come dimensione strutturale e profonda della giuridicità” (Zaccaria 2011, 3650), come la ragion d’essere di una prospettiva ermeneutica che rifiutando sia deduttivismo e logicismo, sia il formalismo giuspositivistico, ai primi connesso, aspira a comprendere non solo i testi giuridici e il loro contesto di applicazione, ma anche più ampiamente la storia e i mondi di vita in cui le attività giuridiche si articolano. Un programma dunque esplicitamente antiriduzionistico, teso a cogliere le specificità delle situazioni concrete e la più vasta domanda di giustizia che ad esse si lega. È forse inutile sottolineare come un simile, programmatico modo di intendere la comprensione come un modo di conoscenza in cui è la stessa “cosa diritto” a suggerire “dal basso” le condizioni per la propria comprensione sia implicitamente – quando non esplicitamente – polemico nei riguardi di un modo di concepire la legalità (Paolo Grossi parlerebbe di assolutismo giuridico) basato sull’assolutezza dell’atto intellettuale di tipo legislativo da parte di chi detiene il potere politico, sia che si chiami monarca assoluto come nel Settecento, sia che si identifichi nel Parlamento, come nell’Ottocento e nel Novecento. Inesorabilmente, il diritto nella prospettiva della modernità giuridica è ridotto al contenuto di un comando (Grossi 2014, 927). Diviene perciò interessante rilevare come nella fine analisi di Francesco De Sanctis il “giuscostituzionalismo”, cui egli riconduce una prospettiva come quella adottata ne La comprensione del diritto, che sposta il punto di vista della teoria del diritto dalla “positio” all’“inventio”, venga da un lato acutamente ricollegato al costituzionalismo moderno, come suo sviluppo per così dire interno, e dall’altro riconnesso alla pensabilità del diritto nella nuova, attuale dimensione globale che ci situa “oltre lo Stato”. In tal modo, le trasformazioni che il diritto ha subito nel corso dell’ultimo quindicennio e quelle profondissime, che pur in una tendenza inesorabile al disordine e al non ordinamento, esso continua oggi ad attivare, costituirebbero la riemersione dell’autentica struttura del diritto dopo la parentesi “sovranitaria” e Comprensione del diritto, non sul diritto 121 “legicentrica” della modernità. Un originario che “proviene” dal passato e avviene nel futuro. In realtà, la precisa constatazione di De Sanctis, quella per cui anche nelle tradizioni giudicate criticamente dalla prospettiva ermeneutica, e da lui definite come “sovranitaria” e “protocostituzionalistica”, l’interpretazione non gioca affatto un ruolo secondario (da Hobbes, a Montesquieu, a Kelsen), coglie assai bene come il momento interpretativo sia gadamerianamente il luogo in cui si mediano le distanze temporali, culturali e linguistiche: senza dubbio è vero che l’intenzionalismo non basta per comprendere il diritto e occorre riferirsi ai contesti di esercizio in cui esso viene applicato, ma forse si può ancor più energicamente rimarcare la pregnanza del momento applicativo che l’ermeneutica mette al centro delle relazioni tra fatto e diritto, tra testo e contesto, tra diritto come è e diritto come dovrebbe essere. Voglio dire che ciò che sicuramente manca, almeno nelle prospettive sovranitaria e protocostituzionalistica, è la consapevole volontà di ricomporre l’eccessiva separazione della teoria dalla pratica del diritto, finendo così per abbandonare i percorsi della pratica alla casualità, per non dire all’irrazionalità interpretativa: un esito cioè ben diverso da quello, almeno nelle intenzioni, perseguito dall’ermeneutica, nella cui prospettiva l’indubitabile creatività dell’interprete opera all’interno di una struttura linguistica e di una tradizione preesistente che circoscrivono i limiti della sua opera innovativa. Non c’è soltanto creazione e innovazione, spesso disordinata, nel diritto: c’è anche interazione e dialogicità, che, pur manifestandosi in un quadro di disaccordi e di strutturali dissonanze, rivelano una più profonda istanza normativa, quella che accomuna giurisprudenza e scienza giuridica nell’intento di mediare incessantemente e con ragionevolezza tra testi giuridici e casi concreti. 3. Due momenti in cui emblematicamente si evidenzia la portata ad un tempo demistificante e innovatrice rispetto al pensiero giuridico tradizionale dell’ermeneutica giuridica contemporanea sono quelli del diritto penale e del diritto non scritto, trattati nei contributi al focus di Massimo Vogliotti e Mauro Barberis. Giustamente e coraggiosamente Vogliotti, che già alcuni anni or sono aveva dato un importante strumento di lettura delle trasformazioni giuridiche in atto nell’Europa continentale (Vogliotti 2007), osserva come una parte consistente della comunità penalistica italiana, ancora legatissima ai principi di origine illuminisitico-liberale (di legalità, di tassatività di divieto di analogia, di vincolo del giudice alla legge), opponga tuttora un dogmatico quanto aprioristico rifiuto alle tesi ermeneutiche, che prendendo atto dell’avvenuta, profonda trasformazione nel sistema delle fonti, riconoscono invece il contributo costruttivo fornito dall’interprete nel procedimento di interpretazione giuridica. È vero, vi è, nel campo delicatissimo del diritto 122 Giuseppe Zaccaria penale, qualche significativa apertura teorica (da Fiandaca a Donini), che ha aperto brecce fino a pochi anni or sono impensabili. Tuttavia – e qui non si può che consentire con Vogliotti – il nodo di fondo del diritto penale giurisprudenziale è ancora ben lungi dall’essere affrontato con il necessario respiro teorico. I concetti e i principi fondamentali del diritto penale non possono però prescindere dall’includere induttivamente anche le circostanze concrete della rispettiva costellazione casistica. Essi non possono cioè dal punto di vista argomentativo eludere il confronto con la profondità e l’inarrestabilità del cambiamento sociale. Valga per tutti il paragone con i testi sacri, dove l’apparente immutabilità di testi per eccellenza normativi è necessariamente temperata da un’arte dell’interpretazione riccamente e finemente cesellata (v. AA.VV. 1999). La breve ma incisiva analisi di Mauro Barberis coglie efficacemente un paradosso presente nelle prospettive analitiche del giusrealismo, in particolare di Pierluigi Chiassoni: quello per cui un approccio programmaticamente orientato alla law in action finisce per chiudersi in se stesso, in un formalismo legalistico che riduce il diritto a legge e rifiuta ogni rilevanza al diritto non scritto e agli effetti non intenzionali dell’agire intenzionale degli operatori giuridici, con la conseguenza di liquidare la consuetudine giuridica come una sorta di reperto archeologico da mettere in archivio. Di questo paradosso in cui incorre e che gli preclude di cogliere il ruolo di regolazione sociale che la consuetudine svolge in alcuni settori del diritto, il giusrealismo analitico non pare essere consapevole. Al contrario, l’ermeneutica è venuta riscoprendo la rilevanza di fonti non scritte, come consuetudini e gli stessi precedenti, dimostrando come si tratti di tematiche che possono dar luogo a riflessioni teoriche originali. È vero: consuetudine è termine non esente da vaghezza ed ambiguità, ma ciò non autorizza l’adozione di un atteggiamento scettico e sommariamente negativo. Non è difficile riscontrare nella consuetudine un’originaria e inestricabile mescolanza di elementi normativi e di elementi fattuali, ma il fatto che il solo ripetersi di una medesima condotta possa dar luogo a norme di contenuto non univoco è segno di ricchezza e non di povertà teorica, e ci sollecita a porre esplicitamente il tema dei rapporti tra norme giuridiche e altre forme di regolazione sociale. Già Savigny aveva osservato come anche l’esperienza giuridica caratterizzata dal primato della legge non sia immune da un segno strutturale di tipo consuetudinario. E si può aggiungere che le caratteristiche dei comportamenti consuetudinari, più che essere individuate da una o più norme specifiche, contribuiscono ad individuarle (Canale 2008, 113). In tal senso, l’elemento consuetudinario, l’esistenza di norme non esplicitamente formulate che sorgono da regolarità di comportamenti sociali, non è tipica soltanto del periodo storico pre-moderno o dei processi attuali di costituzionalizzazione e di internazionalizzazione e globalizzazione del diritto, ma costituisce un aspetto permanente e Comprensione del diritto, non sul diritto 123 universale ancorché non intenzionale del diritto e della vita sociale. Quando parliamo di carattere strutturale della presenza della consuetudine nel diritto ci riferiamo dunque ad una dimensione più ampia che coinvolge principi, valori, concetti e istituzioni politiche, che non può essere espunta dal panorama del diritto senza causare un grave impoverimento. 4. Siamo infine al denso e stimolante contributo di Francesco Viola al focus, ricco di suggestioni e di una riconsiderazione di ampio respiro dell’ermeneutica giuridica. Un’antica amicizia ed una consuetudine di lavoro comune che ci legano e che ci hanno permesso di incrociare più volte le nostre ricerche, gli consentono di evidenziare con efficacia come l’approccio ermeneutico, in quanto fortemente connesso all’uso della ragion pratica nel diritto, rappresenti una sfida che la teoria giuridica deve raccogliere se non si vuol condannare all’irrilevanza nell’attuale mondo della complessità. Poiché i motivi di consonanza e di consenso con Francesco Viola sono ben più ampi e consistenti di quelli di disaccordo, non mi soffermerò su di essi e andrò invece al nodo dei problemi che egli acutamente solleva. Da un lato egli riconosce del tutto correttamente che La comprensione del diritto denota un approccio molto attento a non sposare alcuna versione particolare dell’ermeneutica giuridica, neppure l’eredità di quello che ne rappresenta in certo senso il principale alveo contemporaneo, ossia il pensiero di Hans-Georg Gadamer; e coglie benissimo la volontà di questa mia opera di lavorare ad un recupero dell’ermeneutica come arte dell’interpretare, identificando il diritto come il prodotto di tale dimensione di techne, ma insieme come questa techne stessa. Tuttavia, nell’ultima parte del suo contributo Viola pone ugualmente sul tappeto un interrogativo di fondo. Pur consapevoli dell’incompiutezza filosofica dell’ermeneutica giuridica, che non intende legarsi – come si è appena detto – ad alcuna matrice filosofica particolare, possiamo riconoscere che in definitiva l’autentico background filosofico che può valorizzare al meglio istanze e processi dell’ermeneutica giuridica, sta nella filosofia pratica di Aristotele? E aggiunge: possiamo di conseguenza leggere il diritto nei diversi momenti in cui si articola (e in particolare nell’opera del giurista, del giudice e del cittadino) come attività deliberativa? Cominciamo col ricordare che la netta demarcazione aristotelica tra conoscenza teoretica, poietica e di tipo pratico (Topoi, VI, 6, 145a 14-18, Etica Nicomachea, VI, 2, 1138 a 27-28) ha per obiettivo non tanto di designare l’insieme di politica, economia ed etica, come più tardi nell’Ellenismo e nel Medioevo si sosterrà, quanto piuttosto di definire la modalità conoscitiva che è rilevante per l’azione. Infatti, la finalità perseguita nell’ambito pratico è la riuscita dell’agire stesso e la modalità conoscitiva che a quest’ultimo si lega considera appunto l’agire umano in vista della sua attuazione e della 124 Giuseppe Zaccaria sua riuscita effettiva (Etica Nicomachea, VI, 2, 1139 a 26-27). In definitiva, il sapere pratico, pur non avendo lo stesso grado di precisione delle scienze teoretiche, proprio perché si occupa delle vicende e dei comportamenti umani che sono contingenti, ha il vantaggio rispetto al sapere teoretico di essere orientativo dell’azione. Questi stessi aspetti, l’oggetto che viene considerato e la finalità di tipo pratico che orienta l’agire, si ritrovano puntualmente all’interno del diritto, il cui carattere pratico, l’applicazione di regole a casi concreti, appare come indubitabile. Il diritto va identificato come una pratica, come un processo di integrazione e armonizzazione tra soggetti diversi, che non esclude evidentemente il disaccordo, ma lo presuppone come fonte principale del proprio sviluppo. Regole e principi hanno bisogno di essere concretizzati nelle diverse articolazioni della vita umana e di calarsi nella contingenza delle singole situazioni. La razionalità tipica del diritto è quella che Simon chiamerebbe del problem solver, quella orientata alla soluzione delle controversie giuridiche, e in tal senso essa, esigendo strutturalmente l’abilità e la capacità di applicare regole e principi ai casi concreti, presenta forti somiglianze con la phronesis aristotelica (su cui Zagzebski 1996), qualificando così l’ermeneutica come una filosofia connessa con il primato della ragion pratica e con la dimensione applicativa che richiede l’apprezzamento delle situazioni particolari. Ciò che meno mi convince è il legare l’ermeneutica ad una più specifica concezione deliberativa del diritto (cfr., ad es., Rodriguez-Blanco 2014), sia perché ricollegare questa prospettiva nel campo della filosofia del diritto ad una visione particolare contraddice quell’approccio di fondo flessibile ed aperto su cui sopra abbiamo insistito, sia perché non è sempre agevole ricondurre ad un modello deliberativo l’opera dello studioso di diritto (si pensi, solo per fare un esempio, alla costruzione di tesi dogmatiche che rappresenta indubitabilmente una parte dell’opera della dottrina; cfr. Guastini 2006, 86ss.). O si qualifica la scienza giuridica unicamente come interpretazione, come proposta al giudice di specifiche soluzioni interpretative (ma l’interpretazione non esaurisce la complessità dell’opera del giurista), o si rischia indirettamente di offuscare quella centralità dell’opera dell’interprete che a me pare indiscutibile, soprattutto nel diritto contemporaneo. E l’opera dell’interprete ha a che fare non soltanto con le interpretazioni ma anche con i fatti: meglio, ha a che fare con il rapporto tra i fatti e le interpretazioni. Non ci può essere pertanto convergenza dell’ermeneutica con quelle prospettive, come il giuspositivismo, che configurano il diritto “dall’alto”, come un sistema di norme, e lo qualificano sulla base della teoria della validità. Al contrario, l’ermeneutica muove “dal basso” e vede il diritto come pratica sociale, individuandolo per il modo con cui le regole si formano e venComprensione del diritto, non sul diritto 125 gono seguite. Comprensione del diritto (non della legge), dunque, e non sul diritto: diversamente, cadremmo nell’astrattismo di chi applica dall’esterno concezioni generali ad un campo specifico dell’esperienza umana. Giuseppe Zaccaria Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali Via VIII Febbraio 2 35122 Padova [email protected] Riferimenti bibliografici AA.VV. 1999. “Interpretazione del sacro e interpretazione giuridica.” Ars Interpretandi 4 (fascicolo tematico). Canale, Damiano. 2008. “Paradossi della consuetudine giuridica.” In La consuetudine giuridica. Teoria, storia, ambiti disciplinari, a cura di Silvia Zorzetto, 63-107. Pisa: ETS. Gadamer, Hans-Georg. 2007. “Ethos mondiale e giustizia internazionale. Intervista a cura di Damiano Canale.” Ars Interpretandi 12: 159-169. Grossi, Paolo. 2014. “Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto.” Giustizia civile 2014, 4: 921-955. Guastini, Riccardo. 2006. Lezioni di teoria del diritto e dello Stato. Torino: Giappichelli. Rodriguez-Blanco, Veronica. 2014. Law and Authority under the Guise of the Good. Oxford: Hart. Vogliotti, Massimo. 2007. Tra fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica. 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