Fenomenologia della sconfitta romana. L`età della

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Fenomenologia della sconfitta
nella Roma repubblicana. L'età
della guerra annibalica
Luca De Fassi
Relatore: Prof. Cavaggioni
A. A. 2012/2013
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INDICE
Copertina……………………………………………………………………………..pp. 1
Introduzione……………………………………………………………………......pp. 1-2
Prima parte…………………………………………………………………………...pp. 3
Battaglia del Ticino………………………………………………………………..pp. 5-10
Battaglia del Trebbia………………………………………………..…………....pp. 11-16
Battaglia del Trasimeno…………………………………………..……………...pp. 17-23
Lucio Ostilio Mancino…………………………………………..………………..pp. 24-25
Battaglia di Canne……………………………………………..…………………pp. 26-36
Sconfitta di Capua ed episodi bellici coevi………………....……………………pp. 37-44
I battaglia di Erdonea……………………………………..……………………..pp. 45-46
Gli Scipioni in Spagna…………………………………..………………………..pp. 47-50
II battaglia di Erdonea………………………………..………………………….pp. 51-53
Agguato a Venosa……………………………………..………………………….pp. 54-55
Seconda parte………………………………………..……………………………...pp. 56
Responsabilità………………………………………..…………………………..pp. 57-77
-Considerazioni generali…………………………..………………………………...pp. 57
-Ferocia e temeritas………………………………..…………………………….pp. 57-69
-Astuzie dei Cartaginesi…………………………..……………………………...pp. 70-74
-Defezione dei mercenari………………………..……………………………….pp. 74-75
-Prodigia..........................………………………..……………………………….pp. 75-77
Bibliografia…………………………………......………………………………..pp. 78-79
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro si inserisce all'interno di un più vasto progetto di ricerca,
finalizzato a studiare il fenomeno della sconfitta militare nella realtà di Roma antica.
La disfatta non viene considerata nella sua dimensione tecnico-militare,
bensì sul piano storico, sociale e politico. Inoltre viene analizzata l'importanza del
momento della sconfitta (pur sottovalutato dai moderni), come elemento chiave
dell'ascesa di Roma. Più precisamente viene dato risalto alle modalità con le quali
l'insuccesso viene nelle fonti presentato, raccontato, spiegato e talvolta esorcizzato.
In questa prospettiva, il presente studio si è occupato di analizzare la
rappresentazione dell'evento-sconfitta nell'opera di uno degli autori più significativi del
panorama storiografico latino, lo storico Tito Livio. Per quanto riguarda la monumentale
opera liviana “Ab Urbe Condita”, purtroppo sopravvissuta solo parzialmente, si è presa in
considerazione la terza deca (Libri XXI-XXX), che narra gli eventi della II guerra punica.
Il conflitto annibalico, infatti, fu teatro per i Romani,
di numerose e significative
battaglie perse.
Si è perciò proceduto ad individuare i casi delle disfatte attestati dalla fonte,
attraverso la lettura integrale del testo liviano (dei libri XXI-XXVII). Nel comporre tale
casistica si sono prese in considerazione anzitutto le sconfitte subite in battaglia campale,
ma anche gli episodi minori più importanti, che hanno avuto comunque una forte eco nel
mondo romano del tempo. Successivamente si è proceduto a realizzare delle schede, in
cui per ciascun caso, veniva precisata la collocazione cronologica, lo svolgimento dello
scontro, la tipologia della sconfitta con la relative perdite umane e la descrizione che lo
storico fornisce dei protagonisti di queste battaglie.
Sulla base di tale lavoro preliminare, l'elaborato finale è venuto
articolandosi in due distinte sezioni. Nella prima parte si sono esaminati i singoli episodi,
così come sono narrati dalla fonte, senza particolari commenti. Nella seconda parte è
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stata creata un'analisi dei temi più rilevanti emersi dalla precedente lettura. In particolare
si è posto l'accento alle cause e alle responsabilità che Tito Livio affibbia ad ogni
sconfitta. Tali responsabilità si dividono in quattro sezioni basilari: nella precipitazione
ed eccessiva foga del comandante (che Livio precisa tramite i due termini chiave ferocia
e temeritas), nelle insidiae tese da Annibale e dai suoi uomini, nello scarso affidamento
che si può fare sulle truppe mercenarie e nella spiegazione trascendentale, data da una
lunga lista di prodigia, che lo storico fornisce come ulteriore motivazione per queste
disfatte.
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PRIMA PARTE
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BATTAGLIA DEL TICINO
Nella sua opera, “Ab urbe condita”, Tito Livio dedica un ampio spazio alle
vicende che ruotano attorno alla seconda guerra punica. Lo storico descrive tra le altre
cose una decina di sconfitte (escludendo quelle minori) nette, che subisce l’esercito
romano contro i nemici Punici. La prima battaglia che analizzerò riguarda lo scontro, la
breve scaramuccia, che viene nettamente persa dai Romani nel presso del fiume Ticino.
Lo storico patavino non fissa una data precisa riguardo a questa disfatta, ma leggendo la
sua opera (soprattutto i passi precedenti alla battaglia in sé), si possono trovare una serie
di dati che permettono una sistemazione cronologica più sicura.
Livio ci dice come prima cosa, che l’esercito dei Cartaginesi si mise in marcia da
Cartagena all’inizio della primavera e cinque mesi e quindici giorni dopo la partenza,
Annibale e l’esercito erano già arrivati in Italia1. Inoltre lo storico ricorda che appena gli
Africani raggiunsero la cima delle Alpi, nel cielo stava ormai tramontando la
costellazione delle Pleiadi2. Inoltre, una volta che Annibale scese nella pianura padana,
rimase fermo a recuperare le forze per qualche giorno e riuscì contemporaneamente a
conquistare la capitale dei Taurini3. In base a questi dati, gli storici moderni tendono a
collocare lo scontro del Ticino verso la fine di settembre, inizio ottobre dell’anno 218
a.C.4
Come si giunge allo scontro:
Nella versione che propone Tito Livio riguardo alla disfatta romana sul Ticino,
vediamo come si soffermi molto su tutti quei dettagli che precedono la battaglia. Prima
dedica un ampio spazio alle mosse di Annibale per raggiungere l’Italia, descrivendole
precisamente da XXI.38.1 a XXI.46.2. Secondo lo storico, i Romani erano convinti che
1
Liv. XXI.38.1
Liv. XXI.35.6
3
Liv. XXI.39.4-5
4
G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, III-II, Firenze 1968, pp. 82-85 - G. BRIZZI, Storia di Roma, I: Dalle origini ad
Azio, Bologna 1997, pag. 195
2
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Annibale volesse soltanto difendere i suoi possedimenti in Spagna, così il Senato inviò
nella penisola iberica Publio Cornelio Scipione, mentre il collega Tiberio Sempronio
Longo, venne mandato in Sicilia per organizzare lo sbarco in Africa. Nell’opera Ab Urbe
Condita, possiamo leggere come i due eserciti s’incontrino sul campo di battaglia. Il
console Scipione si affrettò a incontrare Annibale, che aveva appena traversato le Alpi,
per affrontarlo in battaglia e prendere l’iniziativa, dato che gli uomini del cartaginese
erano ancora stremati dal difficile percorso1.
Per attaccare più in fretta possibile i nemici, Publio ottenne da Manlio e da Atilio
una legione ciascuno, formata però da milizie fresche e demoralizzate dalle recenti
sconfitte2. Quando però giunse nei pressi di Piacenza, ormai Annibale aveva già
conquistato la città dei Taurini e si stava accattivando l’aiuto dei Galli.
A questo punto i due eserciti erano di fronte l’uno all’altro e già i due comandanti
ammiravano il rispettivo valore: anche il loro viaggio era quasi simile, Scipione dalla
Gallia raggiunse le Alpi via mare e via terra3, mentre Annibale le valicò direttamente.
Per quanto riguarda il numero dei soldati a disposizione di Annibale, Livio ci dice
di aver trovato un enorme disaccordo tra gli storici antichi. Alcuni parlano di un
grandissimo contingente, con 100.000 fanti e 20.000 cavalieri, altri di uno molto più
piccolo, con 20.000 fanti e 6.000 cavalieri. Livio si pone in una via di mezzo seguendo le
notizie di L. Cincio Alimento che afferma di essere stato prigioniero di Annibale e di
aver visto con i suoi occhi 80.000 fanti e 10.000 cavalieri (anche se in realtà aggiunge sia
i Galli, sia i Liguri). Sempre Alimento afferma di aver sentito dire da Annibale di aver
perduto dopo il Rodano circa 36.000 uomini, il che vorrebbe dire che gli uomini a
disposizione del cartaginese, nella pianura padana, erano circa 54.000 unità4.
1
Liv. XXI.39.3
Liv. XXI.25.1-14: i Boi si ribellarono perché i Romani in poco tempo fondarono nel loro territorio le colonie di
Piacenza e di Cremona. I Romani superstiti si rifugiarono a Modena e furono presi sotto assedio dai Galli Boi:
allora il pretore L. Manlio irato per questa ribellione, arrivò a Modena con delle schiere disordinate. Essendo una
regione boschiva e non avendo Manlio perlustrato a dovere queste zone, cadde in un’imboscata e salvò a stento il
suo esercito, perdendo molti soldati e alcune insegne.
3
Pol. III.61.2: Scipione viaggio via mare da Marsiglia fino all’Etruria e poi via terra fino alle Alpi.
4
Liv. XXI.38.1-6 Per quanto riguarda il numero di 20.000 fanti e 6.000 cavalieri, cfr. Pol. III.56.4: di questa cifra il
cartaginese stesso rende una testimonianza personale nella celebre iscrizione commemorativa da lui stesso
dedicata all’interno del santuario Lacinio, presso Crotone.
2
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La preparazione allo scontro:
Livio arriva a narrare il combattimento vero e proprio solo a XXI.46.3. Prima
dello scontro inserisce una lunga sequenza narrativa che comprende: l’elogio dei due
generali1, i metodi usati da entrambi per preparare i propri soldati alla battaglia 2, le prime
manovre3 e una nuova descrizione dei differenti stati d’animo4. Dopo una lunghissima
preparazione psicologica allo scontro, vedremo come questo si sviluppi in pochissime
righe5.
Le parole di Scipione per incoraggiare i suoi soldati riguardarono il fatto che i suoi
uomini stavano combattendo contro un esercito già sconfitto in partenza (quello della
prima guerra punica) e che combatteva non per audacia, ma perché non aveva altra via di
fuga6. Infatti l’esercito romano secondo il console, stava per scontrarsi contro degli
schiavi e non doveva battersi per la salvezza, ma per mantenere intatto l’onore. Come se
non bastasse, Livio spiega che gli uomini di Annibale erano fiacchi e stanchi a causa
della lunga traversata e ben due terzi avevano perso la vita. Scipione inoltre è curioso di
testare la tanto famosa abilità dell’esercito nemico per vedere se effettivamente sono
cambiati o se sono rimasti ancora quelli della prima guerra punica. Secondo l’opinione
dello storico patavino, gli avversari dei Romani risultano essere degli ingrati perché
nonostante le buonissime condizioni di pace che la Repubblica aveva imposta a
Cartagine, essi gli si rivoltavano contro senza alcun indugio.
La versione liviana di questa battaglia, mostra un lato molto crudele di Annibale. Il
generale, infatti, usò un metodo totalmente diverso per preparare i suoi soldati: presentò
alle truppe dei giovani prigionieri catturati durante il tragitto sulle Alpi7, che aveva fatto
trattare molto duramente apposta per questa situazione. Fece vedere loro moltissimi
premi di ogni tipo, tra cui armi, armature e anche dei cavalli e disse che chi avesse voluto
ottenerli, avrebbe dovuto combattere in duello con un altro prigioniero. In questo modo il
vincitore avrebbe ottenuto il premio, mentre lo sconfitto sarebbe morto liberandosi però
1
Liv. XXI.39.7-9
Liv. XXI.40-41 e Liv. XXI.42-44
3
Liv. XXI.45.1 (manovre dei Romani) e Liv. XXI.45.2-4 (manovre puniche)
4
Liv. XXI.45.4-9 e Liv. XXI.46.1-3
5
Precisamente in Liv. XXI.46.4-10
6
Liv. XXI.40.6-8
7
Liv. XXI.42.1
2
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delle sofferenze che stava passando. Annibale la pensava allo stesso modo per i suoi
soldati: se avessero vinto sarebbero diventati i più felici tra gli uomini, ma se fossero
morti combattendo sul campo di battaglia, si sarebbero liberati da ogni sofferenza.
D’altro canto se fossero fuggiti da codardi, avrebbero ricevuto ogni disgrazia possibile.
Annibale criticò anche la forza del generale avversario, visto che comunque lui era
comandante da tanto tempo e conosceva perfettamente i suoi uomini, Scipione invece era
console (quindi provvisto di due legioni) da appena sei mesi1.
Terminata la preparazione psicologica dei due eserciti, finalmente Livio descrive
le prime manovre che sono il prologo dello scontro2: i Romani per primi creano un ponte
sul fiume Ticino e pongono un baluardo per difenderlo3. Intanto Annibale manda
Maarbale con cinquecento cavalieri Numidi a devastare i campi degli alleati dei Romani,
cercando però di risparmiare il più possibile le popolazioni galliche4.
Terminata questa breve preparazione l’esercito romano si accampò a circa 5.000
passi da Victimuli5, dove si trovava quello cartaginese. La battaglia era ormai alle porte e
nuovamente Livio ci da una descrizione dei differenti stati d’animo. Annibale richiamò
Maarbale e i Numidi e ricordò ai suoi uomini le ricompense che avrebbero ottenuto
sconfiggendo i Romani: chi voleva poteva scegliere tra territori senza tasse in Italia,
Africa o Spagna, denaro oppure la cittadinanza cartaginese. Inoltre per dare veridicità a
queste promesse, immolò un agnello sacrificale sfracellandone la testa; dopo questo
sacrificio i soldati Cartaginesi non aspettavano altro che scendere in battaglia6.
Il patavino sembra già giustificare la sconfitta, poiché racconta come tra i Romani
serpeggiasse la paura perché si erano recentemente verificati dei terribili prodigia: un
1
Per quanto riguarda il discorso di Annibale ai suoi uomini, cfr. Liv. XXI.43-44
Pol. III.65.1: Gli schieramenti secondo Polibio, si mossero in questo modo: dal lato rivolto alle Alpi, i Romani lo
tenevano alla sinistra e i Cartaginesi alla loro destra. Il giorno successivo si accamparono, poiché gli esploratori
dei due eserciti riferirono ai comandanti che i rispettivi eserciti erano nelle vicinanze; il giorno dopo avanzarono
lungo la pianura desiderosi di incontrarsi e misurare le rispettive abilità.
3
Liv. XXI.45.1
4
Liv. XXI.45.2-4
5
5.000 passi corrispondo circa a 7,4 km
6
Liv. XXI.46.8: il giuramento di Annibale con l’agnello, molto vicino alla tradizione romana, potrebbe essere
un’invenzione liviana e assomiglia molto al rito romano di Giove Lapide (DE SANCTIS, Storia dei Romani, pag.
87).
2
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lupo era entrato nell’accampamento, aveva ferito alcuni soldati ed era fuggito incolume,
poi uno sciame d’api si era collocato su di un albero sopra la tenda di Scipione1.
Il combattimento:
Lo svolgimento della battaglia nell’opera di Tito Livio è descritta molto più
brevemente rispetto allo spazio dedicato dallo storico alle premesse; la disfatta si
snocciola tutta quanta all’interno del capitolo 46.3-10.
In queste righe lo storico ci mostra che appena i due eserciti si avvicinarono, si
levò una nube di polvere e subito i soldati si disposero per combattere. Publio mandò
avanti frontalmente sia i frombolieri, sia la cavalleria gallica e poi tutte le altre unità,
mentre Annibale dispose in prima linea la cavalleria spagnola più resistente e alle due ali
tenne la cavalleria numidica come rinforzo e per accerchiare lo schieramento romano 2.
Appena iniziò la battaglia, i lancieri non fecero neanche in tempo a scagliare le
loro armi che dovettero subito ritirarsi per non venire investiti dalla cavalleria romana3.
Intanto la battaglia cambiò natura perché dopo il primo assalto, la cavalleria dei
Cartaginesi scese da cavallo e ingaggiò una battaglia pedestre con i Romani. Subito dopo
la cavalleria numidica riuscì ad accerchiare con successo l’esercito di Scipione e a
travolgere i lancieri Romani che si erano appena ritirati; a questo punto anche il resto dei
soldati Romani, quelli posti sulla fronte, si vide accerchiato dai Numidi e fuggì
precipitosamente a Piacenza, guidato dal generale Publio ferito durante lo scontro, ma
salvato dal figlio, il futuro africano4. La prima battaglia contro Annibale mostrava
chiaramente la sua superiorità nella cavalleria e quindi Livio afferma quanto fosse poco
probabile sconfiggerlo nel territorio pianeggiante della valle padana5.
Annibale sul Ticino riuscì a prendere 600 prigionieri e dopo il suo successo riuscì
anche ad ottenere l’alleanza di tutti i Celti che stavano lì vicino e poté ottenere così altri
1
Liv. XXI.46.1-2
Liv. XXI.46.3-6
3
Liv. XXI.46.6
4
Liv. XXI.46.6-10
5
Liv. XXI.47.1
2
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rifornimenti. Pochi giorni dopo a sei miglia da Piacenza1 si accampò aspettando che i
Romani uscissero per dargli battaglia2.
Intanto nell’accampamento romano a Piacenza si rivoltarono durante la notte i
soldati alleati Celti e duemila fanti e duecento cavalieri, uccise le poche sentinelle
romane3, passarono ad Annibale che li girò alle rispettive città natali per poter così
indurre gli altri popoli ad allearsi con lui4. Livio ci mostra a questo punto la paura di
Scipione poiché temeva ormai che tutti i Galli sarebbero passati sotto il dominio del
cartaginese; inoltre anche per paura di combattere in luoghi pianeggianti, decise di
dirigersi verso il fiume Trebbia5.
1
Corrispondono circa a 8.880km
Liv. XXI.47.8
3
Liv. XXI.48.1-2
4
Pol. III.67.1-5: diversamente da Livio, Polibio ci mostra l’enorme odio dei Celti i quali, nella sua versione dei fatti,
massacrano molti soldati Romani durante la notte.
5
Liv. XXI.48.1-4
2
Pagina | 10
BATTAGLIA DEL TREBBIA
Dopo il breve scontro tra le due avanguardie nei pressi del Ticino, segue la prima
vera vittoria contro l’esercito romano, maturata dal generale Annibale. Tito Livio colloca
questa sconfitta nel pieno del periodo invernale del 218 a.C.1 Vediamo come subito dopo
la battaglia nei pressi del Ticino, l’esercito romano si diresse, su indicazione di Scipione,
verso il fiume Trebbia, per cercare posizioni più elevate che potessero ostacolare la
potenza della cavalleria nemica2.
Come si giunge allo scontro (spostamenti e casus belli):
Lo storico padovano ci presenta all’interno del capitolo cinquantadue della sua
opera, gli spostamenti dei due eserciti prima di affrontarsi sul campo. Annibale capì
subito le mosse di Scipione (cioè raggiungere territori montuosi per annientare facilmente
la forza della cavalleria numida) e non si fece ingannare. Si accampò nei pressi di
Clastidium e poiché aveva quasi finito viveri e approvvigionamenti, s’impadronì della
città, riserva romana di frumento. Il cartaginese riuscì a comprare il prefetto del presidio
Dasio di Brindisi per soli 400 nummi d’oro, senza ferire nessuno dei cittadini, mostrando
così di essere anche un generale clemente3.
A questo punto dell’opera Livio fa una breve digressione per presentarci il
prossimo generale, l’altro console Tiberio Sempronio Longo4.
Se nella precedente battaglia Livio ci mostra uno scontro tra pochi soldati, visto
più come una scaramuccia, qui vediamo opporsi ad Annibale ben due eserciti consolari.
Secondo lo storico, questo dispiegamento di forze era la chiara dimostrazione che o con
Liv. XXI.54.7 “erat forte brumae tempus et nivalis dies”
Liv. XXI.48.4
3
Liv. XXI.48.8-9
4
Liv. XXI.49-51: Tiberio Sempronio era stanziato in Sicilia con una flotta e due legioni. Ottenne numerosi successi
tra i quali riuscì anche a guadagnare l’alleanza di Siracusa.
1
2
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quei soldati si doveva difendere il dominio di Roma, oppure ormai ogni altra speranza era
perduta1.
Lo storico patavino insiste molto sul dissidio tra i due consoli, che si traduce anche
in due visioni strategiche totalmente diverse: Scipione, stanco e ferito, preferiva tirare la
battaglia per le lunghe, mentre il collega Sempronio era molto più fresco di forze e di
coraggio e non tollerava alcun indugio2. Il casus belli di questa seconda battaglia
all’interno della pianura padana lo dobbiamo ricercare nel comportamento dei Galli:
infatti, questi, infedeli per fama, facevano il doppio gioco per piacere sia agli alleati
Romani, sia ai nemici Cartaginesi. Questo comportamento andava bene ai Romani, ma ad
Annibale assolutamente no, così mandò circa 2.000 fanti e 1.000 cavalieri a devastare le
loro terre3. Secondo Livio, i Galli chiesero subito l’aiuto di Roma e nuovamente qui
possiamo vedere le due differenti strategie dei consoli: da una parte Scipione non voleva
attaccare i razziatori Cartaginesi soprattutto perché riteneva i Celti troppo infedeli,
ricordando anche il recente attacco dei Boi4, mentre dall’altra il collega Sempronio era
convinto bisognasse mantenere saldi gli alleati e non aspettava altro che la guerra5.
Astuzie di Annibale:
Fin dalle prime battaglie, Livio ci mostra l’indole e l’abilità strategia del
comandante cartaginese. Le astuzie che compie Annibale prendono in contropiede i primi
generali Romani che si scontrano con lui. La battaglia sul fiume Trebbia è ricca di esempi
che ci fanno capire la geniale abilità del condottiero punico.
Mentre il collega temporeggiava, Sempronio decise di mandare tutta la cavalleria
con mille pedites, la maggior parte iaculatores, a difesa dei Galli. I Romani, avendo
assalito improvvisamente i Cartaginesi sparsi et incompositi, e carichi di bottino,
provocarono grande terrore e stragi, facendo fuggire i Cartaginesi fino ai loro
accampamenti. Qui i Romani, per quanto furono respinti da una moltitudine che si era
precipitata fuori, ripresero la battaglia con l’aiuto del console. Benché la battaglia si
1
Liv. XXI.52.1
Liv. XXI.52.1-3
3
Liv. XXI.52.5-6
4
Liv. XXI.48.1-2
5
Liv. XXI.52.8
2
Pagina | 12
svolgesse con alterna fortuna, il numero dei Cartaginesi uccisi era superiore a quello dei
Romani1. Livio ci descrive che questa vittoria, agli occhi di Sempronio motivò l’esercito
romano e lo stesso generale ormai diceva che l’animo dei suoi soldati era pronto per la
battaglia e secondo lui, nessuno, se non il collega malato (nella mente più che nel corpo),
voleva aspettare2; sembrava arringare i suoi uomini e scontrarsi con il generale Scipione
come se fosse in una prope contionabundus. A breve sarebbero arrivati i comizi e
Sempronio non avrebbe potuto infliggere una sconfitta decisiva che sarebbe toccata al
suo successore3.
Pertanto Annibale era consapevole di cosa avrebbero dovuto fare i Romani per
sconfiggere il suo esercito, ma osava appena sperare in una mossa azzardata da parte dei
due consoli, soprattutto da Sempronio. Era ansioso di combattere per sfruttare il fatto che
le milizie repubblicane fossero ancora delle reclute e che il migliore dei due capitani
fosse fuori combattimento. Per questi motivi non vedeva l’ora di combattere e pronto a
provocare i Romani alla battaglia, si mise a cercare un luogo adatto per tendere
un’insidia4.
Lo storico patavino descrive quindi, l’abile stratagemma adottato da Annibale: il
generale trovò presto un piccolo corso d’acqua chiuso da entrambi i lati, con alte rive e
protetto da fitti rovi5. Subito dopo fece chiamare Magone, suo fratello, e gli fece scegliere
100 uomini tra fanti e cavalieri. Ciascuno di questi soldati doveva scegliere nell’esercito
altri nove uomini a testa, che potevano essere sia cavalieri, sia fanti. In totale ci furono
1.000 fanti e 1.000 cavalieri e questi erano gli uomini che dovevano celarsi nel ruscello
per tendere un’imboscata ai Romani e attaccarli alle spalle6.
1
Liv. XXI.52.9-11
Liv. XXI.53.2-3
3
Liv. XXI.53.3-6
4
Liv. XXI.53.7-11
5
Liv. XXI.54.1
6
Liv. XXI.54.2-4
2
Pagina | 13
La battaglia:
Nell’opera Ab urbe condita, Possiamo dividere la narrazione della battaglia in tre
parti distinte: le prime fasi e la preparazione1, lo svolgimento2 e gli istanti subito dopo la
sua conclusione3.
Per quanto riguarda la preparazione allo scontro tra i due schieramenti, vediamo
come l’esercito di Annibale si fosse già rifocillato la notte stessa; i suoi soldati si erano
spalmati di olio e avevano acceso dei fuochi vicino all’accampamento per affrontare al
meglio il freddo pungente4.
All’alba poi i Numidi crearono scompigli nei pressi dell’accampamento romano e
riuscirono a provocarli con successo, poiché la cavalleria prima, 6.000 fanti e il resto
dell’esercito poi, passarono il fiume per inseguirli5. I soldati Romani non avevano
mangiato nulla e quando, per inseguire i Numidi in fuga, entrarono nell’acqua gelida (ci
troviamo infatti in inverno6), rischiarono l’assideramento e fecero fatica perfino tenere in
mano le armi7. Lo storico patavino sembra però difendere le colpe dell’esercito romano,
per salvaguardare l’onore dei soldati: la sconfitta avviene più che altro perché i soldati
lanciati all’attacco da Scipione erano molto stanchi e semi assiderati, per via
dell’attraversamento del fiume ghiacciato.
Il racconto dello svolgimento della battaglia secondo la visione liviana, è molto
più lungo rispetto al breve scontro sul Ticino: vediamo che Annibale collocò in prima
linea8 8.000 uomini tra frombolieri e fanteria leggera, più indietro quella pesante, alle ali i
10.000 cavalieri e ai lati gli elefanti che rimanevano9. Sempronio richiamò i cavalieri che
si erano lanciati all’attacco dei Numidi e li fece circondare dai fanti. Il console schierò
18.000 soldati Romani e 20.000 latini, con qualche milizia ausiliaria dei Galli Cenomani,
1
Liv. XXI.55.1
Da Liv. XXI.55.2 fino a XXI.56.4
3
Da Liv. XXI.56.4 fino a XXI.57.14
4
Liv. XXI.55.1
5
Liv. XXI.54.6-7
6
Liv. XXI.54.7
7
Liv. XXI.54.8-9
8
Pol. III.72.8: a 1.480 metri di distanza dal suo accampamento.
9
Liv. XXI.55.2 - DE SANCTIS, Storia dei Romani, pag. 29: Annibale al centro teneva i Galli, dove sarebbe venuto
l’urto più forte dei fanti Romani e ai lati le milizie scese con lui in Italia, che voleva risparmiare, protette davanti
dagli elefanti. Fu anche per la posizione dei Galli che in 10.000 poi riuscirono a sfondare lo schieramento e a
raggiungere Piacenza.
2
Pagina | 14
i soli rimasti fedeli alla repubblica romana1. I frombolieri iniziarono per primi, ma
vedendo che le legioni romane resistevano senza difficoltà, si spostarono alle ali assieme
alla cavalleria. In tal modo la cavalleria romana, stanca e in netta inferiorità numerica, fu
decimata subito dai 10.000 cavalieri Cartaginesi, dai frombolieri e dagli elefanti, che
portarono grande terrore ai cavalli2.
Quanto alla performance della fanteria, Livio dice che solo grazie al coraggio dei
fanti Romani la battaglia rimase in parità, ricordandoci nuovamente che le truppe di
Annibale erano fresche e ben nutrite, mentre i soldati consolari erano intorpiditi e stanchi
per il digiuno. Avrebbero resistito facilmente, nella versione dello storico, se avessero
dovuto combattere solo contro la fanteria pesante: tuttavia da una parte c’erano i
frombolieri delle Baleari che lanciavano frecce sui fianchi, dall’altra gli elefanti che
premevano frontalmente e quando sbucò dal ruscello Magone con i suoi uomini,
quest’ultimo provocò un’ondata di terror. Nonostante tutto, le truppe di fanteria rimasero
solide contro l’impeto degli elefanti, poiché dei velites, appostati proprio a tale scopo,
riuscirono a far fuggire gli animali.
A questo punto gli elefanti furono spinti contro l’ala sinistra dei Galli, i quali, non
avvezzi a combattere contro bestie del genere, fuggirono subito, fatto che portò il panico
nelle file dei Romani, rimasti da soli.3 In 10.000 uomini, circondati e senza possibilità di
ritornare all’accampamento a causa del fiume gelido, né di aiutare i compagni in
difficoltà, si aprirono la strada attraverso il contingente africano per raggiungere
Piacenza4. Il fiume impetuoso impedì ai Cartaginesi di inseguire i Romani in fuga e Tito
Livio cerca di smorzare in qualche modo la vittoria di Annibale: il freddo pungente fece
1
Liv. XXI.55.4
Liv. XXI.55.6-7
3
Per quanto riguarda lo svolgimento della battaglia, cfr. Pol. III.73-74: la cavalleria cartaginese sconfisse e mise in
fuga quella romana, lasciando così i fianchi dello schieramento completamente scoperti. Ai lati incombevano i
lancieri Cartaginesi e la cavalleria numidica, impedendo così alle ali romane di attaccare in fronte. Sebbene la
battaglia potesse sembrare già persa a questo punto, la potenza della fanteria pesante era la chiave che ancora
poteva tenere la battaglia in situazione di parità. A questo punto entrò in scena Magone: il fratello di Annibale uscì
di colpo dal ruscello e mise in fuga anche le ali romane, infliggendo poi gravi perdite alla retroguardia
repubblicana.
4
Liv. XXI.56.4
2
Pagina | 15
morire per le ferite molti dei soldati Africani, che a stento poterono rallegrarsi di questa
impresa.1
Gli altri sopravvissuti2 si diressero con il console Scipione a Piacenza ma visto che
vi si trovavano già altri 10.000 uomini, non potendo questa città sopportare troppi soldati,
vennero mandati a Cremona3.
Secondo lo storico patavino, questa sconfitta portò una grande paura a Roma e si
credeva già che Annibale avrebbe attaccato la città4: ormai infatti ben due eserciti
consolari erano stati sconfitti. Sempronio, salvo audacia magis quam consilio, tornò a
Roma a presiedere i comizi e infine ritornò ai quartieri d’inverno 5. I nuovi consoli furono
Cneo Servilio Gemino e Caio Flaminio Nepote6.
1
Liv. XXI.56.6-7
circa 10.000
3
Liv. XXI.56.9
4
Liv. XXI.57.1-3
5
Pol. III.75.1-2: dopo la sconfitta Sempronio mandò degli ambasciatori a Roma a dire che il maltempo aveva rubato
la vittoria ai suoi soldati; in un primo momento tutti i Romani ci cedettero, però poi scoprirono che i Cartaginesi
avevano già occupato gli alloggiamenti dei Romani e che quasi tutti i Celti erano passati in mano al nemico.
6
Liv. XXII.57.4
2
Pagina | 16
BATTAGLIA DEL TRASIMENO
Alla sconfitta occorsa presso il fiume Trebbia, segue quella, più grave ancora,
consumatasi lungo le rive del lago Trasimeno. Livio non specifica la data esatta dello
scontro, ma una serie di riferimenti –come l’allusione alla partenza di Annibale dai
quartieri invernali quando iam ver appetebat1 e l’assunzione del consolato da parte di
Cneo Servilio idibus Martiis2- portano a collocarlo a primavera inoltrata, inizio estate del
217 a.C. Il calendario romano in effetti indicava la data del 21 giugno3.
Antefatto della battaglia, i presagi:
Livio ci racconta che avvicinandosi la primavera del 217 a.C., Annibale decise di
spostarsi dai quartieri d’inverno, anche perché i Galli erano stanchi e minacciavano la
rivolta4. Intanto a Roma iniziò l’esercizio consolare Gneo Servilio, mentre nei confronti
di Gaio Flaminio si riversava l’odio dei senatori.
Già in precedenza Flaminio aveva ricevuto numerose ostilità sia per il consolato
che tentavano di toglierli, sia a causa del trionfo contro gli Insubri. Inoltre Livio ci spiega
che aveva anche appoggiato il tribuno Q. Claudio per far approvare una legge che
impediva ai senatori di possedere una nave con un carico maggiore di trecento anfore di
grano. Questo provvedimento causò odio tra i nobili, ma una larga approvazione nella
plebe. Come se non bastasse, il neo eletto console, prese gli auspici necessari alla sua
entrata in carica fuori dalle mura di Roma. Nuovamente si scagliò contro il costume
romano e causò ancora ira da parte dei senatori. Finalmente il comandante romano venne
richiamato nella capitale e subito Tito Livio ci presenta degli infausti presagi a lui
associati: mentre Flaminio celebrava il sacrificio, un vitellino sfuggì dalle mani dei
sacerdoti e bagnò di sangue tutti i presenti5.
1
Liv. XXII.1.1 e Liv. XXI.58.2
Liv. XXII.1.4 “per idem tempus Cn. Servilius cos. Romae idibus Martiis magistratum iniit”
3
Ov. Fasti VI.765-768
4
Liv. XXII.2.1 e XXII.1.1-4
5
Liv. XXI.63.1-15
2
Pagina | 17
A questo punto dell’opera, lo storico padovano elenca una lunga serie di prodigia
che augebant metum dei Romani nei confronti dei nemici Africani1. In Sicilia fecero
scintille le punte delle lance di alcuni soldati, in Sardegna prese fuoco il bastone di un
cavaliere che ispezionava le sentinelle, dei fuochi lampeggiarono sulle spiagge, due scudi
sudarono sangue, alcuni soldati furono colpiti da un fulmine, inoltre il cerchio del sole
sembrava più piccolo del solito. A Preneste caddero dal cielo dei sassi infiammati, ad
Arpi si videro in cielo degli scudi e il sole che lottava contro la luna, a Capena sorsero
due lune durante il giorno, a Cere le acque delle sorgenti fluirono miste a del sangue. Ad
Anzio furono mietute delle spighe insanguinate, a Faleri il cielo si aprì come una grande
spaccatura dalla quale uscì tantissima luce, a Roma invece le statue di Marte e dei lupi
avevano sudato, a Capua si vide un cielo fiammeggiante con la luna che tramontava tra la
pioggia. Avvennero anche prodigi minori che riguardavano il mondo animale: delle capre
si trasformarono in pecore, un gallo si trasformò in una gallina, e una gallina in gallo.
Si decise di espiare questi prodigi sia con animali adulti, sia con animali da latte e
per tre giorni bisognava compiere preghiere pubbliche in tutti gli altari. Inoltre i
decemviri decisero di consultare i libri sibillini: in seguito offrirono a Giove un fulmine
d’oro del peso di cinquanta libbre, a Giunone e a Minerva dei doni d’argento, a Giunone
Regina e a Giunone Sospita un sacrificio di animali adulti, mentre le matrone dovettero
raccogliere del denaro e donarlo a Giunone Regina compiendo anche un lettisternio, e per
finire le schiave liberate dovettero offrire del denaro a Feronia2.
Partenza di Annibale:
La rievocazione della vicenda del Trasimeno, si situa all’inizio del libro XXII
dell’opera Ab Urbe Condita e copre parecchi capitoli. Come di consueto, Livio dedica
ampio spazio agli avvenimenti che precedono la battaglia vera e propria. Nello specifico
egli focalizza l’attenzione, da un lato, nelle manovre e gli spostamenti di Annibale,
dall’altro, nelle azioni dei consoli (e in generale nella situazione a Roma).
1
2
Liv. XXII.1.8 “augebant metum prodigia ex pluribus simul locis nuntiata”
Liv. XXII.1.8-20
Pagina | 18
Per quanto riguarda il generale cartaginese, Livio gli attribuisce la decisione di
muovere dai quartieri invernali e imputa questa decisione sia ai timori circa l’affidabilità
dei Galli, sia alla volontà di confrontarsi con l’esercito romano. Questo, sotto il comando
di Flaminio, era accampato nei pressi di Arezzo. Lo spostamento delle truppe puniche
sono un’occasione per descrivere la difficile traversata delle paludi lungo il fiume Arno,
durante la quale Annibale stesso avrebbe perso l’uso di un occhio.
Quanto al “versante romano”, il discorso già iniziato nei capitoli conclusivi del
libro XXI1, Livio ferma l’attenzione in primo luogo nella figura del console C. Flaminio,
oggetto d’invidia da parte dei senatori perché, senza rispettare la prassi, aveva fatto in
modo di assumere la carica non a Roma bensì direttamente a Rimini, nella provincia che
gli era stata assegnata2. Tale scelta, ricondotta da Livio a motivazioni di ordine politico (e
cioè al tentativo di aggirare eventuali impedimenta escogitati dai suoi nemici –qui
identificati con i patres- per trattenerlo a Roma3), avrebbe suscitato aspre reazioni.
Secondo il Patavino, tale atteggiamento sarebbe stato interpretato (dai patres) come
elemento capace di pregiudicare la capacità auspicale del console.
Il mancato rispetto delle procedure nell’assunzione della carica, non è (secondo i
detrattori di Flaminio) una mera questione di forma, ma mette a repentaglio le
comunicazioni con gli dei, elemento fondamentale per la sopravvivenza della città. Ecco
perché Livio fa dire che, così facendo, non cum senatu modo sed iam cum dis
immortalibus C. Flaminium bellum gerere4.
Peraltro Livio – o, meglio, la tradizione che egli segue – pare privilegiare le
argomentazioni anti flaminie. Quantomeno connette all’ascesa al consolato del
personaggio, il verificarsi di numerosi e straordinari prodigia che per gli antichi, come
noto, segnalavano una rottura della pax deorum.5 Il primo sacrificio che compie Flaminio
per celebrare la propria entrata in carica, si rivela un disastro: la vittima sacrificale tenta
1
Liv. XXI.62-63
Liv. XXI.63.1-2; 5; 13. Per il termine invidia vedi Liv. XXII.1.5
3
Liv. XXI.63.1-5. Si noti che i timori a Flaminio trovano giustificazione alla luce dei precedenti certamina, che
avevano contrapposto i patres e il console durante il tribunato e il primo consolato di quest’ultimo
4
Vedi soprattutto Liv. XXI.63.6-10 e XXII.1.5-7
5
J. CHAMPEAUX, La religione dei romani, tr. it. di G. Zattoni Nesi, Bologna 2002, ed. orig. La religion romaine,
Paris 1998, pp. 94-99
2
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la fuga sporcando di sangue tutti i presenti1. Inoltre sul campo di battaglia capitano al
comandante romano numerosi altri presagi e per finire, quando Annibale cercherà il suo
corpo tra quello dei soldati uccisi, non troverà nulla2.
Battaglia3:
Nell’opera di Livio, dopo una lunga introduzione alla battaglia sul Trasimeno,
finalmente lo storico ci mostra i due eserciti a confronto. In tutto il terzo capitolo del libro
XXII, vediamo che Annibale scoprì che il console si trovava presso Arezzo e dal
momento che quest’ultimo era l’unico ostacolo per la discesa del cartaginese in Italia,
egli decise di indagare e summa omnia cum cura inquirendo exsequebatur. Venne a
sapere così che Flaminio era molto baldanzoso per il precedente consolato, che non
rispettava né le leggi del Senato romano, né quelle degli dei4.
Annibale scoperta la temerarietà di Flaminio decise di provocarlo e iniziò a
devastare i campi nei pressi di Fiesole. Flaminio era impaziente, tutti quanti gli
consigliavano di non attaccare ancora battaglia, ma per il console era un disonore lasciare
tutta questa libertà ad Annibale: non appena uscì dal luogo di riunione, saltò sul suo
cavallo che stramazzò subito e lo fece ruzzolare per terra. Come se non bastasse, non si
riusciva a staccare l’insegna da terra, nonostante tutti gli sforzi che si stavano facendo. I
comandanti vicino a Flaminio presero una paura enorme, poiché questi avvenimenti
venne visto come una triste premonizione. Gli unici a non essere atterriti erano i suoi
soldati che apprezzavano la grande temerarietà del capitano che credeva soltanto in se
stesso e non si affidava agli dei5.
1
Liv. XXI.63.13-14
Liv. XXII.7.5
3
Un’altra versione della battaglia sul Trasimeno la troviamo in Zon. 8.25: nei pressi di Arezzo Annibale fece
qualche scaramuccia contro i romani, ritirandosi sempre, dando così l’idea di temere il nemico. Durante la notte si
accampò e si mise a cercare un posto adatto per la battaglia, trovando la valle del Trasimeno. Flaminio con
noncuranza entrò nel luogo scelto da Annibale e decise di accamparsi per la notte: verso mezzanotte, mentre i
romani dormivano, i cartaginesi li circondarono e li uccisero quasi tutti. I romani circondati dal buio della notte e
dalla nebbia, non riuscirono nemmeno a vedere i loro avversari. Il clamore e la confusione che colse i romani nel
sonno era talmente grande che non sentirono nemmeno i terremoti che si verificarono in quel momento. Flaminio
e gran parte dei suoi uomini persero la vita.
4
Liv. XXII.3.1-4
5
Liv. XXII.3.6-14
2
Pagina | 20
Tito Livio si sposta a questo punto sulle azioni che decide di compiere il
comandante cartaginese per sconfiggere facilmente i suoi nemici. Il luogo che Annibale
volle sfruttare per l’imminente battaglia era dove il lago Trasimeno si avvicinava ai monti
di Cortona: in mezzo c’era una via stretta per tendere le deceptae insidiae e all’uscita una
larga pianura con delle ripide colline ai lati. Il condottiero punico si accampò nella
pianura con le truppe africane e con gli Spagnoli, dietro le colline mise i frombolieri e la
fanteria leggera e dispose la cavalleria allo sbocco del passo aspettando che i romani
entrassero per prenderli alle spalle.
Flaminio arrivò al lago Trasimeno1 senza nemmeno fare una ricognizione, entrò
nel passo e vide solo i nemici schierati nell’aperta pianura. Quando la maggior parte
dell’esercito romano entrò nel luogo dell’insidia, mentre la nebbia si addensava, Annibale
diede il segnale e per i soldati del console si scatenò subito l’inferno2.
Ancora una volta l’intrepido Flaminio sfidò gli dei, urlando ai suoi che era
possibile vincere il combattimento non pregando la divinità, ma solamente con le proprie
forze. Infatti il combattimento si riaccese soltanto quando i romani si accorsero che
l’unica via d’uscita era attraverso la propria spada, visto che i nemici si trovavano in ogni
luogo: anche l’ordinato schieramento romano si ruppe e ognuno ormai combatteva a
casaccio, solo per aver salva la vita3. La battaglia si animò talmente tanto che nessuno dei
combattenti, sia romani sia cartaginesi, si accorse del potente terremoto che fece crollare
molte città italiane, deviare il corso di alcuni fiumi e precipitare i monti4.
Il combattimento durò ben tre ore e il fulcro della battaglia era proprio attorno al
console Flaminio, che suo malgrado si distingueva per la lucente e ricca armatura, mentre
soccorreva i suoi uomini ovunque ne avessero bisogno5. Un guerriero insubro di nome
Ducario, si accorse del console romano, e pieno di odio per gli eterni nemici, si scagliò
1
Pol. III.82.8: Flaminio, vista la sua abilità di demagogo, aveva ispirato nel popolo una fiducia così grande sulla
battaglia imminente, che c'erano molte più persone che venivano con lo scopo di depredare, di quanti non fossero i
soldati.
2
Liv. XXII.4.1-6
3
Liv. XXII.5.1-6
4
Liv. XXII.5.8
5
Pol. III.84.4-5: la maggior parte dei romani venne fatta a pezzi e tradita dall’incoscienza del console che ancora
stava decidendo quali provvedimenti prendere. Alcuni celti assalirono e uccisero Flaminio, incerto sul da farsi.
Pagina | 21
contro Flaminio trafiggendolo. In questo momento gran parte dell’esercito comincio a
fuggire1.
In questo punto dell’opera Livio ci fornisce una descrizione macabra e drammatica
su come morirono gran parte dei soldati romani. Alcuni cercarono di fuggire su per i
dirupi, mentre uomini ed armi precipitavano gli uni sugli altri, alcuni ancora avanzarono
nelle paludi meno profonde finché l’acqua non arrivò al collo e altri invece presi dal
terrore più genuino scapparono a nuoto (di questi molti annegarono e quelli che tornarono
a riva a nuoto vennero uccisi senza pietà)2. Solamente 6.000 soldati delle prime linee
riuscirono a rifugiarsi su un’altura, da dove videro il massacro del proprio esercito e però,
inseguiti dai cartaginesi, si arresero alle parole di Maarbale che promise loro di non
ucciderli3.
Il bilancio della battaglia secondo Livio fu drammatico: 15.000 romani vennero
uccisi, 10.000 riuscirono a ritirarsi a Roma. Le perdite cartaginesi erano molto inferiori,
circa 2.500 morirono durante la battaglia, più quelli che persero la vita per le ferite (Livio
ci dice di essersi avvalso delle testimonianze di Q. Fabio Pittore, una fonte romana)4.
Dopo la battaglia:
Lo storico patavino nella sua versione dei fatti, ci mostra come a Roma il popolo
venne preso da un grande terrore5 e accorse in massa al foro subito dopo questa sconfitta.
Qui il pretore M. Pomponio disse ai cittadini che la repubblica romana era stata sconfitta
in una grande battaglia. Nonostante queste parole molto vaghe, già per la città giravano le
voci che il console con tutto l’esercito era stato drammaticamente sconfitto. A questo
punto nessuno sapeva più che cosa dovesse sperare o temere, alle porte della città si
1
Liv. XXII.6.1-5
Liv. XXII.6.5-8
3
Pol. III.84.13.14: secondo la versione di Polibio, i soldati si ritirarono in un villaggio etrusco. Maarbale venne
inviato contro di loro e dopo alcuni giorni d’assedio, questi si arresero alle sue parole.
4
Liv. XXII.7.1-3
5
Pol. III.85.8-9: il disastro sembrò più grande della battaglia stessa. Da molto infatti i romani non erano abituati a
una sconfitta ed era quasi impossibile sopportarla con dignità.
2
Pagina | 22
accumulava una folla di persone che cercava notizie sui propri parenti1. I pretori tennero
per giorni il senato nella curia, per decidere come si doveva resistere ai cartaginesi2.
Tito Livio ci racconta anche di un’altra sconfitta, di minor entità, occorse alle
truppe romane. Sulla martoriata repubblica si abbatté infatti un’altra sciagura: 2.000
cavalieri capeggiati dal propretore C. Centennio3, mandati da Servilio al collega Flaminio
per ostacolare Annibale, vennero circondati dal comandante dei Cartaginesi. In realtà
questa sconfitta ebbe due esiti differenti; chi pensava fosse cosa da poco perché si
sommava alle precedenti sconfitte, chi invece riteneva che fosse qualcosa di più grande
perché andava a colpire una Roma già ferita a morte4.
Secondo lo storico, dopo questi drammatici eventi venne presa una decisione
straordinaria: visto che i consoli non erano presenti a Roma, il popolo stesso elesse come
dittatore5 Q. Fabio Massimo e come maestro della cavalleria M. Minucio Rufo. Il
dittatore venne incaricato dal senato di fortificare le mura e le torri di Roma, di disporre
ogni genere di difesa e di tagliare i ponti sui fiumi. A questo punto bisognava combattere
per la salvezza della patria e per i penati6.
1
Liv. XXII.7.6-10
Liv. XXII.7.14
3
Pol. III.86.3-6: Annibale però sapeva già tutto e mandò avanti Maarbale con gli arcieri e un po’ della cavalleria.
Dei 4.000 cavalieri di Centennio, 2.000 vennero uccisi e il resto presi prigionieri. Dopo questa sconfitta, avvenuta
tre giorni dopo la disfatta sul Trasimeno, anche il senato perse la proprio calma e la propria tranquillità.
4
Liv. XXII.8.1-5
5
Pol. III.87.7-9: diversamente dal console che aveva 12 littori, il dittatore ne aveva 24; inoltre se i consoli dovevano
ottenere l’autorizzazione del senato per molti provvedimenti, il dittatore no. Tutte le magistrature tranne il
tribunato furono abolite. Marco Minucio Rufo fu eletto come maestro della cavalleria e come subordinato di
Fabio, che sostituiva il dittatore quando questo non era presente.
6
Liv. XXII.8.5-7
2
Pagina | 23
LUCIO OSTILIO MANCINO
Lo storico Tito Livio colloca questa sconfitta tra le due più grandi disfatte romane
nella seconda guerra punica, tra la battaglia del Trasimeno e tra quella di Canne. Il
dittatore. Lo storico patavino cita molto brevemente questa sconfitta, che occupa pochi
paragrafi all’interno del quindicesimo capitolo del ventiduesimo libro1.
Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore, aveva in mano le redini dell’esercito.
La guerra annibalica si stava spostando ormai verso il meridione della penisola e
precisamente nei pressi dell’attuale Campania, terra ricca e florida2.
Il comandante romano occupò il monte Callicula e la città di Casilino;
quest’ultima, tagliata dal fiume Volturno, divide l’ager Falerno dall’ager Campano.
Secondo la versione dei fatti che ci riporta Tito Livio, Massimo per studiare la posizione
dei nemici, inviò L. Ostilio Mancino assieme a 400 cavalieri alleati. Quest’ultimo però
era contrario all’atteggiamento del temporeggiatore e di gran lunga preferiva le parole del
maestro della cavalleria M. Minucio Rufo. Forse la colpa per la sconfitta imminente va
ricercato nel fatto che il giovane comandante preferiva fidarsi e ascoltare saepe ferociter
contionantem magistrum equitum3.
Se all’inizio Mancino cercò soltanto di individuare la posizione dei nemici, alla
fine, fattosi prendere troppo la mano, iniziò a uccidere qualche numida vagante. Subito
dopo, lo storico patavino sembra sottolineare l’esito delle azioni intraprese da chi agisce
senza pensare e facendosi vincere dal desiderio: dopo aver attaccato molti Numidi,
Mancino e i suoi uomini si fanno attirare verso l’accampamento nemico4.
Il comandante Cartalone, al momento, secondo Livio, generale supremo della
cavalleria, esce fuori con i suoi uomini e insegue i Romani per cinque miglia. Per il
comandante romano la disfatta ormai era certa e la fuga, infatti, era impossibile. Affrontò
1
Liv. XXII.15.4-10
Liv. XXII.15.2-3
3
Liv. XXII.15.4-5
4
Liv. XXII.15.5-8
2
Pagina | 24
Cartalone e perse la vita assieme ai suoi uomini. Lo storico patavino afferma che in pochi
scamparono dalla morte1.
1
Liv. XXII.15.8-10
Pagina | 25
BATTAGLIA DI CANNE
L’anno successivo alla disfatta del Trasimeno, prima, e di L. Mancino, poi, si
colloca la celebre e più grande sconfitta romana contro Annibale: la battaglia nei pressi di
Canne. Lo storico patavino non ci fornisce una data esatta di quando avvenne lo scontro,
ma un riferimento al desiderio di Annibale di scendere verso regioni più calde e
favorevoli alla maturazione delle messi1, ci fa capire che la battaglia si svolse verso la
fine della primavera, inizio estate, del 216 a.C.
Situazione politica a Roma:
Livio inserisce il resoconto della sconfitta all’interno di una stridente situazione
politica nella città di Roma. Secondo lo storico, il clima politico in città nell’anno 216
a.C. era molto agitato. I comizi per l’elezione dei consoli di quell’anno, avrebbero
suscitato infatti magnum certamen patrum ac plebis2. Il popolo tentava di far eleggere il
plebeo Caio Terenzio Varrone con tutte le forze, poiché con le arti demagogiche si era
conquistato il favore del volgo e soprattutto perché costantemente offendeva i patrizi.
Il tribuno Q. Bebio Erennio era sulla stessa linea d’onda dell’homo novus: riteneva
in primo luogo che il Senato e gli auguri erano colpevoli di aver manovrato i comizi.
Inoltre accusava i nobiles di aver portato a forza Annibale in Italia e loro stessi, sebbene
fosse possibile terminare il conflitto facilmente, preferivano trascinarlo per le lunghe con
l’inganno, una sorta di foedus inter omnes nobiles. Infine era certo che la seconda guerra
punica sarebbe finita soltanto con l’elezione di un console plebeo, di un homo novus
come Varrone3.
Tra i vari candidati illustri, patrizi e plebei nobilium familiarum, viene così eletto
Varrone: per questo motivo i patres sollecitano la professio di Lucio Emilio Paolo.
Quest’ultimo, nonostante rifiutasse poiché consapevole di essere avverso alla plebe, alla
1
Liv. XXII.43.5
Liv. XXII.34.1-2
3
Liv. XXII.34.2-8
2
Pagina | 26
fine accettò la carica1. Secondo Tito Livio, Paolo appariva più un antagonista, magis
adversandum quam collega e inoltre lo storico sottolinea che quell’anno furono eletti
solamente magistrati di grande esperienza, tranne proprio il console plebeo2.
Lo storico padovano narra le vicende precedenti alla battaglia di Canne3
premettendo, com’è solito fare per una sconfitta imminente, una serie innumerevole di
prodigia e il clima di terror che questi causano alla popolazione. Vediamo che a Roma,
nell’Aventino e in Ariccia, nello stesso momento cadde una pioggia di pietre, nel
territorio sabino le statue degli dei stillarono molto sangue, a Cere sgorgò acqua da una
fonte calda (ed era un fatto spaventoso perché accadeva spesso) e nella via fornicata, nei
pressi del Campo Marzio, alcuni uomini caddero colpiti da un fulmine4.
Visto l’esito delle precedenti battaglie, quod nunquam antea factum erat, venne
stabilito che giurassero insieme e individualmente tutti i soldati. Livio afferma che prima
di quel giorno, i Romani avevano conosciuto soltanto un tipo di giuramento, quello
collettivo. I soldati promisero di adunarsi soltanto dietro ordine del console e di non
allontanarsi, né di abbandonare la battaglia per fuga o per paura e venne regolato da una
legge solenne5.
Prima della partenza i consoli tennero dei discorsi diversi al proprio esercito:
Varrone ne fece molti e molto violenti, ricordando che la guerra era stata portata in Italia
dai nobili e che sarebbe continuata se avessero comandato ancora uomini come Q. Fabio
Massimo, mentre lui avrebbe terminato la guerra andando incontro al nemico 6. Paolo
invece parlò una volta sola e il suo fu un discorso più veritiero che gradito al popolo:
espresse molta meraviglia nei confronti del collega, poiché sembrava strano che un dux,
1
Liv. XXII.35.3
Liv. XXII.35.7
3
Gli eserciti furono notevolmente aumentati e Livio ci fornisce diverse versioni a riguardo: c’era chi sosteneva che
furono aggiunte 10.000 reclute, altri, quattro nuove legioni. Inoltre le legioni furono aumentate a 5.000 fanti e 300
cavalieri e gli alleati dovevano fornire lo stesso numero di fanti e il doppio di cavalieri (in totale 10.900 uomini).
Alcuni storici affermano che in campo ci furono ben 87.200 soldati Romani. Anche Polibio è stupito dal gran
numero di truppe schierate dalla Repubblica e si tratta di ben otto legioni, testimonianza ritenuta più verosimile
dallo storico padovano.
4
Liv. XXII.36.6-9
5
Liv. XXII.38.1-5
6
Liv. XXII.38.6-8
2
Pagina | 27
senza conoscere il proprio esercito e quello nemico, la posizione dei luoghi e la natura
della regione, già sapesse prevedere il giorno esatto della disfatta di Annibale1.
A questo punto Tito Livio inserisce un lungo botta e risposta tra il console Paolo e
l’ex dittatore Massimo, che comincia nel passo XXII.38.8 fino a XXII.40.5. Alle parole
del nuovo console segue una pronta risposta di Massimo: se Paolo avesse avuto un
collega del suo stesso carattere, allora parlare sarebbe stato inutile, ma vista l’indole di
Varrone, questo discorso era necessario. Nell’occasione lo storico patavino fa intervenire
anche il dittatore e tramite le sue parole afferma che la ferocia dell’homo novus può
essere anche più pericolosa dello stesso generale cartaginese.
Il console Varrone è il tipo di generale che Annibale spera di affrontare in
battaglia per avere una facile vittoria, quindi Paolo avrebbe dovuto opporsi a entrambi.
Sempre secondo l’ex dittatore, sarebbe stato meglio che i cittadini disprezzassero
l’operato di Paolo, ma che il comandante punico lo temesse. Paolo però gli rispose senza
troppo ottimismo, quasi ormai fosse rassegnato a una sconfitta. Lo storico patavino ci
mostra i due nuovi comandanti della repubblica che si separano: Paolo è accompagnato
dai senatori più autorevoli, Varrone da una folla imponente priva di personalità di valore.
Come si giunge allo scontro:
Secondo quanto riporta Tito Livio, le modalità con cui i due eserciti s’incontrano
per dar vita a una delle più celebri sconfitte romane, sono piuttosto lunghe e macchinose;
la descrizione di tali modalità la ritroviamo dal capitolo quarantuno al capitolo
quarantaquattro, del ventiduesimo libro. Vediamo che in queste righe, i nuovi consoli
stabilirono due accampamenti: uno più piccolo vicino ad Annibale, e quello più lontano
con i combattenti migliori2.
Annibale scoprì che l’esercito romano si era raddoppiato, visto che questa volta lo
minacciavano entrambi i consoli, e come se non bastasse, il frumento stava per finire e i
suoi soldati minacciavano di disertare. Tuttavia si rallegrava molto per questo motivo
perché era sicuro di poter trarre vantaggio dall’arrivo dei consoli e aspettava solo il
1
2
Liv. XXII.38.8-10
Liv. XXII.40.5-7 Dei consoli dell’anno precedente venne mandato a Roma a causa dell’età, M. Atilio Regolo (il
sostituto del defunto Flaminio), mentre misero a capo del distaccamento romano minore C. Servilio Gemino.
Pagina | 28
momento più opportuno1. Il caso diede inoltre un’occasione all’avventatezza e all’indole
precipitosa del console plebeo, poiché, dando la caccia a dei Cartaginesi che depredavano
i campi, ne nacque una scaramuccia nella quale i Cartaginesi ebbero la peggio (secondo
Tito Livio morirono in 1.700, mentre tra Romani e alleati caddero soltanto un centinaio
di unità). Fortunatamente dato che il comando tra i consoli era distribuito a giorni alterni,
Paolo riuscì a tenere fermi i suoi soldati dall’intraprendere un’azione avventata, mentre
Varrone gridava che in tal modo stavano facendo fuggire i nemici, proprio quando
potevano sconfiggerli definitivamente2.
Per quanto riguarda l’opinione dello storico patavino, Annibale non si rammaricò
della sconfitta, anzi, decise subito di mettere in difficoltà l’esercito romano con le prime
insidie, sia per sfruttare la temerarietà del console Varrone, sia perché due terzi dei
soldati Romani erano reclute inesperte. Abbandonò gli accampamenti lasciando
all’interno ogni cosa e si nascose dietro i monti, per assalire poi il nemico intento a
saccheggiare3.
Tito Livio si sofferma molto sulla natura di Varrone, homo novus dotato di ferocia
e temeritas, che arringa spesso i suoi uomini, in contrasto con quella di Paolo,
personaggio dipinto meno come demagogo e più come prudente condottiero. I Romani
meravigliati pensarono subito che Annibale fosse fuggito; se da una parte Varrone e i
soldati volevano andare a saccheggiare l’accampamento, Paolo dall’altra predicava
prudenza. Il console patrizio però disse al collega che i polli non gli avevano dato dei
buoni presagi così, Varrone, decise di fermarsi per paura di quello che era successo a
Flaminio, il console del Trasimeno, irrispettoso dei presagi divini. Mentre i soldati
infervorati non volevano più obbedire al console plebeo, due schiavi, che erano stati fatti
prigionieri dai Numidi, informarono il console che Annibale era appostato nelle
vicinanze del campo sguarnito, pronto a tendere un agguato ai Romani. Questo intervento
secondo Tito Livio restituì l’autorità ai consoli perché il desiderio di popolarità di uno dei
due aveva con la sua indulgentia annullato questa stessa autorità presso i soldati4.
1
Liv. XXII.40.7-9
Liv. XXII.41.1-4
3
Liv. XXII.41.7-9
4
Liv. XXII.42.1-12
2
Pagina | 29
Visto l’esito sfortunato dell’insidia, Annibale era obbligato a trovare altre
soluzioni, dato che tutti i suoi uomini protestavano sia per il cibo, sia per la paga
mancata. Il comandante decise di scendere verso l’Apulia più calda e accogliente, piena
di messi e probabilmente più sicura per i suoi soldati (riteneva che più si allontanava
dalle regioni del nord, meno probabile era che i suoi nuovi alleati lasciassero l’esercito)1.
Varrone con l’esercito, con l’approvazione di molti ma contro il parere di Servilio e
Paolo, seguì i Cartaginesi immediatamente perché non voleva lasciarsi scappare
l’occasione di affrontarli. Annibale pose gli accampamenti nei pressi di Canne, contro il
vento di scirocco, e in futuro questa fu una circostanza molto favorevole: quando si
dovette ordinare lo schieramento di battaglia, il vento avrebbe soffiato alle loro spalle,
mentre i Romani sarebbero stati accecati dal polverone2.
Tito Livio ci spiega che Annibale decise di occupare Canne dove i Romani
tenevano le riserve di grano; questa conquista turbò gli animi dei Romani sia perché ora
erano in difficoltà per i rifornimenti, sia perché il colle di Canne era in una posizione
vantaggiosa. Visto che non potevano evitare lo scontro qualora si fossero avvicinati alla
piccola città, i consoli inviarono messaggeri a Roma per decidere sul da farsi: il Senato
deliberò affinché si muovesse battaglia contro l’esercito di Annibale3.
I consoli Romani fortificarono in aperta pianura due accampamenti nei pressi del
fiume Aufido per rifornirsi facilmente d’acqua4. Il giorno seguente i consoli si
accamparono a cinquanta stadi di distanza dal nemico. Fece accampare due terzi
dell’esercito a sinistra del fiume Aufido e l’altro terzo a destra del fiume, a dieci stadi di
distanza5. Annibale tentò di provocare gli avversari con delle scaramucce per invitarli in
battaglia campale, vista l’ottima natura del luogo in cui si trovavano, ma all’avventatezza
di Varrone si opponeva la prudenza di Paolo.
1
Liv. XXII.43.5
Liv. XXII.43.8-11
3
Pol. III.107
4
Liv. XXII.44.1-2
5
Pol. III.110: la distanza da Annibale era di circa 9.250 metri (Pol. III.110.1), mentre i due accampamenti erano
circa a 1.850 metri di distanza l’uno dall’altro (Pol. III.110.10).
2
Pagina | 30
Battaglia1:
La narrazione liviana della disfatta di Canne occupa ben cinque capitoli del
ventiduesimo libro e si apre con il capitolo quarantacinque. In questo punto dell’opera, lo
storico ci mostra i consoli indaffarati a discutere sulla migliore strategia da attuare,
mentre il comandante cartaginese mandava i Numidi ad attaccare i Romani che si
rifornivano d’acqua, arrivando quasi fino alle porte dell’accampamento. I Romani non
attaccarono battaglia solo perché il comando era nelle mani di Paolo2.
Arrabbiato per l’affronto subito, Varrone, il giorno in cui gli spettava il comando,
schierò le truppe per il combattimento3. Emilio Paolo sul fianco destro, vicino al fiume,
mise i cavalieri Romani, a sinistra la cavalleria alleata e al centro i fanti. I comandanti
dello schieramento erano così divisi: Varrone nell’ala sinistra, Paolo in quella destra e
Servilio, console dell’anno precedente, al centro. Visto lo scarso numero dei cavalieri a
disposizione dell’esercito romano, i consoli stessi assunsero il comando delle due ali4.
Annibale dispose l’esercito in questo modo: a sinistra la cavalleria gallica e
spagnola, a destra la cavalleria numidica e al centro i fanti. Secondo quanto riporta Tito
Livio, si schierarono in totale 40.000 fanti e 10.000 cavalieri, comandati da Asdrubale
nell’ala sinistra, Maarbale5 in quella destra e al centro Annibale con il fratello Magone6.
Sebbene la posizione del sole non desse fastidio a nessuno dei due schieramenti, il vento
comunque soffiava la polvere in faccia ai Romani7.
A questo punto dell’opera, Livio inizia a narrarci la battaglia drammaticamente:
contro l’ala destra romana si scontrò la cavalleria gallica e spagnola, senza rispettare le
tattiche perché non c’era spazio per le evoluzioni e diventò subito in battaglia pedestre;
presto i cavalieri Romani furono totalmente sconfitti8. La formazione della fanteria
1
Liv. XXII.45-49
Liv. XXII.45.1-4
3
Liv. XXII.45.5 secondo Pol. III.113.1-5: Gneo Servilio schierò le truppe. Creò manipoli più fitti del solito e molto
più profondi che larghi. All’ala destra pose la cavalleria romana e in quella sinistra la cavalleria alleata. Al centro
la fanteria romana ed alleata. In totale combattevano 80.000 fanti e 6.000 cavalieri (anche se ricordiamo, dalle
stime di Polibio dobbiamo togliere 10.000 uomini che rimasero nell’accampamento maggiore).
4
Liv. XXII.45.6-8: Al centro dello schieramento probabilmente si trovava con Servilio anche l’ex maestro della
cavalleria, Minucio Rufo.
5
Pol. III.114.7: non era Maarbale ma Annone a controllare quello schieramento.
6
Liv. XXII.46.1-8
7
Liv. XXII.46.9
8
Liv. XXII.47.1-3
2
Pagina | 31
cartaginese era disposta a mezzaluna, con un nucleo di fanti più allungati verso il centro
dello schieramento romano: in questo modo i fanti Romani al centro si scontrarono
contro un cuneo di nemici, ricacciandoli indietro. In questo modo i soldati della
Repubblica vennero presi in mezzo allo schieramento e si trovarono circondati dai fanti
libici, freschi e armati pesantemente, che presto ebbero la meglio1.
Nell’ala sinistra, dove combatteva la cavalleria degli alleati, Livio ci descrive
subito un atto di fraude tipico dei Cartaginesi: 500 Numidi gettarono ai piedi dei Romani
lance e scudi e fecero finta di entrare nell’esercito come disertori. Quando tutti erano
impegnati in battaglia, aggredirono i Romani alle spalle. Considerato che l’ala destra
romana era stata quasi annientata e la fanteria al centro stava per perdere, Asdrubale
richiamò i Numidi e li mandò ad inseguire i fuggitivi. Alla fanteria africana aggiunse la
cavalleria gallica e spagnola2.
Paolo si accorse che la battaglia sarebbe stata decisa dalle forze di fanteria, così,
nonostante una ferita, si gettò in mezzo alla mischia con i suoi uomini. I cavalieri Romani
e il console stesso, avevano deciso di abbandonare il cavallo poiché la stanchezza era tale
da impedire loro di tenere in mano le redini dell’animale 3. Per Annibale, vedere tutti i
soldati appiedati, fu un chiaro segnale che ormai la battaglia era vinta: i Romani
preferivano morire sul posto piuttosto che cercare una fuga disperata4. Livio ci mostra
una scena drammatica, quando il tribuno dei soldati Lentulo vide sopra un sasso Paolo
ricoperto di sangue: nonostante le richieste del tribuno, il console rifiutò di salvarsi con
lui a cavallo poiché preferiva morire con i suoi soldati5. A questo punto iniziò una ritirata
disordinata: in 7.000 si rifugiarono nell’accampamento minore (di questi soltanto 600
fuggirono in quello maggiore), 10.000 in quello maggiore e 2.000 a Canne. Per caso si
salvò lo stesso Varrone con cinquanta cavalieri nella città di Venosa6.
1
Liv. XXII.47.4-10
Liv. XXII.48.1-6
3
Liv. XXII.49.1-3
4
Liv. XXII.49.3-5
5
Liv. XXII.49.6-12
6
Liv. XXII.49.13-15
2
Pagina | 32
Lo storico patavino ci dice che in totale furono uccisi tra le file romane, 45.500
fanti, 2.700 cavalieri e i prigionieri della battaglia furono 3.000 fanti e 1.500 cavalieri1.
La sconfitta nonostante tutto fu, secondo Livio, meno grave del previsto, perché l’esercito
di Annibale non discese verso Roma2.
Subito dopo la disfatta:
Dopo la vittoria Maarbale era convinto della necessità di marciare su Roma e
sconfiggerla definitivamente, ma ad Annibale questa idea sembrava troppo bella per
poterla concepire, così rispose al generale che aveva ancora bisogno di tempo. La risposta
di Maarbale tramite le parole di Livio, fu la famosa frase: “Non omnia nimirum eidem di
dedere. Vincere scis, Hannibal; victoria uti nescis”. Maarbale avrebbe pure inviato per
prima la cavalleria numidica in modo tale che i Romani sapessero subito dell’arrivo del
comandante cartaginese.
Il giorno seguente alla battaglia di Canne, lo storico riporta che il comandante
punico assalì l’accampamento minore e si arresero tutti e 6.400. Invece 4.000 fanti e 200
cavalieri scapparono dall’accampamento maggiore a Canosa e i restanti uomini furono
fatti prigionieri. I soldati che morirono nello schieramento cartaginese furono soltanto
8.000 uomini3.
A Canosa si trovavano solo quattro tribuni militari sopravvissuti: quello della
prima legione, Fabio Massimo (figlio del dittatore eletto dopo la disfatta sul Trasimeno),
quelli della seconda Gaio Publicio Bibulo e Publio Cornelio Scipione (il futuro africano)
e Appio Claudio Pulcro della terza. Questi diedero il comando a Scipione e Appio
Claudio4. Contemporaneamente alla disfatta, giunse a Roma la notizia che l’urbe era
condannata e alcuni giovani nobili, capeggiati da Cecilio Metello, pensarono di
abbandonare l’Italia con le navi5. Scipione, informato di ciò, corse dal nobile con la spada
in pugno e promise che non avrebbe mai abbandonato e la repubblica e che mai avrebbe
1
Liv. XXII.49.15 inoltre cfr. Pol. III.117.2-4: Dei 6.000 cavalieri, circa settanta si rifugiarono a Venosa, altri 300
scapparono nelle città vicine. Dei 10.000 fanti che non avevano partecipato al combattimento, 7.000 furono
catturati e 3.000 riuscirono a fuggire. Dei 70.000 sul campo di battaglia, tutti quanti persero la vita.
2
Liv. XXII.50.1-2
3
Pol. III.117.6: Annibale perse solamente 4.000 celti, 1.500 tra iberi e libici e 200 cavalieri.
4
Liv. XXII.53.1-4
5
Liv. XXII.53.5-6
Pagina | 33
tollerato che qualcuno volesse abbandonarla. Impauriti e sconvolti da questa promessa,
giurarono tutti quanti di non abbandonare Roma1.
A Venosa raggiunsero Varrone circa 4.500 soldati e quando Appio Claudio e
Scipione seppero che uno dei due consoli era ancora vivo, s’incontrarono a Canosa per
unire gli eserciti2. A Roma invece, era stata portata la notizia che tutto l’esercito assieme
ai suoi generali era stato interamente distrutto: mai si era verificata una disfatta simile.
Ormai l’Apulia, il Sannio e quasi tutta l’Italia appartenevano ad Annibale3.
Nella versione che ci fornisce Tito Livio, a Roma i senatori erano atterriti e non
riuscivano a prendere alcuna decisione. In ogni casa si piangeva disperati. L’ex dittatore
Fabio Massimo era convinto che non tutto fosse perduto e mandò cavalieri armati alla
leggera per interrogare tutti i dispersi o i fuggitivi per conoscere le sorti dell’esercito e le
intenzioni di Annibale. Intanto i senatori avrebbero dovuto interrompere le agitazioni dei
cittadini e imporre il silenzio in città4. Le notizie degli informatori di Fabio non furono
troppo felici, i sopravvissuti non erano più di 10.000: per la prima volta il Senato dovette
imporre un limite al lutto (massimo trenta giorni) visto che ognuno piangeva e nessuno
andava più alle feste per le divinità5.
Lo storico precisa inoltre che i senatori furono spaventati anche da alcuni prodigi:
due vestali caddero in peccato carnale e una fu sepolta viva com’era costume, l’altra
invece si tolse la vita. Chi aveva consumato il peccato assieme a loro era stato ucciso a
frustate. Furono consultati i libri sibillini e Quinto Fabio Pittore venne mandato a Delfi a
consultare l’oracolo6. Intanto a Roma furono fatti sacrifici inconsueti: una coppia di galli
e di greci furono sepolti vivi nel Foro Boario7. Marco Claudio Marcello mandò a difesa
di Roma 1.500 soldati dalla flotta navale; egli stesso con una legione di soldati della
marina, si diresse a Canosa8. Il Senato nominò dittatore Marco Giunio Pera e come
maestro della cavalleria Tiberio Sempronio Gracco. I due generali ordinata la leva,
1
Liv. XXII.53.9-13
Liv. XXII.54.1-2; 54.5-6
3
Liv. XXII.54.7-10
4
Liv. XXII.55.4-8
5
Liv. XXII.56.1-5
6
Liv. XXII.57.2-6
7
Liv. XXII.57.6
8
Liv. XXII.57.7-8
2
Pagina | 34
arruolarono i più giovani dai diciassette anni in su e formarono quattro legioni di fanti e
1.000 nuovi cavalieri, assieme a quelli prelevati dalle città alleate. In ogni caso non erano
sufficienti queste truppe così si deliberò per un’altra forma di reclutamento: 8.000 schiavi
furono affrancati dallo stato e entrarono a far parte dell’esercito romano1.
Nella sua opera, Livio descrive che Annibale, per trattare sul prezzo dei
prigionieri, inviò a Roma Cartalone, nobile cartaginese, incaricato anche di portare le
eventuali condizioni di pace se ce ne fosse stato bisogno. In realtà il dittatore Pera non gli
diede nemmeno l’occasione di entrare in città, Roma non si sarebbe mai abbassata ad
accettare delle condizioni di pace dallo stato cartaginese, i cui abitanti venivano quasi
paragonati a degli schiavi2.
Nell’opinione del patavino, a questo punto della guerra punica, la fedeltà degli
alleati cominciò a vacillare: al nemico passarono i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli
Irpini, una parte dell’Apulia, i Sanniti, i Bruzzi, i Lucani, il litorale greco, i Tarentini, la
città di Metaponto, Crotone, Locri e i Galli Cisalpini3. Roma fu talmente magnanima che
quando il console Varrone tornò da una sconfitta così grande, della quale era il maggiore
responsabile, ricevette gratitudine poiché non aveva disperato della Repubblica4.
Nel frattempo Magone, figlio di Amilcare, si diresse a Cartagine per riportare le
notizie delle sorprendenti vittorie: disse che più di 200.000 Romani erano stati uccisi e
50.000 presi prigionieri5. Ora era necessario inviare rinforzi ad Annibale e furono inviati
rinforzi in denaro, 4.000 Numidi e quaranta elefanti. In Spagna fu inviato un dittatore ad
assoldare 20.000 fanti e 4.000 cavalieri. I provvedimenti da Cartagine furono fatti con
molta lentezza e i Romani si affrettarono a disporre le difese6. I soldati appena reclutati a
Roma erano ancora troppo pochi, così il dittatore Pera decise di liberare anche i
prigionieri, armando così altri 6.000 uomini7.
1
Liv. XXII.57.9-12
Liv. XXII.58
3
Liv. XXII.61.11-13
4
Liv. XXII.61.14-15
5
Liv. XXIII.11.7-9
6
Liv. XXIII.13.7-8; 14.1-2
7
Liv. XXIII.14.3-4
2
Pagina | 35
Questa vittoria secondo Livio, portò ad Annibale un beneficio imprevisto, poiché
in seguito alla disfatta di Canne, il cartaginese strinse, l’anno successivo, una nuova
alleanza con Filippo di Macedonia1.
1
Liv. XXIII.33
Pagina | 36
SCONFITTA DI CAPUA E EPISODI BELLICI COEVI
Dopo la celebra disfatta di Canne, seguì tra Roma e Cartagine un lungo periodo
privo di grandi battaglie decisive. Nella repubblica predominava la tattica della cunctatio
e il generale Annibale, secondo la tradizione che segue Tito Livio, si era abbandonato
totalmente agli ozi di Capua, città conquistata dal cartaginese.
Nel riportare gli eventi dell’anno 212 a.C., all’interno del libro XXV della sua
opera, Livio fa menzione di diversi episodi bellici sfavorevoli ai Romani e più
precisamente cita l’insuccesso del presidio romano a Taranto (che però riesce a resistere),
la sconfitta di M. Atinio, comandante del presidio romano a Turi, la morte del proconsole
Ti. S. Gracco in Lucania, la rottura annibalica dell’assedio di Capua e per finire la
disfatta delle truppe di Centenio Penula.
Prodigia a Roma:
All’inizio del venticinquesimo libro, Tito Livio ci mostra l’invasione a Roma dei
culti orientali. Vediamo che un’ondata di superstizione invade la città e sono religioni
provenienti dall’esterno, in quanto né gli uomini né gli dei sembravano più gli stessi. I
culti religiosi praticati con meticolosità quasi esagerata, iniziano a cadere sia tra le mura
domestiche, sia in pubblico. Ormai si vedevano dappertutto sacerdoti sacrificatori e
indovini1. Per porre un freno a questi culti indesiderati, il Senato incaricò il pretore
Marco Emilio di liberare il popolo. Egli ordinò che chiunque avesse libri non consoni ai
culti degli dei Romani, li portasse a lui entro marzo, in modo tale che nessuno li potesse
più praticare2.
Intanto si avvicinavano le idi di Marzo e le elezioni consolari erano prossime. Per
non distogliere dalla guerra entrambi i consoli, il Senato ordinò a Tiberio di nominare un
dittatore. Tiberio scelse Caio Claudio Centone, che elesse Quinto Fulvio Flacco come
maestro della cavalleria, per indire i comizi. Come consoli furono scelti Quinto Fulvio
1
2
Liv. XXV.1.6-8
Liv. XXV.1.11-12
Pagina | 37
Flacco per la terza volta e Appio Claudio Pulcro; fatto ciò il dittatore subito abbandonò la
carica1. Mentre i consoli avevano il compito di continuare la guerra nel Sannio contro
Annibale, Tiberio Sempronio Gracco, proconsole, continuò a comandare gli eserciti e ad
amministrare la Lucania2.
Furono segnalati anche numerosi prodigi: sul monte Albano per due giorni
piovvero continuamente pietre. Fulmini caddero da ogni parte e sconquassarono anche le
mura di Cuma. A Reate si vide volteggiare nel cielo un grande masso e il sole aveva il
colore rosso come il sangue3.
Defezione di Taranto:
La sfortunata perdita della città bassa di Taranto, non ha una collocazione storica
precisa in Tito Livio, ma possiamo facilmente situarla verso la fine del periodo invernale
(visto che Annibale fingeva di essere ammalato, unica spiegazione del suo rimanere così
a lungo nei quartieri invernali4) e prima del 27 Aprile del calendario romano, data in cui i
consoli uscirono da Roma5.
Nella versione del patavino, vediamo che il tarentino Filea era a Roma e fingeva di
fare l’ambasciatore. Era intollerante della strategia che premiava la cunctatio e appena
riuscì a comunicare con gli ostaggi di Taranto e di Turi, li fece fuggire. Si diffuse subito
la notizia della fuga e in breve tempo i fuggitivi furono catturati tutti e massacrati6.
In seguito a queste uccisioni, Livio ci racconta che alcuni Tarentini si ribellarono,
tra i quali spiccavano Nicone e Filemeno. Questi ultimi andarono da Annibale e fecero un
accordo: gli abitanti della città avrebbero conservato le proprie leggi e non avrebbero
versato tributi ai Cartaginesi, in cambio avrebbero permesso l’ingresso di un presidio e
avrebbero lasciato totale libertà agli Africani nel predare le case romane7.
Il condottiero punico scelse 10.000 agilissimi fanti e cavalieri, mandò 800 Numidi
a razziare i campi vicini e si accampò a quindici miglia da Taranto. Appena giunse la
1
Liv. XXV.2.3-5
Liv. XXV.3.3 (spostamenti dei consoli) e Liv. XXV.3.5-6 (movimenti di Ti. S. Gracco)
3
Liv. XXV.7.7-9
4
Liv. XXV.8.12-13
5
Liv. XXV.12.1
6
Liv. XXV.7.11-14
7
Liv. XXV.8.1-9
2
Pagina | 38
notizia di queste devastazioni, il prefetto romano fece uscire solo una parte della
cavalleria; egli era infatti completamente ignaro delle intenzioni di Annibale. Nel cuore
della notte, Nicone e Filemeno uccisero le sentinelle di guardia alle porte della città e
fecero entrare i Cartaginesi in città. Grazie all’aiuto di alcune guide, riuscirono a uccidere
tutti i Romani, risparmiando la vita ai Tarentini1.
Nella descrizione liviana, vediamo che a Taranto regnava il caos; i Romani erano
convinti della ribellione degli alleati, mentre i Tarentini erano convinti di essere sotto
attacco da parte dell’esercito romano (inoltre Annibale riuscì a ingannare i nemici, poiché
dalla parte del teatro, quindi dalla parte greca, qualcuno suonava una tromba romana).
Alla luce del giorno, fu chiaro ciò che accadde durante la notte e i superstiti Romani si
erano rifugiati nella rocca2. I Romani riuscirono contro ogni speranza a conservare il
dominio dell’acropoli e Annibale provò prima ad assalirla, anche con le macchine da
guerra e senza ottenere un esito favorevole, abbandonò l’impresa3.
Sconfitta di M. Atinio:
Secondo l’opinione di Tito Livio, l’esito dell’uccisione degli ostaggi, già
precedentemente raccontata, si sentì profondamente anche nella città di Turi. Gli abitanti,
infatti, scelsero di abbandonare l’alleanza romana4.
Lo storico ci descrive nella sua opera, che Marco Atinio occupava Turi con un
piccolo presidio. Inoltre i cittadini pensavano fosse facile provocarlo non per la fiducia
che aveva nei suoi soldati, ma perché contava molto sui giovani di Turi che aveva
armato. Dal lato opposto, Annone andò verso la città con la fanteria mentre Magone con i
cavalli, protetto da alture, si nascose per tendere insidiae. L’ignaro Atinio combatteva
solo contro i fanti, mentre i giovani di Turi restavano fermi a guardare. Annone a poco a
poco riuscì ad attirare il prefetto romano nel luogo in cui si celava la cavalleria5.
Nella descrizione dei fatti che ci fornisce Livio, vediamo che appena i Romani
erano abbastanza vicini, i cavalieri nemici sbucarono fuori all’improvviso e quelli di Turi
1
Liv. XXV.9.1-17
Liv. XXV.10.1-6
3
Liv. XXV.11.9-11
4
Liv. XXV.15.5-7
5
Liv. XXV.15.9-13
2
Pagina | 39
scapparono gridando ai Romani che non potevano più entrare in città; rischiavano infatti,
di confondersi con i Cartaginesi. L’unico che si salvò dal massacro fu Atinio con alcuni
dei suoi soldati: i cittadini di Turi avevano deciso di risparmiarlo per il suo modo
benevolo di governare la città1.
Morte di Tiberio Sempronio Gracco:
Per motivi religiosi i due consoli del 212 a.C. rimasero a Roma fino al 27 Aprile2:
si diffusero nuove superstizioni per via delle profezie dell’augure Marcio. La prima di
queste prediceva la disfatta romana a Canne e dal momento che era accaduto proprio
quanto indicato dal vaticinio, anche la seconda venne presa per vera. Quest’ultima diceva
che se si fossero consacrati dei ludi ad Apollo secondo le giuste modalità, si sarebbe
automaticamente vinta la guerra3.
Nel caso del combattimento che ha visto perdere la vita di Tiberio Sempronio,
Livio non precisa la data esatta di questa vicenda, ma scrive che la sua morte avvenne
sicuramente dopo il 27 Aprile del calendario romano, ma prima del tentato assedio
romano alla città di Capua.
I consoli si mossero verso Capua per conquistarla4 e per evitare di lasciare
Benevento indifesa, ma anche per fornirla di un minimo di soldati che potessero
competere contro la cavalleria di Annibale, fu ordinato a Tiberio di dirigersi qui con un
solo reparto di cavalieri e uno di fanti armati alla leggera5.
Lo storico patavino descrive un presagio infausto che capitò al proconsole: fatti i
sacrifici necessari prima della partenza, dal nulla spuntarono due serpenti che riuscirono a
divorare il fegato dell’animale sacrificato e poi scomparvero. Gli aruspici consigliarono
di ripetere il sacrificio ma questo prodigio capitò altre due volte. Gli aruspici spiegarono
che fosse una premonizione riguardante il comandante stesso: egli avrebbe dovuto
1
Liv. XXV.15.13-16
Liv. XXV.12.1
3
Liv. XXV.12.2-15
4
Liv. XXV.15.1
5
Liv. XXV.15.20
2
Pagina | 40
guardarsi dagli uomini cui chiedeva consigli, che in realtà tramavano in segreto contro di
lui1.
Livio aggiunge tuttavia che, nonostante tali avvertimenti, nessuna providentia fu
in grado di allontanare da lui il fatum imminens. E in effetti, secondo questa versione,
Gracco morì per mano di un suo alleato. Flavo Lucano, capo dei lucani e alleato di Roma,
a un certo punto cambiò schieramento e decise di allearsi con Annibale. Non ritenne
sufficiente né passare al nemico, né far rivoltare tutti i Lucani, se non alla condizione di
sancire il nuovo patto con il sangue del comandante romano. Andò a parlare di nascosto
con Magone e ottenne la promessa che, se gli avesse consegnato Tiberio, avrebbe
accettato l’alleanza con i Lucani, senza modificare le loro leggi2.
Secondo Livio, Flavo condusse il cartaginese in un luogo atto a nascondere
agguati, assicurando che lì avrebbe attirato Gracco. Magone avrebbe dovuto celare fanti e
cavalieri armati in quel nascondiglio e attendere il momento opportuno3.
Il capo lucano spiegò a Tiberio che aveva intenzione di compiere una grandissima
impresa ed era necessaria la sua presenza: Flavo infatti aveva convinto tutte le
popolazioni lucane a tornare sotto l’alleanza romana, poiché la repubblica, dopo Canne,
riacquistava una potenza maggiore giorno dopo giorno. L’unica richiesta dei capi di
queste popolazioni era che Gracco in persona li rassicurasse spiegando che sarebbe
rimasto egli stesso fedele a questo patto. Flavo fissò un incontro in un luogo nascosto ma
visibile a tutti, nei pressi dell’accampamento. Il generale romano purtroppo non poteva
più sottrarsi al fato e decise di fidarsi: andò al luogo stabilito con i littori e pochi
cavalieri, ma cadde in pieno nell’agguato. I Cartaginesi spuntarono da ogni parte lo stesso
Flavo si unì a loro per evitare che ci fossero dubbi sul da che parte stesse4.
Tito Livio ci mostra il grande valore del comandante romano, poiché scese subito
da cavallo e proteggendosi con il solo mantello si gettò contro i nemici, seguito dai suoi
uomini. La battaglia fu molto più feroce del previsto, ma alla fine furono uccisi tutti i
cavalieri; soltanto Gracco rimaneva in piedi. I Cartaginesi si sforzavano di catturarlo
1
Liv. XXV.16.1-5
Liv. XXV.16.5-8
3
Liv. XXV.16.8-9
4
Liv. XXV.16.9-16
2
Pagina | 41
senza ucciderlo, ma dato che uccideva troppi uomini, non si poté più risparmiarlo1. Gran
parte dell’esercito di Tiberio si sfaldò come se, a causa della morte del comandante, tutti
fossero stati congedati2.
Tito Livio a questo punto dell’opera, riporta tutte le versioni che proponevano gli
storici del suo tempo attorno alla morte del comandante romano. Alcuni sostenevano che
Gracco fosse andato a fare un bagno e che i nemici in agguato lo avessero ucciso nudo,
mentre si difendeva a colpi di pietra3. Altri invece dicevano che per espiare gli sfortunati
prodigi, si diresse 500 passi fuori dal campo e per puro caso i Numidi lo uccisero4.
Anche riguardo ai funerali ci riporta due versioni differenti: la prima, più diffusa,
descrive Annibale che celebrava le esequie davanti alla pira di Gracco, mentre l’esercito
in armi danzava e sfilava5. La seconda, che seguiva il racconto di quanti dicevano fosse
stato ucciso mentre faceva il bagno, racconta che la testa del generale romano viene
portata ad Annibale, che incarica Cartalone di portarla al campo romano. Qui il questore
Cneo Cornelio celebra le onoranze funebri6.
Vittoria di Annibale a Capua:
Per quanto riguarda la rottura dell’assedio a Capua, attuata con successo da
Annibale, sappiamo che Livio la colloca verso la fine di Maggio o i primi di Giugno del
212 a. C., visto che il grano ancora non era ancora maturato7.
Livio come antefatto narra la prima sconfitta in territorio campano, che riguardava
una sortita dei campani con l’aiuto della cavalleria di Magone. I consoli, mentre si
davano ai saccheggi, richiamarono in fretta i soldati, li disposero per la battaglia, ma
furono sparpagliati e morirono più di 1500 uomini. Questo combattimento, secondo lo
storico patavino, venne condotto dai consoli in modo incaute atque inconsulte8. Il
carattere rissoso dei due generali viene ricordato da Livio anche poche righe prima,
1
Liv. XXV.16.17-23 - G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, pag. 325: Ti. S. Gracco morì in primavera.
Liv. XXV.20.4
3
Liv. XXV.17.1-3
4
Liv. XXV.17.3
5
Liv. XXV.17.4-6
6
Liv. XXV.17.6-7
7
Liv. XXV.19.3-4 - L. PARETI, Storia di Roma, II, Torino 1952, pp. 392-395
8
Liv. XXV.18.1-2
2
Pagina | 42
quando scrive che entrambi volevano distruggere Capua per rendere famoso il loro
consolato1.
I consoli tentarono nuovamente di bloccare l’assedio intorno alla città e vennero
raggiunti subito anche dal comandante cartaginese, certo di sconfiggere i tanto odiati
Romani, visto che i capuani da soli avevano sbaragliato di recente le truppe consolari2.
Nella versione del patavino, i Cartaginesi iniziarono il combattimento, mettendo a
dura prova i Romani con il lancio dei dardi e dagli assalti della cavalleria. Subito dopo
anche la cavalleria romana si gettò nella mischia e si accese una violenta battaglia
equestre. In lontananza però apparve l’esercito di Sempronio, ora comandato da Cneo
Cornelio, ma entrambe le parti temettero l’arrivo di ulteriori nemici3.
A quel punto, per allontanare Annibale da Capua, i consoli decisero di dividersi:
Fulvio andò a Cuma, mentre Appio Claudio si diresse in Lucania. Dopo aver esitato un
po’, Annibale alla fine decise di seguire Claudio, il quale riesce a farsi inseguire fino a
Capua, com’era intenzione del console (o almeno così afferma Livio)4.
Sconfitta dell’esercito di Penula:
Nella versione dei fatti che ci propone Livio, la disfatta dell’esercito di Penula non
ha una datazione precisa, ma si può situare pochi giorni dopo il fallito assedio a Capua.
In Lucania, secondo il patavino, il condottiero punico trovò un’altra occasione per
sconfiggere i Romani in battaglia. Tra i centurioni del primo manipolo di triarii, c’era un
certo Marco Centenio Penula, famoso per il coraggio, il valore e la forza fisica. Appena
terminò il servizio militare obbligatorio, venne introdotto da Publio Cornelio Silla
all’interno del Senato, per chiedere di disporre di 5.000 soldati. Egli infatti spiegava
come fosse pratico del nemico e della natura dei luoghi e inoltre avrebbe utilizzato contro
il cartaginese le sue stesse armi5.
Livio obietta però che è totalmente impossibile che un soldato semplice possa
ragionare da un giorno all’altro come se fosse un comandante, però il Senato gli diede
1
Liv. XXV.15.18-19
Liv. XXV.19.1-2
3
Liv. XXV.19.3-5
4
Liv. XXV.19.6-8
5
Liv. XXV.19.8-12
2
Pagina | 43
ragione e lo rifornì di ben 4.000 soldati Romani e 4.000 alleati. Durante la sua marcia,
Penula riuscì ad aggregare altri 8.000 volontario e giunse così di fronte all’esercito di
Annibale. L’esito dello scontro però era già segnato in partenza in quanto si scontravano
un comandante abituato a vincere, contro uno provvisto di un esercito nuovo, disordinato
e armato solo per metà. Nessuno dei due schieramenti voleva sottrarsi allo scontro e al
contrario si combatté per più di due ore nonostante l’enorme differenza di livello tra
Romani e Cartaginesi1.
Penula si accorse di questo enorme divario e sia per il suo grande valore, sia per la
paura dell’onta che avrebbe ricevuto se fosse scappato da una disfatta causata dalla sua
avventatezza, cadde nel mezzo della mischia e il suo esercito fu fatto a pezzi; soltanto
1.000 uomini si salvarono2.
1
2
Liv. XXV.19.12-15
Liv. XXV.19.16-17
Pagina | 44
I BATTAGLIA DI ERDONEA
Poco dopo la disfatta di Penula, Livio ci mostra come i consoli ricominciarono ad
assediare Capua con grande violenza, per conquistarla definitivamente1. Nella sua opera,
lo storico ci descrive come Annibale che non voleva abbandonare questa città, né
tantomeno lasciarla ai romani, e considerata la temerarietà del generale romano che aveva
appena sconfitto, voleva assolutamente ottenere un’altra vittoria contro un altro generale
romano nelle vicinanze. Dall’Apulia arrivarono dei messaggeri per informarlo che il
pretore Cneo Fulvio aveva assalito energicamente alcune città e poi, rallegrandosi troppo
per il successo acquisito, si era abbandonato assieme alle truppe a ozi e trascuratezza,
tralasciando qualsiasi forma di disciplina. Poiché Annibale aveva già sperimentato in che
condizioni versasse un esercito comandato da un capo veramente inetto, si diresse verso
l’Apulia2.
Nel resoconto liviano, le due legioni romane comandate da Fulvio, si trovavano
nei pressi di Erdonea. Appena arrivò la notizia che Annibale si stava avvicinando, mancò
poco che i soldati romani strapparono le insegne per uscire in campo da soli. L’unica
cosa che trattenne le truppe fu che avrebbero benissimo potuto fare una mossa del genere,
quando l'avessero voluto. Dato che il comandante cartaginese aveva saputo di questo
tumulto tra i suoi nemici e che la maggior parte dei soldati romani minacciava Fulvio
stesso per attaccare la battaglia, ebbe la certezza che si presentava per lui la miglior
situazione possibile3.
Lo storico ci spiega che per tendere un agguato, Annibale decise di nascondere
3.000 fanti leggeri nelle fattorie e nelle aree boschive e ordinò loro che quando avesse
dato il segnale, sarebbero dovuti uscire tutti quanti. Per evitare il più possibile che ci
fossero dei superstiti, ordinò a Magone di bloccare con circa 2.000 cavalieri ogni
1
Liv. XXV.20.1
Liv. XXV.20.5-7
3
Liv. XXV.21.1-3
2
Pagina | 45
possibile via di fuga1. Compiuti durante la notte questi preparativi, all’alba del giorno
successivo il comandante punico schierò l’esercito e Fulvio, più che dalla speranza di
poter sconfiggere il cartaginese, quanto dal comportamento dei suoi uomini, tentò di
disporre anche lui l’esercito. I suoi uomini, però, si dispongono secondo il loro desiderio
e abbandonavano la posizione per paura del nemico2.
Secondo il patavino, la prima legione e l’ala sinistra si disposero in prima linea e
nonostante i tribuni protestassero contro un simile schieramento, i soldati non ascoltarono
nessun suggerimento3. Erano totalmente impreparati al combattimento a tal punto che
non riuscirono a sostenere nemmeno il grido di battaglia dei nemici. Il comandante
romano, stolto e avventato come Centenio Penula, era però privo del suo famoso
coraggio e quando si accorse che la battaglia volgeva al peggio e che i suoi uomini non
ragionavano più, prese un cavallo e fuggì con altri 200 cavalieri. Il resto dell’esercito,
accerchiato alle spalle e alle ali, fu annientato e si salvarono soltanto circa 2.000 uomini.
Poco dopo i Cartaginesi conquistarono gli accampamenti romani4.
Livio scrive nella sua opera, che quando giunsero a Roma le notizie di tutte queste
sconfitte, nacque una grandissima paura per tutti i cittadini. In realtà i consoli, che
avevano il comando di operazioni militari molto più importanti, avevano ottenuto
imprese molto più felici. Il Senato mandò degli ambasciatori ai due consoli per
raccogliere con cura i resti dei due eserciti, evitando così che si schierassero per
disperazione con il comandante cartaginese; inoltre avevano anche il compito di
recuperare i disertori del defunto esercito del defunto Tiberio. Questo incarico fu affidato
a Publio Cornelio che doveva anche fare la leva militare. Ogni provvedimento a Roma
venne fatto con la massima diligenza possibile5.
1
Liv. XXV.21.3-4
Liv. XXV.21.4-6
3
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, Paris 2006, pag. 283: la qualità delle relazioni tra la truppa e il
comandante, in questo periodo dell’opera liviana è determinante per quanto riguarda l’esito del combattimento.
4
Liv. XXV.21.6-10
5
Liv. XXV.22.1-4
2
Pagina | 46
GLI SCIPIONI IN SPAGNA
Lo storico patavino ci racconta che mentre nel 212 a.C. avvenivano tutti gli scontri
riportati nelle pagine precedenti (ovvero le battaglie coeve all’assedio fallito presso
Capua e la disfatta di Erdonea), nella stessa estate in Spagna terminava il lunghissimo
comando dei due Scipioni, Publio e Gneo. Livio però commette un chiaro errore
cronologico, voluto però dalla simmetria della sua opera. Quest’anno rappresenta l’esatta
metà della seconda guerra punica; la data di questi scontri nella penisola iberica è da
collocarsi nel 211 a. C1.
Premesse:
Nella penisola iberica, gli eserciti di Publio e Gneo Scipione finalmente si
ricongiunsero. Fino a quel momento i Romani combattevano soltanto per impedire ad
Asdrubale di arrivare in Italia, ma ora era il momento di prendere l’iniziativa. Gli
Scipioni erano convinti della loro vittoria, in quanto i 20.000 Celtiberi armati l’inverno
precedente, sarebbero stati degli ottimi rinforzi2.
I Cartaginesi erano divisi invece in tre eserciti. A cinque giorni di distanza c’era
quello di Asdrubale, figlio di Gisgone, e quello di Magone; molto più vicino invece c’era
l’esercito di Asdrubale figlio di Amilcare, comandante che si trovava in Spagna da più
tempo e che risiedeva nella città di Amtorgi3.
L’idea dei Romani era di eliminare quest’ultimo condottiero punico per primo, ma
erano preoccupati che gli altri due comandanti avversari tirassero la guerra per le lunghe
ritirandosi sui monti. Così la migliore soluzione era proprio quella di dividere in due gli
eserciti: Publio Cornelio doveva combattere contro Magone e Asdrubale, tenendo due
1
C. BRUUN, The Roman middle republic politics religion, and historiography c. 400-133 B.C. : papers from a
conference at the Institutum Romanum Finlandiae, September 11-12, 1998, in RONALD T. RIDLEY (ed.), Livy and
the hannibalic war, Roma 2000, pp. 13-40
2
Liv. XXV.32.1-4
3
Liv. XXV.32.4-6
Pagina | 47
terzi dei soldati romani e le truppe alleate, Gneo contro Asdrubale Barca, con il terzo
rimanente e le unità di Celtiberi. Arrivati ad Amtorgi, i due fratelli si divisero1.
Nella ricostruzione dei fatti offerta dal Patavino, Asdrubale Barca, visto il numero
esiguo dei Romani, che speravano fin troppo nei Celtiberi, era convinto di poter sfruttare
l’occasione. Essendo un abilissimo truffatore, riuscì a patteggiare con i capi barbari e
grazie ad un pagamento, riuscì a farli defezionare. Tale azione non sembrava così
negativa ai Celtiberi: infatti, non dovevano rivolgere le armi contro i Romani, ma
semplicemente dovevano rinunciare a combattere (e tra l’altro il compenso offerto
sarebbe stato anche più che sufficiente per indurli a combattere) 2. Tito Livio saggiamente
ricorda che qualsiasi generale dovrebbe stare attento ad una cosa del genere, poiché è
impossibile fare un affidamento nelle truppe mercenarie, al punto che queste diventino in
numero maggiore del resto dell’esercito. Gneo a questo punto era in netta inferiorità
numerica e non poteva nemmeno congiungersi con il fratello: decise così di ritirarsi
tentando di non andare in aperta pianura, visto che i Cartaginesi lo stavano ormai
incalzando3.
Morte di Publio Cornelio Scipione:
Dall’altra parte, Publio era spaventato perché Massinissa si era appena alleato con
i cartaginesi. Per tutto l’arco della giornata assaliva con i suoi Numidi i soldati romani e
impediva loro di essere tranquillo anche per un solo minuto4. Contemporaneamente
sembrava che fosse in arrivo anche Indibile con 7.500 Suessetani5.
Nonostante la calma e la prudenza che caratterizzavano Scipione, secondo Livio il
generale dovette prendere una decisione estrema a causa della necessità: attaccare
Indibile a prescindere dal luogo. Così di notte il comandante romano iniziò una battaglia
cruenta contro i nemici in marcia6; proprio però quando Publio era in vantaggio, spuntò
all’improvviso Massinissa con i Numidi, mettendo terrore all’esercito. Come se non
1
Liv. XXV.32.6-10
Liv. XXV.33.1-5
3
Liv. XXV.33.6-9
4
Liv. XXV.33.1-3
5
Liv. XXV.34.6
6
Liv. XXV.34.7-9
2
Pagina | 48
bastasse, si avvicinò anche l’esercito dei Cartaginesi che li incalzava a piedi: i Romani si
trovavano accerchiati in una battaglia senza speranze1. Il comandante della Repubblica
incitava i suoi uomini e si esponeva dove il pericolo era maggiore, ma in questo modo
una lancia lo trafisse uccidendolo sul colpo. L’esercito di Scipione, atterrito dalla morte
del comandante, fuggì disordinatamente e morirono più uomini durante la fuga che nella
battaglia. Grazie alla notte fonda alcuni dei romani riuscirono comunque a salvarsi dalla
carneficina2.
Dopo questa fortunata occasione, i comandanti africani volevano ottenere una
vittoria decisiva e decisero di unire insieme i tre eserciti.
Morte di Gneo Cornelio Scipione:
Gneo Cornelio ancora non era a conoscenza della disfatta subita dal fratello, ma,
appena vide che l’esercito nemico si era notevolmente ingrossato, dedusse da solo l’esito
dello scontro3. Pieno di timore decise di ritirarsi la notte stessa e riuscì anche a percorrere
molta strada. La cavalleria dei Numidi però era di gran lunga più veloce e li raggiunse,
obbligando Scipione a fermarsi; il comandante romano continuava ad incitare i suoi
affinché combattessero e marciassero, per evitare anche l’arrivo dei fanti nemici4.
Così facendo procedeva troppo lentamente e decise di ritirarsi con i suoi uomini
sopra un’altura. Questo luogo non era assolutamente privo di pericoli; nel mezzo mise i
bagagli e i cavalieri, circondati dai fanti. Nonostante all’inizio riuscissero a tenere bene la
posizione, all’arrivo dei tre eserciti cartaginesi, privi di fortificazione, sarebbero ben
presto crollati. A causa della natura arida del suolo, i Romani ammucchiarono ai lati i
basti degli asini e tutti i bagagli5. Questo stratagemma, inizialmente impaurì gli africani
che pensavano si trattasse di un prodigio, ma poco dopo essi presero coraggio e irruppero
in queste fortificazioni improvvisate, causando la fuga dei soldati romani. Molti
riuscirono a dileguarsi nelle selve circostanti, trovando rifugio negli alloggiamenti di
1
Liv. XXV.34.9-10
Liv. XXV.34.10-14
3
Liv. XXV.35.4
4
Liv. XXV.35.7-9
5
Liv. XXV.36.1-7
2
Pagina | 49
Scipione, tenuti dal luogotenente Tiberio Fonteio1. Tito Livio, per quanto riguarda la
morte del comandante romano, ci presenta due versioni diverse: alcuni affermano che sia
stato ucciso al primo assalto nemico, altri che, dopo essersi rifugiato in una torre lì vicina,
questa venne presto incendiata2.
Publio Cornelio e Gneo Scipione morirono otto anni dopo il loro arrivo in Spagna e Gneo
perse la vita dodici giorni dopo il fratello: la costernazione per la loro scomparsa era
grande a Roma, ma soprattutto nella stessa penisola iberica3.
1
Liv. XXV.36.8-13
Liv. XXV.36.13-14
3
Liv. XXV.36.14
2
Pagina | 50
II BATTAGLIA DI ERDONEA
Nell’opera di Tito Livio, dal 212 a.C. in poi, le sconfitte che subiscono i Romani
calano drasticamente nel numero. Dopo il disastro spagnolo degli Scipioni, le uniche
disfatte citate dallo storico riguardano la seguente, avvenuta ancora presso Erdonea e un
ultimo vittorioso agguato ai danni del console Marcello a Venosa. Se quest’ultimo è
descritto da Livio come un semplice agguato, alcuni moderni affermano che la seconda
battaglia di Erdonea sia in realtà una duplicazione della prima descritta nel 212 a.C.
Tornando nel XVI libro dell’opera “Ab Urbe Condita”, vediamo come questa
disfatta in Apulia si apra con la descrizione della situazione politica a Roma. I consoli
eletti nel 210 a.C. furono Marco Claudio Marcello e Marco Valerio Levino (entrambi
però assenti)1. Il popolo li criticava poiché erano troppo irrequieti e bellicosi; durante la
pace potevano creare la guerra e non tolleravano minimamente che i cittadini stessero a
riposo2. A Gneo Fulvio Centumalo, console del 211 a. C., venne prorogato il comando
come proconsole in Apulia3.
Nel presentare i fatti di quell’anno, Livio osserva che, nella seconda guerra punica,
non ci fu un altro momento in cui Cartagine e Roma, dopo tutte queste vicende, si
trovavano in dubbio tra una speranza di vittoria e timore di sconfitta. Per quando riguarda
l'andamento nelle provinciae, a causa della situazione in Spagna c’erano profonda
tristezza e delusione, mentre le azioni vittoriose intraprese in Sicilia, portavano una
grandissima felicità. In Italia invece la perdita di Taranto aveva portato molto dolore alla
repubblica, ma aver conservato la città alta era motivo di grande soddisfazione. Inoltre il
terrore subito dai cittadini per via dell’assedio di Annibale a Roma, era stato subito
cancellato dalla conquista di Capua. Grazie alla fortuna equilibratrice sembrava che da
entrambe le parti la guerra dovesse ancora cominciare4.
1
Liv. XXVI.22.13
Liv. XXVI.26.11
3
Liv. XXVI.28.9
4
Liv. XXVI.37.1-9
2
Pagina | 51
Da parte cartaginese, Annibale era angosciato dalla perdita di Capua, che gli aveva
allontanato l’alleanza di molte popolazioni italiche. Piuttosto che lasciare indifese le città
che si sottraevano alla sua alleanza, a causa del suo animo incline alla crudeltà, le
saccheggiava e le incendiava1.
Il proconsole Cneo Fulvio sperava totalmente di riconquistare Erdonea, e ne era
così convinto che pose i suoi accampamenti in un luogo né sicuro, né provvisto di
guarnigioni. Questa speranza aumentava anche la temerarietà del proconsole, convinto
che la fedeltà di Erdonea potesse mancare dopo che Annibale, persa Salapia, aveva
abbandonato quei luoghi2. Queste informazioni preoccupavano il comandante punico
perché temeva di perdere le sue alleanze ma Annibale al contrario sperava anche di
condurre un attacco a sorpresa. Per questo motivo si diresse in questa città per precedere
la notizia del suo arrivo e, per spaventare ancora di più il generale romano, arrivò in
ordine di battaglia3.
Fulvio, che Livio ci descrive ardimentoso come Annibale, ma meno prudente e
con meno truppe, condusse velocemente nel campo di battaglia i suoi soldati e subito
iniziò lo scontro. La quinta legione e l’ala sinistra iniziarono valorosamente il
combattimento contro i fanti Africani, ma contemporaneamente Annibale ordinava ai
suoi cavalieri di circondare gli accampamenti e i Romani stessi4.
Durante lo scontro Annibale rinfacciava a Gneo Fulvio l’omonimia con il pretore
sconfitto nello stesso luogo due anni prima, affermando che l’esito dello scontro sarebbe
stato identico. Le schiere romane lottavano con valore, ma quando arrivò la cavalleria
cartaginese alle loro spalle, vennero travolte entrambe le legioni. Alcuni Romani si
salvarono, ma molti altri, tra cui lo stesso Gneo Fulvio, persero la vita. Tito Livio afferma
che per alcuni storici i caduti furono circa 13.000, mentre per altri non furono più di
7.000. Questa grande vittoria rinnovò la leggenda legata all’invincibilità annibalica5,
1
Liv. XXVI.38.1-5
Liv. XXVII.1.4-6
3
Liv. XXVII.1.6-7
4
Liv. XXVII.1.7-9
5
L. PARETI, Storia di Roma, pag. 423: dopo Canne è la vittoria migliore del comandante punico.
2
Pagina | 52
tuttavia il comandante punico dovette abbandonare tutto quanto, bruciando la cittadina
Apula1.
1
Liv. XXVII.1.9-14
Pagina | 53
AGGUATO A VENOSA
L’ultima disfatta che subiscono i Romani contro l’esercito di Annibale è un
semplice agguato teso nei pressi di Venosa. In realtà Livio ci mostra che ebbe una
ripercussione molto forte nei cittadini di Roma, poiché la vittima principale di questa
insidia fu il console Claudio Marcello. Lo storico in realtà non ci fornisce la data esatta
dell’agguato, ma possiamo collocarla poco dopo l’ultima battaglia di Erdonea, quindi
nell’estate dell’anno 208 a.C.
I consoli eletti in quest’anno furono Tito Quinzio Crispino (per la prima volta) e
Marco Claudio Marcello (per la quinta)1. Marcello era preso da alcuni turbamenti
religiosi: durante la guerra gallica, a Clastidium, aveva promesso in voto un tempio
all’Honor e alla virtus ma questa consacrazione era ostacolata dai pontefici, che
affermavano che unam cellam secondo le regole non poteva essere dedicato
contemporaneamente a due divinità. Se su di esso fosse avvenuto qualche prodigia,
sarebbe stato difficile il rito espiatorio, poiché non si sarebbe potuto sapere a quale dei
due dei si dovesse offrire il sacrificio; non si poteva, infatti, immolare una sola vittima a
due divinità nello stesso tempo. Così accanto al tempio dell’Honor, se ne costruì
velocemente un altro alla Virtus. Tuttavia non aveva più tempo per consacrarli poiché
dovette partire per raggiungere l’esercito, che l’anno prima aveva comandato a Venosa2.
Mentre Annibale si muoveva verso il capo Lacinio, Marcello e Crispino unirono
gli eserciti nei pressi di Venosa. A causa della loro grande audacia, cercavano di
combattere quasi ogni giorno, certi che sarebbero riusciti a sgominare definitivamente il
comandante cartaginese, unendo ben due eserciti consolari3.
In passato Annibale era riuscito sia a vincere, sia a perdere contro Marcello e
questa volta non sapeva che sorte gli sarebbe toccata. Come se non bastasse il numero
delle sue truppe era notevolmente inferiore di fronte a due eserciti consolari, così cercò
1
Liv. XXVII.22.1
Liv. XXVII.25.7-10
3
Liv. XXVII.25.12-14
2
Pagina | 54
un luogo adatto per le insidie1. Tra Romani e Cartaginesi c’era un colle boscoso che
nessuno aveva occupato, che Annibale riteneva adatto per il suo piano: la notte stessa ci
nascose dei Numidi. Contemporaneamente i Romani volevano conquistare quest’altura
proprio per evitare che Annibale tendesse loro delle imboscate 2. Marcello decise di
andare a controllare di persona, assieme al collega e ad altri 220 cavalieri. Tito Livio
afferma che alcuni dicevano che in quello stesso giorno, Marco Claudio Marcello aveva
immolato delle vittime: tutte le loro viscere erano deformate e questo non era certo un
presagio favorevole3.
Appena i Romani arrivarono nei pressi dell’altura, furono subito avvistati da una
vedetta numida che diede ai compagni il segnale di uscire allo scoperto e attaccare gli
intrepidi che vi si erano avventurati. I consoli e i cavalieri non avevano via d’uscita
poiché da ogni parte erano circondati: in realtà avrebbero allungato la lotta se gli
Etruschi, con la loro fuga, non avessero vanificato le speranze dei compagni romani.
Marcello venne trafitto da una lancia e perse la vita, mentre l’altro console, ferito da due
dardi riuscì a fuggire. 43 cavalieri vennero uccisi e diciotto furono presi prigionieri4.
Famoso per la sua grande abilità bellica, Marcello ricevette l’onore della sepoltura da
Annibale stesso5.
1
Liv. XXVII.26.1-3
Liv. XXVII.26.7-10
3
Liv. XXVII.26.11-14
4
Liv. XXVII.27.1-10 cfr. Pol X.32.1-5: i consoli volevano esaminare il colle e presero con loro due squadroni di
cavalieri e 30 veliti e con i littori, avanzarono per ispezionare il luogo. I numidi per caso si erano ritirati sotto il
colle e nel primo scontro uccisero Claudio.
5
Liv. XXVII.28.1-2
2
Pagina | 55
SECONDA PARTE
Pagina | 56
RESPONSABILITÀ
Considerazioni generali:
Lo storico Tito Livio enuncia almeno dieci sconfitte che subisce l’esercito romano,
ad opera dei soldati Cartaginesi guidati da Annibale. Di queste disfatte, la gran parte
suggerisce una linea interpretativa che assegna un ruolo preponderante al comandante
romano, la cui natura è solitamente associato all’aggettivo ferox o temerarius. È il caso
dello scontro presso il fiume Trebbia, presso il Trasimeno, a Canne, in Lucania ai danni
di Centenio Penula, a Erdonea –sia nel 212, sia nel 210- e nei pressi di Venosa.
L’atteggiamento del comandante che ci descrive Livio in queste situazioni, è
spesso baldanzoso ed euforico; in questo modo, tentando di attaccare battaglia a tutti i
costi, diventerà una sorta di alleato per Annibale, il quale sfruttando abilmente la
situazione, riuscirà a vincere facilmente sul campo.
Se da una parte lo storico patavino gira le responsabilità al metodo del dux di
condurre l’esercito, dall’altra mostra anche gli stratagemmi vittoriosi del comandante
cartaginese. Gli Africani infatti, grazie al genio di Annibale, sembra che riescano ad
imbrogliare gli odiati nemici in ogni situazione. Le insidiae annibaliche, si trovano in
tutte le sconfitte subite dai Romani e grazie agli stratagemmi i Cartaginesi riusciranno
sempre – secondo Tito Livio – a sottrarre la vittoria alla repubblica romana.
In una sola sconfitta che ho analizzato, la colpa della disfatta è causata da un altro
fattore: si tratta delle truppe mercenarie assoldate dagli Scipioni in Spagna. Come
afferma lo stesso storico patavino, fare troppo affidamento su queste unità, è pericoloso e
spesso c’è il rischio di perderne il controllo (come poi vediamo, succederà in questo
frangente).
Ferocia e temeritas:
Sono due termini che compaiono costantemente nelle azioni dei personaggi
negativi nell’opera di Tito Livio. In latino sono ambivalenti e la traduzione non va fornita
Pagina | 57
in maniera affrettata. Secondo lo storico patavino, la temeritas va a indicare una
decisione presa senza considerare le conseguenze, una decisione imprudente e
sconsiderata che spesso (seppur non sempre) conduce a un esito negativo in battaglia.
Agire temerariamente significa agire alla cieca, affidandosi al caso ed evitando di agire
secondo consilium o prudentia1. La ferocia, così come l’audacia, invece può più
facilmente garantire la vittoria in battaglia, ma è troppo pericolosa e fuori controllo:
l’eroe stesso deve stare attento a non farne troppo uso. Durante la pace significa per lo
più impudenza e violenza criminale, ma in guerra è simile al coraggio o alla virtù:
quando, però viene associata da Livio alla temeritas, oppure quando essa porta alla
temerarietà, diventa sempre un elemento negativo. La ferocia spesso si accompagna con
un proliferare eccessivo della parola, con discorsi ossessionati e frenetici2.
Per quanto riguarda le caratteristiche dei generali sconfitti durante la seconda
guerra punica, vediamo che complessivamente il termine ferocia, sotto varie forme, è
presente otto volte: quattro con Sempronio, due con Flaminio, una con Varrone e una con
Flaminio. La temeritas compare più spesso, ben dodici volte: una con Sempronio, una
con Flaminio, quattro con Varrone, due con Centenio, due con Fulvio Flacco e una con
Scipione. Questi tratti distintivi peraltro non riguardano soltanto i generali; anche
l’esercito romano si macchia di questi tratti negativi in due circostanze. A Canne
l’esercito è temerarius e ferox e per di più si avvertono le tracce di una seditio militaris,
mentre, durante la prima battaglia di Erdonea, i soldati sembrano decidere al posto del
dux e Livio ce li descrive con il termine ferocia in tre casi, con temeritas una volta
soltanto.
Secondo Ridley3, Tiberio Sempronio Longo viene dipinto in maniera meno
competente rispetto al collega Scipione, ma pare essere veramente abile in battaglia
nonostante le truppe poco allenate di cui dispone. Livio lo descrive subito come dotato di
un recentis animi alter eoque ferocios4: per questo motivo il console va subito ad assalire,
con successo, i cartaginesi che attaccavano i Galli e questa vittoria parve maior
1
E. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, IV, Padova 1965, pag. 678
A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, Strasbourg 1996, pp. 54-57
3
ROLAND T. RIDLEY, Livy and the hannibalic war, pp. 13-40
4
Liv. XXI.52.2-3
2
Pagina | 58
iustiorque solamente ipse consul1 e di conseguenza anche l’animo dei soldati si era
riconfortato. Sempronio comanda le sue truppe senza però interessarsi al bene della
Repubblica, ma a un suo trionfo, poiché ormai tempus propinquum comitiorum2.
Annibale era convinto che sarebbe riuscito a sconfiggere più facilmente i romani
se uno dei due consoli si fosse comportato temere atque improvide3: era fiducioso perché
conosceva l’indole ferox di uno dei due consoli, la quale era diventata ferociusque4 dopo
il piccolo scontro vittorioso contro i numidi.
Il console manda all’attacco la cavalleria, la parte dell’esercito di cui è più ferox
(che in questo caso significa orgoglioso), e poco dopo, avidus certaminis5, manda anche
il resto dei suoi soldati a prendere parte allo scontro. Purtroppo i suoi uomini
attraverseranno il fiume gelido e perderanno tutte le forze: per questo motivo, secondo
Livio, Sempronio perderà la battaglia
Possiamo vedere come in tutta la premessa della battaglia sul Trebbia, ci sia una
chiara opposizione tra gli atteggiamenti dei due consoli. Tiberio Sempronio Longo è un
console offensivo e spregiudicato, mentre Publio Cornelio Scipione è molto più prudente
ed è il precursore della tattica vincente di Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore. Lo
storico patavino contrappone anche un gioco di opposizioni politiche: da un lato il
generale arrivista, Sempronio, animato dal desiderio di ottenere ogni gloria grazie ad una
vittoria decisiva sul nemico e dall’altro Scipione, un vero e proprio comandante
responsabile. Il padre del futuro Africano sottolinea la necessità di analizzare al meglio la
situazione prima di entrare in azione, intende rispettare alla lettera i doveri verso lo Stato
e sembra anche avere a cuore l’interesse pubblico.
Tiberio d’altro canto adotta una linea di condotta demagogica che ci mostra
benissimo quale sarà il futuro comportamento dei populares, visto che questo termine
ancora non era stato coniato. Le parole attribuite a questo generale quando cerca di
imporre le proprie opinioni al collega, hanno tonalità popolari (tonalità appunto causate
1
Liv. XXI.53.1
Liv. XXI.53.6
3
Liv. XXI.53.7
4
Liv. XXI.53.8
5
Liv. XXI.54.6-7
2
Pagina | 59
dalla naturale ferocia) e, come ci dice lo stesso Livio, si è comportato proprio come se
fosse all’interno di un’arringa popolare, in una contio, prope contionabundus1.
Nell’opera liviana la discordia è un elemento molto importante prevede
chiaramente l’esito delle prime quattro sconfitte romane in Italia. Potrebbe essere che i
romani stiano pagando il loro mancamento nei confronti del tempio della Concordia
votato da L. Manlio Vulsone nel 219 a. C. (notiamo come Livio affermi che il tempio sia
stato costruito invece solo dopo Canne, l’ultima grande sconfitta causata dalla discordia).
Se per Polibio la concordia o la discordia sono soltanto fatti oggettivi, per Livio
diventeranno degli elementi chiave, qualcosa che inevitabilmente porterà alla vittoria o al
fallimento2.
Per quanto riguarda il condottiero che si muove nella disfatta del Trasimeno, e
cioè Gaio Flaminio, anche lui è definito attraverso i termini chiave ferocia (nella forma
aggettivale ferox) e temeritas, che tuttavia nel suo caso si rivestono in parte di valenze
precipue. Il suo atteggiamento ferox, tradotto come fiero e baldanzoso, denota un modo
di affrontare le cose di petto, con energia e coraggio, una sorta di attivismo fiero. Nel
caso specifico, infatti, il comandante è ferox ab consulato priore3: sono le esperienze
precedenti che lo rendono così.
Se si considera che il suo consolato è caratterizzato a un tempo da successi (vedi
quello ottenuto contro gli Insubri) e da polemiche (tentativo da parte dei senatori di
ostacolarne il trionfo), si evince che quest’atteggiamento fiero derivi sia da una certa
consapevolezza di sé, sia da una certa volontà di dimostrare ciò che si vuole ottenere.
Anche nella vicenda del Trasimeno, il comportamento del console è all’origine
della débâcle, tant’è vero che i consulis consilia atque animum sono il primo dato che
Annibale si premura di conoscere summa omnia cum cura inquisendo4 e che, nella stessa
ottica, Annibale si dà da fare perché il comandante cedesse5 ancor più ai suoi vitia6.
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pp. 256-257
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 266
3
Liv. XXII.3.4
4
Liv. XXII.3.2
5
Liv. XXII.3.9 e Liv. XXII.4.1; iram
6
Liv. XXII.3.5-7; 4.1
1
2
Pagina | 60
Alla ferocia Livio affianca anche altri aggettivi connaturati alla personalità e
all’atteggiamento di Flaminio. La fierezza del console si accompagna infatti da un lato a
una mancanza di rispetto verso le leggi, la maiestas1 del Senato e gli dei e dall’altro a una
propensione alla temeritas, alla temerarietà (comportamento audace, che privilegia il
coraggio al calcolo e che può sconfinare nella sconsideratezza), caratteristica collegata
alla sua indole, ma altresì accresciuta dai successi ottenuti nelle imprese civili e militari.
In altre parole il suo essere ferox non trova adeguato contrappeso, non trova quelli
che dovrebbero essere i suoi limiti naturali, nel rispetto verso le autorità superiori e
nell’osservanza di criteri razionali nel procedere. Nel caso di Flaminio, particolare
rilevanza riveste il tema religioso, della neglegentia auspiciorum e, in generale di una
mancanza di rispetto verso gli dei, che è anche mancanza di rispetto verso le istituzioni.
Tale tema nella parte relativa all’ascesa di Flaminio2 è dominante; nella narrazione della
sconfitta, inizialmente costituisce, insieme con la temeritas, una delle cause
dell’insuccesso. In seguito, nelle parole attribuite al dittatore Massimo, diviene elemento
unico ed esclusivo.
A un tale modo di essere non può che corrispondere, naturalmente, un conseguente
modo di agire. Infatti Livio conclude che satis apparebat (il punto di vista assunto è
quello di Annibale) che Flaminio avrebbe agito con audacia precipitosa (ferociter ac
praepropere) e senza consultare né gli dei né gli uomini3. Così fu in effetti. Di fronte alle
deliberate provocazioni di Annibale, le interpreta come un dedecus insopportabile4, che
obbliga a un’immediata risposta.
Il suggerimento degli ufficiali di attendere l’arrivo del collega (trattenutosi a Roma
per terminare la celebrazione degli auspici e per fare le leve5) e di affrontare Annibale
communi animo consilioque (nel frattempo limitandosi a circoscrivere la effusa
praedandi licentia del nemico), non solo non viene ascoltato, ma provoca la sua irosa
reazione (parole e gesti stizziti, johner?). Livio nota peraltro che il comportamento del
1
Liv. XXII.3.4 legum aut patrum maiestatis sed ne deorum quidem satis
Liv. XXI.63
3
Liv. XXII.3.5
4
Liv. XXII.3.7
5
Liv. XXIII.2.1
2
Pagina | 61
console (ferox1) è condiviso e apprezzato dai soldati. La precipitosità di Flaminio, oltre
che nella decisione di affrontare immantinente il nemico senza attendere Servilio, si
estrinseca anche nel fatto di procedere inexplorato esponendosi così alle deceptae
insidiae.
Diversamente da quanto avviene per altre figure, peraltro nel momento della
battaglia, Livio riscatta in parte l’immagine negativa di Flaminio. Egli lo mostra fin da
subito affrontare impavidus la terribile situazione creata dallo stratagemma di Annibale2.
Invero, dicendo che in quel terribile frangente il console invitava i soldati ad affidarsi non
alle preghiere agli dei ma solo a vis ac virtus3, il patavino ribadisce la tesi dell’empietà
flaminiana. Riconosce, però, al personaggio, un atteggiamento valoroso che appartiene di
diritto al codice bellico romano.
Rifacendosi alle osservazioni di Mineo, possiamo notare come il tema della grande
discordia, tema presente a Roma in quel periodo, si sviluppi distintamente all’interno
della disfatta sul Trasimeno, ruotando attorno alla complessa figura di Gaio Flaminio.
Tito Livio oltre a assegnare la responsabilità della sconfitta al console, punta il dito verso
qualcosa di più grande: si tratta della discordia collettiva della città. Secondo lo storico,
Roma non riusciva in quel periodo a far tacere i disordini politici e probabilmente questa
versione dei fatti che ci fornisce, faceva da specchio alla società in cui viveva Tito Livio.
Stando alla descrizione dello storico, ognuno preferiva scegliere i generali non per un
bene comune, ma per evitare che qualche fazione più forte prendesse il sopravvento; i
modi in cui un generale conduceva la battaglia, erano direttamente collegati allo
schieramento da cui venivano eletti (quindi, dai futuri populares provenivano consoli con
un atteggiamento bellico offensivo - impulsivo, mentre dai patres, consoli fedeli al
temporeggiamento)4.
La tesi per cui questo console era stato veramente il populares che ci presenta la
storiografia antica ormai è stata demolita; se Polibio ci mostra il console come un
1
Liv. XXII.3.7
Liv. XXII.5.1
3
Liv. XXII.5.2
4
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pp. 262-269
2
Pagina | 62
demagogo arrivista e incapace in guerra1, Livio colloca il suo comportamento in una
prospettiva storica. Spesso descrive nei minimi dettagli le sue avventure politiche e la
brillante carriera: oltre al successo contro i Galli era famoso per altri motivi, tra cui anche
l’inizio dei lavori di costruzione della via Flaminia che collegava Roma all’Italia
settentrionale (era censore in questo periodo)2.
In ambito politico si distinse soprattutto per le modalità con cui, un paio d’anni
prima della battaglia sul Trasimeno, aveva sostenuto il plebiscitum di Quinto Claudio: era
detestato dai patrizi proprio per la legge che il tribuno Claudio, aiutato appunto dal solo
Flaminio, aveva presentato contro il Senato. Con questo provvedimento nessun senatore
poteva tenere una nave con un carico maggiore di 300 anfore di grano, poiché il
commercio era ritenuto indecoroso3. Sebbene possa sembrare un chiaro attacco al Senato,
in realtà si tratta di una misura atta a preservarne l’autorità morale4.
La carriera di Flaminio è stata inserita in un contesto di lutti politici dove i suoi
avversari non volevano certo risparmiarlo. I suoi rivali avevano tentato di fermarlo
annullandone l’elezione per vizio di forma e Il Senato stesso gli aveva inviato una lettera
di sollecito a tal proposito che lui non aveva nemmeno considerato (per questo i patrizi,
carichi di rancore, iniziarono a dire che il console non era solo contro di loro, ma anche
contro gli dei stessi5).
Forse ancora più evidente e insistita che nel caso di Flaminio, è la dimensione
politica che circonda la disfatta di Canne. I consoli romani che avevano il comando
dell’esercito in questa grande battaglia, furono l’homo novus Caio Terenzio Varrone e il
console Lucio Emilio Paolo; ferocia contro cunctatio6. Lucio Emilio Paolo è lo specchio
1
Pol. III.81.1-12: era un demagogo abile, ma incapace di fare operazioni di guerra. Viltà e debolezza sono
caratteristiche pessime per chiunque, ma se a possederle era proprio il generale di un esercito, allora l’esito del
combattimento era già segnato. Temerarietà e stoltezza potevano diventare un vantaggio per il nemico, ma un
pericolo per gli amici. Chi possiede questi difetti è maggiormente esposto alle insidie.
2
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 262
3
Liv. XXI.63.3-4
4
F. CASSOLA, I gruppi politici romani del III sec. a.C., Trieste 1962, pag. 112
5
Liv. XXI.63.6-7
6
Gli altri generali principali impegnati qui erano Gneo Servilio Gemino e probabilmente Marco Minucio Rufo (tra
l’altro anch’essi accetti l’uno al Senato, l’altro al popolo).
Pagina | 63
evidente di questa situazione politica, poiché era stato scelto dai patres come se fosse
magis adversandum quam collega1.
L’elezione al consolato di Varrone, infatti, è presentata da Livio come
un’occasione di scontri tra patrizi e plebei e aveva permesso al tribuno della plebe Quinto
Bebio Erennio, parente di Varrone, di denunciare la strategia della cunctatio, concepita
secondo lui per indebolire il popolo2. Dall’altra parte Paolo rifiutò a lungo la proposta di
consolato poiché la plebe era arrabbiata con lui3. La sua strategia seguiva i saggi consigli
del Senato e del maestro, il temporeggiatore Fabio Massimo4.
La situazione politica che divideva Roma, questo clima di discordia, viene
associato da Livio anche nei contrasti che si creano tra i due consoli. Subito dopo la loro
entrata in carica, infatti, pronunciarono dei discorsi: Varrone esclamava ovunque che la
guerra era giunta in Italia a causa dei nobili e che essa avrebbe potuto portare in rovina
Roma stessa, se solo ci fossero stati ancora comandanti come il vecchio dittatore (e cioè
comandanti fedeli alla strategia della cunctatio, comandanti scelti tra i patres, come lo
stesso Paolo). Varrone stesso, invece, avrebbe vinto la guerra il giorno stesso in cui
avesse incontrato il nemico5.
Nel suo discorso Paolo scelse di non criticare troppo il collega, esprimendo
soltanto meraviglia per l’homo novus, il quale, poco esperto dell’arte della guerra, già
sembrava in grado di sconfiggere un tale nemico in battaglia. A queste parole, Livio fa
intervenire Fabio Massimo che rispose affermando che probabilmente Paolo avrebbe
dovuto combattere con due avversari contemporaneamente: Annibale da una parte e il
collega dall’altra. Il dittatore continuò ricordandogli del comportamento di Flaminio,
impazzito quando ricevette l’esercito, mentre Varrone era già uscito di senno ancor prima
di riceverlo. L’unica tattica vincente per sconfiggere il comandante punico era proprio
quella di Massimo: Annibale stava già perdendo molti soldati a causa della fame e i
1
Liv. XXII.35.4
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 269 - Liv. XXII.34
3
Liv. XXII.35.3-4
4
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 267
5
Liv. XXII.38.6-8
2
Pagina | 64
rinforzi faticavano a raggiungerlo. La risposta di Paolo però lasciò intendere che la
disfatta era già segnata in partenza1.
Varrone riesce a far scoppiare tumulti nella città: le sue arringhe hanno
trasformato Roma in una turba instabile e stupida e lo stesso Senato, garante della
saggezza e della ragione, riceverà con molta poca grazia il discorso di Fabio 2. Quando i
due consoli si mossero, la città stessa era divisa. I senatori scortavano Paolo, mentre il
popolo scortava Varrone: tra i plebei non c’era nessun personaggio prestigioso3.
Questo clima di discordia tra i due consoli si vede molto spesso, anche durante la
guida dell’esercito prima di scontrarsi con Annibale a Canne: in primo luogo si nota
facilmente quando Varrone vuole attaccare a tutti i costi l’accampamento sguarnito dei
Cartaginesi e Paolo che, convinto delle proprie sensazioni e dei presagi, gli si oppone. In
secondo luogo quando Paolo, che in quel giorno aveva il comando dell’esercito, scelse di
non attaccare gli Africani; scontrandosi con i desideri di Varrone, quest’ultimo fece
iniziare una feroce discussione.
Pieno di foga demagogica e nihil consulto collega4, Varrone alla fine schiera le
truppe per la battaglia: questa cecità sarà la causa che farà precipitare Roma nella triste
disfatta di Canne5. In realtà, come De Sanctis ha evidenziato, questo disaccordo, questo
clima di discordia, è una totale finzione poiché tutti quanti, Senato incluso, volevano
finire in fretta e con una battaglia decisiva, la guerra contro Annibale 6. Lo storico
patavino forse dimentica di dire che l’ordine di una strategia totalmente offensiva veniva
da Roma stessa. A questa fonte si potrebbe anche opporre Polibio dove Varrone ha un
ruolo meno preponderante: di sicuro decide di attaccare contro la volontà del collega, ma
non è assolutamente questo pazzo furioso che urla arringhe in continuazione. Polibio gli
deplora solamente l’inesperienza, ma ricorda appunto che questa strategia offensiva era
autorizzata sia da Paolo, sia dal Senato7.
1
Da Liv. XXII.38.9 a Liv. XXII.40.4
A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pp. 79-82
3
Liv. XXII.40.4-5
4
Liv. XXII.45.5
5
B. MINEO, Tite-Live et l’histoire de Rome, pag. 257
6
G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, pp. 57-58
7
A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pag. 41
2
Pagina | 65
Questo clima politico, che rimbalza anche tra i due consoli, definito da Livio dal
termine chiave discordia, sembra cessare una volta per tutte dopo la disfatta di Canne e
più precisamente al ritorno di Varrone a Roma. Il console sopravvissuto, non solo verrà
ringraziato dall’intero Senato per non aver abbandonato la città, ma anzi segnerà
nell’opera liviana, il limite ultimo di questo concetto.
Ritornando all’atteggiamento ferox e temerarius dell’homo novus, vediamo che
costui è spesso definito da un utilizzo esagerato e continuo della parola. Fin dai primi
dialoghi che pronuncia come neo eletto console, si schiera apertamente a favore della
plebe e Livio stesso afferma che spesso offendeva anche i cittadini più illustri di Roma.
Quest’uso ripetuto di arringhe da parte di Varrone, si rivela completamente
controproducente: quando il comandante dei cartaginesi finge di abbandonare il proprio
campo, con un grande clamore a militibus1 fu veramente difficile per i generali romani
trattenere i propri soldati dall’attacco. Il console Varrone, infatti, vociferando e urlando
come i suoi soldati, si confonde con loro e perde la propria supremazia. La ferocia in
questo caso si esercita soprattutto nel dominio del discorso e non durante l’azione, la sola
ferocia che possiede è quella della parola. Il saggio dittatore Fabio Massimo è l’unico in
grado di opporre la propria razionalità contro l’eccessiva ferocia di Varrone, legata
all’ignoranza, alla temerarietà e a un’irrazionale fortuna2. Diversamente da Flaminio,
l’homo novus rinsavisce di fronte ai presagi negativi del collega quando religione animo
incussit3, ma ormai i soldati non parerent4 più all’autorità dei due generali e mancava
poco che da soli depredassero il campo sguarnito. Il fatto stesso di seguire la folla è un
chiaro errore: il generale che segue i suoi uomini e diventa loro simile, rinuncia al suo
senso di comando e commette un atto di cancellazione della gerarchia della disciplina.
Seguire la folla è pericoloso perché questa è instabile e mutevole e in materia militare, si
traduce spesso in un disastro5. Soltanto il provvidenziale intervento di due schiavi fuggiti
ai cartaginesi, soluisset maiestatem6.
1
Liv. XXII.42.7
A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pp. 54-57
3
Liv. XXII.42.9-10
4
Liv. XXII.42.10
5
A. JOHNER, Le violence chez Tite-Live, pp. 79-82
6
Liv. XXII.42.12
2
Pagina | 66
Nella conclusione dello scontro, Livio ci mostra due aspetti completamente
opposti dei generali: da un lato vediamo che Paolo combatte con onore e si tuffa anche
nel centro della battaglia, minacciando lo stesso Annibale 1. Quando aveva perso ormai
ogni forza, fu trovato dal tribuno Lentulo sopra un sasso e alla richiesta di mettersi in
fuga assieme a lui sul proprio cavallo, Paolo diede queste indicazioni: Lentulo avrebbe
dovuto avvisare il Senato di fortificare Roma e rinforzarla con dei presidi, prima che
arrivasse Annibale. Il console invece sarebbe rimasto lì a condividere la sorte dei suoi
soldati, ma anche perché non voleva venire accusato di nuovo, né tantomeno diventare
accusatore del collega che li aveva portati tutti alla sconfitta2. Diversamente da Flaminio,
alla fine Varrone non perde la vita in maniera eroica ma seu forte seu consilio3, riesce a
salvarsi dalla tragedia cannense.
Un comandante che si distingue molto per la propria temeritas, è il centurione
Centenio Penula, che perde la vita in Lucania. Tito Livio lo descrive insignis […]
magnitudine corporis et animo4. Le sue colpe probabilmente ricadevano nella volontà di
utilizzare le stesse armi del nemico, le stesse artes5 poco apprezzate da tutti i Romani, ma
soprattutto nel fatto che era impossibile che un semplice centurio sconfiggesse in
battaglia Hannibal dux, avendo a disposizione un esercito novus totus, contro uno
vincendo veteranus6. Il concetto di temeritas lo ritroviamo poco prima della morte del
generale romano, il quale per paura di rovinare la propria fama e per metu dedecoris,
causato appunto dalla sua avventatezza7, cade in battaglia offrendo il petto ai numerosi
dardi nemici.
Anche dopo la sua morte, Tito Livio insiste sull’atteggiamento di Penula, poiché
vediamo come Annibale si ricordi il successo acquisito grazie alla temeritas8 di un
1
Liv. XXII.49.1-3
Liv. XXII.49.6-13
3
Liv. XXII.49.14
4
Liv. XXV.19.9
5
Liv. XXV.19.11
6
Liv. XXV.19.14
7
Liv. XXV.19.16
8
Liv. XXV.20.5
2
Pagina | 67
comandante romano, e di conseguenza l’esito di uno scontro capeggiato da un inscius
dux1.
Anche nel caso di Fulvio Flacco, la fonte mette in primo piano i limiti del
comandante e collega a questi le speranze di Annibale di cogliere una vittoria (e dunque,
visto che tali speranze si realizzano, le ragioni della sconfitta). Anzi il parallelo con i
precedenti successi del cartaginese e il rimando reiterato agli errori e all’incompetenza
dei generali che l’avevano preceduto, produce in maniera inequivocabile l’episodio in
oggetto nel medesimo schema.
Dopo un grande successo ottenuto in Apulia, cade con i soldati in una grande
licentia socordiaque e la disciplina militiae2 viene soppressa del tutto. Secondo il
moderno Lind, la potenza di un comandante, implica anche obbedienza assoluta da parte
dei suoi soldati e auto controllo. In ambito militare viene considerata e ripetuta spesso
come ragione della grandezza di Roma. Le punizioni per chi non la rispettava erano
durissime. La disciplina militiae integra un’obbedienza assoluta, un comportamento
semplice, l’auto sacrificarsi, la resistenza a tutti i pericoli e proseguire i propri doveri
senza mai lamentarsi. Il soldato romano grazie a questo è diventato uno dei migliori della
storia. Purtroppo per Fulvio, abbandonarsi a queste mollezze, porterà lui e i soldati alla
rovina3.
Il generale romano viene presentato infatti, quasi come fosse un burattino alla
totale mercé dei suoi soldati: quest’ultimi erano troppo avventati e quando Annibale si
avvicina al loro campo, poco ci manca che escono in battaglia con le insegne 4. Al
comandante cartaginese non sfuggono questi tumultuatum in castri et plerosque
ferociter5 e vuole approfittare subito della situazione.
Fulvio Flacco infatti poi schiera le sue truppe non tanto per una speranza di
vittoria, quanto piuttosto per impetu militum. Questi infatti affrontano la battaglia con
temeritas e senza seguire le indicazioni, né dei tribuni né del generale, si schierano con
1
Liv. XXV.20.7
Liv. XXV.20.6-7
3
C. DEROUX, Studies in latin literature and Roman history, IV, Bruxelles 1986, pp. 61-67
4
Liv. XXV.21.1
5
Liv. XXV.21.2
2
Pagina | 68
libido1. Il comandante romano è pari in stultitia et temeritas a Centenio ma poiché dotato
di molto meno animus2, si da immediatamente alla fuga. In seguito al suo atteggiamento,
viene citato in giudizio da Bleso e viene accusato in quanto molti generali in passato
avevano perso per temeritas atque inscitia3, ma lui era l’unico che aveva corruptus4 così
tanto le proprie milizie. Inoltre aveva fatto sì che i soldati diventassero feroces et inquieti
con gli alleati, ignavi et imbelles5 con i nemici. La viltà di Flacco compare nuovamente,
poiché nella sua difesa dà la colpa proprio ai soldati che chiedevano di combattere
ferociter6 e quindi come un burattino era stato trascinato via dai fuggitivi.
L’esito di un temerarium consilium, lo possiamo notare facilmente poco prima
delle righe in cui Livio descriverà la morte di Publio Cornelio Scipione: infatti,
nonostante sia un comandante cautus et providens7, vinto dalla necessità, prende una
decisione temeraria e rischiosa attaccando Indibile nel cuore della notte.
Nel caso della seconda sconfitta di Erdonea, l’omonimo di Fulvio Flacco, Cneo
Fulvio, non viene mai definito dal concetto di temeritas, ma notiamo facilmente che la
sconfitta romana è causata dalla sua neglegentia insita ingenio8, poiché dispone gli
accampamenti senza difesa e in luoghi poco sicuri. Come Annibale, anche lui è dotato
della stessa audacia consilio et viribus ma Tito Livio spezza una lancia a suo favore: la
sconfitta avviene principalmente per la sua inferiorità nelle copiis9.
Gli ultimi consoli rilevati in questa breve analisi sono Marco Marcello e Crispino.
Entrambi sono famosi e temuti dal popolo per l’esagerata ferocia10 che li
contraddistingue. Nel caso di Marcello, la sua cupiditas11 di combattere contro Annibale
sarà anche la causa fondamentale che lo porterà alla rovina.
1
Liv. XXV.21.5
Liv. XXV.21.9
3
Liv. XXVI.2.7
4
Liv. XXVI.2.8
5
Liv. XXVI.2.11
6
Liv. XXVI.3.1
7
Liv. XXV.34.7
8
Liv. XXVII.1.5
9
Liv. XXVII.1.7-8
10
Liv. XXVII.25.14
11
Liv. XXVII.27.1
2
Pagina | 69
Astuzie dei Cartaginesi:
Secondo quanto riporta Tito Livio, quasi tutte le sconfitte romane durante la
seconda guerra punica vengono in parte decise dall’incredibile astuzia e perfidia del
generale Annibale e dalle sue truppe. Ogni disfatta si articola quasi allo stesso modo: in
primo luogo vediamo come il comandante cartaginese, accortosi della temeritas del dux
nemico, inizi a devastare i territori nelle sue immediate vicinanze. In questa situazione,
infatti, sfrutterà l’orgoglio dell’avversario per farlo cadere nella sua trappola e indurlo ad
attaccare subito battaglia. Le forme attraverso cui si manifestano le insidiae Cartaginesi,
sono molteplici e varie. Queste vanno da un semplice inganno, a complesse ed elaborate
imboscate. Infine, vediamo come in ognuna di queste disfatte, il coraggio dei Romani sia
l’unica arma in grado di contrastare le astuzie dei guerrieri Punici1.
Secondo Brizzi, Livio condivideva l’idea che i Cartaginesi ricorrevano
costantemente e con grande abilità all’uso degli stratagemmi in ogni loro forma; questi
ultimi risultavano ai Romani alieni e intollerabili. I Quirites avevano un codice morale
molto arcaico che univa l’etica alla politica e alla guerra, il concetto di fides. Annibale al
contrario, separava questi termini e divenne il simbolo della perfidia: molto
probabilmente le fonti dell’epoca di parte romana generalizzarono subito, attribuendo
questa caratteristica a tutti i Cartaginesi2.
Lo stratagemma, visto come qualcosa al di fuori delle regole belliche, sembra
rompere i canoni di comportamento dei Romani3: ogni qual volta questo avverrà, lo
stratagemma viene definito dal termine insidiae4. Che queste astuzie vengano
discriminate da Tito Livio e da tutta la storiografia antica, è evidente nella disfatta subita
dal centurione Penula: quest’ultimo forse viene brutalmente sconfitto in battaglia perché
egli stesso promette ai suoi concittadini di combattere il nemico, usando però eadem ars5.
Probabilmente quest’utilizzo è concesso, in quanto non si tratta di un vero e proprio
comandante.
1
EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, Leiden 1988, pag. 56
G. BRIZZI, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Bologna 2002, pp. 66-67
3
EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pag. 60 e pag. 65
4
EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pag. 55
5
Liv. XXV.19.11
2
Pagina | 70
La prima sconfitta in cui si registra il ricorso alle insidiae in senso proprio è la
battaglia combattuta nei pressi del Trebbia. Livio ci mostra la prima azione di Annibale:
inviare i suoi uomini a devastare i territori dei Galli, i quali cercavano di allearsi sia con i
Cartaginesi, sia con i Romani1, e subito dopo locum insidiis circumspectare coepit2.
Successivamente il condottiero punico compie un altro stratagemma, che assomiglia ad
una piccola imboscata: nelle vicinanze del campo romano si trovava un ruscello, le cui
alte rive erano protette da fitti rovi. Il cartaginese disse al fratello Magone di scegliere
1.000 fanti e 1.000 cavalieri per nascondersi con loro all’interno del luogo prescelto.
Quando sarebbe giunto il momento opportuno, Annibale avrebbe dato il segnale ai 2.000
soldati di uscire allo scoperto3. Il condottiero punico è così sicuro di uno stratagemma
simile poiché è perfettamente consapevole che i Romani siano totalmente inesperti di tali
artes di guerra4.
Un altro stratagemma che lo contraddistingue è quello di sfidare il nemico: dopo
aver fatto rifocillare le truppe, manda i Numidi a provocare i Romani. I soldati
cartaginesi si ritirano a poco a poco, per indurre gli avversari a seguirli fin oltre il fiume.
Il fiume gelido, infatti, sarà un elemento decisivo dato che il freddo intenso fu in grado di
togliere l’ardore del combattimento ai soldati Romani5. Livio stesso scrive come la
battaglia sia in parità solo grazie al coraggio delle truppe consolari6. Quando però irruppe
Magone con i Numidi dal ruscello, provocò subito tumultum ac terror7.
La disfatta sul Trasimeno, invece, risulta essere diversa per altri aspetti. Annibale,
informatosi bene sulla natura dei luoghi, ma soprattutto sul console Flaminio8, si prepara
a provocarlo devastando i campi dell’Etruria9. In contemporanea, il luogo da lui scelto
per ordire insidiae10, è descritto dallo storico come una via stretta con delle ripide colline
ai lati. Dietro ai colli Annibale nasconde i frombolieri e la fanteria leggera. La cavalleria
1
Liv. XXI.52.5
Liv. XXI.53.11
3
Liv. XXI.54.1-4
4
Liv. XXI.54.3
5
Liv. XXI.54.4-5 e Liv. XXI.55.1
6
Liv. XXI.55.8
7
Liv. XXI.55.9
8
Liv. XXII.3.2
9
Liv. XXII.3.6 e Liv. XXII.4.1
10
Liv. XXII.4.2
2
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invece era nascosta allo sbocco del passo in modo tale che fossero deceptae insidiae1. Lo
stesso teatro scelto per la battaglia è un’insidia, non si tratta di uno stratagemma attutato
durante la battaglia, né di una componente del confronto bellico, ma è qualcosa di più.
Non appena i Romani entrarono in questo stretto passaggio, i Cartaginesi uscirono
all’improvviso (subita atque improvisa res fuit2) e i soldati di Flaminio ebbero la certezza
che se circumventum esse3.
Nel caso della disfatta di Canne, i vari espedienti adottati e le diverse tipologie,
risultano ben definiti dallo storico patavino. Per prima cosa Annibale fa in modo di
provocare lui la battaglia: il cartaginese era consapevole della propria inferiorità
numerica e sperava di combattere in pianura. Si mise a provocare gli odiati Romani con
delle piccole scaramucce4 e poi mandò i suoi Numidi ad assalire coloro che si rifornivano
d’acqua, raggiungendo quasi le porte del campo avversario5. Il risultato delle sue
provocazioni induce Varrone ad attaccare immediatamente battaglia, in un luogo di
aperta pianura, affinché Annibale potesse anche combattere nelle migliori condizioni
(infatti il vento…)6. Nemmeno durante il combattimento l’esercito punico si trattiene
dall’usare abbondantemente gli stratagemmi: né la cavalleria gallica né quella spagnola
combattevano secondo la tradizionale tattica equestre7.
In ogni caso il genio del condottiero cartaginese è palese durante le prime battute
dello scontro, poiché cambia totalmente la disposizione dei suoi soldati. La parte centrale
dello schieramento sembra essere molto più sporgente e verrà subito ricacciata indietro
dall’esercito consolare. I Romani così finiscono tutti nel centro dello schieramento
nemico8 e poi fu veramente facile per le truppe africane circumdedere coloro i quali
incautamente erano finiti lì in mezzo9. Nell’ala sinistra dello scontro, vediamo che Livio
ci descrive un terzo tipo di stratagemmi utilizzati a Canne, ovvero un atto di fraus tipico
1
Liv. XXII.4.2
Liv. XXII.4.6
3
Liv. XXII.4.7
4
Liv. XXII.44.4-5
5
Liv. XXII.45.2-4
6
Liv. XXII.45.5
7
Liv. XXII.47.1-2
8
Liv. XXII.47.5-6
9
Liv. XXII.47.8
2
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dei Cartaginesi1: i Numidi fanno finta di defezionare in massa dal proprio esercito e, una
volta guadagnata la fiducia romana, attaccano alle spalle i nuovi “alleati”2.
Nel caso della morte di Tiberio Sempronio Gracco, il fatto di cadere in
un’imboscata, non è collegato alla temeritas o all’imprudenza del comandante, ma è
frutto di una proditio (del tutto inaspettata, ingiustificata e vile). Non è un caso che, qui,
il ritratto del comandante romano sia sostanzialmente positivo, infatti la chiave
interpretativa risiede altrove, e precisamente nel concetto di fatum.
Il generale romano venne tradito da un suo vecchio alleato, Flavo Lucano, capo
della fazione dei Lucani fedeli ai Romani. Costui, per potersi guadagnare subito la fiducia
dei Cartaginesi, desiderava consegnare loro Tiberio: andò in segreto da Magone e gli
disse di nascondere i suoi uomini in un luogo adatto a tendere le insidie. Gracco cadde,
infatti, in queste insidias, perdendo la vita3. Sullo stesso episodio, Livio riporta altre
versioni: alcuni storici riferiscono che Gracco si sia spinto fuori dall’accampamento per
fare un bagno e dei nemici nascosti nella vegetazione, uscirono allo scoperto e lo uccisero
nudo. Altri invece raccontano che il generale, secondo il consiglio degli aruspici, si
allontanò dal campo per espiare i presagi negativi e per caso capitò in mezzo a due
squadroni di Numidi.
Anche durante la prima battaglia di Erdonea il significato di questo stratagemma è
lo stesso: Annibale ordina a Magone di occupare tutti i passaggi dai quali i nemici
avrebbero potuto fuggire e infatti questo inganno aumentò di gran lunga le perdite dei
Romani4. A Venosa, infine, vediamo subito il desiderio di Annibale di conquistare il
colle vicino, per impadronirsi di un luogo adatto alle imboscate, alle insidiae5.
Secondo le opinioni del moderno Wheeler, le insidiae dei soldati Cartaginesi in
Livio, coincidono spesso, ma non solo, con l’aggiramento dei Romani, un attacco sui
fianchi, a sorpresa o persino durante la notte; il termine circumvenire diventa una parola
standard, ed esprime il concetto di circondare e dominare gli avversari. Probabilmente lo
1
Liv. XXII.48.2
Liv. XXII.48.4
3
Liv. XXV.16.16
4
Liv. XXV.21.4
5
Liv. XXVII.26.7-8
2
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storico si concentra molto su questo aspetto, poiché va contro alle normali tattiche
belliche impiegate in battaglia dalla Repubblica1.
In Spagna, i Numidi attaccano repente Publio Cornelio2 e poco dopo i Romani
erano circondati da tutte le parti: il combattimento ormai è perduto3. Nella seconda
battaglia di Erdonea, Annibale ordina ai suoi uomini di prendere i Romani alle spalle, e
una volta che questi ultimi vengono circumvecti, le sorti della battaglia volgono a
vantaggio dei Cartaginesi4.
In ultima analisi, nell’opera liviana è facile notare come i Romani non siano per
nulla preparati alle abili astuzie dei Cartaginesi, le quali si discostano molto dal modo di
combattere tipico dell’esercito consolare. L’unica volta che i Romani approfittano di un
tradimento durante la seconda guerra punica, quest’ultimo viene definito sollerti magis
quam fideli consilio5. Vincere imbrogliando, infine, è un’idea che lo storico patavino
collega al concetto di rubare una vittoria6.
Defezione dei mercenari:
Nella versione dei fatti che ci propone il patavino, un altro elemento che concorre
alle responsabilità della sconfitta in ottica liviana, è sicuramente il ruolo delle truppe
mercenarie. Seppur presente in minima parte, la defezione di queste unità, riveste in
Livio un ruolo fondamentale, un exemplum per il futuro.
Nel capitolo 32 del venticinquesimo libro, viene finalmente descritta dallo storico
una delle prime operazioni belliche importanti che avviene in Spagna. In questo momento
vediamo che i due fratelli Scipione, Publio e Gneo, avevano appena terminato di
arruolare 20.000 Celtiberi; grazie a queste truppe i generali erano sicuri di poter
sconfiggere con facilità i tre eserciti dei Cartaginesi, accampati nelle vicinanze.
1
EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pp. 80-85
Liv. XXV.34.9
3
Liv. XXV.34.10
4
Liv. XXVII.1.8
5
Liv. XXII.22.6
6
EVERETT L. WHEELER, Stratagem and the vocabulary of military trickery, pag. 75
2
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L’errore dei due dux, secondo Tito Livio è credere che satis ad id virium
credebant accessisse viginti milia celtibero rum ea hieme ad arma excita 1, ovvero che i
mercenari arruolati nell’inverno, bastassero per sgominare le truppe nemiche. Tuttavia si
sbagliavano: infatti il generale Asdrubale, quando scoprì dell’eccessivo affidamento che
facevano sui mercenari e, soprattutto, che i soldati Romani erano molti meno rispetto ai
Celtiberi, peritus omnis barbaricae et praecipue omnium earum gentium2, patteggiò coi
capi dei mercenari.
Così facendo il Cartaginese riuscì a indurre in queste truppe la defezione e poco a
poco abbandonarono l’esercito degli Scipioni. A questo punto Livio sembra criticare
l’operato dei comandanti Romani e avverte che da una situazione del genere
bisognerebbe sempre guardarsi. Questi esempi devono essere considerati come una
prova, affinché non venga più fatto un eccessivo affidamento su questo tipo di soldati.
Infatti, Publio Cornelio, menomato di ben 20.000 soldati, quando vide che senza
l’aiuto degli ausiliari non aveva un contingente pari a quello nemico, si diede
immediatamente alla ritirata. Continuando a leggere il resoconto delle disavventure finali
degli Scipioni nella penisola iberica, vediamo che l’aver perduto le truppe mercenarie
risulterà determinante – almeno secondo lo storico patavino -, per la vittoria cartaginese.
Prodigia:
I prodigia non vanno visti come un segno indicatore della sconfitta imminente, ma
come un espediente che utilizza Livio, per farci capire il turbamento dei cittadini Romani,
causato dalle numerose sconfitte. Secondo quanto ci riporta il libro di Champeaux, il
prodigium è qualcosa che sfugge alle leggi di natura, un evento che l’uomo non può
spiegare. Per i Romani però non è un segno premonitore, ma un segnale che avverte gli
uomini che hanno commesso un errore, di solito rituale, e che hanno rotto la pax deorum.
In questo caso dovranno ristabilirla con pratiche religiose: all’inizio i pontefici erano
incaricati di attuare gli scongiuri necessari e in seguito i Romani presero prima gli
1
2
Liv. XXV.32.3-4
Liv. XXV.33.2
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aruspici dagli Etruschi e poi i libri sibillini dall’ellenismo1. In base alla quantità e alla
lunghezza dei presagi che inserisce Livio, si possono trovare chiare indicazioni o
sull’esito delle battaglie stesse o sul destino della capitale.
Sul Ticino, appena prima che Romani e Cartaginesi si scontrassero in Italia per la
prima volta, si verificano i primi prodigia: un lupo era entrato nell’accampamento, aveva
ferito alcuni soldati ed era fuggito incolume, poi uno sciame d’api si era collocato su di
un albero sopra la tenda di Scipione2.
La disfatta seguente, quella del Trasimeno, viene predetta dallo storico
tramite numerosi presagi: In Sicilia fecero scintille le punte delle lance di alcuni soldati,
in Sardegna prese fuoco il bastone di un cavaliere che ispezionava le sentinelle, dei
fuochi lampeggiarono sulle spiagge, due scudi sudarono sangue, alcuni soldati furono
colpiti da un fulmine, inoltre il cerchio del sole sembrava più piccolo del solito. A
Preneste caddero dal cielo dei sassi infiammati, ad Arpi si videro in cielo degli scudi e il
sole che lottava contro la luna, a Capena sorsero due lune durante il giorno, a Cere le
acque delle sorgenti fluirono miste a del sangue. Ad Anzio furono mietute delle spighe
insanguinate, a Faleri il cielo si aprì come una grande spaccatura dalla quale uscì
tantissima luce, a Roma invece le statue di Marte e dei lupi avevano sudato, a Capua si
vide un cielo fiammeggiante con la luna che tramontava tra la pioggia. Avvennero anche
prodigi minori che riguardavano il mondo animale: delle capre si trasformarono in
pecore, un gallo si trasformò in una gallina, e una gallina in gallo.
Si decise di espiare questi prodigi sia con animali adulti, sia con animali da latte e
per tre giorni bisognava compiere preghiere pubbliche in tutti gli altari. Inoltre i
decemviri decisero di consultare i libri sibillini: in seguito offrirono a Giove un fulmine
d’oro del peso di cinquanta libbre, a Giunone e a Minerva dei doni d’argento, a Giunone
Regina e a Giunone Sospita un sacrificio di animali adulti, mentre le matrone dovettero
raccogliere del denaro e donarlo a Giunone Regina compiendo anche un lettisternio, e per
finire le schiave liberate dovettero offrire del denaro a Feronia3.
1
J. CHAMPEAUX, La religione dei romani, pp. 94-99
Liv. XXI.46.1-2
3
Liv. XXII.1.8-20
2
Pagina | 76
Per quanto riguarda il generale Varrone, la sua avventatezza non era tale da
compromettere eccessivamente la pax deorum come fece Flaminio, poiché alla vista del
presagio infausto dato dalle viscere dei polli, decise di non attaccare il campo sguarnito di
Annibale1; in ogni caso il destino dell’esercito romano è già segnato.
Nel 212 a.C. si verificò, secondo Tito Livio, un’ondata di superstizione che invase
la città. Si tratta di religioni provenienti dall’esterno, in quanto né gli uomini né gli dei
sembravano più gli stessi. I culti religiosi praticati con meticolosità quasi esagerata,
iniziarono a cadere sia tra le mura domestiche, sia in pubblico. Ormai si vedevano
dappertutto sacerdoti sacrificatori e indovini2.
Non soltanto in generale, ma anche a singoli comandanti, accadde di dover
decifrare alcuni prodigia particolari. Dopo che il proconsole Ti. S. Gracco fece i sacrifici
necessari per la partenza, dal nulla spuntarono due serpenti che riuscirono a divorare il
fegato dell’animale sacrificato. Gli aruspici consigliarono di ripetere il sacrificio per
sicurezza, ma questo prodigium capitò altre due volte. Gli aruspici spiegarono che si
trattava di una premonizione riguardante il comandante stesso: egli avrebbe dovuto
guardarsi dagli uomini a cui chiedeva consigli, che però tramavano in segreto contro di
lui. Infatti, non riuscendo a ristabilire la pax deorum, verrà inevitabilmente ucciso dal
fatum3.
Come ultimo caso riportato, anche il console Marcello, il giorno stesso della sua
morte, aveva praticato un sacrificio mal riuscito. Aveva immolato degli animali, ma tutte
le viscere erano deformate e questo non era certo un presagio favorevole4. Come previsto,
a causa di un’imboscata nemica, perse la vita.
1
Liv. XXII.42.9
Liv. XXV.1.6-8
3
Liv. XXV.16.1-5
4
Liv. XXVII.26.13-14
2
Pagina | 77
BIBLIOGRAFIA
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- G. BRIZZI, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Bologna 2002
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