La bellezza della liturgia
Quante liturgie cui capita di partecipare soffrono di una evidente mancanza di bellezza? Non
poche, probabilmente... Approssimatività nello svolgimento del rito, mancanza di gusto negli arredi
liturgici, scarsa attenzione alla cura della musica e dei canti, sono solo alcuni tra gli esempi più eclatanti
della povertà di senso estetico che spesso affligge il rito cristiano così come effettivamente viene
celebrato. Ma – al tempo stesso – quanti ritorni nostalgici alla liturgia preconciliare solo perché
esteticamente più avvincente, quanti “turisti liturgici” che vanno in cerca di una celebrazione che si
confaccia al loro gusto personale...
Un’autentica comprensione del valore della bellezza nella liturgia, tuttavia, ci porta a superare
questa falsa alternativa, per così dire, tra la sciatteria liturgica e l’estetismo liturgico. Un agile volumetto
di F. Cassingena-Trévedy, intitolato appunto La bellezza della liturgia (Qiqajon, Magnano 2003) ci
introduce efficacemente a una comprensione propriamente teologica del significato liturgico del bello.
Questo differisce radicalmente dalla ricerca di un piacere estetico soggettivo da parte dell’individuo, in
base a criteri “da consumatore”: mi piacciono i merletti, vado pazzo per il gregoriano... Piuttosto, la
bellezza va posta in relazione al significato teologico della liturgia, intesa come “costruzione dello
spazio e del tempo attraverso la sacramentalità” (p. 13).
Sacramentalità dunque è il primo concetto-chiave di grande importanza nel libro di CassingenaTrévedy: sacramentalità della liturgia, come atto di Cristo sacerdote (cfr. Sacrosantum Concilium n° 7), ma
prima ancora sacramentalità della Chiesa stessa (cfr. Lumen Gentium n° 1). Il sacramento è stato definito
da von Balthasar “il gesto ecclesiale di Gesù Cristo verso l’uomo”. L’incontro con Cristo prende la forma
di un segno visibile, di un gesto concreto. Il rito liturgico è visibilizzazione del gesto salvifico di Cristo,
che si perpetua tramite l’azione della Chiesa. Perciò è a tale atto di Cristo stesso che bisogna risalire per
una valutazione teologica della bellezza nella liturgia. “L’estetica liturgica si fonda su una cristologia del
gesto” (p. 27).
La liturgia – così la definisce l’autore – “è un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti” (p. 30).
Il gesto liturgico è bello in base a un canone che differisce radicalmente dai nostri consueti criteri estetici,
e che trova il suo riferimento fondamentale nella persona di Gesù. La liturgia è bella nella misura in cui
è epifania della grazia salvifica di Cristo (cfr. Tt 2, 11: “E’ apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di
salvezza...”). Il brano di Isaia 53 che descrive il servo sofferente, che è stato riferito a Gesù, parla di un
uomo che “non ha apparenza né gloria; noi l’abbiamo visto ed egli non aveva né apparenza né
bellezza”: esso impone, dunque, una “pasqua del senso estetico” (p. 38), una morte e risurrezione della
nostra idea di bello. La croce di Cristo, da cui scaturisce la comunità ecclesiale e attorno alla quale si
raduna l’assemblea liturgica, è epifania di una bellezza ‘altra’, trasfigurata dall’agape, improntata all’amore
oblativo di Gesù.
La bellezza della liturgia non consiste, dunque, nell’ostentazione fastosa, ma nella “trasparenza
ai gesti stessi del Signore” (p. 45): non è l’esibizione di un rito pomposo, ma la sobria celebrazione del
sacramento. La liturgia utilizza dei gesti umani concreti, li arricchisce, li rende gesti ‘pieni’: “pieni
d’amore, pieni di salvezza, pieni di efficacia”; ma al tempo stesso conserva il loro carattere semplice e
ordinario. Gesto e parola trovano nella liturgia una corrispondenza reciproca che conferisce loro
un’eloquenza particolare, intrecciata alla corporeità. Ma qual è lo specifico che la liturgia aggiunge al
gesto umano per arricchirlo?
La liturgia – ed ecco un altro concetto-chiave – mette ordine: (ri)costruisce lo spazio e il tempo,
conferendo ad essi un ordine preciso, un’armonia peculiare. Già san Paolo presenta la Chiesa come un
corpo strutturato e ordinato per volere di Cristo stesso, che ha attribuito ministeri diversi con diverse
funzioni nella comunità (cfr. Ef 4, 11-16), ed esorta a svolgere tutto nelle assemblee liturgiche
“decorosamente e con ordine” (1 Cor 14, 40). Su questa esigenza di eutaxia, di armonia ordinata,
insistono anche le Costituzioni apostoliche e molti Padri di cui l’autore riporta i testi. Nell’ordine della
liturgia, gli elementi sensibili vengono assunti e trasformati, liberando la loro “finalità essenzialmente
dossologica”, ovvero la loro destinazione a rendere gloria a Dio. Nell’armonia liturgica scompaiono i
disordini e le divisioni della comnunità, così come i turbamenti e le passioni personali: le priorità
egoistiche vengono messe da parte, e la nuova costruzione dello spazio e del tempo invita a scoprire
l’adorazione disinteressata, la dimensione della gratuità.
Curiosa, ma estremamente interessante, è l’ultima qualifica che Cassingena-Trévedy assegna alla
liturgia: essa è – o almeno è chiamata ad essere – ariosa. In essa non v’è spazio per il contatto immediato
e disordinato, per la ressa frettolosa e impaziente. La liturgia custodisce una dimensione che san
Giovanni Crisostomo inseriva nell’ambito del phriktos, del “tremendo”: il rito non dà adito alla
emotività pura, a un sentimento fusionale, ma anzi custodisce un senso della distanza rispetto al divino
che viene celebrato. “Se in ultima analisi quello che si cerca è l’anima della liturgia, l’anima della sua
estetica, bisogna andarla a cercare sul versante del silenzio, dell’eco, del distacco, di un elemento che ne
comprende molti altri e che potremmo chiamare distanza. Distanza da una Realtà che proprio allora,
paradossalmente, diventa vicina.” (p. 114)
A differenza che nei nostri ambienti urbani spesso asfittici e congestionati, la liturgia dispiega la
bellezza di uno spazio arioso, in cui diventa possibile riscoprire la distanza e insieme la prossimità
dell’uomo con se stesso, con gli altri uomini e con il Signore. “In liturgia dobbiamo lasciar respirare le
cose tra Dio e noi, ma anche tra di noi. Lasciamo a Dio tutta la libertà di raggiungerci e diamo anche a
noi stessi tutta la libertà di raggiungerlo sulla scala a doppio senso delle parole, dei gesti e dei segni” (p.
117). Ritrovando l’armonia della liturgia come spazio e tempo di rigenerazione, la Chiesa può forse
corrispondere ancora alla definizione di Paul Claudel, che in essa ravvisava un “immenso tesoro di gioia
e di bellezza”.
Emanuele Bordello