MUSICA DA CONCERTO O MUSICA LITURGICA IN CHIESA? Articolo del M° Sergio Militello Maestro di Cappella della Cattedrale di Firenze Direttore dell’Istituto Diocesano di Musica Sacra della Arcidiocesi di Firenze Membro della Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana Eseguire musica o cantare la liturgia? E’ questa una domanda che torna sorprendentemente di attualità. La visibilità di dizioni (e di esecuzioni) come “messe-concerto” ci interroga nuovamente su quale canto e musica hanno il diritto di intervenire nella liturgia. Una diffusa misconoscenza della storia della musica e dei documenti magisteriali in merito sta conducendo le nostre chiese a divenire palcoscenico da teatro proprio durante l’azione liturgica, un errore già compiuto nel XIX secolo e che il “Movimento Liturgico” parallelamente al “Movimento Ceciliano” denigrò insieme all’autorevole sigillo del Motu proprio “Inter Sollecitudines” di papa Pio X nel 1903. Allora imperava uno spirito spettacolare con musica da teatro, mentre oggi lo stesso spirito spettacolare fa eseguire durante la liturgia composizioni di musica sacra (messe per coro e orchestra) per nulla pertinenti a quello spirito ecclesiologico e liturgico di cui ci ha sapientemente educato in merito tutto il magistero del XX secolo nonché il Concilio Vaticano II (cfr. Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963). A distanza di cinquant’anni dalla indizione del Concilio (ottobre 1962) sembra che nelle nostre chiese si preferisca fare marcia indietro, presupponendo che una “vera” e “solenne” celebrazione sia sinonimo di sola professionalità di musicisti legittimamente retribuiti, ma senza pretesa di spirito di servizio autenticamente “liturgico” e soprattutto di coscienza “ministeriale”, trascurando di principio il generoso apporto del volontariato nelle formazioni corali che – se ben istruite – giungono a risultati assai soddisfacenti e con genuine ripercussioni spirituali e la auspicata partecipazione attiva di tutta l’assemblea. Certamente si è consapevoli che l’affermazione “partecipazione attiva” non va ridotta né a slogan né a riduzioni in ogni senso della sua profondità teologica e spirituale, così come il fatto che la questione è delicata e abbraccia competenze storiche, teologiche, liturgiche e musicologiche. La “ministerialità” del canto, infatti, si configura in prima istanza come dedizione e deputazione – certamente competente - di una parte del popolo di Dio a servizio dello stesso e non in sostituzione dello stesso. D’altra parte l’ecclesiologia ci insegna, infatti, che ogni membro del corpo ecclesiale svolge la sua funzione propria nello spirito comunionale di servizio e non di soggettivismo referenziale né di spettatore passivo di ogni dimensione ecclesiale, prima fra tutta quella liturgica. Tra questa, è la celebrazione eucaristica a rivestire la maggior partecipazione del popolo cristiano, popolo chiamato ripetutamente a intervenire e a non essere muto spettatore (cfr. almeno SC 14, 30), avendo tutti e allo stesso modo ricevuto lo Spirito dei figli adottivi «che ci fa esclamare: Abbà, Padre» (Rm 8,15). Nessuna strategia pastorale può prescindere dalla chiara affermazione conciliare: “È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato» (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo” (SC, 14). Il desiderio della Chiesa fu dunque espressamente riferimento alla “piena, consapevole e attiva partecipazione” dei fedeli: una concezione che risente della maturità del pensiero ecclesiologico, per nulla presente nei secoli passati dove regnava solo l’appagamento estetico di una celebrazione cantata. Inutile sottolineare, pertanto, che l’indirizzo solo estetico non è, perciò, in sintonia con il dettato conciliare, dove si specifica anche il genere di canto (SC 116) con la saggia introduzione del canto religioso popolare affinché “possano risuonare le voci dei fedeli” (SC 118). Purtroppo il richiamo puramente estetico sta nuovamente insinuandosi nelle celebrazioni della chiesa, a discapito di tutta la lunga riflessione magisteriale. Eseguire oggi la “grande” musica di Mozart, Verdi, Beethoven … all’interno dell’azione liturgica è evidentemente segno della deriva di una pastorale ecclesiale, e basterebbe qui l’obiettiva lettura musicologica della letteratura musicale sacra. La composizione della forma musicale della “Messa”, infatti, ha visto spesso nei diversi secoli solo la proiezione personale del compositore nel suo rapporto con l’infinito, giustificando questi la propria opera come una totalità d’espressione adatta ad ogni coscienza, mentre la storia della musica ci testimonia circa Messe sinfonicoconcertanti che nulla hanno a che fare con lo spirito liturgico, anzi ripiegando il testo della Messa ai personali motivi isolati d’esistenza del compositore, spesso angosciati o persino indifferenti; per di più, in 1 taluni casi, alcune composizioni musicali, pur utilizzando la forma della Messa, non erano originariamente concepite per essere effettivamente utilizzate durante la celebrazione. Indubbiamente non è (e non dovrebbe essere) questa la musica che oggi può risuonare in chiesa, apparendo così come una invadenza retorica e per di più anacronistica nella liturgia. Questo genere di composizioni sacre può infatti trovare spazio fuori dalla liturgia come espressamente indicato dalla “Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti” (cfr. Concerti nelle chiese, 5 novembre 1987). Sarebbe qui pure necessario rileggere con attenzione nel contesto contemporaneo, oltre alla già citata costituzione conciliare sulla liturgia, almeno l’Istruzione Musicam Sacram del 5 settembre 1967 e l’Istruzione Liturgicae instaurationes del 5 settembre 1970. Oltre ai documenti, già la sapiente riflessione patristica sulla musica ci illumina sul suo contemporaneo canto “collettivo” della Chiesa orante (si cfr. tra tutti Sant’Agostino, 354-430) che, alieno da ogni visione spettacolare o teatrale della liturgia, commosse efficacemente l’animo inquieto dell’uomo di Ippona. L’odierna riproposizione di “Messe-concerto”, al di là di ogni ingenua interpretazione, oltre che per i motivi storici, si scontra dunque con la normativa ecclesiale e la vera dimensione liturgica dove la musica non è chiamata ad autocelebrarsi (cadendo così in una sorta di idolatria di se stessa), ma a saper sapientemente e armoniosamente (in un assetto celebrativo ben preparato) far risuonare le voci dei fedeli, ossia il popolo radunato in assemblea per celebrare il sacrificio eucaristico e non ad assistervi – seppur con solletico culturale - come in un teatro. Porre attenzione a tutto ciò, vorrebbe dire ancora una volta non strumentalizzare Dio e l’opera della salvezza per noi stessi, ma effettivamente essere tutti al suo servizio che, prima ancora delle forme e delle modalità, guarda il cuore ed è capace persino di apprezzare quanto a un criterio solamente estetico appare non “consono”. 21 aprile 2012 M° Sergio Militello Maestro di Cappella della Cattedrale di Firenze Direttore dell’Istituto Diocesano di Musica Sacra della Arcidiocesi di Firenze Membro della Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana 2