Prospero - Funzione Pubblica Cgil

PROSPERO
Michele Prospero *
LA DESTRA
FRA TERRITORIALITÀ E IMMAGINARIO
1. Un individualismo comunitario?
L
e idee nuove della destra italiana sono in realtà già vecchie, in gran parte ammuffite d’incanto dopo le elezioni
americane. Il successo di Obama, che pure andrebbe depurato dalle troppo agiografiche e ingenue celebrazioni, e anche
dalle scorie dell’immagine mediatica abilmente costruita, ha
comunque inferto un colpo micidiale al pensiero conservatore
che per oltre vent’anni ha costruito un senso comune attorno
alla antinomica convivenza di uno sfrenato individualismo del
mercato e di un rassicurante comunitarismo dei valori 1. Accanto
alla circolazione illimitata del denaro, occupazione preferita dell’homo oeconomicus isolato e provvisto di una ragione calcolante
*
Michele Prospero insegna Scienza politica nell’università «La Sapienza» di
Roma. È autore di una nutrita produzione saggistica di cui qui di seguito diamo i
titoli fondamentali: Politica e vita buona. Comunità, società, soggetto, Euroma La
Goliardica, 1996; Il pensiero politico della Destra, Newton Compton, 1996; I sistemi politici europei, Newton Compton, 1997; Sinistra e cambiamento istituzionale,
Philos, 1997; Storia delle istituzioni in Italia, Editori Riuniti, 1999; Il fallimento del
maggioritario, Philos, 2000; (con Roberto Gritti) Modernità senza tradizione. Il
male oscuro dei Democratici di Sinistra, Manni, 2000; (con Pasquale Rotunno) Il
realismo politico. L'analisi del potere da Bartolo di Sassoferrato a Niccolò Machiavelli,
Philos, 2001; La politica moderna. Teorie e profili istituzionali, Carocci, 2002; Lo
Stato in appalto. Berlusconi e la privatizzazione del politico, Manni, 2003; Politica e
società globale, Laterza, 2004; L'equivoco riformista, Manni, 2005; Alle origini del
laico. Diritto e secolarizzazione nella filosofia italiana, Franco Angeli, 2006; La
Costituzione tra populismo e leaderismo, Franco Angeli, 2007.
1
Obama non è solo un’abile politica dell’immagine. Egli costruisce una
nuova coalizione sociale e non è estranea nella sua riflessione la percezione
della questione del lavoro in un’ottica rooseveltiana. Quella globale è «un’economia che espone i lavoratori americani all’insicurezza cronica e alla possibile indigenza» (negli ultimi trent’anni il reddito di lavoro «non ha mostrato
letteralmente nessuna crescita» mentre il reddito dei più ricchi, dello 0,01 per
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capace di spacciare come un ordine coerente quell’arena competitiva eretta a partire dalle mosse irrelate degli egoismi, la
destra coltiva l’immagine dell’homo fidelis che scruta la coscienza interiore ed edifica inospitali recinti identitari sulla base del
verbo religioso condiviso. È in fondo la ricetta antica di
Tocqueville, quella di ricordare al mercante avido di denaro di
avere anche un’anima, condita però oggi dal neoconservatorismo con un tratto assai più aggressivo 2. La fede, che nel pensatore francese doveva arginare il dubbio etico corrosivo ma restava pur sempre un bene solo privato e non si dirigeva in uno spazio pubblico per essa inaccessibile, diventa infatti non più un
dispositivo intimo o rifugio del singolo spaesato dopo il sudato
successo nel mercato competitivo ma una fortezza arroccata che
deve surrogare un ordine sociale assente e proteggere da fastidiose identità altre inopinatamente tollerate dal flaccido relativismo dei valori.
Ma non è sul versante delle idee, sovente così apertamente
anacronistiche, che la destra rappresenta una inedita sfida con la
sua continua riproposizione di un modernismo (economico) reazionario (nei valori). È sul piano dell’azione politica concreta
che essa registra successi prolungati poiché allestisce coalizioni
sociali in taluni casi difficilmente scalfibili dopo la scomposizione della soggettività politica del lavoro. La destra, più che un’idea forte di società declinata sui fantasmi di Dio, patria e famiglia, è un interesse o meglio una coalizione di interessi che mette
insieme le pretese ultrasecolarizzate dei grandi possessori di valori posizionali, i desideri di ascesa sociale rapida e miracolosa coltivati dai ceti più periferici, le nostalgie di sacro raccomandate
dalle alte gerarchie spaventate dallo spettro dei diritti civili. Le
cento della popolazione, «è cresciuto di circa 5000 volte») ed è intollerabile
che negli USA 20.000 persone ogni anno «vengano licenziate semplicemente
per aver tentato di organizzare e aderire a un sindacato» (B. Obama, L’audacia
della speranza, Milano, 2007).
2
Su questo aspetto cfr. J-J. Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico,
Bologna, 1998, p. 296; U. Coldagelli, Vita di Tocqueville, Roma, 2005. Sulla
modernità e i tradizionalismi anti-illuministi, cfr. S.N. Eisenstadt, Multiple
Modernities, New Jersey, 2002, pp. 1-31.
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idee, in questa miscela, sono solo un condimento estrinseco, la
sostanza della destra è soprattutto nella forza materiale che la
foraggia. Più che una concezione del mondo, essa è un mondo
concepito solo come immagine riflessa del denaro incantatore
che non tollera alcuno spazio pubblico provvisto di autonomi
codici.
La nuova destra è anzitutto una pratica sociale egemonica
che restringe la politica a stanca ricerca di consensi passivi e
intende piegare la convivenza sull’idea alquanto primitiva del
denaro come mito autorigenerantesi e come ideologia di se stesso. L’idea del denaro come unica grammatica del sistema sociale
contrae ogni autonomia della politica ridotta a variabile dipendente del meccanismo economico e dei suoi influenti poteri.
Ridotta ogni capacità di costruire senso a partire dall’agire politico, la destra ha poi bisogno di un surrogato di forma e lo rinviene in una comunità di valori poggiante sulle sabbie mobili del
mercato finanziario sregolato. La dura prosaicità degli interessi
economici e l’arroccamento delle potenze territoriali invocano
sempre l’apporto dell’immaginario che disegna come naturale e
senza alternative il mercato e le sue esclusioni sociali.
Il movimento reale espresso dalla destra per un verso determina una erosione sistematica di ogni spazio pubblico e per l’altro riconduce ogni residuale espressività sociale alla dura grammatica della merce. Per rendere il mondo una mera immagine
riflessa della potenza mistica del denaro non servono idee, basta
una solida alleanza tra potenze dell’economia e schemi dell’immaginario, anzitutto televisivo. Media e denaro: queste sono le
fonti dell’effetto di dominanza della destra. Ai ricchi i soldi,
senza più l’ossessione del fisco e delle politiche redistributive, e
ai poveri il sogno di una ricchezza a portata di mano e da presidiare tramite un governo securitario, sotto il ricatto della paura
solo percepita grazie agli schermi della TV: questa è la misera
ricetta del populismo. Tra le più ingorde oligarchie del denaro e
i rampanti gestori dei media si realizza una strutturale alleanza
che appalta ai poteri forti non solo il mondo etereo degli affari
ma anche la rappresentazione dell’immaginario che inculca stili
e modelli di vita. Il potere del denaro non ha più nulla di arcaS T A T O
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no e di minaccioso e l’immagine del ricco sfondato diventa per
tutti familiare grazie alla vicinanza compiacente dei media che
ne narrano le gesta, le preferenze, i gusti, le debolezze, gli amori
e inculcano così tra gli esclusi i valori e i simboli dei ceti dominanti come naturali, fascinosi e irresistibili 3. Aliquote favorevoli per i più ricchi, in nome della competitività dei regimi fiscali
e della competizione tra territori per attrarre investimenti, più
social card per gli ultimi: questa è la base materiale del populismo. Il suo filtro magico accomuna in un insolito destino condiviso i più centrali e scaltri poteri che abilmente penetrano nei
meccanismi della finanza e i più periferici strati che vedono in
chi ha più potere e prestigio di status un modello accattivante e
anche raggiungibile, magari con un colpo insolito di straordinaria fortuna. L’operazione ideologica della destra consiste nel raccogliere a sostegno delle sue strategie dell’antipolitica, descritte
dai ceti dominanti per rendere opaca ogni funzione del pubblico
dinanzi alle traiettorie del denaro che produce denaro, il disgusto e le recriminazioni di una massa che dalla eutanasia dello
Stato ha tutto da perdere. I più ricchi e i più marginali definiscono un nuovo patto sociale: ai soggetti centrali le potenze
incontrastabili del denaro, ai ceti periferici la comunità dei valori, da proteggere con le agenzie dell’ordine e della sicurezza.
C’è per questo uno spostamento ottico che dirotta le aspettative dei soggetti dal conflitto sociale sempre più evanescente
allo scontro identitario sempre più surriscaldato. In ragione della
sicurezza, si costruisce nelle città un diversivo insidioso che
occulta la distanza economica e nasconde la differenza di potere
sociale. La diversità di etnia o di fede sbalza così come la più rilevante differenza e la disparità di potere economico-sociale sfuma
come occasione di sociale contesa. I ceti popolari, raggiunti con
le strategie di consenso passivo sprigionato dal nuovo immaginario, sono quelli che più di altri cadono estasiati sotto le attrattive della politica securitaria, la cui domanda è stimolata con
sapienza dai media con deliberate campagne di allarme sociale.
Sindaci sceriffi, ora militari per le strade, sono le sole richieste
3
J.K. Galbraith, La società opulenta, Torino, 1972.
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‘pragmatiche’ rivolte a una politica post-ideologica che nelle sue
trame invisibili bada al sodo, ossia alla finanza, allo scambio ravvicinato tra pubblico e privato come ingrediente della governance postmoderna 4.
La fenomenologia della politica postmoderna prescrive
come sua regola aurea che la visibilità stessa del disagio sociale vada sempre rimossa. Negare la tangibilità delle contraddizioni della metropoli è nei registi dell’immaginario un imperativo
supremo per scacciare per sempre i problemi sociali dalla sfera
pubblica. Per questo oggi nelle città mancano politiche pubbliche e in ossequio all’immaginario si vieta l’accattonaggio e
il sindaco si veste da sceriffo. In una società della merce, la
vista del disagio estremo crea imbarazzo nei consumatori. E
perché mai turbare i sensi esteticamente esigenti del consumatore finale con scene imbarazzanti di quotidiana povertà? Per
gli ultimi basta la compassione, e la carità può prendere il
posto della solidarietà pubblica. Importante è che nessuno
pensi di mutare le condizioni sociali di esistenza, o prospetti
addirittura strategie per i diritti. Vengono per questo progettate forme di esplicito depistaggio per inculcare in chiunque la
paralizzante percezione di vivere insicuri per colpa di capri
espiatori individuati dai media. Lo Stato della sicurezza sociale
viene così superato dallo Stato dell’insicurezza che deve inventarsi emergenze e nemici alle porte. Si inventano allora sistemi
di schedatura del DNA, vengono impiantate milioni di telecamere spia, e si abbozzano in gran quantità nuove tipologie di
reati. E però insieme al bastone della paura viene agitata la
carota del denaro come bene nient’affatto scarso e per tutti a
portata di mano. Non basta favorire l’ingresso nello Stato
penale emergenziale che tramuta la cittadinanza da fattore di
inclusione in momento di differenziazione e di esclusione.
Occorre anche mostrare che il lavoro non esiste più come soggetto con un agire autonomo, è pura archeologia nella società
della conoscenza e dell’impresa, e che il denaro è accessibile,
basta che ognuno diventi imprenditore di se stesso.
4
P. Marconi, Spazio e sicurezza, Torino, 2004.
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Il capitalista reale che si fa un partito patrimoniale e prende
in appalto lo Stato viene percepito dai tanti capitalisti solo virtuali come uno di loro che protegge la città dagli aggressori esterni e perpetua il dominio assoluto del denaro che i marginali di
sicuro non hanno ma che potrebbero un giorno accumulare.
Non è una pura società degli individui quella su cui prolifera la
destra, è un aggregato di individui senza più alcuna coscienza di
sé e percezione reale del mondo. La immensa fabbrica dell’immaginario contribuisce a occultare il dominio reale facendo sì
che una grande quantità di soggetti, da ritenersi senz’altro oggettivamente dei proletari postmoderni per reddito e condizione
occupazionale, soggettivamente si sentano tutt’altro e rifiutino
con sdegno ogni identificazione in termini di classe sociale.
Interviene qui il miracolo del consumo che, in virtù di una
gigantesca macchina mondiale adibita alla produzione illimitata
dei desideri, rende tutti cacciatori instancabili di tendenze,
sedotti dai messaggi della ricchezza a portata di mano, grazie a
bancomat e carte di credito. Quando tutti inseguono la pubblicità per cercare di somigliare ai suoi modelli di consumo, declina ogni responsabilità civica. Compare così una democrazia sfregiata che perde ogni aggancio con l’idea di una eguaglianza da
costruire con politiche di inclusione.
2. La neutralizzazione del lessico politico
Cosa altro tiene in piedi le società odierne, nelle quali aumentano le differenze di potere e di ricchezza e però nessun accenno
compare verso un rifiuto collettivo delle nuove forme di dominio, se non questa saldatura tra il mondo dei facili guadagni e la
rappresentazione mediatica della vita che affida alla scelta del
pacco giusto un salto repentino nel beato regno dell’abbondanza? Le esclusioni, che la vita reale dell’accumulazione del capitale crea in maniera sistematica, trovano una compensazione nella
descrizione mediatica di un mondo mitico di gesta edificanti in
cui sfuma irreparabilmente la percezione del prosaico dato reale.
In un sistema sociale che sforna in continuazione inedite margiS T A T O
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nalità, genera conflitti di interesse e cronicizza la flessibile precarietà dei lavori, regna ancora più piatta la sovrastante potenza
ordinatrice del capitale e dei media.
Il lavoro nelle sue retribuzioni non supera spesso la soglia
di povertà. Già oggi 3 milioni di lavoratori percepiscono
meno di 800 euro al mese e altri 3 milioni sono al di sotto dei
1000 euro. Esiste una povertà strutturale che nasce dal lavoro,
non dalla esclusione dei derelitti. Eppure ciò che la grande
officina dell’ideologia contemporanea nasconde è proprio la
ragione stessa del conflitto sociale per i diritti e per il salario
migliore. In una società che rende ognuno un uomo precario,
che può essere acquistato con decine di modalità contrattuali, sembrano sfumare le classi e con esse le ragioni della mobilitazione collettiva. La fabbrica mediatica delle narrazioni è
capace di costruire un senso comune che esclude l’idea della
pubblicità e del conflitto. La mediatizzazione, con i suoi meccanismi linguistici di occultamento del dato empirico, si afferma in ogni ambito del vissuto neutralizzando così i processi
reali sempre più relegati su uno sfondo lontano e invisibile. Le
parole chiave del lessico contemporaneo rivelano questa perdita di referenzialità che porta alla costruzione di eterei fantasmi che rendono impalpabili gli interessi sociali. Ci sono parole inventate solo per nascondere, altre invece servono per
deviare e occultare. Nel mondo attuale trionfa un aspro e
selettivo sistema sociale che però preferisce rimuovere il suo
ingombrante e ancora sospetto nome, capitalismo globale, per
assumerne uno più mite e in apparenza gradevole, quello di
economia di mercato. Il linguaggio tecnico con i suoi eufemismi leggeri contribuisce a fare del mercato proteso alla massimizzazione del profitto una cornice naturale e del tutto astorica. Persino il Trattato europeo parla per ben 78 volte di mercato, per 27 volte compare in esso la parola concorrenza e una
sola volta esce il termine residuale di occupazione 5. E le parole dominanti segnalano un più profondo cambiamento avvenuto nei rapporti sociali.
5
V. Giacché, La fabbrica del falso, Roma, 2008.
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Il successo delle deviazioni linguistiche e della riduzione della
vita a gioco, a immagine irriflessiva è in gran parte agevolato
dalla avanzata decomposizione dei soggetti sociali. Quello che
ormai anche in Europa si sconta, dopo l’eclisse della grande politica inventata dal movimento operaio, è la difficoltà di rimodulare le forme dell’azione collettiva in assenza di un soggetto
sociale 6. Ogni forma di lotta per i diritti è osservata con sospetto e rimossa dall’agenda come una pura provocazione. O meglio,
viene esaltato, sulla scia del conservatorismo americano, il conflitto di cultura, che alcuni chiamano anche scontro di civiltà, e
stigmatizzato con rudezza il conflitto sociale, dipinto come una
insana archeologia, come una indecente anomalia.
Eppure non declina nelle società occidentali la fabbrica del
nemico. Solo che dopo l’evaporazione delle classi sociali, i nemici sono gli altri, i nomadi, gli irregolari, i gay, gli atei e mai chi è
portatore di interessi economico-sociali dominanti e pretende
dai governi la immediata rimozione dei diritti che alzano il costo
del lavoro. Non corrono tempi felici per i sindacati e per i soggetti del pluralismo. Meno tasse e più sicurezza sono le domande
oggi vincenti e per questo compito non servono molto le formazioni del pluralismo sociale, politico, culturale. Quando lo Stato
è ridotto al minimo e la società appare sempre più privatizzata e
in preda a grandi paure, indotte e reali, lo spazio della persona
che partecipa a un sistema pluralisticamente strutturato diviene
residuale. Non è tempo di legami sociali, e nemmeno di conflitti per i diritti nella società e nello Stato.
C’è in tutto ciò un indubbio clima di regressione culturale.
L’impresa vince una delicata battaglia per l’egemonia e impone
il suo tema, un fisco più leggero, come dominante. Ma il trionfo
dei suoi interessi mercantili produce subito un deserto eticopolitico cui si risponde con i fantasmi di Dio, patria e famiglia.
Nelle società occidentali si assiste a un autentico paradosso. Le
distanze sociali crescono in maniera impressionante, così come
una sensibile impennata hanno la diseguaglianza e la precarietà.
6
Ha insistito su questo Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 2006.
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Diminuiscono invece i salari, le protezioni sindacali e declina il
potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Ma nessun conflitto
durevole ha per suo asse strategico la nuova questione sociale.
Nella vecchia Europa, anzi, con la depoliticizzazione della
vita sociale, e con il lungo disincanto che produce defezione, si
apre di nuovo la strada del contratto individuale, roba da primo
Ottocento. In nome della sacralità del contratto, vengono ridimensionati i sindacati e si prospetta come segno della modernità un tempo di lavoro di 65 ore settimanali. Si torna, dopo oltre
un secolo, alla percezione di plusvalore assoluto, ovvero al profitto succhiato attraverso il prolungamento indeterminato della
giornata lavorativa e salari compressi verso il minimo. Parrebbe
la condizione ideale per una ripresa di azione politica e di conflitto. E invece, al momento, se una rivolta c’è è solo silenziosa,
se un disagio esiste non si organizza 7. Emergono non a caso figure contrattuali che producono insicurezza sociale: part-time,
lavoro a tempo determinato o definito, occasionale, a fattura,
intermittente, a chiamata, in affitto. I nuovi contratti che reclamano flessibilità temporale introducono, in nome di un esasperato principio dell’autonomia negoziale, la clausola elastica che
impegna il singolo lavoratore a prestare una maggiore quantità
di tempo per venire incontro alle esigenze organizzative e produttive dell’impresa. Con il lavoro a chiamata (via fax, via email, via sms) l’impresa ottiene la possibilità di operare senza
rigidi parametri temporali e si avvale di un diritto completamente piegabile rispetto alle esigenze dei soggetti economici.
Con il lavoro intermittente l’impresa ha la possibilità di acquistare non tanto il lavoro reale quanto la disponibilità del soggetto a svolgere una prestazione futura. Il corpo del lavoratore
entra così nei meccanismi della domanda e dell’offerta come
qualsiasi altra merce e l’azienda può ricorrere alla prestazione
7
Forse ciò accade, come scrivono C. Tilly e S. Tarrow (La politica del conflitto, Milano 2008) perché «la politica moderna presenta flussi conflittuali
ricorrenti, ma anche la diffusa calma piatta dell’apatia». Eppure c’è qualcosa
che scavalca la pura e fisiologica ciclicità di momenti di azione collettiva e di
fasi di riflusso dei movimenti sociali.
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solo quando serve e senza alcuna predeterminazione dei tempi
del rapporto. Il postmoderno sta costruendo un diritto privato
del tutto asservito all’economia, che si confonde in toto con il
mercato e le sue potenze egemoni.
L’eclisse dei corpi sociali organizzati, sprovvisti ormai di solide sponde politiche, ha costi civici enormi. La decomposizione
dei soggetti del pluralismo sociale ha reso di sicuro molto più fragile il lavoro. L’impresa riesce oggi a far condividere agli esclusi
l’avversione per il carico fiscale e così può occultare le ragioni
vere del suo dominio. Con gli stessi rapporti di forza tra capitale
e lavoro di vent’anni fa, gli stipendi sarebbero di almeno 7.000
euro all’anno superiori agli attuali 8.
Pesano sempre più i nodi più strutturali dell’economia italiana,
la prevalenza quantitativa della piccola impresa che non può permettersi investimenti in ricerca, la cui efficienza è solo differita,
misurabile nel lungo termine. La piccola impresa, variante postmoderna della famiglia, come principale e coesa cellula produttiva, acquista brevetti, può recepirli in modo più o meno lecito ma
non può promuovere innovazione. Un sistema del fare ricchezza
così strutturato nella sua morfologia, richiede soltanto infrastrutture nella geocomunità locale, la riduzione del fisco e l’abbassamento del costo del lavoro perché non ha le capacità endogene di
innovare. Qui risiedono le cause profonde del declino delle reti
civiche e sindacali. La produttività del lavoro, la competitività
dell’azienda, non dipendono in alcun modo dal sistema fiscale, la
cui attrattiva vale solo per benefici di breve tempo e i vantaggi
non hanno effetti durevoli. La competitività dipende sempre più
dalla crescita endogena ma il nesso tra istruzione e sviluppo in
Italia non sollecita politiche pubbliche coerenti. Nei paesi più
evoluti i differenziali di produttività sono connessi al sapere non
ai fattori di costo (incentivi, fiscalità, salari).
8
Con locuzioni devianti, con simboli ingannevoli viene coperto il crudo
dominio postmoderno: tra i 100 principali soggetti economici mondiali 51
sono imprese, 49 sono i paesi. Su queste basi materiali di dominio, lavora poi
un immaginario leggiadro che nega la visibilità mediatica del conflitto e si rifugia in una neolingua del mercato che si autonomizza dalla politica.
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Diritti fondamentali declinano e i luoghi di lavoro tornano a
somigliare a qualcosa d’antico 9. Il problema delle morti sul lavoro è denunciato dal sindacato come uno dei temi di civiltà nella
società di oggi 10. Una società di solitari che è ossessionata dalla
sicurezza, e costruisce sofisticate macchine di sorveglianza, telecamere, polizie private e sistemi di controlli a difesa della sacra
proprietà, non pone altrettanta attenzione alla sicurezza nel
lavoro. Niente di strano: l’avere conta da sempre più del corpo
che lavora. Dove si fatica e la ricchezza viene prodotta, la sicurezza non conta perché è costosa e comunque riguarda il corpo
degli altri. La prevenzione degli infortuni, per certe aziende interessate ai facili profitti, è solo una delle esternalità cui volentieri si rinuncia risparmiando così sui costi di produzione. Dove si
consuma e si detengono gli averi, la sicurezza invece viene perseguita con ogni mezzo. Ordine nella città della ricchezza privata, dove tutti i tracciati sono sorvegliati, e disordine nella fabbrica, nei cantieri dove alcuna pubblicità è tollerata.
Per questo gli addetti ai lavori dipendenti non diminuiscono
affatto dal punto di vista quantitativo ma perdono ogni rappresentanza e capacità d’azione. In questo immenso cervello sociale globale, che è la società della conoscenza, si assiste ad un
dimagrimento della funzione simbolica e retributiva di tutti i
lavoratori. I saperi, i lavori perdono riconoscimento sociale,
potere contrattuale, autonomia politica. Esistono dinamiche
materiali che disincentivano gli individui ad associarsi.
L’impresa, con la riscoperta del contratto e del diritto privato
L. Ferrajoli, Principia Juris, Laterza, Roma-Bari, 2007.
Anche nella età della new economy persistono le antinomie della old economy così finemente colte da Dickens. In Tempi difficili egli scriveva: gli industriali si dichiararono in rovina «quando fu loro imposto di mandare a scuola i
bambini che lavoravano in fabbrica; rovinati, quando furono nominati gli uomini che dovevano ispezionare le officine; rovinati, quando questi ispettori espressero qualche dubbio circa il fatto che ci fossero valide ragioni perché le macchine facessero a pezzi la gente; messi a terra se qualcuno suggeriva che forse non era
necessario fare tutto quel fumo».Quando l’impresa ha ceduto ai controlli, ai
diritti, alla salute, alla compatibilità ambientale è stato solo perché un forte
movimento politico e sociale ha imposto norme e vincoli.
9
10
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come unica dimensione dell’integrazione sociale, vuole una
società molto liquida in cui non compaiano le forme dell’autonomia collettiva dei gruppi, gli interessi collettivi organizzati dai
sindacati, gli enti non-profit. Questo è il più propizio terreno di
coltura della destra che suppone il riflusso della politica progettante assorbita da una politica dell’assoluta contingenza 11. La
straordinaria macchina di consenso passivo costituita dall’oligarchia populista, che cerca il contatto immediato con la folla,
attira porzioni dell’élite avversaria con i ritrovati gratificanti del
trasformismo e tramuta il governo in spot leggero, inghiotte
qualsiasi opinione pubblica informata e critica. Quello che continua a portare il nome di democrazia in realtà è sempre più uno
stanco rituale con il quale una élite dell’economia e degli affari si
lascia legittimare, a scadenze prefissate, dal voto passivo di elettori distratti e disincantati.
3. Geocomunità?
Con l’eclisse del conflitto sociale e la decomposizione dei soggetti politici strutturati si recupera lo spazio come luogo identitario. In Italia con la ripoliticizzazione del territorio come
dimensione esclusiva dell’agire si consolida una società poco
civile con scarse reti associative. Le stesse strategie istituzionali
della sinistra hanno contribuito al trionfo della destra. Quella
che in maniera un po’ indebita si chiama seconda repubblica
prese quota negli anni ’90 grazie a due fenomeni: il nuovo sistema elettorale e la nuova mappa dei poteri locali. La credenza,
molto in voga in quegli anni, era che dalla crisi dei vecchi partiti si potesse uscire solo con l’esaltazione della carica monocratica unta dagli elettori. Il leader al posto dei partiti decrepiti, il
decisore solitario in luogo delle assemblee stanche. Questa era la
suprema scommessa. Partiti e assemblee vennero così accomunati nel destino della completa marginalizzazione. A livello
11
Sulla centralità del mercato e del consumo, cfr. Sennett, Die Kultur des
neuen Kapitalismus, Berlin, 2005.
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locale si è così definito a tappe forzate un sistema politico inedito. Il carisma democratico di un capo veniva invocato per correggere i troppi precari equilibri di partito. Le aule consiliari
furono snidate come il vecchio corpo di una politica al collasso
e al loro cospetto venne osannato il ruolo decisionista del sindaco sorretto da uno staff personale agile e rassegnato a muoversi solo all’ombra del capo. Il sindaco inaugurava una sorta di presidenzialismo municipale. Gli stessi assessori smarrivano ogni
colore politico, prevaleva nelle squadre di governo locale il
ruolo di mero supporto tecnico all’azione del sindaco. Ogni sindaco ha così potuto costruire una sua agile struttura personale di
comando con la quale definire autonomi circuiti di raccolta del
consenso.
Tutto ciò ha rafforzato la spinta già forte alla politicizzazione
dello spazio. Dinanzi a partiti flaccidi, i sindaci hanno goduto di
risorse straordinarie visti i tempi di vacche magre. Per questo essi
oggi riescono a contare nelle scelte più significative. Il sindaco,
sostenuto da un ampio potere di distribuzione di risorse, è il
nuovo referente territoriale della politica. Il sistema politico per
certi versi è solo l’insieme di tanti spazi territoriali occupati dal
potere personale dei sindaci. Muovendo risorse, per altri attori
ormai troppo scarse, i sindaci e in genere le cariche elettive sono
gli elargitori di incentivi da molti agognati e sono i veri registi
delle odierne mobilitazioni.
Nelle stesse primarie del PD il ruolo trainante degli amministratori è risultato decisivo per allungare le file nei gazebo. E’
evidente che attorno al sindaco si costruisce anche un invidiabile sistema economico che agevola la mietitura del consenso.
Creando o favorendo la costituzione di società private per la
riscossione dei tributi, enti per la gestione dei parcheggi, imprese per le pulizie di edifici pubblici, per i servizi sanitari domiciliari, per l’acqua, per gli spettacoli, i sindaci attraggono risorse,
creano posti di lavoro, gestiscono un potere prezioso. Con le
esternalizzazioni, si creano società private accanto a quelle ufficiali e in via di marginalizzazione della pubblica amministrazione e tutto serve al sindaco per diffondere incentivi materiali,
elargire incarichi, spacciare facili consulenze. In questi ritrovati
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poggia la base indispensabile di un privato sistema di potere, terminale di grandi manovre per la spartizione di risorse pubbliche.
Con le nomine e con le aziende partecipate i sindaci dispongono di convincenti argomenti per creare reti fluide e stipulare
contatti ravvicinati con la finanza, il credito, l’impresa. Le città
sono cogovernate da sindaci e imprese.
La macchina del consenso orchestrata dal sindaco oltre
all’immagine e alla comunicazione esige anche un’enorme
potenza economica. Se muoiono partiti e rappresentanze elettive nessuna investitura del capo ha la forza per rigenerare la politica. E poco agevole peraltro si rivela anche la sperimentazione
di forme di bilancio partecipato per incentivare il prender parte
consapevole dei cittadini. Anche sul piano del rendimento delle
politiche, il consuntivo dell’esperienza dei sindaci non può trascurare alcune criticità evidenti. Ogni città diventa una splendida macchina acchiappasoldi (ICI gonfiate, oneri di urbanizzazione, uso improprio delle multe, come nuovo regime fiscale supplementare) e tra pubblico e privato si stringono patti di collaborazione ravvicinata per gestire il marketing territoriale.
Il profilo del sindaco vede il ricorso a politiche simboliche, a
investimenti in immagine che accantonano politiche strutturali
per lenire i disagi cronici della metropoli postmoderna. L’emergenza rifiuti e criminale però non tarda a riesplodere e provvede
a mostrare la sussistenza di un territorio senza Stato e partiti.
Dopo la trita retorica della società civile, a tutti pare lampante
che nelle città infinite cresce solo il ruolo politico degli immobiliaristi e delle società finanziarie, che proliferano in ogni angolo con l’onda speculativa sprigionata dall’edilizia. I nuovi poteri
di controllo e di concessione, conferiti dal codice dei beni
ambientali e paesaggistici proprio ai Comuni, hanno già prodotto frutti avvelenati.
Nel quindicennio della seconda repubblica, sono state
costruite case pari all’intera superficie di Lazio e Abruzzo. La
devastazione del paesaggio è evidente in queste crude cifre: il
consumo annuo di suolo libero in Gran Bretagna è inferiore ai
10.000 ettari, in Germania si ferma a 45.000, in Italia raggiunge
l’incredibile vertice dei 244.000. Il lavoro sull’immagine, che
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QUALE STATO
tanto affascina i sindaci, lascia latenti i grandi problemi del
malessere urbano delle città infinite. In mancanza di fondi per
politiche di inclusione sociale, tutti i comuni hanno dirottato le
risorse in sfarzose politiche dell’immaginario. L’alleanza dei
signori del mattone con le politiche dei simboli non sembra
offrire una ricetta vincente al disagio postmoderno.
Dinanzi all’emergenza rifiuti affiorano alcuni nodi che scavalcano la cronaca e investono il rapporto tra la democrazia e le
crisi. Si sa che la civiltà dei consumi produce enormi quantità di
spazzatura. Marx parlava addirittura della civiltà dell’iperconsumo come di una fogna in cui l’imponente splendore delle merci
produce un immane squallore. Il topo non a caso è uno dei più
accaniti abitatori della metropoli. Il topo e il McDonald appartengono entrambi alla condizione postmoderna. Ogni soggetto
si tramuta in consumatore che è affezionato ai beni appropriabili in solitudine e non si preoccupa dei costi sostenuti dall’ente
pubblico che ripulisce le piazze dai resti del consumo sfarzoso.
Galbraith ha reso con grande finezza questo meccanismo perverso che incentiva la cura della scintillante bellezza delle cose
private e distrugge con accanimento la gestione delle opache
cose pubbliche. Con la tragedia dei beni comuni una miseria
pubblica convive con una opulenza privata e «più la ricchezza
aumenta e più il sudiciume si accumula» 12. Ciascuno è invitato
da una infinità di simboli e messaggi a diventare un isolato benestante (magari solo grazie a carte di credito) con sempre più cose
per sé. In tanti vivono blindati nella loro splendida dimora privata protetta dalla videosorveglianza e circondati da uno sconfinato cimitero di beni pubblici. La città di puri consumatori si
paralizza per i rifiuti che tutti accumulano in un mondo che
celebra il trionfo dell’homo urbanus condensato in città infinite
che si estendono disordinate nello spazio inghiottendo con onde
di cemento natura, risorse, spiagge. I beni pubblici (strade, parchi, sanità, scuole) arrancano dinanzi all’ebbrezza dei beni privati in continua espansione e sofisticazione. Una povertà civica
emerge con nitidezza dalla catastrofe napoletana. Le immagini
12
Galbraith, op. cit.
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della TV mostrano cumuli di rifiuti coprire tutti i simboli del
postmoderno: le potenti macchine parcheggiate, le banche. La
povertà pubblica, sacrificata in nome del consumo privato, sembra vendicarsi della rimozione subita sommergendo all’inverosimile tutti i simboli della opulenza e della finanza.
Le rivolte di strada di folle disordinate che si agitano tra i
rifiuti sono il culmine di una infinita fuga dalla responsabilità. I
ceti politici napoletani sembrano aver fatto ricorso in questo
decennio a una via di fuga suggerita da Luhmann: la spoliticizzazione delle questioni più scottanti. Le scelte più rischiose,
quelle cioè che possono creare fastidiosi problemi di consenso,
vanno tolte dalla sfera del decisore e scaricate su altri momenti.
Dinanzi a una situazione potenziale di crisi, la ricetta è quella di
renderla un mero affare tecnico o amministrativo per consentire al governo politico di tenersene alla larga. E cosa c’è di più
lontano da una politica che non vuole scontentare compromettendo i voti dell’asettica figura del competente? Dapprima la
questione della spazzatura è perciò diventata apparentemente
tecnica. Gli esperti e non i politici ne erano coinvolti. Il risultato del governo dei tecnici non è però stato brillante: le loro promesse di un nuovo miracolo napoletano grazie alle ecoballe,
vendute come nuove produttrici di energia, si sono rivelate una
balla colossale. Lo scaricabarile tra politica e tecnica, alla fine ha
creato vuoti spaventosi.
La mancata assunzione di responsabilità nel tempo presente
ipoteca pesantemente il futuro. Il mancato coraggio della decisione produce non una via di fuga per la politica, come pretendeva Luhmann, ma una catastrofe di sistema per la politica. Poi
è stata tentata la via della privatizzazione, in ossequio a quel
postmoderno incrocio pericoloso, in cui politica e finanza si
abbracciano, visto da tutti come toccasana miracoloso. Cosa c’è
di più efficiente ed economico di un servizio curato dal privato?
A nulla è però servito il trasferimento di responsabilità dall’autorità pubblica al privato in un quadro normativo incerto e
secondo complesse operazioni negoziali. Per tenere lontana la
politica da una faccenda sempre più scottante non restava che
individuare un altro momento. Quello del commissario straordiS T A T O
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QUALE STATO
nario dell’emergenza. La invenzione di una figura eccezionale
fatta apposta per decidere con rapidità si è convertita nell’immobilismo più completo. Poi tocca a un ex capo della polizia sorretto dall’esercito per cercare di aprire qualche discarica.
Dinanzi a sindaci eletti, a governatori unti dal voto popolare
e circondati da schiere di consulenti ben retribuiti si presenta lo
scenario impressionante dell’indecisionismo politico. La paralisi, il rinvio, la fuga sono il simbolo del fallimento di poteri
monocratici a diretta investitura popolare che si dissolvono
come neve dinanzi ai cassonetti fumanti. Il presidenzialismo alla
napoletana presenta solo piccoli re nudi e impotenti. I loro sofisticati sistemi di potere privati a nulla servono dinanzi alla strada che ribolle di protesta informe. Il vuoto che più impressiona
è proprio questo. La solitudine dei capi e i fuochi delle strade. In
mezzo non c’è più nulla. Nessuna mediazione. Nessun luogo di
confronto, nessun tentativo di motivazione del consenso. Il territorio è nudo di soggetti politici organizzati e pieno di spazzatura. Una politica che ha preso troppo sul serio Luhmann, e ha
seguito alla lettera la sua asserzione per cui in società complesse
sui temi dell’incertezza «il consenso non è né possibile, né sensato» 13, produce un insensato e esplosivo caos.
Al Sud il territorio esplode, al Nord è presidiato da partiti
neoregionali. Negli spazi più dinamici del Nord il territorio
conosce una sostanziale e spettrale autonomia dopo l’esplosione
del paradigma del politico. La nuova geografia dei flussi ha certo
decomposto le più consolidate forme della politica pervenendo
a una riterritorializzazione della politica che salta la dimensione
statale. La rivoluzione spaziale che inaugura il mondo dei flussi
immateriali, nel Nord mette fuori gioco non solo la polarità
destra/sinistra ma la politica statuale in quanto tale, incapace di
organizzare una società ormai irreparabilmente dissolta nelle sue
reti immateriali che disperdono ogni soggettività. Le nuove tecnologie dell’informazione e i processi fluidi dell’ipermodernità
spezzano per certi versi ogni coesione sociale e lo spazio diventa
l’unico aggancio materiale per un’imprenditoria diffusa capace
13
N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, Roma, 2005.
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di essere il più forte collante politico. Populismo e liberismo si
saldano strettamente proprio nei territori più innovativi. La
rivolta contro lo Stato sprecone e la richiesta di risorse per il territorio connotano una destra che promette uno Stato del benessere confinato in una regione sola. Il territorio, che trattiene
nelle sue istituzioni di governo locale le risorse che produce e le
indirizza in opere pubbliche funzionali allo sviluppo dell’impresa, appare come un’occasione di crescita e di coesione sociale in
miniatura. L’impresa, che guida questa rivolta dei territori più
competitivi, non appare come un’antagonista rispetto agli interessi del lavoro ma emerge come un baluardo contro lo Stato
centralistico e parassitario. L’impresa riesce a definire il suo interesse particolare come un interesse collettivo di aree territoriali
coese. La geocomunità è proprio questa costruzione di comuniazienda, di governi locali-aziendali che promettono sicurezza,
coesione etica, servizi efficaci.
La compenetrazione di pubblico e privato anche a livello locale dissolve la rappresentanza. La costruzione di un mondo in cui lo
spazio pubblico evapora in una fase ormai crepuscolare, e in cui si
accentua la polarizzazione sociale tra chi dispone della ricchezza e
chi ne resta escluso, non è il semplice risultato di una metafisica
penetrazione della tecnica che occorre accettare nel suo cammino
senza alternative sociali e privo di altre cadenze temporali. Il territorio nelle strategie della destra si configura come un vincolo
insopportabile se rimanda alla statualità e alle sue costose politiche redistributive e si tramuta invece in una opportunità se coincide con il territorio locale dove la produzione e la crescita incontrano finalmente risorse per politiche efficienti e funzionali allo
sviluppo. Il micro-territorio appare come una difesa estrema di
imprese esposte alla concorrenza globale. Sorge sulla nozione di
spazio un autentico recupero di protezionismo affidato alle politiche locali che non si sconfigge certo con la retorica della unità
nazionale minacciata. Dinanzi a tangibili forze materiali che
rigonfiano i consensi della destra, solo la costruzione di una diversa coalizione di interessi sociali può scalfire l’apparente mondo
incantato delle geocomunità (destinate a costituire già nel medio
termine un intralcio alla crescita). Nelle geocomunità si definisce
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QUALE STATO
un sistema di sviluppo che non premia rigore, ricerca, innovazione ma punta sulla leva della riduzione fiscale, della precarietà dei
diritti e del contenimento del costo del lavoro. I saperi e la qualità non hanno troppo mercato, non hanno una capacità di pressione politica e non sono in grado di imporre strategie per il riconoscimento dei diritti.
A un livello di istruzione elevata corrisponde spesso una
mansione lavorativa molto marginale e subalterna. Nessun investimento serio riguarda la formazione permanente. Le imprese
richiedono un continuo innalzamento dell’età pensionabile ma
per gli occupati che arrivano a 50 anni esse esigono solo prepensionamenti e redigono ampie liste di mobilità. È evidente
che la nozione di cittadinanza che si costruisce negli spazi del
pluralismo sociale è un mero fiato vocale in queste condizioni di
destrutturazione di parametri di elementare civiltà.
Non ha più un gran peso politico, il lavoro. Anche nelle sue
forme di lotta, il lavoro deve ricorrere a eccezionali misure.
Occorrono pesanti blocchi stradali per avere un po’ di visibilità.
Quando non si ha più alcun peso politico, le iniziative di lotta
diventano per forza molto simboliche, ovvero eclatanti. Fuochi
di paglia. Nella società dell’informazione, le devianze diventano
mediatiche anch’esse. E tanto più sono mediaticamente appetibili quanto più esse sono immediate, cioè senza alcuna forma,
selvagge 14. È la sola forza che i deboli credono di avere in una
età di declino dei corpi intermedi e di epifania dell’autonomia
negoziale dei privati. E in questi anni con i colpi all’autonomia
collettiva e al contrattare per gruppi i lavoratori sono diventati
dei soggetti silenziosi. Non sono più un soggetto politico, e
dinanzi alla piena restituzione del diritto del lavoro al diritto privato devono perciò ricorrere alla disobbedienza civile, al sabotaggio. Niente più progetto: solo difesa delle poche briciole concesse nell’età della precarietà, della flessibilità, del rischio, delLa contrapposizione ferrea tra la potenza sociale disseminata nei luoghi
della devianza e il momento della generalità del potere normativo conduce a
esiti teorici molto insoddisfacenti il libro di M. Benasayag e A. Del Rey, Elogio
del conflitto, Milano, 2008.
14
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l’insicurezza e marginalità, della retribuzione inadeguata. La geocomunità per il lavoro è una prigione tutt’altro che dorata.
La geocomunità al Nord e la completa polverizzazione civica
al Sud rendono vulnerabile il paese e lo espongono al rischio del
declino. La società con troppo deboli formazioni sociali, corpi
intermedi sbiaditi si polarizza sempre più tra due estremi che
paiono entrambi ingovernabili: il ricco deviante, protagonista
rampante della gangster economy, e del conflitto di interesse strisciante, e il povero spaesato deviante anch’egli perché senza
tutele e dignità pubbliche. L’individualismo proprietario è alimentato dal deserto che si crea tra il soggetto e lo Stato, tra il
lavoratore e l’azienda. La dimensione collettiva degli interessi
sociali è la sola via per la riapertura di spazi di libertà (dal bisogno) per la persona che lavora. Un senso della generalità, e
quindi anche una attitudine alla rappresentazione nella sfera
pubblica nazionale, non può mancare nella strategia del conflitto, pena la condanna alla sua estrema irrilevanza.
Lo spazio pubblico però mestamente declina. Ad ucciderlo,
insieme alle identità calde sorte nel Novecento, non è certo una
imponderabile metafisica dello spazio, ma la sconfitta politica del
lavoro come matrice di una autonoma soggettività sociale. Questo
è il punto saliente: se non viene segnalato si finisce con il condividere la stessa ideologia oggi dominante, la credenza per la quale la
connessione astratta e oggettiva prodotta dalle cose-merci, in uno
spazio che raggiunge la velocità assoluta, non suscita, oltre al dominio, anche un legame o una connessione dei soggetti che resistono
e la forma della merce è la cifra unica dei rapporti umani. La superstizione tecnologica, che agogna un mondo finalmente neutralizzato, e il nichilismo tecnologico, che raffigura un mondo vuoto
anche di microrazionalità costruttive, sono del tutto speculari.
Una strategia ricostruttiva rispetto alle tendenze della destra
dovrebbe evitare entrambe queste celebrazioni della fine delle
alternative e dell’esaurimento di ogni temporalità. L’esperienza
del postmoderno conferma peraltro che non si definisce alcuno
spazio pubblico senza la presenza politica del lavoro quale argine
alle attuali ibridazioni di decisione e finanza, istituzioni ed economia. L’assente nelle geocomunità che raccolgono la decostruzione
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QUALE STATO
di ogni spazio sociale operata dalla nuova spazialità definita dalla
tecnica è proprio il corpo che lavora nei luoghi del postmoderno.
Il corpo che lavora e reclama diritti disfunzionali rispetto a quelli
deboli consentiti dal mercato, rappresenta un’eccedenza rispetto
alla omologazione e alle pretese neutralizzazioni compiute dalla
tecnica. La persistenza della coppia destra-sinistra nella odierna
topografia politica, ma soprattutto la sopravvivenza di un qualche
spazio pubblico, continua ad essere fortemente intrecciata al nodo
gordiano dell’autonomia politica del mondo del lavoro anche
nella età della riflessività sociale.
I giuristi parlano ormai di una transnazionalizzazione delle fonti
del diritto e invocano anche il ritorno ai meccanismi di una riregolazione efficace entro un quadro pubblicistico o statale dopo l’ebbrezza della impresa autolegislatrice e della tecnica quale unico
principio organizzativo degli spazi. Malgrado sia fondato su elementi immateriali (conoscenza, fax, posta elettronica, commercio
on-line, comunicazione, flussi finanziari), il postmoderno non libera tempo (con i cellulari e l’informatica non esiste più alcuna zona
privata, anche il tempo di non lavoro è sottratto alla disponibilità
del soggetto) e non sterilizza il conflitto per i diritti. Il lavoro
diventa più cognitivo, ma non per questo è più libero, da qui nasce
già ora per i giuslavoristi l’istanza di contratti di lavoro transnazionali. Per chi non dispone di averi, permane nella tarda modernità
la condizione rimarcata già da Hobbes: i non proprietari «non solo
devono lavorare per vivere, ma anche combattere per poter lavorare» 15. Questioni di socialismo, ossia di libertà dal mercato e dal
suo dominio pervasivo nell’età della liquidità e della tecnica del
tempo reale, domande di sicurezza dagli innumerevoli rischi che
producono esclusione, rimangono aperte.
4. Il peso politico delle classi sociali
È anche il sonno del socialismo che genera i mostri del governo
securitario e alimenta a destra i fragili miti della geocomunità.
15
T. Hobbes, Leviatano, Roma-Bari, 2001.
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PROSPERO
Certo, la tendenza della società dell’iperconsumo è quella di fare
del consumo l’unico collante sociale. Tutto l’agire sociale pare
risolversi perciò in una ricerca frenetica di sponsorizzazione e in
perenne organizzazione di eventi. Gli stessi luoghi classici di produzione del sapere, le università, entrano nel vortice del consumo. Tutte le forme di espressione, anche quelle del sapere, assumono ormai i devianti codici espressivi della pubblicità.
Depotenziato dalle metafore deformanti della neolingua della
merce, il soggetto sociale ancora manca e non si presenta sulla
scena pubblica. Una cosale configurazione viene spesso attribuita alla tecnica, dipinta come una impersonale e arcana logica
autoreferenziale che si afferma in modo inesorabile definendo
una struttura post-umana. È evidente che se lo spazio e la tecnica vengono assunti non già come momenti di un’organizzazione
sociale, e dunque dei contingenti rapporti di potere, ma come
solidi e impenetrabili cristalli che si impongono con la stessa
forza d’urto del destino, naufraga per sempre la politica come
ambito del conflitto per definire i fini collettivi. Manca oggi una
convincente radiografia dei soggetti sociali protagonisti del conflitto postmoderno sorto attorno al processo di produzione dei
beni materiali e immateriali. La nozione dei ‘senza’ (assistenza
sanitaria, permesso di soggiorno, tetto, lavoro, documenti) che
assume il compito di attaccare alla radice le strategie securitarie
del biopotere appare del tutto fragile 16. I ‘senza forma’ promossi
sul campo come ‘nuovi soggetti sociali’ in grado di resistere alle
strategie disciplinari e normative del potere appaiono come la
ormai rinvenuta ‘radice ontologica di ogni forma di creazione’.
Se davvero il mero resistere al potere equivale a scorgere soglie
critiche pronte a creare il nuovo, il conflitto perde ogni aggancio con la dimensione sociale e materiale e rigetta ogni fondazione di una normatività diversa 17. La via del contropotere non
soltanto non prevede norma (vista sempre come violenza, giogo,
Benasayag e Del Rey, op. cit.
Serve una diagnosi della società e dell’economia reale per individuare,
nelle forme concrete di esistenza, l’insorgere di interessi contrastanti. Quali
interessi far prevalere nella decisione e quali lasciare soccombere, questa è la
16
17
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azione disciplinare di un biopotere che progetta la reclusione
della devianza) ma si affida a figure troppo generiche unificate
solo da uno spirito di privazione e da un indeterminato e inappagato eccesso creativo del desiderio. Insomma manca, nel
variopinto brulicare di corpi deprivati e comunque desideranti,
proprio il corpo che lavora ed è situato in condizioni di dipendenza nella esistente divisione sociale delle funzioni.
Oltre che eminentemente sociale (nel senso che per la sua
realizzazione, la valorizzazione del capitale coinvolge ormai l’insieme della società, dalla fabbrica a rete dispersa in più paesi, ai
negozi, al credito, alla finanza, alle scuole, ai media, alle università, ai laboratori di ricerca), il capitale è oggi un immenso meccanismo unico globale e grazie alle tecnologie coinvolge spazi e
territori nei quali ristretto è lo spazio della politica. In un luogo
si produce una componente, in un altro si sfornano ulteriori
ingranaggi, in un terzo paese si assembla il prodotto. La produzione viene localizzata dove costa di meno il lavoro, il prodotto
finale con la relativa etichetta di marca dove il bene costa molto
di più.
Non c’è nulla di metafisico in tutto ciò. Il processo di produzione organizzato dal capitale come soggetto dominante, innesca
meccanismi di marginalità, di lavoro nero, sommerso e precario.
La società globale presenta i ritmi di una crescita che incrementa il potere di forti oligarchie transnazionali e non diffonde diritti ma perdita di sé, alienazione, solitudine, frammentazione. La
destra di oggi è nata dalla congiunzione tra le spinte liberiste
degli anni ’80, le imponenti ristrutturazioni tecnologiche e l’avvento di una forte globalizzazione dei mercati mondiali che ha
condotto ad un momento storico-politico caratterizzato dall’appannamento del potere sociale del lavoro 18. La ripresa del saggio
posta in gioco in ogni fenomenologia politica del conflitto reale che sempre
scaturisce dall’incrocio di azioni collettive, costruzioni giuridiche, istituzioni.
18
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta l’inflazione era una
autentica emergenza politica in Italia. Superava il 20%, in alcuni momenti. In
quegli anni, oggettivamente difficili, esistevano però dispositivi a difesa del
potere d’acquisto dei salari. Essi erano così automatici che divennero presto
oggetto di un’aspra contesa politica e sindacale per rivederli. Accusata di esse-
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di profitto è stata macroscopica nel corso degli ultimi vent’anni.
Nel 2001 la fetta della ricchezza complessiva toccata al capitale
è salita al 32,7%. Ciò vuol dire che in 15-20 anni il profitto ha
conosciuto una impressionante impennata (di 8 punti del PIL)
senza che all’ampliamento vistoso dei profitti corrispondesse una
effettiva crescita del volume degli investimenti. Di converso, il
lavoro è tornato ai livelli antecedenti la democrazia di massa e
lo Stato sociale. Sfuma rapidamente il potere contrattuale del
lavoro in un mondo che ha immesso nell’unico mercato globale
miliardi di soggetti della nuova forza lavoro e accelera l’innovazione tecnologica che rende in fretta usurate le antiche competenze dei lavoratori subordinati.
In questo quadro, di smarrimento della potenza sociale del
lavoro, l’inflazione aggiunge per anni un ulteriore colpo alle
capacità di acquisto e di consumo dei redditi da lavoro. Il profitto diventa la nuova variabile indipendente e le norme contribuiscono a proteggerne l’aura sacrale. La dissociazione tra inflazione reale (misurata peraltro con strumenti inadeguati, con un
paniere poco rappresentativo e quindi con indicatori tali da sottostimare l’incremento effettivo dei prezzi al consumo) e inflazione programmata (dal governo) è un dispositivo che assottiglia
ancor più la capacità delle retribuzioni di consumare. Per arginare un aumento del costo del lavoro (in assenza però di un
incremento del salario), le imprese entrano in una spirale competitiva tra i vari redditi monetari che incentiva la corsa al rialzo dei prezzi finali (per rimediare all’accrescimento di tasse e
contributi previdenziali). Il disagio del popolo dei 1000 euro al
mese è cresciuto anche in conseguenza di una paradossale politica che riduce l’inflazione per decreto, ovvero la dimezza d’incanto rispetto alla sua consistenza reale (per non parlare di quella percepita che è, e a ragione, di molto superiore), e rubrica le
re un acceleratore della spinta inflazionistica negativa, la scala mobile, che rapportava stipendi e pensioni all’andamento dell’inflazione, fu archiviata. Fino ai
primi anni Ottanta, la spinta politica e sindacale aveva dirottato verso il reddito da lavoro il 76% della ricchezza nazionale. Vigeva cioè una conferma
empirica alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, sceso in
effetti al 23,1%del PIL.
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spese per il mutuo (almeno la metà di uno stipendio normale)
non tra le voci di spesa che gravano sui soggetti ma tra gli investimenti speculativi.
Le retribuzioni così non recuperano affatto terreno rispetto
all’inflazione effettiva ma ne perdono a vista d’occhio, con una
media che ormai si avvicina ai tre punti annui. L’entrata in
recessione non contribuisce certo a superare il divario dei redditi. La condizione dei salari è davvero paradossale. Non crescono
più della produttività (anzi), non viaggiano alla stessa velocità
dell’inflazione. La politica contribuisce così a costruire un sistema monoclasse in cui cioè i redditi da lavoro sono indifesi rispetto all’andamento dei prezzi e hanno inoltre una debole capacità
contrattuale. La conseguenza di uno Stato che torna ad essere
monoclasse (e fa ricadere sui salari gli oneri della competizione
internazionale, dell’incremento dei prezzi delle materie prime) è
quella di soffocare la domanda interna, alla faccia del mito del
consumatore finale, e di bloccare la stessa crescita del PIL. Ci
sono le condizioni per costruire una diversa coalizione degli
interessi in grado di spezzare quella organizzata dalla destra attorno a impresa e comunitarismo etico.
Si può interrompere la metamorfosi del berlusconismo da
insidioso movimento a durevole regime che controlla tutti i
media (potere, diritto, cultura, economia) della società complessa? Elementi di resistenza ci sono ancora. Accanto ai fisiologici elementi di differenziazione o rallentamento del potere
(Quirinale, Corte costituzionale, magistratura), esiste una articolazione istituzionale accentuata (Comuni, Regioni), una polifonia dei soggetti del pluralismo sociale (movimenti d’opinione,
sindacati, associazioni). Queste sedi di differenziazione tuttavia
non esauriscono il problema. Centrale è la questione del consenso sociale della destra. Proprio su questo terreno del consenso sociale si gioca la partita più ardua, quella decisiva. Tutta l’impalcatura ideologica e materiale della destra ha infatti un buco
nero che può essere fatale per la sua istituzionalizzazione: il fallimento reiterato del suo mito di diffondere rapida ricchezza e
facili miracoli economici. Se il cammino verso il regime si interromperà sarà soprattutto perché del tutto illusorio si rivelerà
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(per ampi ceti sociali) il progetto di costruire sugli specifici interessi della sterminata neoborghesia (subito ripagata dal governo
con norme che si sbarazzano della tracciabilità degli assegni) un
blocco nazionale-populista attorno a valori identitari aggressivi
(divisa, paura, sicurezza).
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