Presentazione
Il professor Garfinkel è un uomo pericoloso.
(Holton, , p. )
Il termine “etnometodologia” è una presenza abbastanza recente ma
ormai consolidata nel panorama degli studi sociologici. Molto è stato
scritto sull’etnometodologia, ma relativamente pochi studi di etnometodologia sono stati pubblicati. Questo è un libro introduttivo sull’etnometodologia che vuole invitare a fare etnometodologia.
Dare una definizione dell’etnometodologia in poche parole è un
compito difficile, ma aiuta a orientare subito il lettore. In via del tutto
provvisoria si può dire che «l’etnometodologia è un campo della sociologia che studia le risorse, le pratiche e le procedure di senso comune
attraverso le quali i membri di una cultura producono e riconoscono
oggetti, eventi e corsi d’azione in modo mutualmente intellegibile»
(Heritage, , p. ). Un’altra definizione dice che l’«etnometodologia è lo studio dei metodi che la gente usa per produrre ordini sociali
riconoscibili» (Rawls, , p. ) .
“Etnometodologia” dunque per prima cosa non designa un “metodo” di ricerca sociale, come possono esserlo l’osservazione partecipan-
. Il padre fondatore dell’etnometodologia, Harold Garfinkel, si è preso spesso gioco
di questa ansia definitoria. Una volta ha posto la questione in questi termini: «qualcuno
può farsi avanti e dirmi: “Bene, devo prendere quell’aereo. Non ho tempo. Posso morire
nel giro di mezz’ora su quell’aereo. Adesso dimmi tutto quello che bisogna conoscere per
sapere che cos’è etnometodologia”». La risposta di Garfinkel è questa: «sono interessato
a come la società sta assieme; come fa a stare assieme; quali sono le strutture delle attività
quotidiane» (Garfinkel, in Hill, Crittenden, , p. ). Garfinkel (, p. ) racconta poi
con ironia un episodio ricorrente che accade alle riunioni annuali dell’American
Sociological Association. Garfinkel sta aspettando l’ascensore. Finalmente l’ascensore
arriva, si apre la porta e dentro c’è un collega. Saluti cordiali: «Oh, ciao Harold!», «Ciao!».
Garfinkel entra, e subito dopo arriva LA DOMANDA: «Hey, Harold, ma, insomma, che cos’è
l’etnometodologia?». Le porte dell’ascensore si chiudono inesorabilmente. Bisogna arrivare al nono piano. Garfinkel sta un po’ in silenzio, poi risponde: «L’etnometodologia si
occupa di questioni veramente assurde». Prima che qualcuno possa aggiungere ancora
qualcosa, le porte dell’ascensore finalmente si aprono e lasciano libero Garfinkel di andar
via. Nel nostro caso le porte rimangono chiuse per quattro capitoli.

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te, l’etnografia, l’intervista. Il termine “etnometodologia” si riferisce
invece a un preciso fenomeno sociale, che deve diventare oggetto di analisi, prima ancora di designare (come seconda accezione del termine) un
orientamento di ricerca, non proprio una “scuola”, all’interno della tradizione sociologica. Questo libro è una introduzione allo studio dell’oggetto dell’indagine etnometodologica, vale a dire lo studio delle attività ordinarie. Le attività ordinarie sono tutte quelle operazioni, che in
larga misura non ricadono sotto il nostro controllo cosciente, che compiamo in mezzo agli altri, con gli altri, per gli altri e che dimostrano a
tutti quelli che vi assistono la nostra assoluta appartenenza alla società.
L’etnometodologia è una invenzione del sociologo americano
Harold Garfinkel. Garfinkel è nato a Newark (New Jersey) il  ottobre
 . Ha studiato all’università di Newark (), poi all’università
della North Carolina, dove ha ottenuto il MA nel , sotto la guida di
James Fleming e di Howard W. Odum, fondatore della rivista “Social
Forces” e autore di vari volumi e ricerche sulle relazioni etniche e razziali negli Stati Uniti. Gli anni passati all’università della North Carolina
furono molto importanti per la formazione di Garfinkel. In quel periodo Garfinkel è stato anche autore di un racconto letterario di un certo
successo, intitolato Color troubles (Garfinkel, ) che ha per oggetto
proprio un caso di discriminazione razziale . Garfinkel poi pubblicherà il suo primo articolo scientifico, tratto dalla tesi di Master (Garfinkel,
), proprio sulla rivista di Odum. Garfinkel è stato poi allievo di
Talcott Parsons ad Harvard dal  al , dove Parsons era il direttore di quella ambiziosa impresa interdisciplinare, il Department of Social
Relations, fondato nel  da un gruppo di docenti di chiara fama, a
cui contribuivano discipline come la sociologia, la psicologia sociale, la
psicologia clinica, l’antropologia sociale. Garfinkel durante i suoi studi
di dottorato ad Harvard ha avuto una breve parentesi di insegnamento
(due anni) a Princeton. Ha poi ottenuto il PHD ad Harvard nel  discutendo una tesi dal titolo The Perception of Other: A Study in Social
Order (Garfinkel, ). Oltre a Parsons, nella tesi di dottorato sono ringraziati altri personaggi del Department of Social Relations, come
Frederick Mosteller, Samuel A. Stouffer (che ad Harvard dirigeva il
. Le informazioni sulla biografia di Garfinkel vengono in buona parte da Dout
() e da Rawls ().
. A una ragazza nera viene impedito di sedere nei posti anteriori di un autobus pubblico nello stato della Virginia. Si tratta di un caso, se vogliamo, di “ordinaria discriminazione razziale”. Per un’analisi, che però soffre troppo di un’“illusione retrospettiva”,
di questa prova letteraria di Garfinkel, cfr. Doubt ().

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Laboratory of Social Relations) e Robert F. Bales. Durante il periodo di
Harvard Garfinkel ha frequenti scambi sia faccia a faccia che epistolari
con Alfred Schutz (che insegnava alla New School for Social Research
di New York) e con Aron Gurwitsch (che era alla Brandeis University).
Una volta ottenuto il PHD, Garfinkel ha poi lavorato con un contratto
biennale (-) all’università dell’Ohio, chiamato da Kurt Wolff,
prima di essere chiamato da Fred Strodbeck, antico compagno di
Harvard, a Wichita, a lavorare con Saul Mendlowitz a un progetto di
ricerca sui giurati di un processo (Garfinkel, e). Durante questa
ricerca Garfinkel intravede propriamente la possibilità di individuare
un nuovo oggetto di studio che chiama gli “etnometodi”. È qui che
nasce il nome di “etnometodologia”, come vedremo meglio nel primo
capitolo. Garfinkel dal  ha poi cominciato un lungo periodo di lavoro, di ricerca e di insegnamento all’università della California, Los
Angeles (UCLA), dove ha tenuto per più di trent’anni il corso intitolato
Sociology : Topics in the Problems of Social Order. Garfinkel ha formalmente smesso di insegnare nel  e attualmente è Professor
Emeritus. L’unica fotografia pubblicata di Garfinkel è quella comparsa
sulla rivista “Sociétés” nel  .
Abbiamo detto che l’etnometodologia non è mai stata una “scuola”,
non ha mai espresso un programma di ricerca unico e monolitico.
L’etnometodologia è più di un metodo o di una teoria condivisa, è piuttosto un “atteggiamento” (Lynch, , p. ), a cui si sono ispirati
diverse generazioni di ricercatori , almeno cinque fino ad oggi, nei
campi più diversi del sapere pratico. Con Garfinkel all’UCLA tra la fine
degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta ha lavorato Aaron
Cicourel, che poi a partire dagli anni settanta ha dato vita all’università
di San Diego a un approccio autonomo e diverso dall’etnometodologia,
conosciuto come “sociologia cognitiva” . Oltre a Los Angeles, l’università di Berkeley, dove insegnava Goffman, è stata un altro centro importante di formazione di futuri etnometodologi, tra i quali Harvey Sacks.
All’inizio degli anni settanta un forte impulso alle ricerche orientate
all’etnometodologia si è avuta in Gran Bretagna, con centro soprattutto
a Manchester. Molta attenzione verso l’etnometodologia si è inoltre
mostrata in Germania e soprattutto in Francia. Attualmente negli Stati
. “Sociétés”, I, , , p. . Altre (poche) immagini sono presenti in alcuni siti
Internet.
. A cui Garfinkel si riferisce come a una “compagnia di bastardi” e di “geni”.
. In generale per una “storia” del movimento etnometodologico si possono consultare almeno Mullins (); Flynn (, pp. -); Coulon (, pp. -).

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Uniti Boston e Indiana sono altri due punti di riferimento per questo
tipo di ricerche, oltre all’UCLA . In Italia l’etnometodologia è stata introdotta da Pier Paolo Giglioli, che già nel  aveva fatto pubblicare dalla
“Rassegna italiana di sociologia” un lavoro di Cicourel ; Giglioli e Dal
Lago () poi saranno curatori dell’unica antologia che esiste in lingua
italiana sull’etnometodologia.
Come dice Pollner (, p. ),
l’etnometodologia si è ormai sistemata nella periferia sociologica. Ci sono segni
di riconoscimento, di accettazione e anche di benvenuto da parte dei vicini.
[…] Per la verità pochi vorrebbero per i loro figli un matrimonio con un etnometodologo, ancora di meno quelli che ambiscono a farli diventare etnometodologi – e difficilmente ne assumono uno. Fatto sta che la sociologia ora riconosce e comincia a incorporare i contributi di quelli che una volta erano considerati i paria.
Chriss () ha confermato con una indagine bibliometrica in tre importanti riviste americane di sociologia l’ipotesi di Gouldner () secondo
la quale l’influenza del funzionalismo di Parsons sarebbe diminuita nel
tempo, a favore di altre correnti di pensiero, tra le quali l’etnometodologia di Garfinkel. A una ricognizione molto veloce dei “Sociological
Abstracts” dal  al n.  del , risulta che ci sono . articoli che
nel subject riportano “ethnomethodology” (contro i ., per esempio,
che sempre nel subject riportano “symbolic interactionism”). Di questi,
solo  compaiono nel periodo che va dal  al  (venti anni: il
libro di Garfinkel, Studies in Ethnomethodology, è stato pubblicato nel
), mentre il resto, ben . articoli, compaiono nel periodo dal 
al giugno  ( anni). Come si può vedere, l’etnometodologia ha
superato la fase eroica degli inizi e si è oramai ricavata un suo spazio di
legittimità sempre più riconosciuto nelle scienze sociali . Eppure molti
fraintendimenti ancora impediscono di cogliere gli aspetti innovativi e
peculiari di questo approccio. Questa introduzione cerca di metterli in
rilievo.
In questo libro non presento sistematicamente genealogie intellet-
. Oltre a Garfinkel, Professor Emeritus, al dipartimento di Sociologia di Los Angeles
attualmente insegnano Melvin Pollner, John Heritage, Manny Schegloff.
. Cicourel (), poi ripubblicato come secondo capitolo in Id. (). Giglioli ha
continuato a occuparsi di etnometodologia in altri scritti: Giglioli (, ); Dal Lago,
Giglioli ().
. Nel  è stata costituita la sezione “Etnometodologia/analisi della conversazione” dell’American Sociological Association.

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tuali dell’etnometodologia (Parsons, Schutz, la fenomenologia) e non
faccio opera di commemorazione. Non è mio interesse far rilevare la
grande differenza (o invece la perfetta armonia o qualcosa di intermedio) dell’etnometodologia rispetto al modo di procedere della sociologia classica tradizionale . Tralascio anche di delineare precisamente le
eventuali differenze che possono rilevarsi tra un “primo” e un “secondo” Garfinkel. Anche la differenza, più volte affermata, dell’impresa
della conversation analysis rispetto all’etnometodologia appare qui piuttosto in secondo piano. La ragione non è quella di fare il pompiere, né
il mio intento è quello di fare della filologia. Vorrei invece presentare i
problemi concreti nel modo in cui ce li ha posti il modo di pensare dell’etnometodologia. Il mio auspicio è che si possa parlare di “mele e
pere”, non di “cavoli a merenda”. Le eventuali differenze spero emergano nel mezzo delle cose stesse.
Questo libro vuole essere sostanzialmente una introduzione, intesa
come una guida per cercare di rendere più agevole e meno confusa la
lettura e la comprensione del lavoro e delle ricerche etnometodologiche. Di sicuro vi è una lista di difficoltà per chi si appresta a leggere
Garfinkel nell’originale . Non intendo con questo sciogliere le ambiguità, che continuano a persistere: ma almeno vorrei stabilire quali sono
i termini della questione. Tra coloro che hanno cercato di parlare dell’etnometodologia spesso non c’è accordo non solo su quello che l’et-
. I rapporti di Garfinkel con i classici della sociologia sono intensi. Garfinkel ha
ottenuto il suo PHD ad Harvard sotto la guida di Parsons. Con lui ha ripercorso quelle
che sono le fondamenta concettuali ed epistemologiche della disciplina attraverso le
opere fondamentali di Durkheim e Weber. La tesi di dottorato (Garfinkel, ) è una
rilettura profonda e critica del lavoro di Parsons, così come è espresso soprattutto (ma
non solo) nella Struttura dell’azione sociale (Parsons, ; cfr. Garfinkel, ). La
Struttura dell’azione sociale viene definito da Garfinkel un magnifico libro (letteralmente: «wonderful book», Garfinkel, , p. ). A partire da quel testo l’etnometodologia di
Garfinkel intraprende il compito di rispecificare la produzione e la spiegazione della
società quotidiana. Si può dire, come afferma Button, che «l’etnometodologia sia, in
parte, il prodotto del problema di Garfinkel di operazionalizzare la teoria dell’azione
sociale di Parsons in circostanze situate di azione» (Button, , p. XI). In breve, possiamo dire, sostiene Button, che mentre «per Parsons (e le scienze sociali e umane), che
cosa sia l’ordine e la società può essere specificato solo con le pratiche delle scienze
umane», Garfinkel, al contrario, «rispecifica questioni come l’ordine e la società nei dettagli del loro funzionamento» (Button, , p. ). Sui rapporti tra etnometodologia e teoria sociale cfr. anche Hama (); Hilbert (a, ); Lynch (); Rawls (a);
Sharrock, Watson (); Wilson, Zimmerman ().
. «Quando lo si incontra per la prima volta, per la verità anche quando lo si incontra in seguito, Garfinkel può sorprenderci, frustrarci, renderci perplessi» (Frank, ,
p. ).

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nometodologia è, ma neanche su quello che l’etnometodologia non è .
Avverto dunque subito che questa è una introduzione all’etnometodologia “per come la intendo io” e che questa cautela è molto meno ovvia
di quanto si potrebbe pensare. In ogni caso, dico subito che secondo me
l’etnometodologia non è né una sociologia interpretativa, né una sociologia cognitiva, né una sociologia costruttivista; non appartiene al versante “micro” della ricerca sociale, né rappresenta una forma di “sociologia qualitativa”. Inoltre, mi sento di essere d’accordo con quanto è
stato detto a proposito del fatto che
l’etnometodologia non fornisce nessuna prospettiva immediata per risolvere
qualche problema sociale, favorire il cambiamento radicale, rettificare gli errori del senso comune, ottenere un punto di vista panoramico di come la biografia possa essere collegata alla storia (Lynch, , p. ).
Nel corso dei vari capitoli cercherò di chiarire queste affermazioni.
I capitoli del libro sono quattro. Nel primo capitolo presento alcuni
concetti fondamentali dell’etnometodologia, la prima base teorica di
partenza con la quale l’etnometodologia ha affrontato lo studio delle
attività ordinarie. Nel secondo capitolo presento alcune delle ricerche
etnometodologiche sulle pratiche di categorizzazione dei membri e
delle organizzazioni. Il terzo capitolo è dedicato a presentare lo studio
dell’interazione parlata come un ambito delle attività ordinarie. Nel
quarto capitolo presento il contributo dell’etnometodologia nell’analisi
dei contesti di lavoro, delle organizzazioni e della scienza.
Tra i compiti che svolge una “introduzione” vi sono senz’altro almeno una esposizione, una discussione e una critica. Per quanto mi riguarda, penso di aver soddisfatto soprattutto ai primi due compiti, meno al
terzo. Avverto dunque che questo libro non è una critica dell’etnome-
. Vari libri sono stati scritti per introdurre l’etnometodologia: Mehan, Wood
(a); Leiter (); Handel (); Benson, Hughes (); Heritage (); Sharrock,
Anderson (); Livingston (); la raccolta di saggi a cura di Button (); Flynn
(); Hilbert (a); Lynch (). Tra gli articoli di presentazione generale segnalo:
Zimmerman, Wieder (); Mehan, Wood (a, b, ); Zimmerman (, );
Dingwall (); Peyrot (); Heritage (a, b, ); Zimmerman (); JulesRosette (); Sharrock (, ); Rawls (a, ); Boden (a); Maynard,
Clayman (); Lynch, Peyrot (); Francis, Sharrock (); Relieu (); Clayman
(); Firth (); Clayman, Maynard (); Maynard (); Watson (). In francese si possono consultare i libri di Widmer () e di Coulon (). In italiano, oltre ai
lavori di Giglioli citati in precedenza, si possono vedere Wolf (, pp. -); Madella
(); Sparti (); Nicotera (); Marcarino (); Muzzetto (); Franceschini
(); Ruggerone (, , ).

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todologia; la mia è piuttosto una posizione simpatetica. Inoltre, l’esposizione e la discussione che presento in queste pagine non intende affatto sostituire la lettura degli originali. Non voglio togliere il piacere e la
fatica di leggere personalmente i testi e le fonti, a cui anzi rimando con
forza. Considero questa introduzione come una sorta di targum, una
esposizione in prosa, che come per i libri biblici è un elemento sussidiario che non intende sostituirsi ai “sacri testi” ma intende solo aiutare e agevolare la comprensione. Infine, vorrei che questa introduzione
fosse un invito non solo a leggere, ma a fare concretamente ricerca: del
resto, come dice Garfinkel (, p. ), «l’etnometodologia è etnometodologia applicata».
Ringrazio Pier Paolo Giglioli, Isacco Turina, Isabella Paoletti e Davide
Sparti per le osservazioni puntuali e i suggerimenti che mi hanno dato
su versioni provvisorie di varie parti del libro.
Questo libro era in una fase finale di scrittura e revisione quando è arrivata la notizia inattesa della morte di Dede Boden. Questo libro è dedicato a Dede.
