Interpretare la neourbanità Università di Bologna Corso di laurea in

Interpretare la neourbanità
Università di Bologna
Corso di laurea in scienze geografiche
20 maggio 2009
Per una politica delle città
(Chiara Sebastiani, Università di Bologna)
Scopo di questo intervento è quello di offrire a quanti si occupano di città da diversi punti di
vista – quello dell’architettura e dell’urbanistica, delle scienze geografiche e del territorio, delle
scienze umane e sociali – un’ulteriore prospettiva da integrare nello studio della città: quella della
sua dimensione politica.1
1.La dimensione politica della città: da recuperare.
Quando parliamo di “politica delle città” vogliamo mettere l’accento su un contenuto
diverso da quello incorporato in espressioni apparentemente sinonime, quali “politica della città”
(quella che i francesi chiamano la politique de la ville), o “politiche urbane”. Nella prima
espressione la città si configura come oggetto di politiche pubbliche; nella seconda espressione tali
politiche si intendono prevalentemente limitate alle questioni di “assetto del territorio”. “Politica
delle città” è invece da intendersi come l’agire di un soggetto, anzi di una pluralità di soggetti
politici quali sono oggi (nuovamente) le città.
Al soggetto politico per eccellenza della modernità – lo stato – vengono attribuite tre
dimensioni costitutive: quella del territorio, quella della popolazione e quella della sovranità.
Ebbene, possiamo oggi riconoscere alla città tre dimensioni analoghe: esse incorporano un
territorio, da una popolazione di cittadini (la civitas), e – se non la sovranità – la capacità di
configurarsi come attore politico unitario nelle relazioni orizzontali e verticali con altre istituzioni e
altri soggetti politici.
La teoria politica individua poi, accanto alla dimensione strutturale del politico, una
dimensione dell’agire politico identificato, nell’ottica prevalente come esercizio del potere ma più
anticamente, cioè da Aristotile, inteso come capacità di agire collettivo per il bene comune (Arendt
1958). Ebbene, anche questi due aspetti appartengono oggi all’agire delle città.
Pensare e studiare la città, oggi, significa quindi recuperare la consapevolezza, ed insieme il
lessico, i concetti e i contenuti che possano dar conto di questa intrinseca politicità delle città. E’
quanto si cerca di fare qui, attraverso una serie di parole-chiave.
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Riprendo qui una serie di temi che ho sviluppato nel volume La politica delle città (Il Mulino, 2007).
2.Il rapporto tra “urbs” e “civitas”: da integrare.
Dai Romani abbiamo ereditato la distinzione tra urbs (termine di origine presumibilmente
etrusca) e civitas. Il primo termine designa la forma fisica, materiale e anche culturale della città:
quegli aspetti a cui rinvia non solo la nozione di “urbanistica” ma anche quella di “urbano”
nell’accezione già presente nel latino urbanus, “della città”, da cui “fine, raffinato” (Benveniste
1969). Il secondo il secondo designa l’insieme dei cittadini (civis) come associazione costitutiva
della civitas communis, la cittadinanza in quanto comunità costituita su base associativa. In un certo
senso sono i cittadini che costituiscono la città.
Se riduciamo urbs e civitas a “territorio” e “abitanti” riduciamo la città a unità
amministrativa. In un certo senso, è naturalmente proprio questo che è avvenuto con i processi di
formazione dei moderni stati-nazione in Europa. Ma in modi diversi, con tempi diversi da stato a
stato, e soprattutto fino a un certo punto..In Europa (continentale) le città hanno sempre mantenuto
in qualche misura, nella forma fisica, nei riconoscimenti giuridici e in quell’insime di tradizioni
culturali e pratiche condivise che vanno sotto il nome di “capitale sociale” la memoria e le tracce di
quella “tradizione civica” propria dei liberi comuni medievali (Putnam 1993). Hanno mantenuto
una dimensione politica il cui fulcro è costituito dal “comune” che ritroviamo in tutta Europa come
istituzione politica che si governa con organi eletti a suffragio universale e “cellula base della
democrazia”. Nello scenario disegnato dai processi di globalizzazione e di unificazione europea il
tenore di politicità delle città si trova rafforzato e insieme sottoposto ad una serie di tensioni tra la
dimensione politica e quella amministrativa.
Il primo elemento di tensione sta nel rapporto tra l’idea di “città” – un concetto privo di
riconoscimenti giuridici formali e istituzionali – e la realtà odierna del “comune” come entità
amministrativa. Tale tensione si manifesta intorno al concetto squisitamente politico di “confine”. I
confini dello stato sono certi (e “sacri”), difendibili con l’uso della “violenza legittima”. I confini
della città sono mobili, incerti, transeunti. Le architetture istituzionali e amministrative nella
migliore delle ipotesi si affannano a rincorrere lo sviluppo delle città e a riflettere, nella città
“legale”, l’esperienza urbana della città “reale”; nella peggiore delle ipotesi seguono logiche
razionalizzatrici o logiche di interessi del tutto avulsi da tale esperienza. Ciò avviene in quanto la
città non è solo urbs, ovvero sviluppo di edifici e infrastrutture, ma anche civitas, tessuto formato
dalle pratiche e dalle rappresentazioni dei suoi abitanti.
Il secondo elemento di tensione si dà nella relazione tra l’appartenenza territoriale come
fonte di diritti (entitlements) politici e sociali mediati dal concetto amministrativo di “residenza” e
la concreta esperienza dell’urbano di gruppi e popolazioni fatti di nativi e migranti, stabili e
provvisori, che praticano lo spazio urbano secondo diverse modalità di intenti e sono portatori di
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diverse rappresentazioni di esso (luogo di abitazione, di lavoro, di divertimento, di conoscenza, di
espereinze culturali, sociali ed estetiche), ed i cui entitlements si combianano variamente con altri
derivanti da altre appartenenze (nazionali, europee, extracomunitarie) e da una varietà di stati
giuridici che nella nostra civiltà sono certificati da documenti amministrativi lungo un continuum
che va da un massimo di diritti (“cittadinanza” – nazionale, europea) a diritti più deboli e precari
(“permessi” – di soggiorno, lavoro, ecc.) fino alla loro assenza totale nel caso in cui un individuo
non abbia nemmeno uno straccio di documento (il “sans papiers”, appunto). Le città si confrontano
oggi con il compito squisitamente politico di definire e concedere una vastissima gamma di concreti
diritti (alla casa, l’incolumità personale e dei beni, le cure mediche, l’istruzione di base, l’accesso
allo spazio pubblico, la libertà religiosa) ad una molteplicità di popolazioni portatrici di entitlements
diversificati. Si misurano cioè con il compito quotidiano di definire legalmente la civitas nella
cornice dell’urbs che status legale non possiede.
Il terzo elemento di tensione sta nella rappresentazione della città come “territorio” e la sua
rappresentazione come “spazio”. Il concetto politico di “territorio” mutuato dalla definizione dello
stato è concetto bidimensionale: la superficie e i confini che la delimitano sono condizioni
necessarie e sufficenti a configurare uno degli elementi definitori dello stato. Il territorio che
definisce la città (l’urbs) incorpora invece anche un terza dimensione, quella dei volumi, dei pieni e
dei vuoti, degli usi pubblici e privati e della loro definizione istituzionale: esso è, propriamente,
“spazio”. Il diritto delle città non è solo diritto del territorio ma diritto dello spazio, nella sua
dimensione, estetica, relazionale, di patrimonio collettivo e simbolico. O meglio, dovrebbe essere
“diritto dello spazio” – diritto dell’ordine visuale, diritto dell’ordine simbolico, diritto dell’ordine
delle relazioni sociali – ma di fatto il territorio urbano viene trattato perlopiù come una sequenza di
diritti di superficie, ignorando largamente il carattere costitutivo che assume per la città lo spazio in
quanto concetto tridimensionale.
3La teoria politica della città: da ricostruire.
L’integrazione di queste dimensioni richiede il misurarsi con la ricostruzione di una teoria
politica della città. Mentre infatti “città” è parola chiave del pensiero politico occidentale
nell’antichità e nel Medio Evo, il concetto è successivamentre pressoché scomparso dalla teoria
politica. Nel pensiero del Novecento una vera e propria teoria politica della città si trova soltanto
nel saggio di Max Weber sulla città occidentale (1920), incentrato sul comune medievale come
“Tipologia del potere non legittimo” e in quello di Hannah Arendt centrato sull’esperienza della
polis greca e del suo modo di intendere l’agire politico come paradigma della vita activa e della
costituzione di senso della condizione umana. Se per Weber il carattere politico della città
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occidentale è radicato nell’origine del libero comune in un atto di “usurpazione” del potere signorile
che inzia con il “giuramento di affratellamento dei cittadini in armi” (la coniuratio) – e quindi in
una nascita del potere “dal basso” diremmo oggi – per la Arendt l’atto politico per eccellenza come
lo intendevano i Greci era il raduno dei cittadini la cui cerchia costituisce quello spazio pubblico a
cui la polis si limita a dare stabilità nel tempo con la sua forma fisica: le mura che la circondano e
l’agorà al centro.
Al di fuori di questi due autori, l’oggetto città si è venuto frantumando in una serie di
discipline accademiche che ne hanno esplorato aspetti parziali: la sociologia ha esplorato la
stratificazione, il potere e il conflitto sociale, le scienze del territorio si sono occupate della forma
urbis, più tardi le scienze politiche, staccatesi dalla matrice sociologica e affrancatesi dalla
tradizione giuridica ne hanno messo a fuoco le architetture istituzionali e le modalità di governo e di
produzione delle politiche pubbliche, mentre la tradizione giuridico-amministrativa continua ad
esercitare la sua influenza sullo studio del governo locale nonché su quello dell’urbanistica che non
dispone in Italia di una vera e propria tradizione di town planning. Vanno inoltre ricordati gli studi
storici i quali, avendo per oggetto la città dei tempi della sua autonomia politica, presentano un
carattere di sorprendente attualità per comprendere la città di oggi, ed hanno ispirato studi come
quello di Pichierri (1997) sulle Lega anseatica, mentre il filone di studi sulle città nella
globalizzazione si concentra essenzialmente sulla dimensione economica e sociale (Sassen). .
Solo recentemente, e in connessione con i processi di globalizzazione, di integrazione
europea e di decentramento che tutti hanno contribuito all’indebolimento dello stato-nazione come
soggetto politico per eccellenza, una serie di studi si sono orientati ad integrare le dimensioni
dell’urbs e della civitas con elementi più specificamente politici. Il richiamo più esplicito alla
dimensione politica della città è collegato allo studio delle relazioni esterne, “intergovernative” e
interistituzionali: si è incominciato a teorizzare l’esistenza di una “politica estera delle città” e di
una “paradiplomazia” o “diplomazia dal basso”. Per quanto riguarda le relazioni interne alla città,
invece, la dimensione politica emerge dagli studi dedicati alla questione della “democrazia urbana”,
ovvero dei nuovi termini in cui si configura la partecipazione dei cittadini al governo della città
attraverso forme di “pubblica deliberazione” e di “democrazia diretta”
In questo contesto.si sono avuti – a livello empirico piuttosto che a livello di riflessione
teorica – degli sviluppi in direzione di una integrazione dei contenuti dei due grandi settori che
tradizionalmente caratterizzano l’autogoverno urbano, ovvero quello dell’assetto del territorio e
quello delle politiche sociali. Mentre infatti le scienze urbanistiche e quelle politiche faticano ancora
alquanto a dialogare tra di loro, ciascuna arroccata nei propri linguaggi e rinunciando a confrontarsi
con quello che viene percepito rispettivamente come un incomunicabile prevalere di contenuti
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tecnici o di astrazioni formali, parallellamente si sono andate sviluppando forme di partecipazione
dei cittadini diverse da quelle tradizionali che si reggevano sui due pilastri dell’esercizio del voto e
della vita partitica. Ambedue questi sviluppi, peraltro, per quanto nuovi nel contesto dell’Europa
continentale, riflettono istituzioni e pratiche da tempo e storicamente radicate nei paesi a tradizione
anglo-sassone e la loro importazione nel contesto continentale è stata largamente il prodotto dei
processi di integrazione europea. Questo processo di importazione ha portato ad una rapida
diffusione non solo di pratiche ma di concetti e lessici radicati in quella tradizione ma la mancata
costituzione di una teoria politica della città – e quindi di un’analisi della “politica delle città” – ha
finito per ingenerare insieme una confusione concettuale e un’adesione acritica a determinati
modelli la cui efficacia si dispiega al meglio in un ben diverso contesto istituzionale e culturale.
Due punti in particolare evidenziano queste carenze: da un lato il dialogo ancora difficile tra
scienze politiche e discipline urbanistiche, dall’altro una teoria del potere e dell’agire politico
riferite alla città come soggetto politico. Da qui scaturiscono alcuni nodi il cui chiarimento può dar
conto dei modi concreti di funzionamento della città come polis e di alcuni suoi aspetti
problematici.
4.La città come polis: i modi di esercizio del potere.
Agire politico, secondo le definizioni correnti, significa esercizio del potere (o lotta per la
conquista del potere). Tre modalità caratterizzano l’esercizio del potere politico da parte delle città,
differenziandolo da quello dello stato.
In primo luogo, le città esercitano al contempo funzioni politiche proprie e funzioni
amministrative delegate. Per quanto nelle modalità di esercizio concreto della funzione di governo
attività politica e amministrativa siano così strettamente intrecciate da renbdere illusoria la
distinzione delle funzioni (come purtroppo pretende di fare il nostro ordinamento riformato del
governo locale con esiti che vanno più in direzione dell’ambiguità che della trasparenza e
dell’efficienza) è tuttavia fondamentale ricordare che alla base dell’agire politico si dà la legittimità
che in democrazia deriva dalla rappresentanza elettiva. Un ampio decentramento di compiti
amministrativi – come è avvenuto negli ultimi anni, in particolare in materia di welfare – non va
confuso con il decentramento politico, per esempio con la capacità di scegliere i contenuti minimi e
irrinunciabili dei diritti di cittadinanza locale. A fronte del crescente processo di “iperlocalizzazione
del sociale” – vale a dire del compito di cui si sono trovate investite le città di fronteggiare la vasta
gamma di disuguaglianze, disagi e conflitti sociali a cui lo stato non riesce più a far fronte – le città
hanno risposto con molteplici forme di bricolage istituzionale, ovvero dando risposte differenziate e
frammentarie per via amministrativa e pattizia (inn particoloare con il terzo settore). Caratteristica è
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la grande gamma di modalità con cui viene data risposta al nuovo quadro sociale che si configura
con i processi migratori, mentre i tentativi di dare un risposta politica attraverso la concessione del
voto agli immigrati si sono infranti contro i pareri negativi del Consiglio di stato.
In secondo luogo, mentre lo stato si avvale, per l’esercizio del potere, dello strumento
principe della legge, questo non vale per le città. Dalla legge esse ricevono da un lato
riconoscimenti giuridici formali, a cominciare da quelli iscritti, in alcuni paesi come l’Italia ma non
in tutti, nella Costituzione. La legge rappresenta in questo caso il fondamento e la tutela delle
prerogative politiche delle città. ma la legge rappresenta anche la cornice entro la quale le città
debbono esercitare la loro azione di governo: in questo senso essa costituisce altresì un sistema di
vincoli formali. E’ tuttavia un errore ridurre l’agire politico delle città al quadro delineato dalle
tutele e dai vincoli legali. Innanzitutto la capacità di influenza politica delle città dipende anche da
altri fattori: le relazioni che intrattiene con altri livelli di governo, i caratteri delle elites urbane, la
capacità di creare reti a livello nazionale e transnazionale, le opportunità di reperire risorse extrafiscali. In altri termini, status legale e status politico delle città non vanno necessariamente di pari
passo (Bobbio 2002). Inoltre l’agire politico non si limita al rispetto delle prescrizioni e dei vincoli
di legge: le città sono venute scoprendo che, in molti casi, esse possono fare altresì tutto ciò che la
legge non vieta.
Le città sono venute così esplicitando, portando alla luce, e proponendo come modalità di
esercizio del potere, cioè di governo, tutti quei processi di consultazione, mobilitazione,
facilitazione, incentivazione e negoziazione tra attori sociali e istituzionali che da sempre sono insiti
nel processo di produzione di politiche pubbliche. Tali processi sono stati potenziati e talvolta
istituzionalizzati (si pensi alla cosiddetta “pianificazione strategica”). Insomma il processo di
“governance”, da concetto descrittivo delle modalità concrete di esercizio del potere, è venuto
acquisendo man mano un significato più normativo, ovvero quello di modalità “buona” di governo,
contrapposta a modalità rigidamente limitate alle prescrizioni e ai vincoli formali e istituzionali.
L’entusiasmo per la “governance” ha tuttavia finito per lasciare in ombra gli aspetti più
problematici di questa forma di governo: l’inevitabile privilegiamento delgli attori più forti,
l’indebolimento della funzione inclusiva della rappresentanza democratica, le distorisioni
equamente attribuibili alla carenza dei processi comunicativi e all’influenza di quelli mediatici.
Particolarmente problematica si configura, in questo contesto, la questione della
“partecipazione” dei cittadini alla produzione di politiche pubbliche. Teoricamente, le nuove forme
di partecipazione alla produzione di politiche pubbliche e ai processi decsionali, non iscritte nelle
procedure formali (quali il voto o il referendum) andrebbero iscritte nel concetto di governance
sopra definito, cioè in un sistema di mobilitazione, ascolto, accordi basati su libere pattuizioni
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secondo procedure che si richiamano a quelle antiche della democrazia “diretta” e “deliberativa”. Di
fatto, vediamo come, a livello empirico, il concetto di “partecipazione” si sia venuto divaricando da
quello di “governance”. Possiamo dire che la metafora del primo è quella del “percorso” messo a
punto dalle istituzioni per sollecitare un contributo “dal basso” al processo decisionale, entro limiti,
vincoli e procedure stabiliti “dall’alto”, mentre la metafora del secondo è quella del “tavolo” a cui si
partecipa per inviti, tanto più pressanti quanto più gli attori dispongano di risorse in cui primeggiano
quelle economiche. Nel primo caso si partecipa prevalentemente come individui mentre nel secondo
siedono soprattutto attori collettivi – e se non vi è dubbio che in base al moderno concetto di
democrazia la prima forma di partecipazione dovrebbe essere quella più importanter, nei fatti
avviene spesso l’inverso. Ma soprattutto è significativo – come sa chiunque abbia seguito “tavoli” e
“percorsi” – che i partecipanti ai primi raramente si vedano ai secondi, e viceversa.
Elemento non secondario di queste ambiguità è la nuova designazione invalsa, per i soggetti
singoli o associati coinvolti nei processi decisionali e nella produzione di politiche pubbliche, di
“società civile”. Se in passato era considerato “agire politico” non solo quello dei militanti di partito
ma altresì quello dei “simpatizzanti”, dei gruppi e movimenti spontanei quali i “comitati”, e financo
dei lettori e fruitori attivi di informazione politica fino ai semplici elettori, oggi questi attori sono
stati espropriati dell’attributo di “politici” e classificati come “società civile” in contrapposizione a
quella politica.
Infine, più autori hanno evidenziato come queste nuove modalità dell’esercizio del potere
presuppongano una nozione tutt’altro che pacifica delle città come attore collettivo (Le Galès 1993).
Parlare di “politica delle città” significa pensare alle città, in analogia agli stati, come soggetti che
esprimono
una
rappresentanza
unitaria
a
base
democratica,
caratterizzati
da
una
autorappresentazione collettiva di interessi comuni e da un sistema di decisione collettiva e capacio
di interagire in questa veste con altri soggetti politici. Questa concezione della città non può essere
assunta come dato, senzza espungere i conflitti di interesse e le relazioni di potere che attraversano
la città stessa. Per giungere a configurare una “politica delle città” che non si configuri
semplicemente come sistema di potere, occorre riferirsi ad un’altra nozione di politica, quella di
agire per la definizione collettiva del bene comune.
5.La città come polis: la definizione del bene comune.
Questa nozione di politica si richiama a quella che, secondo la Arendt, era quella nella quale
si identificava la polis greca. Alla base di una politica delle città, e dentro a questa nozione, vanno
dunque incluse quelle modalità di agire collettivo, radicate nella sfera pubblica - la Oeffentlichkeit
di Habermas (1962), attraverso i quali una collettività definisce i propri interessi comuni, le proprie
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relazioni interne, e una visione condivisa del proprio patrimonio e delle proprie direzioni di
sviluppo.
La definizione del “bene comune”- come presupposto indispensabile per una coerente
produzione di politiche pubbliche – è chiamata oggi a misurarsi con almeno tra grandi temi. Il
primo è quello di una visione condivisa del territorio in termini di confini e dimensioni, rapporto
città-campagna, relazioni tra centro e periferia, mono- o policentrismo, nozione di quartiere e di
habitat, nozione di pubblico e privato, quadri e capacità del muoversi, ordine visuale e fruizione
estetica e culturale - vale a dire il territorio come luogo concreto del vivere e luogo di
autorealizzazione e di “vita buona”. Una definizione siffatta del territorio è ancora troppo lontana
dai linguaggi dominanti della pianificazione come da quelli dell’analisi politica. Essa presuppone
unn riferimento alla città come “cornice di senso” dell’esistenza.
Il secondo tema è quello della definizione della cittadinanza. Oltre ai contenuti più
propriamente politici di cui si è già detto, esso richiede una nuova sensibilità al concetto di “tessuto
urbano”, concetto su cui convergono le azioni della pianficazione urbana, dell’analisi e
dell’intervento sociale e dell’idea politica di città. Attenzione al tessuto urbano come bene comune
richiederebbe, tra l’altro, un ripensamento dell’organizzazione politico-amministrativa del governo
delle città ancora largamente strutturata sulla separazione (derivante dall’organizzazione dello stato)
tra “gente” e “luoghi”, sistematicamente oggetto di sfere di “competenza” diverse e non integrate.
Il terzo tema è quello della definizione di una “visione” della città in cui iscrivere progetti di
sviluppo. Una “visione” non va confusa con la retorica e nemmeno con il buon senso (le due
modalità con le quali si costruiscono di solito i programmi elettorali). Una visione della città è una
costruzione collettiva di cui va esplicitata tanto la dimensione dell’agire collettivo quanto
l’ineludibile dimensione del conflitto. Essa non può che essere il prodotto della sfera pubblica e la
sfera pubblica non può nascere dall’alto: compito delle istituzioni è caso mai quello di produrre
quelle infrastrutture che ne sono l’indipensabile supporto, vale a dire lo spazio pubblico.
Riferimenti bibliografici
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it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964.
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Verlag; trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza, 1988.
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