Sessismo, Italia al palo
- Davide Angelilli, Noemi Fuscà, 30.12.2015
Violenze sulle donne. Aumentano gli stupri. Più femminicidi al nord, meno al sud
Come si chiude quest’anno la lotta contro il femminicidio in Italia? Leggendo l’ultimo rapporto Istat
sulla violenza contro le donne in Italia, sembra che il paese stia facendo passi in avanti per eliminare
questa terribile piaga. Purtroppo, invece, la situazione è in realtà drammatica e non pare in
miglioramento. Se per chi legge le cifre senza voler darne una lettura politica e sociale è possibile
gioire, da una prospettiva politica e femminista la questione cambia radicalmente. È vero: negli
ultimi cinque anni il numero di aggressioni è diminuito, specialmente per la categoria studentesse
(forse perché il lavoro dei gruppi femministi nelle scuole e nelle università funziona), ma i dati ci
raccontano anche altro. Se l’ultimo libro di Riccardo Iacona, Utilizzatori Finali (Chiarelettere, 2014)
è un racconto crudo e amaro del sessismo dilagante nella società italiana, i dati dicono che il 31,5%
delle donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito violenza nella vita, che sia fisica, sessuale o psicologica.
Sono poi in aumento le violenze più gravi, quelle che lasciano ferite, che fanno vivere nella totale
paura: gli stupri.
Per quanto riguarda il femminicidio, sempre secondo l’Istat, sono stati 152 circa nel 2014, i dati
dicono che è in aumento al Nord e in diminuzione al Sud. Secondo il primo dirigente di Polizia,
Maria Carla Bocchino, nel primo semestre del 2015 le violenze sono calate del 5%, mentre per
quanto riguarda quelle culminate in omicidio, i recenti dati del Viminale parlano di 74 donne uccise,
cinque in meno dei primi sei mesi dell’anno precedente. Sicuramente la crescente attenzione verso il
problema in qualche modo ha mosso le donne, che hanno cominciato a reagire. Ma c’è ancora molto
da fare, e le istituzioni non sembrano andare nella giusta direzione.
Rispetto ai centri antiviolenza si apre un nuovo fronte di battaglia. La nuova Legge di Stabilità
introduce a livello nazionale il Codice Rosa, anche se con un altro nome e con linee guida ancora
dadefinire, ma intanto impone il modello a tutte le regioni. Fino ad ora utilizzato solo dalla regione
Toscana a Grosseto, questo nuovo codice del triage crea un percorso a parte per chi ha subito
violenza di genere. Si tratta di una collaborazione tra il Ministero della Salute, quello della Giustizia
e quello degli Interni, una collaborazione istituzionale che dice di mettere in piedi una vera e propria
Task Force antiviolenza. Attraverso il lavoro di personale medico, socio-sanitario e degli operatori
delle forze dell’ordine, si dovranno identificare le vittime di violenza per avvisare direttamente gli
uffici della Procura della Repubblica. Una volta accertata la violenza, quindi, la denuncia partirebbe
anche senza il consenso della vittima.
Il problema cruciale è che questa nuova forma di procedere non lascia spazio di decisione alle
vittime, sminuendo invece l’importanza che siano proprio le donne le protagoniste principali per la
costruzione di una soluzione.
Ottimi segnali in questo senso arrivano dalle organizzazioni più avanzate a livello internazionale. Il
nuovo paradigma del confederalismo democratico in Kurdistan mette al centro della trasformazione
sociale l’emancipazione della donna. La redistribuzione del lavoro domestico, come la centralità
delle combattenti nella guerriglia curda, sono manifestazioni del consolidamento di una nuova
filosofia politica. Una tensione teorica in cerca di un paradigma postcapitalista, in cui entra anche la
Jinealogia: una nuova scienza delle donne (in curdo, Jin significa donna), che smonti il concetto
dell’homo oeconomicus (pilastro della razionalità economica occidentale) come attore dominante
delle relazioni sociali.
Girando il mappamondo, in America Latina, i movimenti sociali hanno già da tempo interiorizzato e
riformulato i valori e le teorie del femminismo storico, facendo del continente un laboratorio a cielo
aperto di esperienze comunitarie dove la donna ha rotto le catene del patriarcato. In Venezuela, poi,
la Rivoluzione Bolivariana ha prodotto una Costituzione che, oltre ad utilizzare un linguaggio
femminista, riconosce la centralità del lavoro domestico (generalmente svolto dalle donne) per il
funzionamento sociale dell’economia. Assumendo, di conseguenza, la necessità di valorizzarlo come
fonte di benessere sociale, nonostante sia escluso dalla sfera mercantile della produzione capitalista.
Tornando al vecchio continente, per le strade di Madrid, lo scorso 7 settembre, una marcia di
almeno duecentomila persone, con organizzazioni arrivate da tutto il paese, ha rivendicato la
necessità di fare della lotta contro la violenza di genere una questione di Stato. Dai Paesi Baschi alla
Catalogna, la rivendicazione femminista è sempre più centrale nei programmi delle sinistre
indipendentiste. Anche il programma economico di Podemos propone una riforma del sistema di
welfare chiaramente ispirata a una visione di economia femminista, per rompere l’attuale divisione
sessuale del lavoro: che posiziona le donne al lavoro riproduttivo e gli uomini alle attività produttive.
Merito dei movimenti sociali dello Stato spagnolo, capaci di costruire una narrazione femminista
contro la violenza di genere, evidenziando in primo luogo le cause sociali ed economiche della
subordinazione della donna, e quindi della violenza maschilista.
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