Riassunto L’interpretazione contrattuale, procedimento utile ma soprattutto necessario all’interprete che deve ricercare la commune volontà delle parti, nel raggiungimento dell’accordo negoziale, vede ancora ai giorni nostri una forte contrapposizione tra dottrina e giurisprudenza nell’applicazione dei canoni ermneutici forniti dal Codice Civile. Da un lato la dottrina si è da tempo discostata dal noto brocardo “In claris non fit interpretazio”, dando sicuramente valore al criterio letterale, condiviso come punto di partenza, ma superandolo abbondantemente nella ricerca della comune volontà anche in elementi ulteriori, come per esempio il comportamento delle parti, sia antecedente che successivo alla stipulazione dell’accordo. La giurisprudenza, al contrario, fa ancora molta fatica ad abbandonare il criterio letterale, che seppur valido, a volte nasconde una volontà negoziale tutt’altro che chiara ed univoca, rischiando quindi di non arrivare affatto allo scopo dell’indagine ermeneutica. In questo contesto di pressoché netta divisione tra dottrina e giudici, nonostante qualche pronuncia a favore della dottrina prevalente, viene a delinearsi un principio interpretativo fondamentale, che , seppur non codificato, regola l’azione dell’interprete del negozio: il principio del gradualismo. In base a tale principio il giudice non potrà procedere all’applicazione dei canoni ermeneutici a sua discrezione, ma sarà bloccato dalla presunta chiarezza del testo contrattuale. Vi è poi una importante distinzione che trova concordi dottrina e giurisprudenza, che riguarda la qualificazione dei canoni ermeneutici in due categorie: i canoni di interpretazione soggettiva, ed i canoni di interpretazione oggettiva. I primi sono individuati dagli artt. 1362-1365 del Codice Civile, mentre i secondi si trovano negli artt. 1367-1371. L’applicazione di questi ultimi è ammessa solo in caso di fallace applicazione dei primi, cioè quando nell’applicare gli art. 1362-1365 non si sia pervenuti alla comune volontà delle parti. Discorso autonomo merita l’art. 1366 c.c., relativo alla buona fede interpretativa, individuata ora come canone soggettivo ora come strumento di interpretazione oggettiva del contratto, da altri ancora come principio generale autonomo di ermeneutica contrattuale. Viene qui ad emergere poi il metodo comparativo, strumento tramite il quale si può verificare come l’istituto in questione sia trattato negli altri ordinamenti, cercando punti di contatto e punti di differenza allo scopo di trovare qual è la soluzione migliore per il problema concreto. Nel caso di specie vediamo come nei sistemi di common law addirittura l’interpretazione contrattuale sia caratterizzata da una maggiore rigidità dell’interprete nel discostarsi dal criterio letterale, limitandosi a farlo solo nei casi in cui tale criterio porti a risultati manifestamente errati o assurdi. Ciò è spiegato principalmente dal fatto che lo scopo del giudice, nei sistemi di Common Law, non è verificare la comune intenzione della parti, ma stabile l'oggettivo significato che, nel contesto e nelle circostanze in cui il contratto è stato concluso, un reasonable man avrebbe attribuito alle espressioni usate. I risultati di questo modello interpretativo portano in alcuni casi, soprattutto però in caso di negozi unilaterali come il testamento, a risultati che potrebbero sembrare palesemente errati; ciò è spiegato però dal fatto che nella redazione di atti di ultima volontà , il testatore è quasi sempre affiancato da un legale.