Codice civile
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262. Approvazione del testo del Codice civile (Pubblicato nella edizione straordinaria della
Gazzetta Ufficiale n. 79 del 4 aprile 1942).
Vittorio Emanuele III
per grazia di Dio
e per volontà della Nazione
Re d’Italia e di Albania
Imperatore d’Etiopia.
Visti i Regi decreti 12 dicembre 1938,
n. 1852, 26 ottobre 1939, n. 1586, 30 gennaio 1941, n. 15, 30 gennaio 1941, n.17 e
30 gennaio 1941, n. 18, che danno facoltà
al Governo di provvedere alla riunione ed
al coordinamento dei libri del Codice civile delle persone, delle successioni per causa
di morte e delle donazioni, della proprietà,
delle obbligazioni, del lavoro e della tutela
dei diritti, approvati con gli stessi Regi decreti;Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Guardasigilli,
Ministro Segretario di Stato per la grazia e
giustizia;
Abbiamo decretato e decretiamo:
1. È approvato il testo del Codice civile,
il quale, preceduto dalle Disposizioni sulla
legge in generale, avrà esecuzione a comin-
ciare dal 21 aprile 1942, sostituendo da questa data i libri del Codice stesso, approvati con i Regi decreti 12 dicembre 1938, n.
1852, 26 ottobre 1939, n. 1586, 30 gennaio
1941, n. 15, 30 gennaio 1941, n. 16, 30 gennaio 1941, n. 17, e 30 gennaio 1941, n. 18.
2. Un esemplare del testo del Codice
civile, firmato da Noi e contrassegnato dal
Nostro Ministro Segretario di Stato per la
grazia e giustizia, servirà di originale e sarà
depositato e custodito nell’Archivio del Regno.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella
Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti
del Regno d’Italia, mandando a chiunque
spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 16 marzo 1942.
VITTORIO EMANUELE
Mussolini – Grandi
Visto, il Guardiasigilli: Grandi.
Registrato alla Corte dei Conti, addì 16
marzo 1942 – Atti del Governo, registro n.
443, foglio n. 53.
Mancini
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DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
Capo I
DELLE FONTI DEL DIRITTO
Le fonti del diritto sono gli atti (fonti-atto) o
i fatti (fonti-fatto) che producono, modificano o
abrogano determinate norme giuridiche:
– i primi sono emanati in forma scritta dalle
pubbliche autorità in base a specifiche procedure: fonti di produzione (che si distinguono dalle
fonti di cognizione, ossia gli strumenti mediante
i quali tali norme vengono portate a conoscenza
dei cittadini);
– i secondi, invece, sorgono spontaneamente
in seno alla collettività, attraverso l’osservanza
di una condotta costante nel tempo e producono
norme non scritte (consuetudine).
Le norme giuridiche sono regole del diritto
positivo ed hanno carattere precettivo e sanzionatorio, ossia stabiliscono che certi comportamenti possono (ovvero devono) o non possono
(ovvero non devono) tenersi.
La norma giuridica si compone, infatti, di due
parti:
– il precetto, in base al quale un determinato
comportamento è lecito o meno (comando nei reati omissivi, divieto nei reati commissivi);
– la sanzione, ossia la minaccia di una pena
in caso di violazione del precetto.
Tuttavia esistono casi in cui alcune norme
giuridiche sono prive di sanzioni: parliamo delle
norme imperfette (es.: alcune norme costituzionali che regolano i comportamenti di Parlamento, Governo e Presidente della Repubblica).
I caratteri essenziali delle regole giuridiche
(che le distinguono dalle regole del diritto naturale) sono, secondo una classificazione dottrinaria e giurisprudenziale universalmente accettata,
i seguenti:
a) generalità: si applicano a tutti quelli che
si trovano in una situazione da esse disciplinata;
b) astrattezza: prevedono in astratto la disciplina di situazioni eguali a quelle in esse contenute;
c) novità: devono tendenzialmente innovare
l’ordinamento giuridico;
d) esteriorità: oggetto della loro disciplina è
l’esterno operare degli individui;
e) bilateralità: prevedono un’interdipendenza tra situazioni soggettive di vantaggio e situazioni soggettive di svantaggio;
f) imperatività (o cogenza): contengono un
precetto la cui attuazione è garantita da un sistema sanzionatorio che fa leva su di un’applicazione coattiva da parte dell’autorità pubblica;
g) relatività o derogabilità: la loro applicazione può anche essere disattesa dagli interessati.
L’ordinamento giuridico, pertanto, va inteso
come il complesso di norme poste da un’autorità
sovraordinata che determina, oltre ad un sistema
di garanzie, anche vincoli e limiti per le libertà
individuali.
Le norme, quindi, interagendo tra loro, delineano le regole a cui ogni individuo deve uniformare la propria condotta allo scopo di assicurare l’ordinato svolgimento della vita sociale e dei
rapporti tra i singoli (diritto oggettivo).
1. Indicazione delle fonti. – Sono fonti (70, 87, 121, 138, Cost.) del diritto:
1) le leggi (2, 10 ss.);
2) i regolamenti (3, 4);
3) le norme corporative (1);
4) gli usi (8 ss.).
(1) Il R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721, soppressione degli organi corporativi centrali, del comitato interministeriale prezzi e del comitato interministeriale per l’autarchia, ha soppresso l’ordinamento corporativo fascista.
Il diritto di cui finora si è parlato è il diritto oggettivo ossia il complesso di regole poste
dalle norme giuridiche per disciplinare la vita di
una comunità: è questo l’ordinamento giuridico,
l’insieme delle norme poste da un’autorità sovraordinata che determina, oltre ad un sistema
di garanzie, anche vincoli e limiti per le libertà
individuali.
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Distinte da tale nozione del diritto sono le diverse situazioni giuridiche soggettive che da esso
possono promanare: il potere, il dovere, l’onore,
il diritto soggettivo, l’interesse legittimo. L’ordinamento giuridico costituisce, in altre parole, la
fonte di legittimazione di tali situazioni.
Non è agevole definire il diritto, ma senz’altro
sono identificabili le sue tre fondamentali funzioni:
a) distribuzione e utilizzazione delle risorse
(diritto privato);
b) repressione di comportamenti socialmente
pericolosi (diritto penale);
c) istituzione e organizzazione dei pubblici
poteri (diritto costituzionale e amministrativo).
In pratica, però, tale classificazione risulta ormai superata, dato che le attuali fonti del diritto sono ben più numerose e molti sono i soggetti deputati a produrle. Pertanto occorre stabilire
il rapporto che intercorre tra esse e nello stesso
tempo scongiurare una sovrapposizione tra le
medesime (antinomie delle fonti).
A tale scopo si adoperano alcuni criteri:
a) criterio di gerarchia, che non va confuso
con l’ordine di applicazione delle norme:
– le fonti del diritto appartengono a gradi diversi;
– prevale la fonte sovraordinata;
– sussiste il controllo di validità rispetto alla
fonte sovraordinata (esso può essere diffuso, come negli USA o accertato come in Italia mediante la Corte costituzionale);
– le norme di grado inferiore non possono
mai modificare o abrogare quelle di grado superiore, né tantomeno contenere norme in contrasto
con esse;
b) criterio di competenza:
– le fonti appartengono al medesimo grado
ma si attribuisce una materia ad ogni fonte;
– prevale la fonte competente per materia
(Stato/Regione, Stato/Unione europea);
c) criterio temporale:
– le fonti appartengono al medesimo grado e
sono entrambi competenti per materia;
– la fonte emanata in una fase successiva
abroga quella precedente (lex posterior derogat
legi priori). Tale abrogazione può essere espressa o tacita;
d) criterio di specialità:
– le fonti appartengono al medesimo grado e
sono entrambe competenti per materia, ma una è
generale e l’altra è speciale;
– la fonte speciale prevale su quella generale.
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
Attuali fonti del nostro ordinamento giuridico sono:
a) Costituzione, Leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali (comprese
quelle di approvazione degli statuti delle regioni speciali);
b) fonti primarie: trattato CE, direttive e regolamenti comunitari; regolamenti degli organi
costituzionali (Camera, Senato, Corte costituzionale), leggi ordinarie; decreti legge; statuti delle
regioni ordinarie; leggi regionali e delle province
autonome; decreti legislativi attuativi degli statuti delle regioni speciali; referendum abrogativo;
c) fonti subprimarie: leggi regionali delegate; decreti delegati del Governo; statuti degli enti
locali;
d) fonti secondarie: regolamenti, ordinanze,
statuti di enti a statuto di specie;
e) fonti fatto: consuetudine, usi ed equità
(ma solo quando è richiamata dalla legge [1371,
1374, 1733, 2047, comma 2, 2118]);
f) contratti collettivi di diritto comune (stipulati dalle associazioni sindacali al fine di regolare
in via uniforme i rapporti di lavoro delle categorie
rappresentate). Secondo la Cassazione i contratti collettivi di lavoro di diritto comune non sono
fonte di diritto, né in tal senso depone l’art. 425
c.p.c. che attribuisce al giudice la facoltà di acquisire d’ufficio i testi dei contratti ed accordi collettivi applicabili nella causa, poiché tale norma attiene all’ambito dell’acquisizione della prova nel
rito del lavoro e non costituisce deroga al principio iura novit curia, valido per le norme di diritto
e non per le norme contrattuali collettive; ne consegue la non deducibilità in Cassazione, della violazione delle norme poste da detti contratti collettivi (così Cassazione n. 10914 del 2000);
g) giurisprudenza (benché nel nostro ordinamento giuridico sia assente il principio di vincolatività dei precedenti, le sentenze formano, nel
corso del tempo, orientamenti costanti, per cui le massime, ovvero i principi di diritto applicati
nelle medesime pronunzie, tendono ad assumere
il canone di regole giuridiche autonome concretamente operanti all’interno della collettività).
Le circolari contenendo istruzioni, ordini di
servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati,
con la funzione di indirizzare in modo uniforme
l’attività di tali enti o organi inferiori, sono atti
meramente interni della Pubblica Amministrazione (c.d. norme interne), che esauriscono la lo-
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ro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra
i suddetti organismi ed i loro funzionari e non
possono, quindi, spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’Amministrazione, né acquistare efficacia vincolante
per quest’ultima, neppure come mezzo di interpretazione di norme giuridiche, non costituendo pertanto fonte di diritti a favore di terzi, né
di obblighi a carico dell’Amministrazione (così
Cassazione n. 2092 del 1983).
L’articolo 1 della legge X stabilisce: “È vietato uscire in moto la sera”. Il decreto ministeriale Y
all’articolo 2 dispone: “È prevista la pena pecuniaria
di 100 euro per chiunque circoli in moto dalle ore 20
alle ore 24 per le strade della città”. Tale ultima disposizione è da ritenersi illegittima perché contraria
alla norma gerarchicamente sovraordinata.
u  Il principio “iura novit curia”, laddove eleva a dovere del giudice la ricerca del “diritto”,
si riferisce alle vere e proprie fonti di diritto oggettivo, cioè a quei precetti contrassegnati dal
duplice connotato della normatività e della giuridicità, dovendosi escludere dall’ambito della
sua operatività, sia i precetti aventi carattere
normativo, ma non giuridico (come le regole
della morale o del costume), sia quelli aventi
carattere giuridico, ma non normativo (come
gli atti di autonomia privata, o gli atti amministrativi), sia quelli aventi forza normativa puramente interna (come gli statuti degli enti e i
regolamenti interni) (6933/1999, rv 528288).
u  Nel caso di nascita indesiderata nei confronti del nascituro si ritiene violato il dettato
dell’art. 32 della Costituzione, intesa la salute
non soltanto nella sua dimensione statica di
assenza di malattia, ma come condizione dinamico/funzionale di benessere psicofisico – come
testualmente si legge nell’art. 1 lettera o) del
D.Lgs. n. 81 del 2008. Deve ancora ritenersi
consumata: – la violazione della più generale
norma dell’art. 2 della Costituzione, apparendo
innegabile la limitazione del diritto del minore allo svolgimento della propria personalità
sia come singolo sia nelle formazioni sociali; –
dell’art. 3 della Costituzione, nella misura in cui
si renderà sempre più evidente la limitazione al
pieno sviluppo della persona; – degli artt. 29,
30 e 31 della Costituzione, volta che l’arrivo del
minore in una dimensione familiare "alterata"
impedisce o rende più ardua la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori
sanciti dal dettato costituzionale, che tutela la
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vita familiare nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo dell’istruzione, educazione,
mantenimento dei figli. Pertanto l’interesse
giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela da parte del minore alla luce dei testè
richiamati articoli della Carta fondamentale, è
quello che gli consente di alleviare, sul piano
risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione
secondo gli auspici dal Costituente: il quale ha
identificato l’intangibile essenza della Carta
fondamentale nei diritti inviolabili da esercitarsi dall’individuo come singolo e nelle formazioni sociali ove svolgere la propria personalità,
nel pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione familiare, nella salute. Non assume,
pertanto, alcun rilievo "giuridico" la dimensione prenatale del minore, quella nel corso della
quale la madre avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interruzione della gravidanza. Se
l’esercizio di questo diritto fosse stato assicurato alla gestante, la dimensione del non essere
del nascituro impedisce di attribuirle qualsivoglia rilevanza giuridica (16754/2012).
2. Leggi. – La formazione delle leggi
(1, n. 1) e l’emanazione degli atti del Governo aventi forza di legge sono disciplinate
da leggi di carattere costituzionale (70 ss.,
87, 128 Cost.).
Stabilito che nel nostro ordinamento la Costituzione è la norma primaria per eccellenza (di
carattere rigido, perché modificabile solo attraverso un procedimento speciale e non mediante
leggi ordinarie, bensì mediante leggi costituzionali ex art. 138 Cost.), con il termine legge possiamo identificare:
a) la legge costituzionale, che ha il medesimo rango e stessa competenza della carta costituzionale;
b) la legge ordinaria, che è un atto normativo approvato dal Parlamento ed è promulgata dal
Presidente della Repubblica;
c) la legge regionale, approvata dal Consiglio regionale, ha validità per il solo territorio
regionale ed opera nel rispetto dei principi contenuti nell’art. 117 Cost. Va comunque precisato
che la riforma costituzionale operata con la legge cost. n. 3/2001 ha realizzato nel nostro Paese
una forma di federalismo mediante l’attribuzione alle autonomie territoriali di più ampi poteri
legislativi e amministrativi rispetto a quelli pre-
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cedentemente previsti. A tale scopo il legislatore costituente ha capovolto l’intero criterio di
ripartizione della potestà legislativa fra Stato e
Regioni previsto dal sistema previgente. Prima
della modifica l’art. 117 Cost. si limitava ad indicare le sole materie in cui la Regione poteva
emanare norme legislative «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato,
sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre
Regioni» riservando in modo tacito, con un criterio residuale, alla legislazione esclusiva dello
Stato, ogni altra materia non indicata fra le materie in cui le Regioni avevano potestà legislativa concorrente. La nuova versione dell’art. 117
Cost., come riscritto dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3/2001, rovescia, appunto, il criterio di ripartizione della potestà legislativa fra
Stato e Regioni precedentemente previsto: oltre
ad indicare positivamente le materie riservate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni,
sancisce positivamente le sole materie riservate
alla legislazione esclusiva dello Stato, da ritenere
certamente sottratte alla potestà legislativa delle
Regioni, assegnando invece a quest’ultima, con
un criterio residuale (federalismo), «la potestà
legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello
Stato». Alla L. cost. n. 3/2001, ha fatto seguito la
L. n. 131/2003 (c.d. legge La Loggia), di attuazione, in base alla quale:
– l’attività legislativa dello Stato e delle regioni è esercitata nel rispetto dei vincoli prestabiliti;
– la normativa statale nelle materie appartenenti alla legislazione regionale e quella regionale
nelle materie appartenenti allo Stato, continuano
ad applicarsi fino all’entrata in vigore, rispettivamente, delle disposizioni regionali e statali in materia. A riguardo il Governo è stato delegato ad
emanare una serie di decreti legislativi meramente
ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nel rispetto dei principi
di esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità, allo scopo di orientare l’iniziativa legislativa di Stato e regioni;
– il Governo è delegato ad emanare uno o
più decreti legislativi allo scopo di raccogliere in
testi unici compilativi le residue disposizioni legislative, per ambiti omogenei nelle materie di
legislazione concorrente, apportandovi modifiche di carattere formale, necessarie a garantire
coordinamento e coerenza terminologica;
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
– le regioni e le province autonome di Trento
e Bolzano, concorrono direttamente, nelle materie di loro competenza legislativa, alla formazione di atti comunitari e provvedono direttamente
all’attuazione e all’esecuzione di accordi internazionali ratificati;
d) la legge provinciale delle province autonome di Trento e Bolzano.
Per quanto concerne gli atti di Governo aventi forza di legge, va innanzitutto precisato che il
governo è privo di potere legislativo (non può fare leggi); tuttavia solo in determinati casi, espressamente stabiliti dalla Costituzione (artt. 76 e 77
cost.), può emanare atti aventi forza di legge:
e) i decreti legge, emessi in casi di necessità
ed urgenza, hanno efficacia immediata, ma vanno convertiti in legge entro 60 gg. dall’emanazione, pena la loro decadenza;
f) i decreti legislativi, sono deliberati dal governo su delega legislativa del Parlamento che ne
fissa anche i criteri di applicabilità.
u  La Corte cost., ha il potere di accertare la
sussistenza in concreto dei presupposti della necessità ed urgenza previsti dall’art. 77 cost. per
l’adozione dei decreti-legge, configurando l’eventuale mancanza di detti presupposti tanto
un vizio di legittimità costituzionale del decreto
– quanto un vizio “in procedendo” della legge
di conversione (Corte cost. 128/2008).
3. Regolamenti. – Il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di
carattere costituzionale.
Il potere regolamentare di altre autorità è
esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari
(4, 77, 87 Cost.).
I regolamenti sono norme giuridiche adottate
dal potere esecutivo (Consiglio dei Ministri, Ministri). Questi non possono contenere disposizioni in contrasto con le leggi (la loro illegittimità li
renderebbe annullabili da parte della giurisdizione amministrativa) ma, pur ricoprendo il ruolo di
fonti secondarie (atti amministrativi), innovano
l’ordinamento giuridico, nei limiti stabiliti dalla
legge. Sono emanati nella forma di decreti del
Presidente della Repubblica, su deliberazione del
Consiglio dei Ministri, previo parere del Consiglio di Stato.
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Codice civile (preleggi)
I regolamenti possono essere emanati anche
da autorità della pubblica amministrazione subordinate al potere esecutivo (es: prefetti), ovvero dagli enti pubblici territoriali (regioni, province, comuni).
Attualmente distinguiamo (L. n. 400 del 1988):
– regolamenti esecutivi di leggi e decreti legislativi: mediante i quali si intende dare concreta attuazione alla norma legislativa cui essi fanno
riferimento;
– regolamenti delegati o di deroga: non importano una delega al Governo di funzioni legislative, pertanto l’atto che in tal caso viene emanato da quest’ultimo non è un decreto avente
forza di legge. La facoltà regolamentare che in
tal modo viene attribuita può, nei limiti ristretti
della stessa delega, importare deroga alla legge
(delegificazione);
– regolamenti indipendenti: emanati in una
materia nella quale non vi sia una disciplina di
grado primario e sempreché non si versi in materia comunque riservata alla legge. Poiché al governo centrale deve riconoscersi una istituzionale e generale sfera di autonomia normativa, nel
rispetto di una adeguata base legale e dei precetti
legislativi attributivi di competenza per settori di
materie e delle norme primarie indicanti gli scopi primari da realizzarsi, ben può ammettersi che
possa emanare regolamenti indipendenti in materie non già disciplinate dalla legge;
– regolamenti interni e di organizzazione:
esauriscono la loro efficacia all’interno degli stessi enti da cui promanano, pertanto si deve escludere che essi possano produrre prescrizioni aventi
vigore e forza cogente di norme giuridiche;
– regolamenti di recepimento di accordi collettivi di lavoro: rientrano in parte nella categoria
dei regolamenti di organizzazione.
Esistono, però, alcune materie che il potere
esecutivo non può disciplinare mediante regolamenti, perché la Costituzione ha stabilito che queste vadano disciplinate unicamente mediante la
legge: è questo il principio della riserva di legge.
Lo scopo principale di tale preclusione è quello di
garantire che su alcune materie debba pronunciarsi
e legiferare solo il Parlamento, ossia l’organo che è
espressione della sovranità popolare. Anche gli atti aventi forza di legge (che appartengono al potere esecutivo) possono disciplinare materie protette
dalla riserva di legge, ma sempre sotto stretto controllo del Parlamento (potere legislativo).
I regolamenti comunitari, infine, sono atti
normativi emanati dall’Unione europea aventi
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contenuto normativo generale, al pari delle leggi
statali, direttamente applicabili all’interno degli
Stati membri e immediatamente vincolanti per
questi ultimi e per i cittadini, senza necessità di
norme interne di adattamento o ricezione.
u  Gli atti amministrativi, anche quando abbiano contenuto normativo, non possono formare oggetto di “interpretazione autentica”
neppure ad opera dello stesso organo che li ha
emessi (1271/1999, rv 523258).
u  Una fonte di rango regolamentare di esecuzione ed attuazione di una fonte legislativa
può essere abrogata tacitamente da una fonte
legislativa soltanto in via riflessa, cioè se questa
fonte successiva abbia effetti abrogativi taciti od
espressi dalla fonte legislativa, in esecuzione o
attuazione della quale quella regolamentare sia
stata emanata, e sempre che quest’ultima abbia
contenuti tali che la sua permanenza risulti incompatibile con la sopravvenuta vigenza della
nuova legge. Ne consegue che, dovendo escludersi che la disciplina dell’art. 1182 c.c. abbia potuto abrogare tacitamente quella sui pagamenti
dello Stato di cui al R.D. n. 2440 del 1923, tenuto
conto che lex posterior generalis non derogat
legi priori speciali, deve escludersi che per effetto dell’entrata in vigore del suddetto art. 1182,
siano state tacitamente abrogate le disposizioni
regolamentari costituenti esecuzione od attuazione del citato R.D. (R.D. n. 827 del 1924 e R.D.
n. 1759 del 1926) e le loro modifiche nel tempo, in punto di luogo del pagamento da parte
dell’Amministrazione (13252/2006).
4. Limiti della disciplina regolamentare. – I regolamenti non possono contenere
norme contrarie alle disposizioni delle leggi.
I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell’art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei
regolamenti emanati dal Governo.
Connesso al principio della riserva di legge
è quello di legalità, che può essere letto secondo
due distinti profili:
– sotto il primo esso esprime la prevalenza
della legge rispetto agli altri atti dei pubblici poteri;
– sotto il secondo ogni provvedimento è
espressione di un potere riconosciuto all’Amministrazione da una norma specifica.
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5 – 7
Pertanto sulla legittimità dei regolamenti giudica, in via incidentale, il giudice ordinario (e non
quello costituzionale), che ha il potere di disapplicarli e non di annullarli (facoltà che spetta, invece, al giudice amministrativo) (esempio). Benché
l’annullamento giurisdizionale di una norma regolamentare abbia efficacia ex tunc ed erga omnes, esso non assume tuttavia effetti travolgenti
nei confronti dei provvedimenti applicativi divenuti inoppugnabili; si costituisce, piuttosto, in
capo all’amministrazione, l’obbligo di annullare
d’ufficio gli atti applicativi suddetti.
L’abrogazione tacita di una norma regolamentare ad opera di una disposizione di legge
sopravvenuta non si verifica soltanto quando tra
le due disposizioni vi sia un contrasto logico tale da renderne impossibile la contemporanea vigenza, ma anche quando la disposizione di legge
successiva modifichi i limiti di competenza nei
quali, a norma dell’art. 3, comma 2, precedente, i
regolamenti devono contenersi (così Cons. Stato,
Sez. V, n. 425 del 1986).
5 – 7. (Omissis) (1).
(1) Articoli riguardanti le norme corporative, abrogati dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
8. Usi. – Nelle materie regolate dalle
leggi (1, n. 1) e dai regolamenti (1, n. 2) gli
usi hanno efficacia solo in quanto sono da
essi richiamati (1, n. 4, 9).
Le norme corporative prevalgono sugli
usi, anche se richiamati dalle leggi e dai
regolamenti, salvo che in esse sia diversamente disposto (1).
(1) Comma da ritenere abrogato a seguito della
soppressione dell’ordinamento corporativo fascista disposta dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
Elementi fondamentali per la formazione di
usi normativi (norme consuetudinarie) sono:
– la ripetizione costante nel tempo (diuturnitas) di un dato comportamento da parte di un
gruppo sociale: elemento oggettivo;
– l’opinione generalizzata di osservare,
agendo in tal modo, una norma giuridica sia pure
di rango terziario (opinio iuris ac necessitatis):
elemento soggettivo (esempio n. 1).
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
L’uso normativo, pertanto, avendo le caratteristiche e l’efficacia della norma giuridica, deve
rivestire il carattere dell’astrattezza e della generalità, anche se in maniera circoscritta. Può costituire una fonte sussidiaria di diritto nelle materie in cui manca del tutto la disciplina legislativa
(praeter legem) (esempio n. 2), mentre nelle materie regolate da leggi o regolamenti ha efficacia
solo se espressamente richiamato (secundum legem) [1182]. Non è ammesso l’uso contra legem
o abrogativo, per desuetudine, della legge.
L’uso normativo si differenzia:
– dall’uso interpretativo, ossia lo strumento di interpretazione della volontà ambiguamente
espressa dai contraenti;
– dall’uso negoziale, ossia lo strumento di
integrazione dell’interpretazione della volontà
dei contraenti con la clausola che, ambiguamente
praticata nella zona, si presume voluta dalle parti
anche se non espressamente richiamata;
– dalla prassi, che è priva del carattere della
generalità e del requisito dell’opinio iuris ac necessitatis (elemento psicologico), oltre al fatto di avere
vigenza solo in una determinata cerchia di contraenti, corrispondendo non già ad esigenze giuridiche, quanto a motivi di opportunità e convenienza.
1. Lasciare la mancia dopo aver consumato
un caffè al bar, non integra di per sé una consuetudine, poiché manca l’elemento soggettivo: non
è obbligatorio lasciare la mancia al barista!
2. Gli usi di borsa sono usi normativi praeter legem.
u  Mentre l’efficacia dell’uso normativo è limitata, nelle materie regolate dalla legge, ai casi
in cui la legge stessa esplicitamente rinvia all’uso
(art. 8 preleggi), che assume funzione d’integrazione della disciplina legislativa o funzione
sostitutiva della norma scritta, qualora questa
contenga una disciplina destinata ad applicarsi
solo in mancanza di una norma consuetudinaria,
l’uso negoziale, in quanto operante sullo stesso
piano delle clausole contrattuali, non può considerarsi inserito nel contratto se non in virtù di
un’espressa o implicita manifestazione di volontà dei contraenti (4388/1985, rv 441854).
u  L’accertamento dell’esistenza di una norma consuetudinaria è riservato al giudice del
merito, essendo quindi sottratto al giudizio di
legittimità (20/1983, rv 424815).
u  La prassi aziendale è riconducibile alla
categoria degli usi negoziali o di fatto, i quali,
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Codice civile (preleggi)
se prescindono dai requisiti della generalità e
dell’”opinio iuris seu necessitatis”, propri degli
usi normativi, presuppongono pur sempre l’accertata reiterazione di determinati comportamenti. L’accertamento, da parte del giudice di
merito, dell’esistenza di un determinato uso negoziale, come di un uso (o prassi) aziendale, è
incensurabile in sede di legittimità, ove sorretto
da motivazione congrua ed esente da vizi logici
e giuridici (6063/1986, rv 448386).
u  La prassi amministrativa, a differenza degli usi, non ha efficacia “erga omnes” e non ha
vero carattere di generalità; essa si limita a connotare il comportamento di fatto dei singoli uffici nei rapporti interni e con il pubblico, senza
essere tuttavia accompagnata dalla convinzione della sua doverosità (12869/2002, rv 557254).
u  L’uso normativo deve essere applicato dal
giudice, se gli risulti noto, e, in caso contrario,
può essere accertato con ogni mezzo di prova.
Diversamente, con riguardo all’uso negoziale o
interpretativo, che costituisce un mezzo di interpretazione della volontà delle parti, espressa
ambiguamente o d’integrazione della medesima
con le clausole che, abitualmente praticate nella
zona, si presumono volute dalle parti, anche se
esplicitamente consentite, è la parte che lo alleghi che deve fornire idonea prova, in caso di contestazione, circa la sua esistenza (14263/2005).
9. Raccolte di usi. – Gli usi pubblicati
nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti
fino a prova contraria.
Non essendo l’uso una norma scritta, l’unico
modo per accertarsi della sua esistenza è quello
di compilare delle raccolte ufficiali che, comunque, non assurgeranno mai a fonti (di cognizione) del diritto.
In ogni caso il loro mancato aggiornamento non
le priva automaticamente del valore probatorio,
poiché le eventuali variazioni sopravvenute possono essere evinte dalle parti in base ai principi giuridici che disciplinano l’onere della prova [➠2697].
Capo II
DELL’APPLICAZIONE
DELLA LEGGE IN GENERALE
10. Inizio dell’obbligatorietà delle
leggi e dei regolamenti. – Le leggi (1, n.
1) e i regolamenti (1, n. 2) divengono obbli-
9
gatori nel decimoquinto giorno successivo
a quello della loro pubblicazione (73 Cost.),
salvo che sia altrimenti disposto.
Le norme corporative divengono obbligatorie nel giorno successivo a quello della pubblicazione, salvo che in esse sia altrimenti disposto (1).
(1) Comma da ritenere abrogato a seguito della
soppressione dell’ordinamento corporativo fascista,
disposta dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
I provvedimenti legislativi per acquisire efficacia nel nostro ordinamento devono essere pubblicati (nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana: leggi e regolamenti; nei Bollettini ufficiali delle Regioni: leggi regionali; nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee: regolamenti
e direttive comunitarie) in modo da essere portati a conoscenza di tutti i cittadini e divenire, per
questi, obbligatori.
L’entrata in vigore dei provvedimenti normativi è prevista il quindicesimo giorno dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Da
quel momento risulteranno efficaci anche nei
confronti di tutti quelli che di fatto non ne conoscono l’esistenza: ignorantia legis non excusat (a
tal proposito, comunque, la Corte costituzionale,
con sent. n. 364 del 1988, ha attenuato la rigidità
del precetto, sostenendo che esso non va applicato qualora venga dimostrato che una persona si
trovava nella condizione di non poter assolutamente conoscere una determinata legge).
Il periodo di tempo che va dalla data di pubblicazione in Gazzetta alla sua entrata in vigore (vacatio legis), serve, appunto, a consentire a
tutti i cittadini di prendere conoscenza dell’esistenza della nuova disciplina normativa. Questo
periodo può essere allungato (per opportunità,
anche riguardo alla quantità e complessità delle
disposizioni normative contenute nel provvedimento) (esempio) o abbreviato (per esigenze di
necessità e di urgenza) [Cost. 73, comma 3].
La legge 9 gennaio 2004, n. 6 (che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’Amministrazione di sostegno [➠404 ss.]) è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 19 gennaio
2004, n. 14 ma la sua entrata in vigore è stata stabilita (dall’art. 20 della medesima legge) sessanta giorni dopo la data di pubblicazione.
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11
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
Si badi che la data di pubblicazione è quella
della G.U. e non della distribuzione del fascicolo
(così Cons. Stato, sez. VI, n. 643 del 1953).
una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione
(2074 c.c.).
u  La norma dell’art. 10, primo comma, delle
preleggi – secondo cui le leggi e i regolamenti
divengono obbligatori nel decimoquinto giorno
successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia diversamente disposto – non si applica
ai decreti ministeriali che recepiscono (senza, peraltro, trasformarli in regolamenti governativi)
atti emanati da autorità non statali in forza di un
potere normativo attribuito da leggi speciali (art.
3, comma secondo, delle preleggi), essendo tali
decreti emanati nell’esercizio di un semplice controllo, con la conseguenza che i medesimi, anche
se debbono essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, non sono assoggettati ad alcun periodo di
“vacatio legis” e sono quindi immediatamente
applicabili per il carattere di esecutorietà proprio
degli atti amministrativi (1204/1990, rv 465393).
u  Nel regime anteriore alla legge 23 agosto 1988 n. 400, che al quinto comma dell’art.
15 ha disposto, per le modifiche apportate in
sede di conversione del decreto legge, l’efficacia
dal giorno successivo alla pubblicazione della
legge di conversione salvo diverso disposto di
quest’ultima, la legge di conversione del decreto legge, mentre esplica “ex tunc” (e cioè fin dal
momento dell’entrata in vigore di quest’ultimo)
i propri istituzionali effetti convalidativi delle
norme del decreto stesso che non siano state
modificate, è dotata, rispetto agli emendamenti eventualmente introdotti di una duplice valenza, poiché da un lato converte il precedente
decreto e, dall’altro, contestualmente introduce
nell’ordinamento nuove disposizioni, sostitutive
o modificative di quelle contenute nel provvedimento convertito. Ne consegue che tali nuove
disposizioni spiegano il loro effetto, sostitutivo
o modificativo di quelle convertite, soltanto “ex
nunc” e cioè alla scadenza del periodo di “vacatio legis” susseguenti alla loro pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale (salvo che la stessa legge di conversione non disponga diversamente al
riguardo), rimanendo, fino alla scadenza stessa
vigenti le norme del decreto nel testo anteriore
all’emendamento (4781/1991, rv 471926).
L’irretroattività è un principio generale
dell’ordinamento in base al quale ciascun fatto è
assoggettato alla disciplina normativa del tempo
in cui esso si è verificato (tempus regit actum).
Il disposto del primo comma del presente articolo non rappresenta un principio inderogabile
in tema di efficacia della legge nel tempo (irretroattività relativa), ma si limita ad indicare un
criterio interpretativo nel senso della normale irretroattività, senza escludere che la legge possa
avere efficacia retroattiva per sua stessa previsione (espressa o tacita), secondo un’indagine che è
riservata al giudice del merito.
Il divieto assoluto della retroattività (irretroattività assoluta) si ha, invece, in materia penale:
tale divieto è sancito nell’articolo 25 Cost. in base al quale «nessuno può essere punito se non in
forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del fatto commesso» e dall’art. 2 del Codice penale secondo il quale nessuno può essere punito
per un comportamento che non costituiva reato al
momento della sua realizzazione. Da ciò discende che la norma penale produce effetti limitatamente ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore
della norma e non anche nei confronti di quelli ad
essa antecedenti, in quanto considerati leciti nel
momento del loro compimento.
Il principio non è derogabile neppure dalle
leggi regionali (esse non possono disciplinare retroattivamente situazioni già regolate dalla legge
statale), dai regolamenti e dalle fonti gerarchicamente subordinate alla legge.
Disciplina a parte è prevista per i contratti
collettivi di lavoro i quali, in forza del secondo
comma della disposizione in commento possono
fissare per la loro efficacia una data anteriore la
loro pubblicazione sempreché non anticipi quella
della stipulazione.
11. Efficacia della legge nel tempo. –
La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo (25 Cost.; 2 c.p.).
I contratti collettivi di lavoro (2067 ss.
c.c.) possono stabilire per la loro efficacia
u  Il principio della non retroattività della
legge, sancito dall’art. 11 delle preleggi, costituisce una direttiva di carattere generale, che,
salvi il limite costituzionale dell’irretroattività
delle norme penali e l’intangibilità di diritti
soggettivi garantiti dall’ordinamento costituzionale, è pienamente derogabile mediante
altre norme ordinarie, comprese quelle cui è
connaturale un’efficacia retroattiva di interpre-
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tazione autentica di altre norme già esistenti
nell’ordinamento (1323/1983, rv 426124).
u  La legge interpretativa ha un’efficacia retroattiva che non può incidere sui rapporti già
interamente esauriti ma non incontra ostacoli in
atti e fasi di un rapporto privi di autonomia e di
rilevanza giuridica propria, per i quali possono
vantarsi diritti acquisiti per decadenze e preclusioni solo a fronte di una legge autenticamente
innovativa. Per contro la legge interpretativa –
se il rapporto giuridico sostanziale non sia ancora definitivamente concluso ed estinto, nel senso che i beni negoziati dalle parti ovvero tra esse
controversi non siano stati già attribuiti in modo
irrevocabile – disciplina anche gli effetti di attività ed aventi verificatisi nell’iter di svolgimento
del rapporto medesimo (3813/1983, rv 428736).
u  Il principio della irretroattività della legge
(art. 11 delle preleggi) preclude l’applicazione
della nuova normativa non soltanto ai rapporti
giuridici già esauriti, ma anche a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, qualora gli effetti
sostanziali scaturenti da detta normativa siano
eziologicamente collegati con un fattore causale non previsto da quella precedente. Pertanto,
l’art. 22 della legge 24 dicembre 1969 n. 990 – il
quale stabilisce che l’azione risarcitoria in tema
di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a
motore può essere proposta solo dopo sessanta
giorni dalla richiesta del danno all’assicuratore
mediante raccomandata con avviso di ricevimento – non può trovare applicazione in relazione ad un sinistro verificatosi anteriormente
alla data (14 giugno 1971) di entrata in vigore
di detta legge, la quale diversamente verrebbe
a produrre effetti giuridici di natura sostanziale
su un rapporto, quello tra danneggiato ed assicuratore del responsabile civile (art. 18), che
non era previsto dalla precedente normativa
(2118/1987, rv 451360).
u  Il principio in base al quale lo “ius superveniens”, inteso come nuova regolamentazione
del rapporto in contestazione, è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio
può trovare applicazione in sede di legittimità
solo quando la nuova disciplina sia sopravvenuta dopo la proposizione del ricorso per Cassazione, e non, invece, nel caso in cui essa sia
intervenuta prima del ricorso e non sia stata
formulata dalle parti una specifica censura che
abbia denunciato il contrasto delle norme di
diritto applicate dai giudici del merito con la
nuova regolamentazione del rapporto in contestazione (4158/1989, rv 463867).
11
u  I mutamenti normativi prodotti da pronunce d’illegittimità costituzionale, configurandosi come “ius superveniens”, impongono – in
ogni stato e grado e quindi anche nella fase di
Cassazione – la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della “regula iuris” risultante dalle decisioni anzidette; con
l’ulteriore conseguenza che, ove la nuova situazione di diritto obiettivo derivata dalle pronuncia caducatoria della Corte Costituzionale
richieda accertamenti di fatto non necessari
alla stregua della precedente disciplina, questi
debbono essere compiuti in sede di merito, al
qual fine, ove il processo si trovi nella fase di
Cassazione, deve disporsi il rinvio della causa al
giudice d’appello (857/1995, rv 489927).
u  Il principio dell’irretroattività della legge
comporta che la legge nuova non possa essere
applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli
sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal
modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi
del fatto passato o si venga a togliere efficacia,
in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e
future di esso. Lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata
ai fatti, agli “status” e alle situazioni esistenti o
sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato,
quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla
nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal
collegamento con il fatto che li ha generati, in
modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del
fatto generatore (2433/2000, rv 534559).
u  I requisiti, di forma e di sostanza, per la
validità di un contratto sono quelli che stabilisce la legge del tempo in cui il contratto è compiuto (3340/2001, rv 544522).
u  In conseguenza del principio generale di
irretroattività della legge, dettato dall’art. 11,
preleggi, l’eventuale retroattività di una legge o
di altra fonte normativa di grado inferiore deve
risultare da un’espressa o quanto meno non
equivoca dichiarazione del legislatore, dovendosi
ritenere, in caso di incertezza, che la norma non
disponga che per l’avvenire e non abbia quindi
effetto retroattivo (1379/2003, rv 560134).
u  Il principio di irretroattività della legge,
sancito dall’art. 11 disp. prel. c.c., implica l’applicabilità della norma sopravvenuta agli effetti non ancora esauriti di un rapporto giuridico
sorto anteriormente, quando la nuova legge sia
diretta a disciplinare tali effetti, con autonoma
considerazione dei medesimi, indipendente-
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mente dalla loro correlazione con l’atto o il fatto
giuridico che li abbia generati. Pertanto, le disposizioni dettate dall’art. 3, comma 109, L. n.
662 del 1996, devono applicarsi a tutti i rapporti
ancora in corso per i quali – alla data di entrata
in vigore della detta normativa – non si sia ancora proceduto alla vendita degli immobili facenti
parte del complesso edilizio oggetto di dismissione frazionata, nel concorso di tutte le altre condizioni previste dalla stessa legge (9972/2008).
12. Interpretazione della legge. –
Nell’applicare la legge non si può ad essa
attribuire altro senso che quello fatto palese
dal significato proprio delle parole secondo
la connessione di esse, e dalla intenzione
del legislatore (1362, 1363 c.c.).
Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili
o materie analoghe; se il caso rimane ancora
dubbio, si decide secondo i principi generali
dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Interpretare le norme giuridiche vuol dire:
– ricercarne il significato;
– comprenderne il valore e la portata nel nostro ordinamento;
– comprenderne la loro finalità, ossia la loro
applicazione al caso concreto.
L’applicazione della norma consiste, infatti,
nel far coincidere il fatto concreto che si è svolto
nella vita reale (fattispecie concreta) con la situazione descritta in astratto dalla norma (fattispecie
astratta).
Regola generale dell’attività interpretativa
è che il significato di una norma non potrà mai
essere compreso pienamente se non si collega
quest’ultima a tutte le altre norme che compongono l’ordinamento giuridico. Inoltre tra le varie
interpretazioni in astratto possibili debbono scegliersi quelle che non si pongono in contrasto con
la Costituzione, e va privilegiata quella ad essa più
conforme (così Cassazione n. 14900 del 2002).
Possiamo così distinguere tre fondamentali
tipi di interpretazione sulla base:
a) dei soggetti che la compiono;
b) dei criteri di interpretazione;
c) dei risultati che si raggiungono.
Nell’ipotesi dell’interpretazione in base ai
soggetti che la compiono si suole ulteriormente
distinguere tra:
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
– interpretazione dottrinale: è l’interpretazione dei giuristi, degli studiosi delle discipline
giuridiche. Essa non è vincolante, ma la forza dei
ragionamenti è tale che una certa influenza viene
esercitata anche sull’attività giurisdizionale;
– interpretazione giudiziale: è l’interpretazione dei giudici. Essa è rintracciabile nelle sentenze che questi emanano nell’esercizio della
loro funzione giurisdizionale. Non ha efficacia
obbligatoria, al di là del caso concretamente giudicato, e quindi non vincola gli altri giudici, che
restano liberi nell’interpretazione della legge. Se
l’interpretazione di una norma risulta identica e
costante nel tempo essa costituirà, invece, giurisprudenza costante, dotata di un’influenza “morale” derivante dall’autorevolezza delle sentenze
pronunciate con lo stesso orientamento dal “giudice delle leggi”;
– interpretazione autentica: è l’interpretazione data dall’organo che ha emanato la norma.
Essa è effettuata mediante l’emanazione di una
nuova norma (se la precedente risultava oscura e
di difficile interpretazione) ed ha efficacia vincolante e retroattiva per tutti i destinatari.
Nell’ipotesi dell’interpretazione in base ai
criteri utilizzati si suole ulteriormente distinguere tra:
– interpretazione letterale o grammaticale:
è l’interpretazione volta a valutare il significato
effettivo delle parole non isolatamente, ma anche
nel loro insieme, ricavandone così il significato
complessivo. Le parole vanno interpretate nel significato tecnico, che si evince dalla legislazione,
dalla tradizione e dalla dottrina e non secondo il
loro senso comune;
– interpretazione logica: è l’interpretazione
volta a stabilire la volontà della norma, la (ragionevole) intenzione del legislatore nel disciplinare
quella determinata materia (ratio iuris). La nozione di “intenzione del legislatore” presenta alcune sfaccettature che vanno analizzate. Parte della
dottrina parla di intenzione effettiva dei soggetti
che hanno prodotto la norma, riconducibile ai lavori preparatori della legge (intenzione soggettiva), altra corrente di pensiero, invece, fa riferimento all’intenzione del legislatore come quella
che questi avrebbe se l’approvazione della norma
coincidesse con il momento della sua applicazione (intenzione oggettiva). È in larga parte accolta
quest’ultima tesi a causa non solo delle difficoltà
inerenti alla ricerca ed alla ricostruzione delle ragioni che hanno spinto il legislatore ad emanare la
legge (attraverso i lavori preparatori), ma soprat-
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Codice civile (preleggi)
tutto perché una disciplina normativa, una volta
prodotta, si distacca da coloro che l’hanno creata
ed opera oggettivamente, per adeguarsi alle reali
esigenze della vita sociale. In altri termini ricercare l’intenzione oggettiva della norma giuridica significa, identificare la ragione attuale di essa
(ratio), cercando di adattare il diritto ai bisogni
sociali, separandolo dalle ragioni personali (o di
“partito”) che hanno spinto gli autori.
Nell’ipotesi dell’interpretazione in base ai
risultati raggiunti si suole ulteriormente distinguere tra:
– interpretazione dichiarativa (lex tam dixit
quam voluit): si ha quando l’interprete riconosce
che il dettato della norma (interpretazione letterale) coincide con la volontà della norma medesima (interpretazione logica);
– interpretazione estensiva (lex minus dixit
quam voluit): si ha quando l’interprete trova che
il dettato della norma non coincide con la volontà del legislatore, la quale ha espresso meno di
quanto in realtà si voleva;
– interpretazione restrittiva (lex plus dixit
quam voluit): si ha quando l’interprete riconosce
nella legge un dettato che sembra riferirsi a questioni che, invece, voleva escludere. In questo
caso si restringe il significato della norma ristabilendone la volontà;
– interpretazione analogica: si ha quando
l’interprete (il giudice) deve affrontare casi concreti non espressamente disciplinati da norme
giuridiche. Il nostro legislatore al fine di scongiurare iniziative arbitrarie ed antigiuridiche,
ha pensato di risolvere il problema indicando al
giudice due possibili vie: quella dell’analogia legis, ossia il ricorso alle norme che regolano casi
simili o materie analoghe, o, se il caso rimane
ancora dubbio, quella dell’analogia iuris, ossia
il ricorso ai principi generali dell’ordinamento
giuridico. L’interpretazione analogica fonda la
sua ratio nel presupposto che il diritto va inteso
come ordinamento, cioè come un sistema di norme basato sul principio di non contraddizione.
Ne discende che, se un caso non è espressamente disciplinato, va risolto in coerenza con quanto
previsto da disposizioni che regolano casi simili
o materie analoghe e, in ultima analisi, secondo
i principi dell’ordinamento giuridico (esempio).
Nel pomeriggio ho portato la moto, per il
consueto tagliando, in officina. Claudio, il meccanico, si è sempre vantato di non aver mai subito rapine né furti, sebbene la sua officina sia
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sempre incustodita. Durante la notte una banda
di ladri la “ripulisce”. Claudio è tenuto a risarcirmi il danno per la moto rubata? La risposta è affermativa perché, sebbene non esista una norma
direttamente applicabile, per analogia si adatta
l’art. 1768, inerente alla “diligenza nel contratto
di deposito” secondo cui il depositario è responsabile in caso di mancata custodia.
u  Nell’ipotesi in cui una norma, già interpretata in un certo modo in sede giudiziaria, sia
successivamente interpretata in modo diverso in
sede d’interpretazione autentica, non è concettualmente configurabile un conflitto di attribuzione fra potere giudiziario e potere legislativo,
né è concepibile uno straripamento di quest’ultimo, atteso, in particolare, che la funzione giurisdizionale è necessariamente applicativa delle
disposizioni vigenti (che il giudice interpreta,
attraverso la sentenza, con incondizionata autonomia, accertando e dichiarando la volontà
della legge in relazione al caso concreto al suo
esame), per cui, se la legge muta o se, con un’ulteriore legge, viene attribuito a precedenti disposizioni un determinato significato, il giudice
non può non essere vincolato dalla volontà del
legislatore (1323/1983, rv 426125).
u  Nell’esercizio del suo potere-dovere d’interpretazione della norma applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, il giudice è
libero di non adeguarsi all’opinione espressa da
altri giudici e può anche non seguire l’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione (salvo che si tratti di giudizio di rinvio), così come
può dissentire dalle mere motivazioni delle pronunzie della Corte Costituzionale non influenti
direttamente sulla declaratoria di illegittimità o
sul riconoscimento della legittimità di una specifica disposizione. Tale libertà non esclude, peraltro, l’obbligo dello stesso giudice di addurre
ragioni congrue, convincenti a contestare e far
venir meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato (7248/1983, rv 431849).
u  Ai lavori preparatori può riconoscersi valore unicamente sussidiario nell’interpretazione
di una legge, trovando un limite nel fatto che la
volontà da essi emergente non può sovrapporsi
alla volontà obiettiva della legge quale risulta
dal dato letterale e dalla intenzione del legislatore intesa come volontà oggettiva della norma
(“voluntas legis”), da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa (3550/1988, rv 458871).
u  L’art. 12 delle preleggi contiene tutti i criteri ermeneutici della legge, ed in particolare sia
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il criterio dell’interpretazione estensiva, che consente l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già identici), sia quello dell’interpretazione analogica (“analogia legis”), che permette
l’utilizzazione di norme che disciplinano materie
analoghe, ossia istituti diversi aventi solo qualche punto in comune con il caso da decidere,
mentre l’art. 14 delle stesse preleggi – come reso
evidente dai lavori preparatori – non detta alcun
criterio di esegesi legislativa, limitandosi a stabilire che le leggi penali e quelle che fanno eccezione ad altre leggi non si applicano (in via d’interpretazione analogica) oltre i casi ed i tempi in
esse considerati (7494/1990, rv 468347).
u  Se una norma di legge sia suscettibile
di più interpretazioni, di cui una darebbe alla
norma un significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente e deve essere superato e risolto interpretando la norma
in senso conforme alla Costituzione e alle legge
costituzionali (4906/1995, rv 492108).
u  L’esegesi del decreto di liquidazione per
una consulenza tecnica d’ufficio deve attenersi
ai canoni previsti per gli atti a contenuto normativo e non in base a quelli validi per contratti e negozi. Pertanto, l’interpretazione del
decreto deve seguire criteri oggettivi e testuali,
poiché è finalizzata alla ricerca del significato
oggettivo della regola o del comando contenuti
nel provvedimento e non dei contenuti di una
statuizione di volontà (11501/2008).
13. Esclusione dell’applicazione analogica delle norme corporative. – (Omissis) (1).
(1) L’ordinamento corporativo fascista è stato soppresso dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
14. Applicazione delle leggi penali
ed eccezionali. – Le leggi penali e quelle
che fanno eccezione a regole generali o ad
altre leggi non si applicano oltre i casi e i
tempi in esse considerati (25 Cost.; 1, 2 c.p.).
Mentre l’art. 12, come visto, contiene tutti i
criteri ermeneutici della legge, ed in particolare
sia il criterio dell’interpretazione estensiva, che
consente l’utilizzazione di norme regolanti casi
simili (e non già identici), sia quello dell’interpretazione analogica, che permette l’utilizzazione di norme che disciplinano materie analoghe,
ossia istituti diversi aventi solo qualche punto in
comune con il caso da decidere, il presente arti-
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
colo non detta alcun criterio di esegesi legislativa, limitandosi a stabilire che le leggi penali e
quelle che fanno eccezione ad altre leggi (in determinate materie o circostanze o per determinate categorie di soggetti) non si applicano (in via
d’interpretazione analogica) oltre i casi ed i tempi in esse considerati.
Per quanto riguarda la legislazione penale
il divieto di estensione analogica (analogia legis) deriva dal principio nullum crimen sine lege
ex art. 25 Cost. Questo significa che il giudice
non può applicare la legge penale fuori dei casi
espressamente previsti e disciplinati dal legislatore. Divieto di analogia non significa, però, divieto di interpretazione estensiva: nell’analogia
la fattispecie non è espressamente prevista dalla legge e viene disciplinata attraverso il ricorso
a disposizioni che regolano casi simili o materie
analoghe; nell’interpretazione estensiva, invece,
la fattispecie è regolata da una norma specifica
e, mediante il procedimento ermeneutico, si dà
ai termini di essa un significato più ampio. Il divieto di analogia, comunque, non è di natura assoluta, nel senso che il ricorso a casi simili è ammesso se, e solo se, produce effetti favorevoli nei
confronti della persona che ha commesso il reato (analogia in bonam partem). Anche i confini
dell’analogia in bonam partem, tuttavia, rimangono circoscritti entro determinati limiti; è, infatti, escluso che il ricorso all’analogia sia consentito quando il legislatore ha già esteso al massimo
la portata applicativa della scriminante e quando
andrebbe ad incidere su elementi costitutivi della
fattispecie che generano l’estinzione dell’eadem
ratio di disciplina e la conseguente creazione di
nuove ipotesi di scriminanti, il tutto in antitesi
con il principio di riserva di legge.
Per quanto riguarda la legislazione eccezionale vale, invece, il principio ubi lex voluit dixit
ubi non dixit noluit, al fine di escludere l’interpretazione analogica e non già quella estensiva
che avviene per necessità e non per similitudine
di rapporti (es: in caso di fattori contingenti come le calamità pubbliche o in determinate materie come quella tributaria).
15. Abrogazione delle leggi. – Le
leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova
legge regola l’intera materia già regolata
dalla legge anteriore (75 Cost.).
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Codice civile (preleggi)
Per abrogazione si intende la cessazione dell’efficacia di una determinata norma giuridica: poiché
questa perde vigore giuridico non può più essere
applicata. A decidere l’abrogazione è il legislatore
(non ricorre, infatti, nel nostro ordinamento l’ipotesi della desuetudine quale consuetudo contra legem). Pertanto distinguiamo:
– abrogazione espressa: quando entra in vigore una norma in cui espressamente si dichiara la cessazione di efficacia di una disposizione
normativa precedente;
– abrogazione tacita: quando sussiste incompatibilità fra le nuove disposizioni e quelle
precedenti, ovvero quando la nuova legge disciplina la materia già regolata da quella anteriore; in particolare, la suddetta incompatibilità si
verifica solo quando fra le leggi considerate vi
sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicché
dall’applicazione ed osservanza della nuova legge derivi necessariamente la disapplicazione o
l’inosservanza dell’altra (così, anche, Cassazione n. 2502/2001, 10980/2002, 14129/2002). Tale
situazione non è ravvisabile nell’ipotesi in cui la
nuova legge abbia determinato esclusivamente il
venire meno della "ratio” della legge precedente,
senza tuttavia occuparsi di dettare una nuova disciplina della materia da quest’ultima regolata;
– abrogazione totale: se interessa l’intera
norma;
– abrogazione parziale: se interessa solo una
parte della norma;
– abrogazione a seguito di referendum:
quando lo richiedono cinque consigli regionali o
500.000 elettori;
– abrogazione intrinseca: quando una nuova
normativa copre un determinato arco temporale
(es. legge di bilancio) o per determinate circostanze (es. stato di guerra);
– abrogazione generalizzata per disciplina
dell’intera materia: quando il legislatore espressamente abroga tutte le norme incompatibili
con la disciplina normativa contenuta nel nuovo
provvedimento.
Per il criterio di gerarchia una norma può
essere abrogata solo da una disposizione di pari
grado o di grado superiore. Per il criterio temporale vale il principio lex posterior derogat legi
priori, nel rispetto dell’altrettanto fondamentale
principio lex posterior generalis non derogat priori speciali e sempreché la materia sia costituzionalmente riservata ad una determinata fonte.
16
È prevista anche l’ipotesi di far rivivere una
disposizione abrogata o modificata: per ottenere
ciò il legislatore deve espressamente farne menzione nel nuovo provvedimento. L’abrogazione
di una norma abrogante non fa, invece, rivivere
la norma da quest’ultima abrogata, in quanto la
reviviscenza non si verifica allorché l’abrogazione derivi dalla legge, salvo che l’effetto ripristinatorio non sia disposto dalla legge medesima.
L’abrogazione va distinta dalla deroga (che si
ha quando una norma fa eccezione a regole contenute in altre norme), e dalla disapplicazione
(prevista nel caso in cui la Corte costituzionale
dichiari l’illegittimità costituzionale di una norma, “costringendo” il Parlamento, da un lato ad
emanare norme sostitutive in armonia con la Carta fondamentale e, dall’altro, ad abrogare, appunto, quella dichiarata illegittima).
Una particolare, e alquanto recente, applicazione dell’abrogazione si può trovare nei testi unici, finalizzati a riordinare e raccogliere in
un unico provvedimento la disciplina normativa
di un’intera materia precedentemente regolata in
una molteplicità di norme.
u  L’abrogazione, limitando ai fatti verificatisi fino ad un certo momento la sfera di operatività della legge abrogata, incide su questa nel
senso che, essa, originariamente fonte di una
norma riferibile ad una serie indefinita di fatti
futuri, è, ormai, fonte di una norma riferibile
solo ad una serie definita di fatti passati (Corte
Cost. 199/1971).
16. Trattamento dello straniero. –
Lo straniero (1) è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione
di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali (29).
Questa disposizione vale anche per le
persone giuridiche straniere (29; 10 Cost.;
2508 ss. cc.) (2).
(1) Si vedano: L. 13 giugno 1912, n. 555, sulla cittadinanza italiana, e relative norme di esecuzione R.D. 2
agosto 1912, n. 949, con le modificazioni e le aggiunte
di cui alla L. 31 gennaio 1926, n. 108; L. 5 febbraio
1992, n. 91, nuove norme sulla cittadinanza, la quale
ha abrogato tutte le disposizioni antevigenti suddette;
D.L.vo C.P.S. 28 novembre 1947, n. 1430, esecuzione
del Trattato di pace tra l’Italia e le potenze Alleate e
Associate, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947; L. 21
aprile 1983, n. 123; L. 30 dicembre 1986, n. 943, e L. 16
marzo 1988, n. 81, per la regolarizzazione dei lavorato-
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17 – 31
ri extracomunitari in Italia; D.P.R. 30 dicembre 1965,
n. 1656, e il regolamento CEE 15 ottobre 1968, n. 1612,
per la libera circolazione dei cittadini di Stati membri
della CEE e per la libera circolazione dei lavoratori
all’interno della comunità; D.L. 30 dicembre 1989, n.
416, norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari, convertito, con modificazioni, nella L. 28 febbraio 1990,
n. 39; D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, e relativo
regolamento (D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394).
(2) Si veda la Convenzione sul reciproco riconoscimento delle società e persone giuridiche, con protocollo, firmata a Bruxelles il 29 febbraio 1968, resa esecutiva in Italia con L. 28 gennaio 1971, n. 220.
Lo straniero è colui che ha la cittadinanza di
uno Stato estero. La condizione di reciprocità (di
fatto) è intesa sia nel senso che lo Stato straniero riconosce nel proprio ordinamento un diritto uguale o simile a quello che un suo cittadino
intende esercitare in Italia, sia nel senso che lo
stesso Stato, nel riconoscerlo, non pone discriminazioni a danno del cittadino italiano. La prova della condizione di reciprocità incombe sullo
straniero attore.
Va, comunque, precisato che l’art. 3 Cost.,
malgrado il testuale riferimento ai cittadini, garantisce l’uguaglianza davanti alla legge anche
agli stranieri, laddove si tratti di assicurare la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo. Non sarebbe pertanto costituzionalmente giustificabile un
comportamento delle autorità italiane che assoggettasse ad opposti trattamenti stranieri di Stati
diversi, a seconda delle varie relazioni internazionali esistenti tra l’Italia e i rispettivi Paesi di
provenienza.
La personalità giuridica non è un diritto civile
attribuibile ad una società straniera a condizione
di reciprocità, bensì un presupposto, ossia una situazione giuridica concreta, definita dall’ordinamento straniero, che ha conferito la personalità,
affinché possa operare la condizione di reciprocità.
u  Dal coordinamento dell’art. 16 delle preleggi, che ammette lo straniero a godere dei
diritti civili attribuiti al cittadino italiano a condizione di reciprocità, con l’art. 24, primo comma,
della Costituzione – per il quale tutti possono
agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed
interessi legittimi – si deduce che allo straniero,
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
non diversamente che al cittadino, è riconosciuto
il potere di azione, il quale, in quanto non direttamente contemplato dall’art. 16 delle preleggi,
non è soggetto alla condizione di reciprocità posta da detta norma (5454/1990, rv 467579).
u  L’Anstalt del Liechtenstein, in quanto
persona giuridica nell’ordinamento di origine,
è tale anche per l’ordinamento italiano, che riconosce la personalità alle organizzazioni che
ne sono dotate nell’ordinamento dello Stato
al quale appartengono, non ostandovi la circostanza che, secondo la legge nazionale, l’Anstalt
può essere costituita anche da un solo fondatore, dato che anche nell’ordinamento italiano
sono possibili strutture organizzative costituite
da una sola persona, con le fondazioni; ne consegue che le Anstalten, attesa la reciprocità di
trattamento tra l’Italia ed il Liechtenstein, debbono essere ammesse, in Italia, all’esercizio dei
diritti giurisdizionali, ai sensi dell’art. 16 delle
preleggi (1853/1993, rv 480913).
u  L’esistenza della condizione di reciprocità
prevista dall’art. 16 delle preleggi, ponendosi
come fatto costitutivo del diritto azionato dallo
straniero, deve da lui essere provata in caso di
contestazione e, poiché la conoscenza della legge straniera si risolve in una “quaestio facti”, la
prova può essere data con ogni mezzo idoneo,
anche con attestazione ufficiale (cosiddetto
“affidavit”) di organo dello Stato estero e senza
che sia necessaria l’acquisizione del testo della
legge straniera (12978/1995, rv 495146).
u  L’accertamento della legge straniera
che assicuri la condizione di reciprocità di cui
all’art. 16 delle preleggi è compito riservato
al giudice di merito, che è tenuto a procedere
non già secondo il principio “iura novit curia”,
bensì secondo i criteri generali in tema di onere
della prova, configurandosi la legge straniera,
in seno alla controversia instauratasi dinanzi al
giudice nazionale, come mero fatto presupposto perché operi la condizione di reciprocità di
cui al citato art. 16 delle preleggi. Detto accertamento, se motivato in assenza di vizi logici o
giuridici, si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità della S.C. (8171/2000, rv. 537636).
u  L’esistenza della condizione di reciprocità
prevista dall’art. 16 delle preleggi, ponendosi
come fatto costitutivo del diritto azionato dallo
straniero, deve da lui essere provata in caso di
contestazione (10360/2000, rv 539270).
17 – 31. (Omissis) (1).
(1) Articoli abrogati dall’art. 73 della L. 31 maggio
1995, n. 218, a decorrere dal 1° settembre 1995.
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