Etnografia e valutazione nell`analisi

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Etnografia e valutazione nell’analisi organizzativa1
di Veronica Lo Presti
1. L’esordio dell’approccio etnografico nelle organizzazioni
Dal 1979 – anno di pubblicazione della prima etnografia organizzativa su Administrative
science quarterly – fino a oggi, lo studio culturale delle organizzazioni ha avuto uno
straordinario sviluppo e si è affermato come uno dei filoni più importanti e accreditati della
ricerca organizzativa. La convinzione piuttosto diffusa fra gli studiosi che “ciò che davvero
conta nella vita dell’organizzazione si svolge al livello culturale” (Louis, 1981, p. 250) è
testimoniata dai numerosi articoli sull’analisi culturale pubblicati sulle più note riviste di
organizzazione quali il Journal of management studies (che nel 1982 propone un numero
monografico sulle organizzazioni come sistemi ideologici), Administrative science quarterly
(che nel 1983 pubblica un numero speciale sulla cultura organizzativa) e il Journal of
management (che nel 1985 dedica un numero intero al simbolismo organizzativo). Anche la
comunità accademica sembra aver mostrato un interesse sempre maggiore all’approccio
culturale nelle organizzazioni, tanto da organizzare un convegno sul tema dal titolo
“L’etnografia nell’analisi organizzativa”, tenutosi presso l’Università di Torino nel giugno del
1999 e da dedicare il n. 2 dell’anno XLIII di Rassegna italiana di sociologia all’etnografia
organizzativa. Come afferma Bonazzi (1995), negli ultimi due decenni l’approccio
etnografico ha ottenuto grande diffusione nel campo degli studi organizzativi ed è stato
privilegiato da gran parte degli studiosi insoddisfatti dei risultati delle analisi quantitative fino
ad allora condotte. La preferenza per l’opzione metodologica qualitativa nell’analisi
organizzativa rappresenta l’esito della ricerca di un’alternativa al paradigma razionalista
quantitativo fino ad allora dominante, a seguito dello scetticismo dei ricercatori sociali sulla
possibilità di produrre dati che non distorcessero l’oggetto di studio, il funzionamento
organizzativo (Van Maanen, 1979).
In accordo con Pasquale Gagliardi, è possibile affermare che in Europa la nascita
dell’approccio culturale alle organizzazioni si configura come un fenomeno interno alla
comunità scientifica, come l’approdo quasi naturale dell’ormai diffusa critica a una
interpretazione hard del positivismo sociologico (Turner, 1986); mentre negli Stati Uniti
(dove il rapporto fra ricerca e industria è più stretto che in Europa) la domanda di nuovi
modelli interpretativi della realtà organizzativa nasce, probabilmente, dalla crisi del
primato economico del Paese e dalla difficoltà di capire la superiorità delle imprese
giapponesi con le teorie dominanti. Più in generale, in tutto il mondo industriale, le imprese
coinvolte in processi di ristrutturazione sembrano prendere coscienza della propria identità
culturale nella misura in cui questa viene messa in crisi e si comincia a diffondere l’idea
che la crescente complessità della vita sociale e organizzativa sia dominabile attraverso
l’utilizzo delle rappresentazioni simboliche e delle funzioni immaginative (Gagliardi, 1995).
In particolare, l’esordio dell’analisi culturale delle organizzazioni sembra essere segnato da
due eventi, rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa, che enunciano le istanze
fondamentali del nascente approccio.
Il saggio è stato elaborato a partire dalle riflessioni sviluppate dall’autrice in occasione della pubblicazione del volume
“Prospettive di analisi organizzativa. Metodi e pratiche per un approccio integrato”, Lo Presti V., Franco Angeli, 2009, a cui si
rimanda per una trattazione approfondita del rapporto tra approcci di ricerca e analisi organizzativa.
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Veronica Lo Presti è dottore di ricerca in Metodologia delle scienze sociali e docente a contratto di Sociologia della
devianza presso l’Università degli studi di L’Aquila.
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Il primo evento si riferisce alla pubblicazione di una vera e propria etnografia
organizzativa (il saggio del 1979 di Pettigrew) all’interno del numero 24 di Administrative
science quarterly, la più prestigiosa rivista di studi organizzativi, interamente dedicata all’utilizzo di metodi qualitativi nella ricerca organizzativa. Il numero 24/4 della rivista
rappresenta una pietra miliare per lo studio della cultura organizzativa, in quanto
contiene una prima definizione sistematica delle categorie analitiche fondamentali
dell’approccio culturale alle organizzazioni (simboli, miti, riti ecc.), offre precise
indicazioni metodologiche per l’analisi organizzativa di tipo processuale e longitudinale
orientata antropologicamente e segna il riaccreditamento dell’analisi qualitativa tra gli
studiosi delle organizzazioni. Il secondo evento è la fondazione nel 1981 dello Scos –
Standing conference on organizational symbolism – come gruppo di lavoro autonomo
all’interno dell’Egos – European group for organizational studies –. In Italia, la prospettiva
di analisi culturale viene sviluppata e diffusa, in particolare, grazie agli studi di Pasquale
Gagliardi (1986) che tenta una definizione e sistematizzazione sul piano teorico e di
Fabrizio Battistelli, che introduce l’utilizzo delle metafore nell’analisi simbolica delle
organizzazioni e produce in base a essa interessanti ricerche sul campo, come quella
sull’istituzione militare (1990).
Negli intenti dei fondatori, che si evincono dai documenti relativi ai programmi e alle
attività del gruppo2, c’è l’esigenza di studiare l’organizzazione come fenomeno umano e
sociale in base a un approccio interdisciplinare fondato sull’utilizzo di metodi, concetti e
metafore derivanti dalla linguistica, dall’antropologia, dalla letteratura, dalla sociologia
ecc. L’assunto di base è che la dominanza di qualsiasi paradigma disciplinare diminuisca
le possibilità di interpretazione creativa dei complessi fenomeni organizzativi e sociali e
che il progresso della conoscenza organizzativa possa essere favorito da un fecondo
scambio intellettuale scevro dai meccanismi di cesura che ogni singolo paradigma
comporta.
Si afferma così una nuova visione delle organizzazioni, intese come forme espressive e
come manifestazioni di funzioni mentali superiori come il linguaggio e la creazione di
significato, da analizzare non solo nei loro aspetti strumentali, economici e materiali, ma
anche nei loro aspetti ideativi e simbolici.
Gli studi condotti in base all’approccio culturale sostituiscono alle tradizionali metafore
della “macchina” e dell’“organismo” (sottese alla teoria classica e a quella sistemicocontingentista fino ad allora dominanti), la metafora della “cultura” tratta dal mondo
sociale. In base a questa concezione, le organizzazioni sono analizzate come entità
culturali e simboliche e la ricchezza della vita organizzativa può essere colta attraverso
modelli di ricerca interpretativi e interattivi (Gagliardi, 1995). La caratteristica che
accomuna gli studi sulle culture organizzative è quella di considerare la cultura non più
come un ulteriore fattore di contingenza, come qualcosa che l’organizzazione ha,
insieme ad altre caratteristiche, ma come qualcosa che l’organizzazione è (Smircich,
1983).
Dunque, negli ultimi due decenni, “il pendolo delle opzioni metodologiche ed
epistemologiche nel campo degli studi organizzativi si è decisamente spostato in
direzione dei metodi qualitativi” (Bonazzi, 1995, p. 57); tra questi, in particolare, quello
etnografico è divenuto il metodo più frequentemente adoperato e accreditato.
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Dal 1985 viene pubblicata anche una rivista, Dragon, interamente dedicata al simbolismo organizzativo.
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2. L’etnografia organizzativa contemporanea
Recentemente Marzano (2006) afferma che attualmente l’etnografia può essere
caratterizzata dall’utilizzo dell’osservazione partecipante, ovvero dal fatto che il
ricercatore sceglie di studiare la realtà sociale attraverso la presenza fisica e
l’osservazione diretta sul campo di indagine delle attività ordinarie di un gruppo sociale. In
questo lavoro, in generale l’etnografia è definita come un approccio di indagine utile ad
analizzare contesti sociali di diverso tipo (come relazioni, professioni, organizzazioni, mondi
ecc.) in base a una prospettiva “non scontata”, a “un certo sguardo” direbbero Dal Lago
e De Biasi (2002) con l’ausilio di un vasto bagaglio di tecniche di ricerca, tra cui anche,
ma non solo, l’osservazione partecipante. La ragione principale del successo
dell’approccio etnografico in campo organizzativo è rintracciata da Marzano (1999) nella
sua duttilità epistemica, nella sua provata compatibilità con una gamma di opzioni
teoriche, dal funzionalismo all’interazionismo simbolico e alla fenomenologia e nella sua
cumulatività, almeno in linea di principio, con i metodi quantitativi3. Inoltre, recentemente,
la ricerca etnografica nel campo degli studi organizzativi è stata combinata con
strumenti interpretativi eterogenei come l’analisi conversazionale (Boden, 1994), la
semiotica (Barley, 1983) e lo studio funzionalista delle culture organizzative (McDonald,
1988). Lo studio di McDonald è un esempio del fatto che è possibile “fare etnografia”
partendo da concezioni epistemologiche differenti; se questo autore ha studiato la
nascita della cultura organizzativa di un comitato olimpico a partire da una concezione
teorica funzionalista e da un’epistemologia oggettivista, d’altra parte è possibile
analizzare la cultura organizzativa di un gruppo di magistrati rifacendosi, come Fabio
Quassoli (2002) a una prospettiva etnometodologica, attraverso lo studio delle modalità in
base alle quali gli operatori del diritto utilizzano le norme stabilite nei codici formali per
rendere ragionevoli e coerenti le decisioni prese in materia penale. Non stupisce dunque,
viste le premesse, che, quando il paradigma funzionalista è entrato in crisi alla fine degli
anni Settanta, quella della cultura sia diventata una fortunata metafora di base per
descrivere le organizzazioni e quello etnografico un approccio di ricerca empirica di
successo tra gli studiosi.
Attualmente, l’approccio etnografico costituisce uno dei filoni più diffusi e accreditati
nell’ambito della ricerca organizzativa e ha prodotto una mole variegata e interessante
di studi su organizzazioni di diverso tipo: dalle scuole, agli ospedali, alle imprese produttive
e alle multinazionali..
Difatti, come ricorda Colombo (2001), il numero delle pubblicazioni riferite a esperienze
etnografiche che approfondiscono aspetti teorici e metodologici di questo tipo di ricerca
è in aumento, come gli studi sul campo di giovani ricercatori interessati a utilizzare
l’approccio etnografico per analizzare le realtà organizzative contemporanee più
diversificate. Dal Lago e De Biasi (2002) affermano che in Italia si può, attualmente,
parlare di “urbanizzazione” della ricerca etnografica poiché esistono diverse interessanti
monografie (Dal Lago, 1990; Battistelli, 1990; Torti, 1997; Colombo, 1998; Sassatelli, 2000) e
anche dei manuali (Gobo, 2001; Marzano, 2006).
3
In ambito organizzativo sono state condotte anche ricerche fondate contemporaneamente su analisi qualitative e quantitative,
quali quella di Siehl e Martin (1988) sulla cultura organizzativa della General Motors e quella di Hofstede (1990).
3
Questa riscoperta dell’etnografia si deve leggere all’interno di una più generale e diffusa
“richiesta di qualità” (Melucci, 1998) e riveste, attualmente, un ruolo centrale in una fase
di ripensamento complessivo delle categorie e dei metodi della ricerca sociale.
Le tendenze più rilevanti delle società occidentali, espresse in nuovi linguaggi teorici –
post-modernismo, società post-industriale, flessibilità, glocalismo – stimolano una
profonda revisione critica della concezione del mondo ereditata dalla modernità.
Come afferma Colombo (2001, p. 205), “nuovi modi di essere, di conoscere e di narrare
si affiancano o sostituiscono quelli che costituivano e sostenevano il progetto
occidentale moderno”; i processi di “stiramento” spazio-temporale aumentano le
interdipendenze, legano gli eventi locali a ciò che si verifica su scala mondiale, mentre
la crisi delle grandi narrazioni (Lyotard, 1979) porta a una certa diffidenza verso i
concetti di scienza e progresso favorendo l’interesse per gli avvenimenti del “qui e ora”
propri della vita quotidiana. Nelle scienze umane e sociali sembra essere sempre più
diffuso l’interesse per un insieme di metodologie utili a far emergere le pratiche concrete
degli attori sociali nei loro contesti di vita quotidiana (Dal Lago, De Biasi, 2002). In questo
quadro, è possibile comprendere il “perché” del successo dell’etnografia
contemporanea, in profonda sintonia con questi nuovi orientamenti per la sua capacità
di fornire indicazioni di ricerca e interpretazioni della realtà utili a rispondere alle
principali domande che individui e ricercatori si pongono nella società occidentale
odierna.
Prima di tutto, la sensibilità nei confronti della differenza. L’etnografia, difatti, nasce
proprio come modalità privilegiata di osservazione e conoscenza dell’alterità; i primi
etnografi erano interessati alla descrizione, più fedele possibile, di mondi differenti dal
proprio e le popolazioni lontane ed esotiche suscitavano grande curiosità nei ricercatori
del primo periodo. Fin dalle origini, la percezione di una distanza, di una diversa
rappresentazione del mondo e delle sue regole, insieme al tentativo di tradurre questa
“differenza” da un universo simbolico alieno al proprio, caratterizzano la ricerca
etnografica.
Un secondo aspetto che lega l’etnografia alla sensibilità e agli interrogativi della teoria
sociale contemporanea è dato dalle peculiarità del “lavoro sul campo”. L’etnografia è
vicina a un’esperienza di straniamento (Ginzburg, 1998), di spaesamento (Kurosawa,
2000), alla capacità di sospendere ogni giudizio sul senso e sulla realtà, di rimettere in
discussione ciò che agli altri sembra scontato; lo straniamento rappresenta una tecnica
cognitiva utile a mettere in relazione due universi di senso differenti. La conoscenza
creata dall’etnografia si basa proprio su questa capacità di presa di distanza e di
traduzione continua: “nella pratica antropologica, nasce dalla capacità di descrivere
l’esotico e lo straordinario con le categorie familiari; nella pratica sociologica, nasce
dalla capacità di descrivere il quotidiano e il normale con delle categorie esotiche”
(Colombo, 2001, p. 207). Inoltre, occorre notare come l’osservazione etnografica sia in
linea con l’attenzione contemporanea per gli eventi della vita quotidiana, centrando
l’attenzione sulle pratiche minute e banali della realtà e sul senso soggettivo che gli
attori attribuiscono a ciò che fanno e al mondo in cui vivono.
In questo panorama sono fiorite le definizioni più recenti del termine stesso “etnografia”.
Dal Lago e De Biasi (2002, p. XVI) parlano di “etnografia sociale” come di uno “stile di
ricerca e di analisi” volto alla “descrizione di un particolare mondo sociale in base a una
prospettiva non scontata”. Marzano (2006, p. 3) apre il suo testo Etnografia e ricerca
4
sociale affermando che i significati dell’etnografia sono molteplici e possono essere
sintetizzati in due principali accezioni: da un lato, l’etnografia sarebbe “quel metodo di
ricerca sociale noto anche come osservazione partecipante, caratterizzato dal fatto che
un ricercatore (o un’équipe di ricerca) raccoglie informazioni sulla cultura e sulla vita
quotidiana (o su qualche loro aspetto più specifico) di un certo gruppo sociale,
osservando direttamente le attività ordinarie delle persone di quel gruppo e in qualche
caso partecipandovi direttamente. Dall’altro lato, il termine etnografia designerebbe il
prodotto dell’attività di ricerca, ossia i saggi, i testi scritti dai ricercatori al loro ritorno dal
campo.
In questa sede, si intende per “etnografia” un approccio di ricerca che mira a descrivere
e a comprendere il funzionamento di differenti contesti quotidiani, professionali e sociali
attraverso l’osservazione delle pratiche effettive della vita ordinaria di un gruppo sociale.
Si tratta di un approccio, ovvero di un modo generale di guardare una realtà, fatta di
micro-cosmi continuamente modificati dalle interazioni e interpretazioni dei membri che li
compongono, orientato da quel “certo sguardo”, di cui parlano Dal Lago e De Biasi
(2002), che consente di inquadrare gli eventi ordinari in una prospettiva non scontata e di
problematizzarli. L’osservazione partecipante costituisce la tecnica privilegiata di analisi
dei micro-contesti della vita sociale, ma non l’unica. La raccolta di documenti formali e
informali, le storie di vita, le interviste focalizzate, il focus group come l’analisi secondaria
di dati statistici possono risultare tecniche utili nell’economia di un percorso di ricerca,
quale quello etnografico, contraddistinto da una costante “imprevedibilità” (Marzano,
2006).
3. La “sfida dell’etnografia”: dalle crisi alla scoperta della riflessività
È opportuno prendere atto della situazione di transizione che attraversa, ai giorni nostri,
l’etnografia che sta cambiando perché il mondo che osserva e le domande che gli
individui si pongono su di esso sono cambiate; le modifiche nel modo di essere, di
conoscere e di narrare delle società occidentali contemporanee hanno contribuito a
mettere in crisi il progetto della modernità e hanno prodotto accesi dibattiti tra gli
etnografi, che spingono a rivedere gli assunti e le pratiche di ricerca sul campo. Tale
revisione appare ancor più urgente quando l’etnografo “torna a casa” e riorienta i suoi
strumenti analitici verso le società occidentali. A questo proposito, Colombo (2001) ha
individuato tre nodi problematici ed elementi di rottura con la tradizione classica, tutt’ora
oggetto di dibattito: la crisi delle rappresentazioni, la crisi di legittimazione e la crisi del
fondamento epistemologico e delle pratiche dell’etnografia (Denzin, 1997). Il dibattito
relativo alla crisi delle rappresentazioni investe una delle caratteristiche peculiari
dell’approccio etnografico, ovvero l’osservazione, sottolineandone il carattere
inevitabilmente mediato.
Diversamente da quanto affermato dai “pionieri” dell’etnografia, la pratica e la scrittura
etnografica non possono essere rivolte a “catturare” la realtà attraverso un’accurata e
neutrale raccolta e interpretazione del materiale di campo (osservazioni, note, interviste,
documenti), ma devono centrare l’attenzione ai processi attraverso cui l’etnografo e i
suoi informatori costruiscono la realtà e la narrano. L’etnografia non può cogliere
direttamente l’esperienza di vita, ma piuttosto fornire narrazioni di narrazioni,
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interpretazioni di interpretazioni; essa non può essere ridotta a una mera descrizione che
riflette una realtà autonoma e preesistente, ma costituisce un vero e proprio processo
sociale di produzione di realtà (Colombo, 1998). Le recenti critiche all’etnografia
“classica” riconoscono, dunque, che l’osservazione etnografica è “riflessiva” nel senso
etnometodologico del termine, tale per cui le procedure di osservazione e descrizione di
un contesto sociale coincidono con la sua produzione. La crisi delle rappresentazioni
pone, di conseguenza, il problema della credibilità e della validità delle descrizioni
etnografiche nei termini di descrizioni oggettive e sposta l’attenzione dai contenuti ai
processi relazionali che costituiscono un elemento fondamentale della pratica di ricerca.
Il secondo nodo problematico individuato da Colombo (2001) è strettamente legato alle
riflessioni suddette e riguarda la crisi di legittimazione. Si riconosce che ogni narrazione e
ogni descrizione non si limitano a riflettere un mondo reale, ma contribuiscono in modo
specifico e unico alla sua creazione; ciò rende problematica la posizione dell’etnografo e
la sua autorevolezza nei confronti del testo etnografico prodotto. La crisi di legittimazione
evidenzia il carattere situato del resoconto etnografico: le relazioni di potere tra etnografo
e attori presenti sul campo, le motivazioni che guidano la ricerca, la particolare posizione
sociale del ricercatore (genere, età, appartenenza etnica, posizione accademica)
pongono problemi rilevanti rispetto ai fondamenti epistemologici e alle pratiche di lavoro
sul campo. Proprio a partire da questi nodi problematici relativi ai criteri di valutazione e di
definizione dell’etnografia, si è generato un dibattito acceso e costruttivo che ha portato
a una revisione degli assunti e delle pratiche della ricerca etnografica; il banco di prova
privilegiato dei risvolti avviati dalla “svolta interpretativa” è stato proprio quello degli studi
organizzativi, campo dove si svolge tuttora la sfida dell’etnografia.
3.1 La crisi delle pratiche dell’etnografia: la revisione dei concetti di “osservazione” e di
“osservatore”
La crisi del modello classico e positivista dell’etnografia e i cambiamenti avvenuti
nell’odierna società occidentale e nelle organizzazioni complesse hanno portato alla
necessità di mettere in discussione i concetti di “osservazione” e di “osservatore”, tanto
cari alla tradizione etnografica.
La ricerca etnografica nasce al fine di comprendere e interpretare il punto di vista dei
nativi, di descrivere ciò di cui i nativi non hanno consapevolezza e di spiegare il corso
degli eventi che si succedono sul campo, o di cui si ha notizia dai propri informatori
(Cardano, 1997). Come si è già detto, fin dall’inizio, la tecnica privilegiata dall’etnografo
per rispondere a tali obiettivi è quella dell’osservazione partecipante, protagonista
indiscussa del lavoro sul campo4 (fieldwork) e tratto distintivo della ricerca etnografica
fondata sulla partecipazione dell’osservatore alla vita quotidiana delle persone su cui
conduce lo studio.
Nella tradizione classica dell’etnografia il ricercatore, in virtù delle sue capacità di analisi e
delle sue competenze scientifiche, era considerato un essere “invisibile e onnipotente”
(Colombo, 2001, p. 213), capace di cogliere la realtà indipendentemente dalla
collaborazione dei soggetti osservati e in modo più profondo di questi stessi. I
4
Anche se l’osservazione partecipante si presenta come la tecnica d’indagine per eccellenza del lavoro etnografico, l’etnografo
ha a disposizione una ricca “cassetta degli attrezzi” (Cardano, 1997, p. 45) in cui trovano posto tecniche di diversa natura:
dall’osservazione naturale al sondaggio, dall’intervista all’analisi documentale.
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cambiamenti avvenuti nella società occidentale contemporanea spingono a riflettere su
queste credenze e sulla necessità per l’etnografo di “dialogare” con i soggetti osservati,
attraverso una nuova modalità di ricerca che si avvicina sempre più a un’esperienza
cooperativa e collaborativa che coinvolge appieno i soggetti indagati.
L’etnografo non è in grado di “descrivere oggettivamente” la cultura analizzata, ma
deve negoziare insieme ai nativi la comprensione e l’interpretazione del suo campo di
osservazione; tentativo tutt’altro che semplice da realizzare se questo campo è
rappresentato da una realtà complessa e intricata quale un’organizzazione.
Tutte le critiche degli studiosi post-moderni che hanno investito i “classici” come Geertz
(1973; tr. it., 1986) partono dalla convinzione che sia ingiusto parlare a nome di altri e
delegimittano le potenzialità dell’etnografo nel “dare voce” alle culture diverse dalla
propria. In questa fase di “crisi” sono nate le proposte di riorientare le pratiche
etnografiche su un versante dialogico e di decostruzione testuale, rinunciando
definitivamente a un’idea di metodo scientifico e sottolineando il carattere riflessivo
dell’esperienza etnografica. Esemplare di questa fase è l’opera di Rabinow del 1977,
Reflections on fieldworks in Morocco, in cui l’esperienza di ricerca dell’autore diviene
l’oggetto principale della ricerca. L’etnografia sperimenta così un nuovo modo di “fare
ricerca” e lo trasporta anche sul terreno delle organizzazioni complesse, presenti, ormai, in
ogni settore della società odierna.
Gli studiosi della cultura organizzativa hanno individuato nell’osservazione la tecnica di
analisi privilegiata ai fini della comprensione del sistema culturale proprio dei contesti
organizzati, in base all’idea che il modo migliore per cogliere e interpretare la cultura
fosse quello di “studiare i comportamenti quali si manifestano nel vivo dell’azione
organizzata”, considerando i nativi non più come “rispondenti”, ma come “informanti”
(Van Maanen, 1979) ovvero fornitori, spesso inconsapevoli, di dati espressivi della cultura
di cui sono membri e che manifestano attraverso i loro comportamenti e i loro gesti, il loro
linguaggio e i loro simboli.
Un esempio interessante di osservazione partecipante in campo organizzativo è offerto
dallo studio di Gedeon Kunda (1991), che si concentra sull’analisi di una grande
industria high-tech, famosa anche nella letteratura manageriale per la sua cultura
innovativa. Il contributo di quest’autore è interessante anche perché costituisce una
testimonianza del tentativo, operato dal management, di ingegnerizzare la cultura di
un’organizzazione, ovvero di poter trattare i materiali culturali in un’ottica gestionale: la
cultura è, qui, vista come uno strumento di controllo che influenza più di ogni altra cosa
sentimenti ed emozioni. Si tratta di uno studio etnografico della durata di un anno,
durante il quale Kunda, in qualità di osservatore partecipante, ha la possibilità di
analizzare da vicino la realtà di una multinazionale denominata fittiziamente “High
technology”. Il ricercatore descrive le modalità adottate dal management per
presentare, diffondere e socializzare una cultura organizzativa; a questo scopo si serve
anche dell’analisi di documenti che permeano la vita organizzativa: slogan,
videoregistrazioni, manuali, resoconti di discorsi, depliant di presentazione dell’azienda
da cui traspare l’ideologia, l’identità di un’organizzazione che rifiuta la gerarchia per
valorizzare l’individuo e tutte le sue potenzialità.
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Kunda presta grande attenzione all’osservazione della vita quotidiana dell’organizzazione
e, dunque, partecipa alle riunioni del board fino agli incontri informali nella sala mensa,
negli uffici e nei laboratori, in modo da confrontare l’ideologia dell’organizzazione
contenuta nei documenti ufficiali con l’immagine che ne possiedono gli attori che vi
operano all’interno. Il racconto di Kunda è reso originale dallo spazio riservato a quello
che è stato definito come un confessional tale (Van Maanen, 1988, p. 73), un racconto
confessionale, una “meditazione auto-riflessiva sulla natura della comprensione
etnografica” (p. 92).
Mentre la prima parte dell’opera di Kunda è stata definita nei termini di una vera e
propria “etnografia realista” (Czarniawska-Joerges, 1997, p. 73) nella quale lo studioso
descrive, con abbondanza di particolari e forte di una solida cornice teorica, la cultura
della “tribù” (dell’organizzazione) che ha conosciuto e osservato, la seconda parte
costituisce una lunga appendice metodologica che prende la forma di un racconto
confessionale. Nel confessional di Kunda, ciò che prende corpo e getta una nuova luce
sulla descrizione realista della Tech, “è una lunga concatenazione di “rispecchiamenti”, di
“riflessi”, di ambivalenze costitutive e di connessioni insospettate tra la biografia
dell’autore e i risultati della ricerca. In questo senso, l’etnografo diventa metodologo di se
stesso e sviluppa un atteggiamento riflessivo circa la natura della conoscenza prodotta e i
processi conoscitivi in essa implicati. La scoperta della riflessività ribalta la logica del
distacco e della descrizione realista e “oggettiva” propria della tradizione etnografica
classica e porta in primo piano l’importanza del coinvolgimento e della partecipazione,
del dialogo tra esperienza del ricercatore e vita organizzativa degli attori sociali. La
presenza di un atteggiamento riflessivo, secondo Marzano (2001), influenza l’intero
impianto della ricerca e si riflette sulla descrizione dei contesti organizzativi nei quali si
svolge l’azione sociale, nelle “immagini” dell’organizzazione che l’etnografo offre di
ritorno dal campo. L’ipotesi sostenuta recentemente da diversi autori (Melucci, 1998,
Colombo, 2001, Marzano, 2001) è che una ricerca che non si fondi sulla riflessività tenda a
privilegiare una visione “distale” dell’organizzazione (Cooper, Law, 1995) che salta
direttamente alle conclusioni, che privilegia i risultati e le conseguenze e che dipinge
l’organizzazione come un’entità a sé stante. Al contrario, una sociologia riflessiva porta a
una visione “prossimale” dei fenomeni organizzativi, a una sociologia “del divenire” che
studia ciò che è continuo e incompiuto e privilegia il coinvolgimento, la simmetria, la
complicità, l’azione per contatto.
Si tratta, dunque, di quella sociologia dei verbi e non dei nomi, dell’organizzare e non
dell’organizzazione già proposta da Weick (1995), che mira a mettere in luce il carattere
processuale e relazionale dell’azione e che preferisce parlare di attività ordinarie piuttosto
che di ordine sociale.
4. Attualità e dilemmi dell’etnografia contemporanea: quando un’etnografia diventa
“valutativa”
L’interesse etnografico per i mondi contemporanei, i processi di stravolgimento e
mutamento che li caratterizzano, le nuove domande e le nuove lenti attraverso cui
osserviamo la realtà sociale, insieme alla necessità di rendere conto della differenza e
della complessità delle organizzazioni odierne, hanno contribuito a fare dell’etnografia un
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approccio attraente e in sintonia con le sensibilità contemporanee generando, al
contempo, profonde revisioni nei suoi fondamenti e nelle sue tecniche di indagine.
Il campo delle organizzazioni complesse di ogni tipo, le “imprese5” contemporanee, ha
costituito un fertile terreno di prova per la ricerca etnografica, con la conseguenza di
produrre una ricca mole di studi e ricerche finalizzate ad analizzare le organizzazioni come
“culture”. Al di là di un’interpretazione privilegiata delle organizzazioni in termini culturali,
gli studiosi hanno scelto di ricorrere all’analisi culturale ragionando in termini di maggiore
rilevanza e pertinenza rispetto alla natura delle contingenze in corso e delle prime
interpretazioni dei problemi oggetto di studio.
In questo modo, l’analisi culturale delle organizzazioni si è rivelata particolarmente utile in
quelle situazioni in cui si è ipotizzato che il sistema di principi e valori che orienta il
comportamento degli attori sociali rappresenti un ostacolo, oppure una risorsa importante
da rafforzare per la realizzazione di specifici progetti strategici o organizzativi; per
esempio, in caso di processi di acquisizione o fusione all’interno di aziende nella fase di
gestione dei processi di integrazione delle diverse realtà organizzative, o ancora quando
si ritenga necessario riorientare atteggiamenti e comportamenti valutati inadeguati ad
affrontare le sfide e i problemi del momento, oppure là dove si voglia apprezzare e
misurare il potenziale culturale, onde valorizzare le competenze esistenti. Il riscontro di
un’analisi etnografica può risultare utile anche nei casi in cui si desideri consolidare
l’identità collettiva, in un momento in cui nuovi leader o nuovi prodotti possono essere
percepiti come minaccianti la continuità dell’impresa, oppure là dove si voglia capire in
quale misura sia necessario mettere in discussione il patrimonio di assunti e di credenze
consolidati a fronte di nuovi progetti; o ancora, semplicemente, là dove si vogliano
creare occasioni di consolidamento della nuova identità culturale e del commitment e
ridurre la forza delle ragioni di resistenza al cambiamento.
La ricerca di Lipari è un esempio interessante di queste nuove esigenze delle imprese
contemporanee, in quanto nasce – seppure casualmente a seguito di un incontro del
ricercatore con un vecchio amico – proprio dal bisogno del gruppo dirigente di avviare
una riflessione sui cambiamenti che stavano investendo “Etera”, l’impresa di consulenza
specializzata in gestione di progetti di sviluppo urbano, economico e territoriale. La
ricerca di Lipari costituisce un esempio di etnografia organizzativa in quanto riesce a far
emergere, a “scoprire” attraverso l’analisi dell’organizing – ovvero del processo
dell’organizzare (Weick, 1969) – la specifica cultura organizzativa di Etera, cogliendo il
processo in corso di manutenzione e di ricostruzione dell’organizzazione operato dai suoi
membri. I risultati esposti da Lipari nel testo riportato di seguito nella newsletter sono anche
e soprattutto il risultato di una valutazione condotta con un approccio etnografico e
“raccontata” attraverso il montaggio, il collage di tante storie dell’organizzazione,
costituendo un esempio proficuo di mix di etnografia, valutazione e riflessività. L’autore,
difatti, introduce l’elemento della valutazione nello studio etnografico di Etera attraverso
la creazione di momenti condivisi di riflessività indotta tra i membri dell’organizzazione
nelle varie fasi di restituzione e discussione dei risultati cui progressivamente giungeva la
5 In linea con la definizione di Pasquale Gagliardi (1995), il concetto di impresa è, qui, utilizzato nel senso
più esteso del termine, e non solo in riferimento alle organizzazioni con finalità di profitto. Come afferma
Gagliardi (p. 21) “è impresa ogni sistema cooperativo che per sopravvivere e raggiungere i suoi scopi –
economici o non economici – deve attivare relazioni di scambio affrontando problemi di adattamento
esterno e di integrazione interna”. In questo senso per “imprese” si intendono aziende come scuole, ospedali,
organizzazioni di polizia ecc.
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ricerca. La riflessività, “in quanto capacità riflessiva della coscienza di arrestare il flusso
ordinario della condotta di routine, per interrogarsi su di essa, per orientarne il senso, per
cambiarla, diventa il tratto fondante del soggetto, della sua libertà, della sua capacità di
apprendere” (Crespi, 1989). Nella ricerca, la creazione di momenti di restituzione collettivi
in cui stimolare la riflessività dei partecipanti e tirare fuori la capacità di interrogarsi sulle
attività ordinarie che, inconsciamente e automaticamente, si mettono in atto per farne
oggetto di riflessione condivisa, costituisce un’opportunità di valutazione e
apprendimento del proprio agire organizzativo per tutti gli attori.
A questo punto, la riflessione sull’utilità dell’approccio etnografico nella valutazione di
ambienti organizzativi come quello di Etera è aperta. I momenti di riflessività indotta dal
ricercatore nelle riunioni collettive di restituzione dei resoconti prodotti, rappresentano un
esercizio di valutazione utile sia per il ricercatore che studia l’organizzazione e vuole
capirne il funzionamento, sia per i suoi membri che hanno l’opportunità di soffermarsi a
riflettere, insieme alla pluralità degli attori del campo, su una realtà organizzativa che loro
stessi, ogni giorno con le loro pratiche di azioni, costruiscono e ricostruiscono,
delineandone l’identità e la cultura.
Attualmente, molte imprese committenti di ricerche nelle organizzazioni più disparate
richiedono un’analisi culturale del contesto organizzativo, specie all’interno di progetti di
internal marketing, in cui pare fondamentale acquisire consapevolezza della cultura al
fine di evitare di costruire un impianto comunicativo a essa estraneo, una sovrastruttura
parallela e indipendente da quella rete di comunicazioni che rappresenta il retaggio
dell’eredità culturale. In queste situazioni, i risultati di un’analisi culturale possono costituire
un riferimento pertinente per la presa di decisioni locali e specifiche, utili ad aumentare il
grado di efficacia, di responsabilità e anche di libertà degli attori (Piccardo, Benozzo,
1996). Per tutte queste ragioni, oggi, quello etnografico è considerato uno degli approcci
più utilizzati e accreditati nell’ambito della ricerca organizzativa, anche se vi sono ancora
dei problemi e dei dilemmi da affrontare, che chiamano in causa la questione della
legittimità dell’etnografia come pratica di ricerca dotata di validità scientifica oltre che di
utilità pratica.
Oggi, “fare etnografia” diventa un metodo multiplo sia sul piano delle tecniche sia sul
piano dei riferimenti teorici (Colombo, 2001, p. 223). Sul piano delle tecniche,
l’osservazione partecipante diviene uno degli strumenti dell’etnografia che non può fare
a meno dell’analisi dei documenti, della ricostruzione delle storie, dell’uso dei dati statistici
e di tutto ciò che consenta di cogliere e di rendere evidente la complessità e le relazioni
che convergono su un determinato oggetto di analisi quale l’organizzazione. Sul piano
dei riferimenti teorici, viene sempre meno la distinzione tra sociologia, antropologia, storia,
pedagogia e psicologia sociale, in quanto l’etnografia si muove su un territorio di confine
tra queste discipline favorendo l’ibridazione concettuale e l’integrazione di tradizioni
teoriche sorte per rispondere a interrogativi specifici e differenziati.
Esempio paradigmatico di questa “contaminazione” è il fertile incontro tra etnografia e
valutazione: i momenti di riflessività “indotta” sembrano consentire ai membri di
un’organizzazione di avviare una riflessione profonda sulla propria realtà culturale
quotidiana, sui propri ruoli e compiti, sulle responsabilità e, al contempo, uno strumento in
più per il ricercatore che vuole comprendere in profondità l’organizzazione e il suo
funzionamento.
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In questi casi, l’etnografia trova un fertile terreno di contaminazione con la tradizione
della storia orale6 e con la più moderna valutazione, in quanto i risultati di una ricerca
condotta in base a queste prospettive multiple non risultano utili solo per l’autore, ma
anche e soprattutto per i suoi attori.
Dunque, un possibile “antidoto” ai dilemmi e alle crisi dell’etnografia organizzativa
contemporanea può essere offerto proprio dall’adozione di un approccio di analisi che, a
seconda delle esigenze e degli obiettivi della specifica indagine, integri prospettive di
analisi differenti come l’etnografia, la storia orale e/o la valutazione.
Nelle esperienze di ricerca presentate in questa newsletter mi sembra si possa individuare
un primo archivio di casi di studio in cui l’approccio etnografico è utilizzato a fini valutativi
e di conseguenza si può cominciare a parlare di “etnografia valutativa”, nei termini
specifici di un’indagine i cui risultati ci consentono: 1. di formulare una serie di affermazioni
valutative sul funzionamento di un’organizzazione o di alcune sue parti; 2. di utilizzare
queste affermazioni valutative per migliorare il funzionamento dell’organizzazione
studiata. Se, come si è affermato in questo saggio, l’organizzazione è intesa come un
“tessuto culturale” continuamente costruito, distrutto e ricostruito dalle interazioni tra i suoi
membri, si comprende quanto sia complesso arrivare alla formulazione di affermazioni
valutative “valide” ovvero fondate su un impianto logico-concettuale solido e
giustificabile in tutte le sue componenti (Scriven, 1995; in Stame a c. di, 2007). Tale
operazione risulta ancora più difficile nel momento in cui l’etnografo valutatore, sulla base
delle affermazioni valutative, produce anche delle “raccomandazioni” per i committenti
che andranno a influenzare l’organizzazione e a produrre degli effettivi cambiamenti nel
suo funzionamento.
In altre parole, in linea con l’insegnamento di Scriven (1995), si ritiene che l’utilizzo di una
logica teorica e pratica della valutazione che sia trasparente, esplicita e pertanto
giustificabile in tutte le sue fasi, consenta all’etnografo che studia le organizzazioni un
modo utile per superare i dilemmi e le crisi dell’etnografia contemporanea per produrre
dei risultati che siano validi e utilizzabili.
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6 Sul rapporto tra etnografia organizzativa e storia orale, si rimanda al filone etnografico delle inchieste
orali legate al lavoro di Danilo Montaldi sociologo degli anni Sessanta e Settanta, deciso a documentare
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già citato di chi scrive (2009).
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