SOMMARIO
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EDITORIALE
PARTE PRIMA STUDI
9
L’area archeologica del teatro romano di Milano.
Monumento e valorizzazione
di Raffaella Viccei
57
La figura di Odisseo da Omero ai drammaturghi del quinto secolo a.C.
di Fabio Copani
83
Mattatori e primedonne.
La scena tragica e i suoi protagonisti in tre casi recenti
di Martina Treu
111
La traduzione collaborativa
della trilogia di Edward Bond The War Plays
di Margaret Rose e Salvatore Cabras
131
Il teatro delle marionette sull’acqua del Vietnam.
Parte seconda: un confronto tra tradizione e modernità.
Dalle ricerche teoriche al progetto di conservazione e valorizzazione
di Nguyen Quang Dat
155
RECENSIONI
PARTE SECONDA TACCUINO
171
Eccellenze sulla scena: i dieci nomi emergenti del teatro italiano
a cura dellla Redazione
175
La drammaturga: Angela Dematté
183
Il regista: Claudio Autelli
191
L’attrice: Francesca Ciocchetti
195
Il one man show : Giulio Cavalli
203
Il gruppo: Babilonia Teatri
211
La scenografa: Maria Spazzi
221
Il gruppo di danza: Zerogrammi
229
La performance : Pathosformel
235
Il festival: Danae
241
La contaminazione: Santasangre
249
Tra cinema e teatro, nuovi orizzonti della scena italiana.
Intervista a Maurizio Porro
Mattatori e primedonne.
La scena tragica e i suoi protagonisti in tre casi recenti
di Martina Treu
1.
Il dramma antico sulla scena moderna viene riproposto
e rivisitato sotto molti aspetti, ma spesso a catturare l’attenzione
del pubblico sono soprattutto gli intrecci e i personaggi che
contraddistinguono le vicende. Sotto questa superficie, a un
livello meno evidente che può sfuggire a certi lettori o spettatori,
stanno i rapporti di forza profondi che legano gli attori, prima
ancora dei personaggi, e la struttura drammaturgica che fa da
ossatura alla vicenda. In questo ambito, che chiamiamo per
convenzione ‘azione scenica’, esistono costanti e variabili che
spesso risalgono alle condizioni originarie di rappresentazione e
in vario modo condizionano, oggi come allora, molte scelte della
drammaturgia e di conseguenza dell’allestimento. 1
In particolare la prassi concorsuale dell’antica Atene imponeva,
com’è noto, alcune convenzioni fisse e limitazioni di varia natura,
a cominciare dal numero massimo di attori; e tuttavia al
drammaturgo si concedevano alcune deroghe e un certo margine
di variazione e innovazione: ne danno ampia testimonianza i
drammi superstiti, che pur in numero limitato offrono un campionario molto vasto di soluzioni drammaturgiche e spettacolari.
Riguardo agli attori, oggetto della presente indagine, va ricordato
1
I due livelli denominati per convenzione ‘vicenda’ e ‘azione scenica’, in cui si
muovono rispettivamente personaggi e attori, sono distinguibili ai fini dell’analisi non solo nelle tragedie, oggetto della presente indagine, ma anche nelle
commedie di Aristofane (per approfondimenti vedi Treu, 1999: 21 ss.)
Mattatori e primedonne
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anzitutto che – nel periodo d’oro del dramma attico – se ne prevedevano prima due e poi tre per dramma, e che la distribuzione
delle parti tra loro era governata da un rigoroso ordine gerarchico
nettamente a favore del primo attore, sempre e comunque. Anche
qui però, se si guarda caso per caso l’effettiva ripartizione dei
ruoli tra attori e coro, e il loro rispettivo peso nell’economia
drammatica, si possono osservare alcune varianti nella produzione superstite.
Il primo attore poteva rivestire all’occorrenza o un ruolo solo per
ciascun dramma oppure più d’uno in successione: in questo
secondo caso poteva interpretare anche personaggi episodici o
parti brevi, ma sempre di notevole impegno ed effetto. Il classico
esempio è l’ànghelos o messaggero anonimo, che può anche limitarsi a una sola comparsa in scena, ma deve avere capacità adeguate a raccontare in modo drammatico una parte cruciale della
vicenda, solitamente violenta o scabrosa, che per il noto tabù in
vigore all’epoca non poteva svolgersi in scena. Alcune commedie
e tragedie più chiaramente di altre appaiono costruite attorno a
una figura centrale di grande caratura – che alterna stili e registri
interpretativi, dal canto alla recitazione, e spesso rimane in scena
ininterrottamente per tutto il dramma – e dunque in teoria
richiedono un interprete dalle eccezionali risorse e dalle doti
istrioniche. Rispetto a questo ruolo predominante, vero e proprio
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PARTE PRIMA
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perno dell’azione scenica, tutti gli altri hanno necessariamente
minor rilievo, quando non sono decisamente di contorno o perfino semplici macchiette.
In altri casi invece – si veda ad esempio la cosiddetta ‘coppia
comica’ di certe commedie aristofanee – i meriti e le responsabilità vengono ripartiti con meno disparità tra due o più attori, i
cui personaggi si contendono la scena e il favore del pubblico,
insieme o in successione (fermo restando, ovviamente, il vantaggio ‘contrattuale’ del primo attore). In base alla qualità e quantità
delle battute è possibile ipotizzare con un buon margine di
certezza quale attore interpretasse in origine ciascun personaggio; va tenuto però presente che una stessa parte – inclusa quella
principale – in casi eccezionali poteva essere suddivisa tra più
attori, come presumibilmente accadeva nei Cavalieri di Aristofane.
Anche per questo è sempre bene distinguere, nell’analisi, il ‘primo
attore’ dal ‘protagonista’, intendendo con quest’ultimo il personaggio principale individuato secondo i criteri convenzionalmente
accettati (si veda a riguardo Treu, 1999: 21 ss.). Vi sono infine i
drammi cosiddetti ‘corali’, dove il peso dell’azione è ripartito
maggiormente tra gli attori e il coro o dove quest’ultimo è un vero e proprio coprotagonista.
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Mattatori e primedonne
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2.
Simili distinzioni, di ordine puramente pratico, sono ov-
viamente indicative e soggette a inevitabili interpretazioni da parte
del singolo lettore o spettatore, ma anche di ogni drammaturgo o
regista che affronti un dramma antico e ne proponga al pubblico
un adattamento o messinscena. Anche per questo il nostro campo
d’indagine – in gran parte ancora da esplorare – è irto di problemi
di grande complessità, non affrontabili qui in modo esaustivo; e
tuttavia credo valga la pena di fare alcune ‘osservazioni in corso
d’opera ’ corredandole di esempi recenti.
Da tempo mi occupo di questi aspetti della messinscena moderna
del dramma antico, soprattutto a proposito del coro; finora ho
avuto modo di mostrare, con un’ampia casistica, come diversi
elementi fondanti della messinscena – quali il numero dei coreuti
e il tempo dedicato al loro reclutamento e addestramento – possano variare anche notevolmente da un contesto all’altro: non
solo per ragioni artistiche, ma prima ancora per circostanze ed
esigenze contingenti quali lo spazio scenico a disposizione, le
condizioni economiche della produzione o la composizione della
compagnia (si veda Treu, 2007).
Tali fattori pesano naturalmente anche sull’altro polo del dramma, cui dedichiamo qui maggior attenzione, ossia le ripartizioni
dei ruoli tra gli attori. Negli spettacoli classici moderni non vige
l’antica regola dei tre attori, né quella di rispettare l’originaria
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PARTE PRIMA
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distribuzione delle parti; spesso, anzi, negli adattamenti si moltiplicano o si riducono gli attori, e ci sono casi in cui un solo attore
interpreta tutti i ruoli.
Gli esempi recenti, in altre parole, mostrano un’estrema varietà di
soluzioni e tendenze diverse, talvolta tese a riequilibrare i ruoli tra
gli attori, o viceversa accentuare lo squilibrio già esistente. Tra i
fattori che condizionano simili scelte – e prima ancora la decisione stessa di riscrivere o mettere in scena un dramma antico – possono esserci ragioni artistiche ed estetiche, mere questioni contrattuali, di cartellone o di cassetta, a seconda dal contesto specifico di ogni drammaturgia o allestimento. È anche per questo che,
a mio avviso, nel valutare fedeltà e riuscita di una moderna messinscena o adattamento dei classici non si può contare solo su parametri astratti, ma ogni caso va analizzato tenendo conto delle
specifiche variabili. Ci limiteremo qui ad alcuni esempi più attinenti al nostro oggetto, ossia la presenza di un attore, attrice o
gruppo di attori già formati, ciascuno con determinate caratteristiche, che inevitabilmente influenzano le scelte del regista – portandolo a privilegiare uno o l’altro personaggio nella messinscena – o
prima ancora il drammaturgo, che nell’adattamento cerca di
costruire personaggi ‘su misura’ per ciascun attore o quantomeno
per i protagonisti.
Un simile processo si osserva non solo a proposito dei drammi
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Mattatori e primedonne
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antichi, ma in tutti quelli virtualmente adatti a uno o più attori
con determinate caratteristiche consolidate: basti citare ad esempio, tra i casi a me più noti, i registi Ferdinando Bruni ed Elio De
Capitani, direttori artistici del Teatro dell’Elfo di Milano, che
spesso coinvolgono i membri storici della compagnia in drammi
corali dove ognuno possa trovare un ruolo adatto, come accadeva
un tempo nelle compagnie di giro. E qualcosa di simile accade
con la compagnia dell’Atir, più giovane ma fortemente coesa,
spesso impegnata al completo negli spettacoli diretti da Serena
Sinigaglia (si veda Giovannelli, 2007). In altri casi invece svetta sul
gruppo la presenza dominante di un interprete principale, sia o
meno scritturato all’interno di una compagnia, che si candida o è
chiamato a interpretare una parte; all’estremo il primo attore si
comporta da vero e proprio divo, mattatore o primadonna: tende a
oscurare tutti gli altri, sia come presenza scenica sia in termini di
budget, oppure condiziona le scelte della produzione, ad esempio
‘imponendo’ un regista o altri attori coprotagonisti, e così via.
Aspetti pratici di questo tipo, come i rapporti di forza tra gli
attori, i loro compensi e la loro popolarità, rivestivano presumibilmente una notevole importanza già nell’antica Atene, dove il
carattere competitivo degli spettacoli favoriva certo l’affinamento
delle capacità interpretative, ma imponeva anche uno standard e
un minimo di requisiti tecnici che si ripercuotevano sui drammi:
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PARTE PRIMA
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basti citare gli immancabili ‘pezzi di bravura ’ riservati ai migliori
attori, come la cosidddetta ‘tirata’ (in greco rhesis), il discorso del
messaggero (logos anghelikòs), il monologo che presumibilmente
serviva all’attore per dar sfoggio di tutte le proprie arti e
conquistare il favore del pubblico e il voto dei giudici ai fini del
concorso. L’onere e l’onore, il merito e il premio della vittoria
spettavano infatti non solo al drammaturgo e al corego, ma in
gran parte anche al primo attore: il solo che avesse in ogni festival
un concorso apposito, istituito poco dopo quello per autori, e
venisse iscritto nelle liste dei vincitori (grazie ai documenti ufficiali, alle iscrizioni e alle dediche per le vittorie conosciamo i nomi
di molti primi attori antichi). Sappiamo anche che con l’espansione del fenomeno teatrale – dalla città di Atene all’intero Mediterraneo – certi divi andavano in tournée: e non solo con spettacoli
interi, ma anche con brani a solo e recital costruiti sui propri ‘pezzi
forti’ estrapolati dal dramma e cuciti insieme in una sorta di
antologia.
Simili pratiche già antiche sopravvivono in età moderna, specie
nel nostro paese che vanta notoriamente una lunga tradizione di
teatro d’attore, con primedonne e mattatori che costellano i cartelloni teatrali di città e province ed esercitano un peso notevole
anche nella storia degli spettacoli classici: in passato molte dive,
da Eleonora Duse a Sarah Ferrati, hanno debuttato in ruoli di
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Mattatori e primedonne
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eroine tragiche o ne hanno fornito interpretazioni memorabili,
ritornandovi anche più volte nel corso della vita. E oggi non solo
i divi del cinema o della lirica, ma persino alcuni attori teatrali –
che sovente frequentano anche la televisione – si formano negli
anni un pubblico affezionato e fedele che li ama e li segue anche
‘in trasferta’.
Per questi motivi e altri ancora mi pare rivestano notevole interesse recenti studi e filoni di ricerca dedicati proprio alle storie e
alle carriere di celebri attrici e attori italiani; tra questi segnalo in
particolare, per esperienza diretta, un progetto scientifico in corso
denominato
AMAtI
(Archivio multimediale degli attori italiani),
sotto la direzione del professor Siro Ferrone dell’Università degli
Studi di Firenze, con la partecipazione di altri atenei italiani e con
il coordinamento di Francesca Simoncini.2 Questo progetto rappresenta a mio avviso un’opera meritoria e una sfida avvincente
anche per chi si occupa di teatro antico, non solo per il valore
documentario, ma perché attrici e attori italiani sono una fonte
preziosa e un punto di vista privilegiato sul teatro del loro tempo;
nel mio caso, ad esempio, lo studio delle testimonianze e il con2
Cfr. <http://www.actores.it/index.htm>. Si tratta in sintesi di un database
multimediale degli attori e delle attrici italiane, di nuova e agile concezione, che
è in procinto di essere pienamente fruibile, ma è destinato ad arricchirsi
progressivamente di nuove voci e di contributi audio e video con frammenti di
interpretazioni e di interviste e altra documentazione audiovisiva.
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PARTE PRIMA
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fronto tra interpretazioni e carriere fornisce una chiave d’accesso
a nuovi modi di ripercorrere la storia degli spettacoli classici in
Italia.
Dai primi studi è subito emerso che sono molti, e straordinariamente vari, i possibili percorsi che portano un’attrice o attore a
interpretare un ruolo nel corso della vita, una sola volta o ripetutamente: talvolta con costanza e consapevolezza, talvolta in modo
non previsto né voluto, determinato da una serie di circostanze.
Per molti di loro ci sono veri e propri ‘cavalli di battaglia’, personaggi particolarmente amati a cui ritornano spesso in varie fasi
della vita, a cui legano il loro nome per sempre. Altri trovano la
strada del successo con interpretazioni memorabili, ma fortuite,
magari scritturati inaspettatamente all’ultimo momento o tramite
contratti occasionali: basti citare la classica ‘riserva ’ della lirica, a
volte debuttante o quasi, che sostituisce all’ultimo minuto un titolare e rivela un talento tale da prenderne il posto.
In parte già allo stato attuale, ma ancora di più in prospettiva,
questa ricerca dovrebbe permettere fruttosi confronti incrociati a
vari livelli: ad esempio tra attori diversi, che interpretano le stesse
parti a distanza di pochi o molti anni, oppure tra quei ruoli, drammi o luoghi che hanno segnato come tappe importanti la carriera
di uno stesso attore o attrice.
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Mattatori e primedonne
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Poiché la ricerca è tuttora in corso devo limitarmi a confortare
con tre soli esempi le osservazioni generali fin qui esposte: necessariamente schematiche, certo, e tuttavia spero utili per futuri
studi, ma anche adatte a essere sperimentate e condivise da lettori
o spettatori abituali di spettacoli classici. A tal fine ritengo opportuno confrontare tre allestimenti contemporanei, del maggio 2009,
che ho potuto vedere a distanza di pochi giorni: l’Elektra di Hugo
von Hofmannsthal prodotta da Farneto Teatro (Teatro Verdi di
Milano, 7-24 maggio), la Medea di Euripide (9 maggio-20 giugno)
e l’Edipo a Colono di Sofocle prodotti dalla Fondazione Inda (Teatro greco di Siracusa, 10 maggio-21 giugno).3
3
Elektra di Hugo Von Hofmannsthal. Progetto ed elaborazione drammaturgica:
Elisabetta Vergani; consulenza: Marina Cavalli; regia: Marco Sgrosso; scene:
Marco Muzzolon; costumi: Andrea Stanisci; con Martina De Santis, Angela
Malfitano, Federico Manfredi, Elisabetta Vergani. Produzione: Teatro del
Buratto - Farneto Teatro; Teatro Verdi, Milano, 7-24 maggio 2009. –– Medea di
Euripide. Traduzione: Maria Grazia Ciani; regia di Krysztof Zanussi; impianto
scenico: Massimiliano e Doriana Fuksas; costumi: Beatrice Bordone; musiche:
Daniele D’Angelo; movimenti e mimo: Vasily Lukianenko. –– Edipo a Colono di
Sofocle. Traduzione: Giovanni Cerri; regia: Daniele Salvo; impianto scenico:
Massimiliano e Doriana Fuksas; costumi: Nicola Luccarini; musiche: Marco
Podda; movimenti: Dario La Ferla. –– Per gli interpreti, le locandine complete e
altre informazioni sugli spettacoli di Siracusa si vedano il programma di sala /
numero unico pubblicato dall’Inda e il sito Indafondazione.org, rinnovato di
recente e arricchito di nuovi contenuti (rassegna stampa, galleria d’immagini,
saggi e articoli) e ora anche di una rivista online, Prometeus.
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PARTE PRIMA
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3.
Sebbene si tratti di spettacoli molto diversi per luogo,
contesto, tipo di produzione e messinscena, un confronto accurato rivela vari tratti interessanti in relazione al nostro tema, alcuni
dei quali comuni e altri nettamente distinti. In ogni caso l’interpretazione di un attore o attrice principale è il vero fulcro della
drammaturgia e di conseguenza della messinscena.
Questa ‘personalizzazione’ è particolarmente marcata nel primo
esempio citato, dove le prime attrici sono addirittura due: il testo
di von Hoffmansthal è infatti un adattamento dal mito greco di
Elettra, e principalmente da Sofocle, interpretato per la prima
volta nel 1903 da Gertrud Eysoldt (già interprete di Salomè dello
stesso autore) per la regia di Max Reinhardt a Berlino; ma in
seguito fu riscritto in francese e dedicato a Eleonora Duse, che
con le sue interpretazioni in tournée a Vienna aveva profondamente colpito il drammaturgo; la Duse avrebbe dovuto metterlo
in scena ma dopo una serie di trattative rinunciò al progetto.4
Se dunque il testo di per sé è doppiamente ad personam, lo è a
maggior ragione la sua messinscena moderna: Elisabetta Vergani
è ideatrice del progetto, protagonista dello spettacolo, autrice
dell’adattamento, con la consulenza di Marina Cavalli, e si conferma qui un’interprete completa, autrice-attrice, come già dimostra4
Si vedano le introduzioni alle traduzioni italiane di Elettra dal francese
(Hofmannsthal, 1978) e dal tedesco (Hofmannsthal, 2004; Sofocle - Euripide Hofmannsthal - Yourcenar, 2002).
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Mattatori e primedonne
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no le sue precedenti esperienze teatrali. Mai come in questo caso,
anzi, il peculiare percorso artistico della prima attrice appare determinante.
Il titolo dello spettacolo volutamente mantiene la k dell’originale
per alludere all’aspra crudezza dell’adattamento che viene conservata ed esaltata nella messinscena. Il testo di Hofmannsthal, già di
per sé compresso e condensato, viene limato e spolpato fino a
ridurlo alla pura essenza: un’ora sola e serrata di scene dal peso
specifico davvero notevole, ancor più dirompente in un contesto
chiuso e raccolto – come il Verdi, piccolo e delizioso teatro all’italiana – che favorisce una partecipazione intima del pubblico. In
questo stesso teatro negli anni passati un gruppo appassionato e
ormai consolidato di spettatori ha già applaudito la Vergani in
altri drammi classici o adattamenti prodotti da Farneto Teatro e
diretti da Maurizio Schmidt: da Cassandra e Medea di Christa Wolf
ad Antigone, un adattamento da Sofocle con inserti di diversi testi
antichi e moderni (tra cui spicca in particolare La tomba di Antigone
di Maria Zambrano, 2001).
Questi spettacoli, visibili a posteriori come altrettante tappe di un
percorso attraverso il mito classico (‘ Donne e mito’ ), segnano a
mio avviso una costante crescita della Vergani come attrice e
autrice, che vale la pena di ripercorrere brevemente: nel primo
monologo, Cassandra, era accompagnata in scena da Danila Mas-
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PARTE PRIMA
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simi ai suoni e percussioni, e si calava in modo molto personale e
convincente nel testo della Wolf, dando vita da sola ai mille volti
della protagonista e dei personaggi di contorno, del passato e del
presente. Nella successiva Medea, adattamento teatrale tratto dal
romanzo della stessa Wolf, la Vergani affrontava un testo caleidoscopico e frammentario, come chiariva peraltro il sottotitolo
(Voci); era in scena con altri attori, ma era sempre lei – nella parte
di Medea – il vero punto di riferimento e il ‘collante’ che dava
unità all’insieme. Un ulteriore passo avanti nel lavoro sui testi e
sull’interpretazione è rappresentato dall’adattamento di Antigone,
dove la Vergani era di nuovo sola in scena nel doppio ruolo
dell’eroina sofoclea e del suo antagonista Creonte: magistrale il
modo in cui modificava la voce per passare dall’uno all’altro personaggio, restando immobile sulla scena, mentre un cambio repentino di luci improvvisamente trasformava l’abito nuziale della
ragazza nell’armatura metallica del tiranno.
In questa Elektra, diretta da Marco Sgrosso, la Vergani torna a
circondarsi di altri attori, eppure spicca tra tutti per la sua personale e intensa caratterizzazione. Lo spettacolo sfrutta al massimo il paradosso tipico di Elettra, peraltro già presente nel testo
originale e non alieno all’archetipo antico (basti pensare anche
all’Elettra di Euripide): si annida in lei un groviglio di sentimenti,
misto di rabbia e frustrazione, odio e orgoglio, che lievitano in
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Mattatori e primedonne
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modo inversamente proporzionale al suo progressivo svilimento
come posizione sociale e ruolo nella famiglia. Questa condizione
anche autoimposta diventa per lei una bandiera, un modo di distinguersi dagli altri, di recludersi e umiliarsi da sola, di vivere di
ricordi e di propositi di vendetta, di condannarsi alla perpetua
custodia della memoria del padre e alla rinuncia a una famiglia
propria. Tant’è che il testo, come sottolinea il programma di sala,
è letteralmente costellato di riferimenti all’animalità: Elettra vive
tra i cani ed è lei stessa una cagna rabbiosa.
La Vergani modella su queste linee-guida il suo stile di recitazione
e il suo stesso corpo in modo davvero impressionante, a cominciare dalla postura fisica animalesca, accucciata e spigolosa; bruna
e minuta di corporatura, trova una perfetta antitesi nell’interprete
della sorella Crisotemi, bionda, procace e sensuale, con cui forma
una coppia complementare: verso di lei Elettra è naturalmente
ambivalente, a tratti l’abbraccia, la vorrebbe trattenere e quasi
possedere, ma la respinge quando ne percepisce il desiderio di
sottrarsi al comune destino, di vivere e far nascere una nuova vita.
Qui, come nel resto dello spettacolo, lo sguardo impietoso della
protagonista costringe anche gli altri attori, e il pubblico, a mettersi a nudo. Con una tensione visibilmente crescente, la Vergani
scava sempre più a fondo nel personaggio fino a ridurlo all’osso,
giocando ora sulla sottrazione e i silenzi, ora su minime variazioni
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PARTE PRIMA
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dei gesti e della voce. Dosa sapientemente i movimenti, serra gli
arti, si contorce in spasmi, per rivelare sotto l’aspetto dimesso
un’anima d’acciaio, e di tanto in tanto esplode in gesti di rabbia
repressa, di sensualità sfrenata. La sua presenza scenica è di gran
lunga predominante, soggioga lo spettatore che la segue dappertutto, anche quando si rannicchia e si nasconde sotto il tavolo,
dove Clitemnestra giace reclinata, o quando abbraccia Oreste con
gioia trattenuta, o nel finale quando gode in silenzio, da sola, del
matricidio appena consumato dal fratello dentro la casa. Di riflesso anche gli altri attori si sforzano di accordare gesti e voci a questa impostazione rigorosa: si muovono secondo linee contorte e
sinuose, sottolineate da tagli obliqui di luce che fendono un’oscurità quasi completa e producono bagliori sulle superfici metalliche
della splendida scenografia.
La scenografia è interamente composta da grandi lastre tipografiche scarnificate, di colori e materiali diversi, che sul piano simbolico intendono evocare i miti di un passato arcaico, il loro sfaldarsi e disfarsi fino al presente, e sul piano pratico risultano di
notevole impatto visivo riuscendo a movimentare l’azione scenica
(come nota lo scenografo Marco Muzzolon nel programma di
sala): durante lo spettacolo, seppure in uno spazio di proscenio
poco profondo, scorrono, si alzano e si abbassano ad aprire e
chiudere spazi, producendo una sovrapposizione e frammenta-
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Mattatori e primedonne
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zione di piani davvero efficace.5
4.
Le condizioni di rappresentazione variano ovviamente a
Siracusa, dove hanno debuttato di seguito (9 e 10 maggio) Medea
di Euripide ed Edipo a Colono di Sofocle. In questo teatro greco
magnificamente conservato – com’è noto – si tiene a partire dal
1914 il festival di spettacoli classici in assoluto più antico e longevo, che ha coinvolto finora molti grandi attori e artisti del Novecento (per approfondimenti si vedano il sito web Indafondazione.org
e Treu, 2009: passim): ancora oggi si rappresentano – a sere alterne
– due o più drammi antichi per ogni stagione, sfruttando la luce
naturale del giorno e le peculiarità fisiche del teatro antico
all’aperto e del paesaggio circostante. Queste condizioni di
rappresentazione, insieme ad altre caratteristiche del contesto e
del pubblico, condizionano tutti gli aspetti della messinscena –
dalla regia alla scenografia alla recitazione – e prima ancora la
scelta del dramma da rappresentare e la formazione del cast: in
primo luogo per le dimensioni del teatro, dalla capienza massima
di migliaia di spettatori, questi spettacoli sono paragonabili a un
evento di massa e dunque puntano comprensibilmente su nomi di
richiamo, capaci di attirare un pubblico vasto e composito.
5
Si veda il sito Teatrodelburatto.it per informazioni aggiornate sulle prossime attività della Vergani, inclusa una ripresa dell’Elektra in programma, sempre al Teatro
Verdi di Milano, dal 2 al 20 dicembre 2009.
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PARTE PRIMA
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In particolare per i drammi di quest’anno spicca sia sul cartellone
sia sulla scena la presenza di due grandi nomi del teatro italiano:
Elisabetta Pozzi e Giorgio Albertazzi, protagonisti rispettivamente di Medea e di Edipo a Colono. Una simile scelta, che almeno sulla
carta dovrebbe esaltare le doti interpretative dei due attori, sembra indovinata, stando al record dichiarato di presenze e di incassi
(si veda il sito web Indafondazione.org ): ma è da verificare alla prova
dei fatti, e alla luce di quanto anticipato sul teatro d’attore.
Se consideriamo la fortuna recente dei due drammi, anzitutto, vediamo che, come dimostrano vari studi specifici, tra le rappresentazioni classiche nel Novecento Medea contende a Baccanti e Antigone la palma della tragedia più rappresentata se non altro a partire
dagli anni settanta in poi; e lo conferma la frequenza crescente
con cui va in scena a Siracusa (prima nel 1927 e 1958, poi sempre
più spesso: 1972, 1996, 2004 e 2009). Per l’Edipo a Colono si
rimanda a studi più approfonditi (Rodighiero, 2008), ma almeno
per Siracusa ci preme notare come – piuttosto curiosamente – la
sua fortuna declini proprio negli stessi anni settanta in cui Medea
si impone sulle scene internazionali: le tre rappresentazioni siracusane risalgono infatti al 1936, 1952, 1976.6
6
L’elenco completo degli spettacoli fino al 2007 è fortunatamente ancora
disponibile sul nuovo sito della Fondazione Inda, anche se in posizione a dir
poco defilata – dalla homepage occorre passare alla pagina Fondazione, poi dal
menu di sinistra selezionare Profilo e infine Spettacoli – ma inspiegabilmente non
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Il primo dato interessante è quindi una notevole disparità nelle
condizioni di partenza tra i due spettacoli di quest’anno, e
naturalmente tra i rispettivi protagonisti: nel ruolo che ora è di
Albertazzi si sono sì succeduti nell’ordine attori molto noti –
Annibale Ninchi, Salvo Randone e Glauco Mauri – ma pur sempre più di trent’anni fa. La Pozzi, invece, affrontando Medea, si
espone inevitabilmente al rischio di confronti ben più presenti e
vividi nella mente del pubblico: sia con interpretazioni siracusane
– se non le prime due, Maria Laetitia Celli o Lilla Brignone,
quantomeno le altre due di Valeria Moriconi e l’ultima di Maddalena Crippa – sia con altre fuori Siracusa, fra le quali basti citare
Maria Callas sullo schermo (Medea di Pasolini, 1970) e il celebratissimo Franco Branciaroli (1997/2004).7
Da parte sua però la Pozzi, oltre a essere un’indiscussa primadonna, vanta un curriculum classico eccellente: ha interpretato in
passato con successo molte eroine tragiche, anche rivisitate da
autori moderni, ad esempio la Medea di Christa Wolf (1997/2000)
7
compaiono i nomi degli attori, che si spera vengano aggiunti in futuro. Per un
elenco seppure parziale dei personaggi e degli interpreti degli spettacoli, dal
1914 al 2007, si veda il catalogo della mostra Ombre della parola tenutasi all’Inda
nel 1994 (Leto, a cura di, 1994).
Franco Branciaroli ha più volte rivestito il ruolo del titolo, prima diretto da Luca
Ronconi (1997) e poi da se stesso nella libera riscrittura Dentro Medea (2004). Per
la Medea di Pasolini si veda Fusillo, 2007. Per i principali allestimenti storici e
recenti si vedano Treu, 2009: 91-97, con relativa bibliografia, e il ricco volume
collettivo dedicato a Medea dall’Archive of performances of Greek and Roman
drama: Hall - Macintosh - Taplin (edited by), 2000.
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PARTE PRIMA
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o la Fedra di Ghiannis Ritsos (2005); a Siracusa in particolare è
stata già applaudita come protagonista di Elettra (2000) e poi di
Ecuba (2006), entrambe di Euripide.8 Forte di queste credenziali,
la Pozzi si sottopone a una prova importante; non potendo
esimersi dal confronto con chi l’ha preceduta, in questo stesso
luogo, mira comprensibilmente a differenziarsi dalle altre interpreti che di volta in volta hanno sottolineato aspetti diversi del
personaggio di Medea: la zingara, l’incantatrice, la leonessa ferita,
la maga sapiente, la seduttrice, l’intellettuale, la fanciulla sedotta e
abbandonata, la moglie tradita e ripudiata per amore di una più
giovane, cui il marito offre in risarcimento denaro e ottiene come
risposta uno sputo…9
8
9
Nel 2000 la Pozzi interpretava a sere alterne Elettra nell’omonima tragedia e
Elena nell’Oreste, mentre Elettra nell’Oreste era impersonata da Manuela Mandracchia, talmente in parte da contendere alla Pozzi la palma della migliore
interpretazione. Nel 2006 la stessa Pozzi, protagonista dell’Ecuba, doveva
competere a sere alterne con un’altra formidabile attrice, Lucilla Morlacchi,
anche lei interprete di Ecuba nelle Troiane di Euripide. Si noti per inciso che
quest’anno la Mandracchia, sempre nel ruolo di Elettra, ha inaugurato il Festival
dei Due Mari al teatro greco di Tindari (Elettra da Euripide diretta da Walter
Manfré, ancora in alternanza con le Troiane, 23 maggio-7 giugno 2009). Questi
giochi di interpretazioni incrociate tra attori e personaggi, naturali e inevitabili
specie in rappresentazioni alternate, sono tuttora oggetto di ricerca e meritano
di essere analizzati in altra sede.
Per dovere di cronaca ricordo che il pubblico della replica cui ho assistito
(considerata ‘popolare’ e ‘scolastica’, per i biglietti economici a posto unico)
partecipava in modo molto deciso e rumoroso alle sorti dei personaggi; in
particolare nel primo dialogo tra Giasone e Medea gli spettatori di sesso
opposto istintivamente prendevano le parti di uno o dell’altra, manifestando
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L’impostazione della regia, dal punto di vista visivo, fa letteralmente perno sulla protagonista, rendendola volutamente statica;
dunque l’attrice è costretta a bilanciare quest’immobilità fisica
variando di continuo registri e toni di voce, per esprimere le
molte sfumature e gli stati d’animo contrastanti insiti nel personaggio, e in particolare quel che noi chiameremmo il conflitto interiore tra l’amore per i figli e la vendetta: a questo scopo, nel
momento cruciale della risoluzione all’infanticidio si produce in
un forzato cambio di voce, dal falsetto al tono più grave, come se
dialogassero in lei opposte personalità. L’effetto, senza dubbio
ricercato e apprezzabile, rischia tuttavia di risultare involontariamente comico per una certa parte del pubblico (soprattutto studentesco); mentre a me ha ricordato altre interpretazioni recenti,
tra cui quella di Valérie Dreville.10
Appare a mio avviso più efficace, come espediente per esprimere
l’interiorità di Medea, l’invenzione di un personaggio assente nel
testo originale e interpretato dal coreografo dello spettacolo,
Vasily Lukianenko: forse l’innovazione più interessante dell’al-
10
con applausi, incitamenti e insulti la loro opinione: forse per esperienze
personali, o pensando alla rottura per certi versi analoga, resa pubblica dai
giornali di quei giorni, tra un’altra ‘primadonna’ – la first lady d’Italia – e il
consorte?
Valérie Dréville, protagonista del monologo Medea-Material di Heiner Müller,
regia di Anatolij Vassiliev, è stata anche in tournée al Crt di Milano (Teatro
dell’arte, 26-29 aprile 2004).
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PARTE PRIMA
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lestimento. Purtroppo nella traduzione di Maria Grazia Ciani
utilizzata per la scena e pubblicata dall’Inda non compare tra i
personaggi del dramma né nelle didascalie, mentre nel programma di sala è indicato genericamente come “mimo”.
Lukianenko si presenta in scena con l’aspetto di un uomo
primitivo o selvaggio, seminudo, sporco e arruffato, molto vitale
e mobile: salta e corre a quattro zampe e si arrampica con
un’agilità straordinaria sull’albero o sulla roccia a lato della
facciata scenica. A inizio spettacolo l’orchestra è attraversata
prima da un bambino – che risulterà figlio di Medea – e poi da
questo strano essere che sembra rincorrerlo, come se fosse il suo
destino maligno in agguato; poi il mimo si nasconde e fa capolino
sporadicamente da fuoriscena nei momenti di maggiore tensione
e violenza – uno su tutti, quando Medea si risolve a uccidere i figli
– palesandosi del tutto solamente nel finale, in modo da far
pensare piuttosto a un demone o alter ego oscuro, o simbolo delle
pulsioni irrazionali della protagonista, dei personaggi o più in
generale dell’animo umano.
Purtroppo la straordinaria mobilità ed espressività del mimo fa
rimpiangere per contrasto l’estrema povertà di movimento che lui
stesso, come coreografo, ha dato al coro. In confronto a lui, ma
anche agli altri personaggi in scena, queste donne di Corinto si
limitano a pochi spostamenti lenti di gruppo, come pezzi degli
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scacchi in una partita molto riflessiva, vestite di pepli dai colori
pastello (ben poco innovativi, anche se eleganti). Un bel colpo
d’occhio, certo, ma a conti fatti un po’ poco se si pensa che in
Euripide il coro ha pur sempre un ruolo importante, di coprotagonista, confidente e termine di confronto dialettico per il
primo attore: qui interviene di rado, quasi non canta e fa più che
altro ‘tappezzeria ’, quasi fosse parte integrante della scenografia.
Quest’effetto di ‘quadro vivente ’ è accentuato dalle caratteristiche
stesse della scenografia: in entrambi gli spettacoli l’orchestra è
coperta da una pedana circolare ed è chiusa sul fondo da una
parete concava a forma di tronco di cono, dalla superficie di
alluminio riflettente. In più, solo nella Medea, il pavimento è cosparso di grandi segni – sorta di lettere distorte e alterate, a imitazione delle scritture antiche – che si riflettono sul fondale a
specchio; fra questi è riconoscibile al centro una M, unica lettera
di colore rosso, che corrisponde a Medea: il segno diviene il fulcro visivo di uno dei momenti più efficaci dello spettacolo,
quando in quel punto la donna batte con violenza contro la parete e la fa risuonare. La M rossa dà quindi ancora più risalto alla
protagonista, così come il suo costume spicca per foggia e colori
tra quelli del coro: regia, scenografia e costumi contribuiscono a
ribadire la centralità del personaggio, e ne fanno il perno quasi
immobile di una messinscena per nulla movimentata se si eccet-
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tua il finale, dove Medea scompare dall’orchestra e riappare alla
sommità della parete scenica, librandosi sul carro del sole.
5.
Rispetto a Medea, ci aspetteremmo una maggior staticità
nella seconda tragedia in scena a Siracusa, Edipo a Colono, un
dramma dove il protagonista è vecchio e cieco e chiaramente
poco mobile. E in effetti Giorgio Albertazzi si limita a pochi e
lenti movimenti per gran parte dello spettacolo, è costantemente
bendato e condotto per mano dagli altri attori. Ovviamente
Albertazzi si prodiga per supplire a queste limitazioni giocando
prima di tutto sulla voce e su un’interpretazione quasi intimistica,
sfidando la grande distanza tra palco e spettatori, specie delle
ultime file: viene naturalmente supportato da un uso massiccio
dei microfoni, singoli e personalizzati, ancor più esteso e intenso
rispetto alla Medea.
Tutti i suoni sono qui estremamente amplificati, dalle voci ai rumori, alla musica registrata (purtroppo nessuno dei due spettacoli
prevede esecuzioni live); in particolare colpiscono per l’intensità e
la frequenza alcuni effetti sonori che riproducono tuoni, strepiti e
altri fenomeni soprannaturali. Così la regia intende sottolineare
quel senso di sacro che spira dal bosco delle Erinni e che pervade
il testo, e nella messinscena caratterizza soprattutto il coro: i
vecchi di Colono indossano maschere di lattice che ne coprono i
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lineamenti, rendendoli tutti uguali, quasi automi non umani;
seguendo le indicazioni del testo, la regia punta su questo coro
per farne un vero deuteragonista, straordinariamente partecipe
dell’azione, mobile e vivace, perfettamente capace di compensare
la staticità del protagonista grazie alle splendide coreografie di
Dario La Ferla. Un esempio su tutti: i vecchi di Colono si ergono
fisicamente a difesa di Edipo ben più di quanto faccia Teseo (che
è il ragazzo-copertina, ossia la bella immagine di Atene), specie
quando affrontano in combattimento il re Creonte (un magnifico
Maurizio Donadoni, già interprete di Giasone nella Medea, che qui
fa del subdolo personaggio sofocleo un degno antagonista di Edipo, manovrando il bastone come un serpente e muovendosi sbilenco e contorto).
Tuttavia, a nostro parere, l’innovazione più interessante introdotta dal regista rispetto all’originale è un secondo coro composto di
Erinni: queste sono solo evocate nel testo sofocleo, mentre qui
sono impersonate da donne col corpo avvolto in bende e il volto
coperto da maschere; all’inizio dello spettacolo, subito dopo
l’ingresso del coro e di Edipo, strisciano come serpenti da dietro
un tumulo di terra, al centro della scena sul fondo, e si
posizionano sul tumulo stesso a distanze regolari, erette e rigide,
come le cariatidi dell’Eretteo (la stessa posizione e formazione
viene adottata ogni volta che ricompaiono); iniziano a scuotersi
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come possedute, al suono di strepiti e di tuoni; Antigone atterrita
trascina via Edipo, mentre i vecchi del coro si buttano a terra, in
preda allo stesso tremito, in un’atmosfera irreale e sospesa.
Quest’effetto raggiunge la massima potenza nel finale, quando il
testo originale prevede che Edipo scompaia nel bosco: le Erinni
si stagliano contro la parete scenica, poi accolgono Edipo e lo
ricoprono con i loro corpi avvinghiati come in un bozzolo,
mentre uno spettacolare gioco di luci, suoni e fuochi accesi lascia
letteralmente ammaliati e attoniti i vecchi del coro, gli altri
personaggi e il pubblico.
Rispetto alle nostre premesse sul teatro d’attore, i tre spettacoli
presi a esempio confermano in gran parte le aspettative legate alla
personalità degli interpreti e alla loro storia; sono pensati e
confezionati su misura per il rispettivo interprete, per valorizzare
le sue doti e le sue corde, ma non sono totalmente ‘al servizio’ del
primattore o primadonna, bensì vi costruiscono intorno delle
geometrie sceniche più o meno riuscite, con l’aiuto ora degli altri
attori ora del coro, e riservano anche qualche sorpresa.
Quanto ai tre protagonisti, nell’affrontare ruoli tanto celebri e
frequentati sanno bene di doversi misurare implicitamente con
altri interpreti della stessa parte, soprattutto se recenti e ben
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presenti sia alla critica sia alla memoria dello spettatore abituale.
Ciascuno a suo modo, dunque, si sforza di differenziarsi dai predecessori, anche attingendo al repertorio personale e specialmente a personaggi per certi versi affini – si pensi a Memorie di Adriano
per Albertazzi – che come altrettante tappe di un percorso confluiscono verso la presente interpretazione.
Nel primo caso considerato, Elektra, all’originale greco viene preferito un adattamento poco frequentato ma ottimamente ridotto e
per così dire profondamente metabolizzato dall’attrice, che ne
coglie in pieno le valenze nascoste e sa trarne ispirazione in totale
accordo col regista, cosicché la sua interpretazione di riflesso contamina l’impostazione degli altri attori, della scenografia e dell’intero allestimento.
I drammi stessi e le condizioni di produzione e rappresentazione
tendono a isolare i protagonisti anche fisicamente, in particolare
nei due spettacoli di Siracusa, creando attorno a loro quasi un
campo di forza per sottolinearne la centralità e ponendoli quasi
sempre al centro della scena – spesso immobili in pose statuarie,
come in un fermo immagine – con un effetto di staticità che alla
lunga rischia di risultare stucchevole, e che si cerca di compensare
con l’aiuto della coreografia, in vario modo e con esiti diseguali.
Quanto ai due protagonisti, ciascuno sfrutta fino in fondo le sue
corde e aggiunge un ambito tassello al proprio curriculum persona-
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le: la Pozzi, sempre ben supportata e mai oscurata dagli altri attori
e da un coro ‘decorativo’, ottiene con questa prova d’attrice la definitiva consacrazione a Siracusa; mentre Albertazzi aggiunge una
figurina mancante alla sua collezione di ‘grandi vecchi ’, ma trova
sulla scena antagonisti più che validi che gli tengono testa in
modo superiore alle previsioni: da menzionare tra tutti il Creonte
di Maurizio Donadoni e soprattutto il doppio coro di vecchi e di
Erinni, innovativo per concezione e realizzazione, che con la sua
presenza scenica eccezionale è la vera sorpresa di quest’anno,
nonché tra i migliori mai visti a Siracusa.11
11
Mi pare significativo, a riprova di quanto osservato, che la Fondazione Inda
abbia annunciato con insolito anticipo (conferenza stampa a Palazzo Greco,
Siracusa, 22 giugno 2009) che verranno ‘riconfermati’ per il 2010 la Pozzi,
Donadoni e il regista Daniele Salvo: la prima come interprete di Fedra nell’Ippolito di Euripide (diretto da Massimo Castri), gli altri due rispettivamente
come protagonista e regista dell’Aiace di Sofocle, per cui c’è da sperare che si
confermi anche l’indovinata scelta di Dario La Ferla per le coreografie del coro.
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