disegno di legge sulla procreazione assistita: societa` e

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Libertà della Persona: Nascere, Curarsi, Morire
Nuove Conoscenze e Privacy
Roma, 12 febbraio 2007
Maria Gigliola Toniollo
Cgil Nazionale - Responsabile del Settore Nuovi Diritti
Oggi ci dedichiamo alla libertà individuale, e il sottotitolo è “Libertà della persona: nascere, curarsi,
morire, nuove conoscenze e privacy”.
La libertà della persona di questi tempi è stata messa in discussione da molte questioni, noi siamo
stati particolarmente colpiti dalla vicenda di Piergiorgio Welby, dove si parlava di fine vita, di libertà
di interruzione delle cure, e questo ha provocato anche un grande dibattito, sull’eutanasia ma
anche sul testamento biologico, (che è stato molto spesso sostituito indebitamente al termine
‘eutanasia’ ma si tratta di un’altra questione), e sulla fine della vita: chi decide, se si può o non si
può decidere per sé. Siamo reduci, in questi giorni, dall’annuncio di un disegno di legge sui diritti e
doveri dei conviventi. Anche in questo caso ci sono stati problemi e discussioni che non sono per
nulla terminati; e anche in questo caso la parola ‘laicità’ è balzata in primo piano.
Abbiamo avuto, in entrambe queste esperienze recenti (e ci sarebbero infiniti casi ma mi attengo
all’attualità), una pesantissima ingerenza delle gerarchie vaticane nel dibattito politico e abbiamo
avuto anche dei politici che sono deliberatamente, apertamente, andati in Vaticano disponibili a
trattare sui testi di legge per non scontentare troppo la Conferenza episcopale.
Questo, per uno stato laico, per uno stato rispettoso delle idee, delle religioni e delle appartenenze
delle persone, è una questione molto grave perché parla di ingerenza, parla di un’arrendevolezza
a dei dettami esterni, e di uno scarso rispetto del proprio mandato elettorale da parte dei nostri
parlamentari.
Comunque è un dibattito molto vivo. Stamattina lo stesso D’Alema a un certo punto diceva: non si
capisce veramente perché la Chiesa abbia preso queste posizioni così forti, così insistenti tanto da
parlarne quotidianamente. Ultimamente non si parla più di grandi argomenti, come la fame nel
mondo, dei problemi della guerra, non si parla più nemmeno della pace, non si parla più di niente
ma si parla soltanto della famiglia per metterla in contrapposizione e per dire che qualunque legge
che riconosca una convivenza non sancita dal matrimonio, la danneggia, la distrugge, la dissacra.
E nessuno poi è in grado, però, di spiegare perché, in quale modo. Io personalmente mi sono
trovata in diversi dibattiti in cui c’era questa espressione di famiglia attaccata, rovinata e messa a
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rischio; ma quando poi chiedevo: “Ditemi dove, come. Voglio dire, se i miei due vicini di casa,
posto che io sia una famiglia tradizionale, hanno riconosciuto qualche diritto per la loro convivenza,
ditemi in che cosa io vengo danneggiata, che cosa mi si toglie”, nessuno poi sa effettivamente
rispondere.
Peraltro ci sarebbe anche molto da dire rispetto alla famiglia tradizionale rispetto al 95 per cento
delle violenze che il Censis ci dice vengono consumate all’interno della famiglia contro i minori e a
tutti i fatti tristissimi e disperati che ci riporta la cronaca quotidianamente.
Questo termine ‘laicità’ è un termine fondamentale che guida tutta l’iniziativa, ‘laicità’ e ‘libertà’
sono i due termini che sono la ragione di questa fatica che abbiamo fatto perché effettivamente, tra
le mille incombenze sindacali (che per altro vedono questa sala non così gremita come dovrebbe
essere), abbiamo dato a questi temi una grande importanza, come avviene del resto da anni,
perché il mio settore da circa tre anni organizza conversazioni sulla laicità, assieme agli amici di
“Critica liberale”. Anche queste sono a disposizione on-line e sono state trascritte.
Inizieremo parlando della libertà e salute riproduttiva. Oltre al non nascere, ci interessa molto
parlare del nascere e del crescere, di quanto debba essere a disposizione del bimbo e della bimba
che arrivano, che devono avere il massimo dell’assistenza e della tecnologia possibile e deve
essere poi loro consentito di crescere nella serenità e la donna in particolare, le famiglie,
comunque i genitori, non devono trovarsi nell’incombenza di scegliere se avere un figlio o se
continuare a lavorare. La società deve essere attrezzata perché i figli possano arrivare e possano
essere accolti come meritano.
Poi parleremo di come ci si cura, della possibilità delle cure, delle nuove tecnologie, dei test
genetici, delle informazioni che ci vengono date, della necessità di porsi dei quesiti sulla tutela
della privacy, se è il caso che le informazioni che derivano dalle nuove conoscenze possano
essere condivise, con chi e fino a che punto, la personalizzazione dei farmaci e una nuova sfida
che si presenta sui controlli del comportamento: il tema della neuroetica.
Infine, un discorso molto importante, molto difficile sul quale abbiamo aperto anche queste poche
parole, che è il discorso di fine vita: quanto questo appartenga alla persona, quanto non le
appartenga secondo alcuni. Ci sarà poi tutta una parte di trattazioni giuridiche e le considerazioni
conclusive (si dice così ma poi sono argomenti che non è possibile concludere) di Stefano Rodotà.
Mirella Parachini
Ginecologa
-
Federazione
Internazionale
degli
Libertà e salute riproduttiva
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Operatori
Aborto
e
Contraccezione
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Io inizio con una riflessione, che mi sembra dire tantissimo di quello che vorrei dire, presa da un
libro straordinario, che mi permetto di consigliare a chi non lo dovesse conoscere, che è il libro
“Corpo e libertà”, sull’argomento proprio della libertà di scelta dell’individuo a partire proprio dalla
rivendicazione delle donne riguardante il controllo della propria capacità riproduttiva e del proprio
corpo in tutte le forme.
In effetti, questo problema nasce perché, come dice un altro libro che mi permetto di segnalarvi, di
Marina D’Amelia, che è “Storia della maternità”, al centro dell’esperienza della maternità vi è il fatto
che la donna alleva dei figli che non le appartengono. Io farò dei brevissimi flash per segnalare
come l’itinerario di questa disappropriazione del proprio diritto riproduttivo da parte di volta in volta
di vari soggetti, sulla donna, è un tema che appunto continua fino a oggi, visto che appunto stiamo
ancora parlandone in Portogallo, per esempio.
Cito il diritto romano, il concetto di patria potestà, che praticamente nega il legame di filiazione tra
figli e madre, i figli che vengono istituiti come eredi vengono proprio considerati come esterni, e
questo tipo di negazione del rapporto giuridico di filiazione, che risale ai tempi del diritto romano, lo
ritroviamo nell’epoca medievale moderna e si ha in questo periodo per altro un paradosso, per cui
tanto più la tradizione religiosa insiste sulla funzione di tale legame, quanto più in termini giuridici si
continua a negarlo.
In questo c’è anche da segnalare il paradosso della negazione di come avviene il concepimento
nel caso della Vergine e quindi di questa sorta di antipatia, avversione rispetto alla sessualità
femminile che viene racchiusa nella negazione di un elemento biologico fondante: la gravidanza.
Questo si riflette anche sull’allattamento. Nel corso dell’epoca rinascimentale, con molte differenze
tra le situazioni città e campagna, però c’èra la grossa questione di staccare i figli dalla madre. Qui
vi riporto questo signore che dice: “Sittosto che più non succiano il latte, toglili dal fianco di tutte le
donne et precipuamente da quello dell’istessa matre; né lasciagli più a quelle vedere finché non
siano usciti de tutta la vezzosa età perché queste nel vero et sono et sempre furo la somma e la
massima corruzione dei figlioli sì per li vezzi incomposti sì per l’inepzia della vita”.
Questi spunti li ritroviamo ripetutamente. Badate che, in questo caso, stiamo parlando di un
signore che prevede che possano essere allattati ma, in moltissimi casi, si evita, con il baliatico,
che i figli vengano allattati dalla madre. Quindi ulteriore negazione del rapporto di filiazione.
Qui cito un insospettabile, da un certo punto di vista, ma lo cito soprattutto perché c’è una parola
che ritroveremo ancora molto aggiornata ed è Montaigne che dice: “È pericoloso lasciare al
giudizio delle madri la designazione del nostro successore secondo la scelta che esse faranno dei
figli, che è sempre ingiusta e cervellotica, di quel – e qui scandisco la parola benedetta – desiderio
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sregolato e quel busto malato che hanno al tempo delle loro gravidanze lo hanno nell’anima in ogni
tempo”. Ecco, di questo desiderio sregolato risentiremo parlare, ahimè, anche da persone molto
vicine a noi.
Nella seconda metà dei seicento, la scoperta dell’ovaio e degli spermatozoi rivoluziona le
tradizionali spiegazioni ippocratiche sulla fecondazione, quindi si riconosce che esiste una parte
femminile e una parte maschile, e si comincia a conoscere il feto nella sua autonomia; anzi, si
viene a considerare lo sviluppo dell’embrione e lo sviluppo del feto come un vero e proprio
processo senza soluzioni di continuità in cui gli organi si creano per dispiegamento di parti già
presenti.
Vi cito questa chicca che è: “Il feto è così indipendente dalla madre che il porta come l’uovo lo è
dalla gallina che il cova”. Quindi si approfondisce, nel corso del settecento, questa separazione tra
feto e madre, e io trovo che è geniale paragonarlo all’uovo che viene covato.
C’è una bellissima definizione che racchiude questo dibattito che avviene a livello scientifico in
questa fase ma che è avvenuto fino a quel momento a livello teologico, a livello religioso, ed è la
definizione del corpo della donna come luogo pubblico. In effetti a questo punto la donna viene
considerata come un contenitore vero e proprio di qualche cosa che appunto, come avevamo
detto, non le appartiene e che però diventa non solo più figli o anime, come era stato fino a ora,
ma diventa un corpo contenitore di cittadini. “I cittadini che sono ancora racchiusi nell’utero
materno, non sono anch’essi membri dello Stato, non abbisognano e non meritano essi la
protezione dei magistrati?”. Di questo si interroga un consigliere di governo direttore degli affari
medici della Lombardia austriaca nella sua opera di polizia medica. Quindi il feto e l’embrione
come cittadino.
Il dibattito religioso trae da queste scoperte scientifiche una riflessione di carattere teologico sul
feto, sulla sua “animazione” e condizione all’interno dell’utero. Vi cito un’importantissima opera di
un gesuita del settecento, il Cangiamila, che nella “Embriologia sacra” dice: “È da considerare
nascita già lo sviluppo dell’embrione, prima nascita, di cui il mostrarsi alla luce diventa solo un
secondo passaggio”. Questo naturalmente mette in discussione il principio di priorità della vita
materna che affondava le sue radici nell’immaginario di una vita fetale incerta e imperfetta. Fino ad
allora nei parti a rischio la pratica tradizionale o si asteneva dall’intervenire, lasciando fare alla
natura, oppure interveniva sul bambino con strumenti quali l’embriotomo o il craniotomo. Queste
pratiche ora risultano barbare e ripugnanti, vere e proprie azioni omicide contro cui si invocano
apposite leggi.
Io non ho voluto caricare troppo questa carrellata ma esistono a questo proposito, per esempio, i
documenti su taglio cesareo su donna senza anestesia per salvare un bambino, che sono
assolutamente agghiaccianti.
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Secondo la teologizzazione di questa nuova entità fetale, abbiamo quindi il dettato che ci portiamo
dietro. La madre è tenuta, secondo l’ordine della carità, ad anteporre, alla propria vita materiale, la
vita spirituale del bambino. Siamo in piena legge 40, mi verrebbe da dire; ma non solo in piena
legge 40.
Siamo nel luglio del 2002 quando abbiamo un documento ufficiale che riprende esattamente la
stessa argomentazione. “Sappiamo cosa significa il termine aborto sicuro. Quella sicurezza non
riguarda propriamente i bambini ammazzati nei grembi materni, convertiti da fonti di vita in
sepolcri: la sicurezza riguarda soltanto i rischi di salute della madre, i cui diritti prevalgono sui diritti
dei concepiti come se questi fossero appendici e loro proprietà.”
In realtà, a livello internazionale di istituzioni e di regolamenti e di mozioni e di documenti ufficiali
che ribaltano completamente questo concetto è pieno il mondo. Ve ne riporto qualcuno, però credo
che sia accettato e assodato che sono questi i testi cui far riferimento quando si parla di diritti alla
salute riproduttiva. I diritti alla salute riproduttiva sono equiparati, a livello internazionale, ai diritti
fondamentali che sono i diritti alla vita e alla sopravvivenza, alla libertà e alla sicurezza personale,
al trattamento equo, all’istruzione, allo sviluppo e a ottenere lo standard di salute più alto possibile.
Esiste una quantità di documenti che contengono affermazioni di questo tipo, dichiarazioni,
statement eccetera.
Credo che veramente abbiamo la possibilità di pescare da diversissime fonti. Qui vi riporto la
conferenza internazionale del Cairo del ’94 in cui si includeva la salute riproduttiva all’interno della
parità tra uomo e donna e si includeva il diritto di decidere liberamente e responsabilmente il
numero dei figli, l’intervallo delle nascite, la possibilità di avere l’informazione, l’istruzione e i mezzi
per farlo. Buona parte dei temi della conferenza del Cairo del ’94 sono stati ripresi dalla conferenza
di Pechino nel ’95 in cui di nuovo si ribadisce il concetto che la salute sessuale e riproduttiva è
parte dei diritti umani e quindi si fa propria una definizione che dovrebbe essere un punto di non
ritorno.
Ma arriviamo a noi. Io ho voluto concentrare, a questo punto della mia relazione, la riflessione su
queste due situazioni che, secondo me, rappresentano un vero e proprio paradigma della
situazione italiana. Paradigma di che cosa? Paradigma di come non abbiamo a disposizione una
libertà che ha a che fare con le definizioni che ho dato finora. Sia il caso della pillola abortiva che il
caso della legge 40 rappresentano bene che cosa sta succedendo nel nostro paese, e in fondo il
motivo per cui il tipo di iniziativa che avete organizzato ha ancora molto senso.
Allora, voi vedete qui le tappe di questo farmaco, che si chiama mifepristone o Ru 486 dal nome
della Roussel Uclaf che per prima lo ha prodotto. Siamo quindi quasi a vent’anni dall’introduzione
in commercio di questo prodotto e nel settembre scorso ancora stavamo alla sospensione non
dell’utilizzazione ma della sperimentazione del farmaco che ha quasi vent’anni di storia. Quindi
credo che questi rappresenti bene e raffiguri bene anche la presunzione ideologica di anteporre
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alla buona pratica clinica, a tutta una serie di considerazioni che dovrebbero entrare nella gestione
di un tema squisitamente di ordine medico, una questione ideologica.
Il percorso della Ru 486 in Italia è un percorso accidentatissimo, e non l’ho voluto riproporre tutto.
Ho riproposto soltanto la prima ordinanza del ministro della Salute che ha cercato di bloccare una
sperimentazione che era stata accettata dal comitato etico regionale (perché, nel caso del
Sant’Anna di Torino, il comitato etico dell’ospedale coincideva con il comitato etico regionale).
Ebbene, la prima ordinanza ha tentato, sulla base di obiezioni legali, sulla base di una presunta
incompatibilità con la legge 194, di bloccare la sperimentazione. Ma vi riporto anche, alla fine di
questo percorso, l’ultima sospensione, in cui non si sospende la sperimentazione sulla base
dell’efficacia del farmaco, la cui validità è ampiamente dimostrata in Europa – dice il documento
della direzione dell’ospedale Sant’Anna –, ma all’origine della decisione c’è la violazione del
protocollo che prevedeva per le donne sottoposte al trattamento tre giorni di ricovero. L’80 per
cento delle pazienti studiate fino a quel momento aveva usufruito del permesso di lasciare
l’ospedale.
E’ evidente che se anche il protocollo prevedeva la permanenza di tre giorni in ospedale, e questo
ci dà il sentore di cose che abbiamo appena citato della storia passata, non si può certo pensare di
impedire alla donna sotto sperimentazione di usufruire di quello di cui qualunque paziente può
usufruire e cioè la possibilità di firmare volontariamente e di andare a casa. Questo invece è stato
il motivo per inficiare i risultati della sperimentazione.
Allora è evidente che qui il problema è un atteggiamento punitivo nei confronti della paziente che
richiede l’aborto farmacologico perché erroneamente si pensa che l’aborto farmacologico sia una
scorciatoia, sia qualche cosa che rende più accettabile l’aborto rispetto all’aborto chirurgico.
Non è questa la sede per discutere di questa questione, che pure è molto discutibile. Sicuramente
ci può essere, per una parte di pazienti, la preferenza di un’anestesia generale, per esempio, e di
un intervento chirurgico che dura pochi minuti rispetto a un’altra categoria di pazienti che può
invece preferire una non chirurgizzazione dell’intervento e quindi l’assunzione di un farmaco che
però rende più lunga la trafila visto che si tratta di prendere, in realtà, due farmaci: il primo farmaco
per interrompere la gravidanza; e, dopo due giorni, il secondo farmaco per espellere il prodotto del
concepimento.
Quindi rimane una questione di possibilità di scegliere e di diritto di scegliere.
Vi riporto qui un importante elemento di riflessione, che è un trial clinico che ha preso in
considerazione i tre paesi tra quelli che per primi hanno introdotto la Ru 486 nella loro pratica
clinica, che sono la Francia, la Gran Bretagna e la Svezia. È stato fatto uno studio retrospettivo per
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vedere se l’introduzione dell’aborto farmacologico avesse, in qualche modo, aumentato il tasso di
abortività che è il numero di interruzioni volontarie di gravidanza per mille donne in età fertile.
Ebbene, i dati non danno alcuna indicazione in questo senso.
Un raffronto tra i tassi di abortività nell’87 e a distanza di dieci anni nel ’97, vi fa vedere un tasso
assolutamente invariabile di 13 per mille donne in età fertile. In Inghilterra il tasso è maggiore ma
non è questo in questo momento che ci interessa: quello che ci interessa è vedere che anche qui
dopo dieci anni di introduzione del mifepristone, non c’è modificazione del tasso di abortività.
Ho voluto qui riportarvi la lista dell’Ru 486 o del mifepristone, per meglio dire, all’interno dell’ultimo
aggiornamento dei farmaci essenziali secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. L’ho voluto
fare perché stiamo parlando dell’impossibilità, per le donne italiane, di far ricorso a un farmaco che
viene considerato un farmaco essenziale dall’Organizzazione mondiale della sanità. La cosa però
carina di questa diapositiva è che hanno aggiunto che fa parte sì dei farmaci essenziali ma
laddove è permessa dalle leggi nazionali e dove è culturally acceptable, cioè culturalmente
accettabile. Questo mi sembra che, dal punto di vista Organizzazione mondiale della sanità, in
qualche modo traccia un chiarimento per tutti e la spiegazione al quesito che mi stavo ponendo e
cioè evidentemente il mifepristone non è culturalmente accettabile nel nostro paese.
Inutile dire che le linee guida delle maggiori società di specialisti, quindi la società inglese, la
società americana, la Federazione internazionale dell’ostetricia e ginecologica, così come l’Fda
che dal 2000 l’ha approvata e l’Oms, prevedono il ricorso nella gravidanza precoce al mifepristone.
Questo penso che tutti qui lo sappiamo ma mi sembra necessario ricordarlo perché stiamo
parlando di sperimentazioni bloccate, di ordinanze che sospendono qualche cosa che è
raccomandato nella buona pratica clinica da queste istituzioni. Quindi non è che stiamo parlando
del solito desiderio smodato di cui sopra della donna.
Che cosa è successo, in effetti? Che la scelta del metodo farmacologico verso la scelta chirurgica,
si è andata a sostituire, in fondo, allo storico dibattito sull’aborto sì, aborto no; e se voi vedete tutta
la letteratura e gli argomenti usati dalle organizzazioni antiabortiste oggi, il metodo e quindi la
contestazione della pillola abortiva (della kill pill, della pillola di Caino, come è stata chiamata), in
qualche modo ha concentrato e attualmente concentra quella che è la vera discussione e cioè
aborto sì, aborto no.
Io devo dare atto all’ex ministro della salute Sirchia che evidentemente conservava pur sempre un
atteggiamento di tipo medico, di una molto più ragionevole e accettabile posizione, e cioè che si
usi un mezzo meccanico o si usi uno strumento chimico farmacologico, a chi è contrario alla cosa
in sé non fa alcuna differenza. Quindi non confondiamo il dibattito sul metodo con il dibattito sulla
sostanza, che è quello che è successo in Italia e che continua a succedere. Non solo in Italia, per
la verità; però quello che è successo in Italia rispetto agli altri paesi europei è che di fatto il farmaco
non
è
commercializzato.
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Riporto velocissimamente l’articolo 15 della 194 (che ormai veramente è sempre di più una legge
vecchietta che sta resistendo ai colpi del tempo) in cui era già prevista, nel ’78, la possibilità che
venissero introdotte delle tecniche più moderne e più rispettose dell’integrità fisica e psichica della
donna. Quindi basterebbe l’applicazione della 194, senza scomodare chissà quante altre cose, per
ottenere la possibilità di avere quella che è una pratica comunemente usata.
Qui risentiamo le parole che riecheggiavano nella frase di Montaigne. E da parte di chi? Da parte
di un nutritissimo gruppo di donne (che a suo tempo avevano anche partecipato alla discussione e
alla battaglia sull’aborto) che, coniugando la questione aborto con la questione procreazione
medicalmente assistita, sono cadute, secondo me, nel trappolone del “Oddio, questa donna può
veramente decidere lei” e hanno aperto questo dibattito che si può trovare, perché c’è una raccolta
di tutti gli articoli che sono stati pubblicati in quel periodo (siamo nel febbraio del 2005, quindi
all’indomani dell’approvazione della legge 40) in cui si leggono delle cose veramente incredibili da
parte di persone che pure si sono battute per queste questioni.
Legge 40. Il secondo paradosso. Sappiamo tutti che è stato detto, durante la battaglia
parlamentare e la discussione della legge al Senato, in particolare, ma anche alla Camera e poi
durante la campagna referendaria, che questa legge avrebbe diminuito il numero di gravidanze
portate a casa con la fecondazione assistita. È assolutamente vero, perché intanto già è ridotto il
numero dei soggetti che possono ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. Quindi anche
solo con questa spiegazione diminuirebbero le gravidanze perché è diminuita la possibilità di
accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Sapete che le donne devono
essere parti di coppie sterili, non è ammessa l’eterologa, quindi tutta una parte di cause di sterilità
viene negata, e poi c’è anche l’impossibilità di fare una diagnostica preimpianto e quindi
l’impossibilità di accedere a queste tecniche da parte di persone non sterili ma portatrici di
anomalie genetiche trasmissibili.
Quindi in tutta Europa, con il miglioramento delle tecniche di fecondazione assistita, abbiamo un
aumento delle gravidanze; noi in Italia abbiamo, per la prima volta, una riduzione significativa del
numero delle gravidanze. Quando si vanno a vedere i numeri, la riduzione può non sembrare così
importante ma, da un punto di vista clinico, questo si traduce in centinaia di gravidanze in meno,
quindi in meno bambini, e, da un punto di vista analitico, la alta significatività dei dati conferma che
i limiti imposti dalla legge hanno avuto un chiaro effetto. Non sono io a dirlo: lo dice una tra le più
qualificate esperte del settore che è la professoressa Anna Pia Ferraretti.
L’altra questione, che è di una cattiveria che si ricollega alle cose dette all’inizio, è che
l’impossibilità di non trasferire gli embrioni prodotti obbliga a trasferire degli embrioni che già si sa
non potranno essere portati a termine come gravidanza. Quindi è aumentato il numero degli aborti
precoci. E un trattamento, che sappiamo essere estremamente frustrante, di procreazione
medicalmente assistita, quando esita in un aborto precoce è ancora più frustrante che non quando
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non c’è nessuna gravidanza, e chiunque di voi ha avuto esperienze in questo senso lo potrà
testimoniare, come sicuramente vi posso testimoniare io dalla mia pratica clinica.
L’inevitabile conseguenza è l’aumento del turismo procreativo. È abbastanza recente una
conferenza stampa che ha riportato uno studio del Cecos, che è stato fatto su dei centri
internazionali tra quelli dove più spesso vanno gli italiani, che dimostra come le presenze degli
italiani dopo la legge 40 sono quadruplicate. Io non ho riportato i costi dei vari centri, che pure nella
ricerca del Cecos sono ben documentati. Quindi lo segnalo a chi volesse interessarsene.
Dunque noi volevamo una legge che favorisse le coppie infertili, che favorisse il miglioramento
all’accessibilità dei trattamenti ma, a due anni dall’entrata in vigore (questo è un documento
dell’anno scorso), i dati disponibili dimostrano che la legge 40 non ha perseguito queste finalità ma
ha soltanto creato ostacoli alla soluzione del problema e – dice ancora la Ferraretti – “ci auguriamo
– e qui viene l’ultimissimo passo da fare – che i nostri politici accolgano rapidamente le nostre
richieste di modifica della legge 40”.
Tralascerei il problema degli embrioni abbandonati se non per segnalare che la legge 40
prevedeva il censimento, finalmente, sia dei centri di fecondazione medicalmente assistita sia degli
embrioni cosiddetti orfani e cioè non rivendicati da nessuna coppia. Si è parlato di questa strage di
embrioni abbandonati eccetera; in realtà, nel censimento, è venuto fuori che sono molti ma molti
meno
di
quello
che
si
era
previsto.
Anche l’accademia dei Lincei si era espressa a favore dell’uso degli embrioni in sovranumero a fini
di ricerca rispetto alla prospettiva di una sicura distruzione.
Ma questo era il passetto con il quale volevo concludere, e cioè la dichiarazione del ministro Turco
del 6 febbraio alla conferenza sulle mutilazioni genitali femminili in cui si ribadisce quello che si
ribadisce in tutti i documenti internazionali, e cioè che ogni donna deve sapere che solo lei può
decidere della propria vita e del proprio corpo; ma il giorno dopo, il 7 febbraio, viene, in qualche
modo, disturbata questa dichiarazione dalla dichiarazione che il ministro della Salute fa dicendo:
“Non modificherò la legge sulla fecondazione assistita: non mi compete e non è nel programma di
governo”.
Ho riportato questa mattina in fretta e furia questa ultimissima notizia, perché c’è Donatella Poretti
che lo ha riportato sul suo sito, e cioè che è stata annunciata la revisione delle linee guida della
legge 40. Anche questa sembra tanto una via all’italiana perché non si capisce per quale motivo se
la legge contiene dei mostri non si debba modificare la legge e invece si debba invocare le linee
guida per cercare di introdurre delle riparazioni a queste storture.
Ultimissima è questa notizia che stavamo commentando, che è una bella notizia, una notizia
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importante, e cioè il fatto che, nonostante non sia stato raggiunto il quorum, l’espressione della
volontà popolare con il referendum in Portogallo è stata a maggioranza per la depenalizzazione e
per una legge sull’aborto. Quindi il premier Soares, socialista, ha affermato che il risultato è
inequivoco e l’aborto cesserà di essere un crimine in Portogallo.
Questa veramente è una buona notizia. Ne approfitto solo per ricordare che il Portogallo era uno
dei paesi in cui, appunto, le donne avevano come prospettiva di andare nella vicina Spagna,
naturalmente, ma c’è un’interessante iniziativa da anni che si chiama “Women on waves”, che vuol
dire “donne sull’onda” ed è una nave che era nelle acque extraterritoriali del Portogallo su cui
appunto era attrezzata una vera e propria clinica dove praticare le interruzioni di gravidanza.
Quindi siamo contenti per il Portogallo.
Qui chiudo non senza avervi segnalato in questa diapositiva una curiosa immagine, e l’orifizio di
questa veste in cui è scritto “Dieu le veut”, “dio lo vuole”, per introdurre quanto andasse introdotto.
Donatella Poretti
Segretaria della commissione Affari sociali, componente della Commissione Bicamerale Infanzia
Nascere, crescere
Quando mi è stato chiesto di intervenire a questo convegno su questo argomento: nascere e
crescere, ne sono stata molto felice anche perché è una materia che mi vede coinvolta sia
politicamente che personalmente da poco più di undici mesi. È un calcolo che faccio facilmente
perché mia figlia ha appunto undici mesi. Ovviamente il privato, in questo caso, si va a confondere
e diventa anche occasione e spunto proprio per interventi pubblici e anche per fare politica su
questo argomento.
Del resto poi io credo che se la politica non si occupa della vita dei cittadini, a cosa servirebbe?
Potrei anche invertire la domanda e dire: a cosa servono dei politici che non hanno una vita privata
dove anche testano le leggi e le norme e si vede se davvero poi queste funzionano nella vita di
tutti i giorni?
Uscendo da questa doverosa premessa di pubblico e privato, provo a tenere un unico filo che è
quello cronologico.
Partorire, praticare in Italia un parto senza dolore e le difficoltà che ci sono e poi, una volta che hai
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partorito, ti ritrovi questa creatura e la vita completamente scombussolata. Per chiudere con una
sorta di domanda che rimane aperta: la donna è davvero libera poi, una volta che ha avuto un
figlio? Ed è davvero libera, per esempio, di continuare quella che era la sua vita precedente anche
lavorativa, anche di impegni vari? E la società com’è che si mette di fronte a questa donna che ha
scelto di avere un figlio?
Del parto senza dolore se n’è parlato molto nell’ultimo anno, credo davvero se n’è parlato
abbastanza, e mi auguro che ci sia anche un intervento a questo punto da parte del legislatore.
Nella mia commissione Affari sociali è in discussione un testo sul parto. Del resto già nella scorsa
legislatura ne avevano dibattuto, era uscito un testo molto pesante, molto lungo che, per certi
versi, ora ereditiamo, mischiato a un disegno di legge del governo del ministro Livia Turco. La
scorsa legislatura comunque non era approdata a nulla. La motivazione è quella classica:
mancanza di fondi. Ora mi auguro che questa volta i fondi si vogliano trovare, perché tanto è solo
ed esclusivamente una questione di volontà politica: quando si vogliono, i soldi si trovano sempre.
E il fatto che ci sia anche un testo del governo per certi versi ci dovrebbe tirare un pochino più su
di morale.
Il nome che è stato dato a questo testo (per ora siamo a un testo unificato ancora molto in itinere,
quindi non ben definito, però dovrebbe già indicare quella che è la direzione) è: “Norme per la
tutela dei diritti della partoriente, la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della salute
del neonato”. Varie finalità, però il punto un po’ centrale è quello di intervenire su un eccessivo
ricorso che c’è in Italia al parto con il taglio cesareo e di iniziare a parlare di parto senza dolore, e
di iniziare a parlarne dando i soldi perché ci sia l’anestesista in sala parto, perché questo è il
passaggio ovviamente fondamentale. Poi certo, c’è bisogno di farne promozione, di parlarne con le
donne, però il passaggio principale è quello, cioè inserire tra i Lea, i livelli essenziali delle
prestazioni a carico del sistema sanitario nazionale, l’epidurale.
Infatti nella legge si scrive testualmente: “Nel quadro di una sempre maggiore umanizzazione
dell’evento nascita mediante il controllo e la gestione del dolore nel travaglio parto”.
C’è un’attenzione particolare, tra l’altro, che viene rivolta al diritto della donna di vivere questo
evento del parto in un contesto umanizzato e sicuro, e quindi garantendo la possibilità di fruire di
uno spazio riservato dove possono avere accesso le persone con cui la donna abbia deciso di
condividere l’evento, anche perché qui si va di regione in regione ma anche di ospedale in
ospedale e la donna si trova in situazioni completamente differenti. Delle volte anche di momento
in momento: c’è un’infornata di donne, sala travaglio con cinque o sei donne che urlano e un
evento che io definirei traumatico, più che lieto; oppure invece ti trovi in una situazione ideale,
piccola stanza, la possibilità di avere accanto la persona con cui desideri condividere l’evento, una
sorta di salottino, anche perché poi sono diverse le ore che uno si trova a passare lì. Quindi credo
che sia fondamentale cercare di renderlo il più umano possibile.
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Una cosa che sta scritta in questo testo di legge, e che per il momento mi trova decisamente
contraria, e che non vorrei davvero che passasse, però questo è un dibattito aperto, è la possibilità
di prevedere il parto a domicilio. Io credo che il parto debba avvenire in delle strutture sanitarie
laddove è possibile. Ovviamente se succede in un ascensore, succede; però programmare nel
2007 un parto in casa, sinceramente non lo vedo utile. Purtroppo ancora si muore di parto, ancora
il bambino muore appena nato, sono cose che capitano. Avere a disposizione le attrezzature,
medici e tutto quello che è possibile per cercare di salvare la vita alla donna o al bambino, credo
che sia un’opportunità da utilizzare. Invece che prevedere di far partorire delle donne a casa, credo
che gli ospedali e le sale travaglio dovrebbero diventare delle sorte di piccole case, cioè renderle il
più umane, il più friendly possibile, la situazione più idonea in cui uno si dovrebbe trovare.
Ma torniamo all’epidurale. I dati dell’ultimo rapporto dell’Istat del giugno 2006 parlano chiaro: l’Italia
è il paese con il più alto numero di parti con taglio cesareo dell’Unione europea. La percentuale è
pari al 35,2 per cento, cioè oltre il doppio della quota massima o comunque consigliata
dall’Organizzazione mondiale della salute, che è il 15-20 per cento. È evidente anche uno stacco
rispetto ad altri paesi dell’Unione europea: il tasso medio di cesarei è infatti del 23,7 per cento.
Stati Uniti e Canada si attestano rispettivamente su 27 e 21 per cento. Insomma, noi abbiamo un
dato che è qualcosa che dobbiamo affrontare, non si capisce perché in Italia ci dovrebbe essere
questo alto ricorso. E l’ipotesi di inserire e promuovere il parto senza dolore è strettamente legata
all’ipotesi di far calare il ricorso al taglio cesareo.
Ma la vicenda del parto senza dolore è, per certi versi, sintomatica. Nel 2001 l’allora comitato di
bioetica, sollecitato dall’allora presidente del Consiglio che era Giuliano Amato, dedicava un intero
capitolo al dolore nel parto e si scriveva che la decisione se praticare o meno questa anestesia
deve essere riservata a ogni singola donna sulla base di un’informazione corretta sui vantaggi, i
rischi e le possibilità delle due soluzioni. E ancora si evidenziava come il diritto della partoriente di
scegliere un’anestesia efficace dovrebbe essere incluso tra quelli garantiti a titolo gratuito nei livelli
essenziali di assistenza. Sono passati sei anni. Il documento e le sue raccomandazioni, appunto
sollecitate allora da Amato, non sono ancora diventate realtà.
In gran Bretagna e in Francia questo tipo di anestesia viene utilizzato dal 70 per cento delle
partorienti; negli Stati uniti il 90 per cento. In Italia addirittura esistono pochi dati. Dati Istat, quindi
concreti e affidabili, risalgono al 2001 e, tra l’altro, si forniva anche uno spaccato sociologico delle
donne che fanno ricorso al parto senza dolore. Il 63,3 per cento delle partorienti non è stato
sottoposto ad alcun tipo di anestesia; soltanto nell’11,2 per cento dei parti spontanei è stata fatta
l’anestesia: il 7,2 per cento locale e il 3,7 per cento epidurale. Qui appunto si parla del 2001. Che
succede? Che la diffusione in Italia del parto senza dolore è decisamente affidata alla buona
volontà delle strutture e dei Piani sanitari regionali.
Proprio prima di partorire avevo collaborato a fare un’indagine con un’associazione per i diritti degli
utenti e consumatori nella Toscana. Si pensa che funzioni sempre tutto in Toscana: come l’Emilia
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Romagna, sono le due regioni che vengono sempre prese a modello. Bene, nella Toscana,
nonostante ci sia un piano regionale 2005-2007 dove si fa un esplicito richiamo al fatto che la
donna possa scegliere questo tipo di parto, il parto senza dolore, poi nella pratica diventa
praticamente impossibile. Soltanto nel 36 per cento dei punti nascita è possibile – sto parlando
della Toscana – partorire con l’epidurale su richiesta della paziente e in maniera gratuita. E’
possibile, però in teoria…nella pratica è impossibile farlo. Ma di più: nel 57 per cento non è proprio
previsto, cioè la donna non ha diritto di scegliere un parto senza dolore in Toscana, nonostante
che nel piano regionale ci sia scritto che la donna ha il diritto, perchè gli ospedali non sono
decisamente attrezzati.
Ecco quindi perché è fondamentale inserire il parto senza dolore nei livelli essenziali di assistenza.
Si è aperto, per assurdo, in questo strano paese, anche un dibattito se sia giusto o meno che la
donna possa scegliere un parto senza dolore. Polemicamente si può anche citare il fatto che a
parlare di dolore nel parto c’è un vecchissimo testo, cioè quello della bibbia, che cita la donna che
partorirà con dolore, e poi da lì è stata costruita tutta una cultura sul dolore nel parto, non solo nel
parto ma nel parto ancora più accentuato, di quanto il dolore sia quasi una guida, che indica anche
al medico qual è il percorso che deve essere seguito.
Per cui ci si ritrova davvero anche a scontrarsi da un punto di vista quasi ideologico se sia giusto o
non sia giusto partorire senza dolore. Dopo di che si inseriscono le difficoltà pratiche e poi anche le
obiezioni tecniche. Addirittura io ho sentito ginecologi dire: “Attenzione. L’epidurale è pericolosa: si
può rimanere paralizzati”, che è un po’ come dire: non ti operare di cuore che, a un certo punto, ti
ci potrebbero rimanere le forbici e ti richiudono e muori. Certo, tutto può succedere. Se una prassi
viene male realizzata, è certo che ti può succedere qualcosa ma del resto, appunto, si muore di
parto. Quindi che il parto in sé non sia un evento così tranquillo ma sia un evento duro e
traumatico, questo è senza ombra di dubbio.
Quindi l’obiettivo non è di imporre questa modalità ma di iniziare a parlarne, di iniziare a dire che è
possibile partorire senza dolore, è possibile farlo e dovrebbe essere diritto della donna di scegliere
di fare un parto senza dolore, senza essere criminalizzata, senza far sentire la donna che non vuol
avere il dolore durante il parto come se prendesse l’appuntamento dal parrucchiere, vuole fare una
cosa veloce senza provare dolore. No, è possibile farlo e non vedo che male ci sia nel cercare di
vivere nella maniera più serena e felice un evento che dovrebbe essere un evento felice, ma che
delle volte non lo è così tanto e non lo è al punto che fa anche decidere di non rifare altri figli,
perché delle volte è veramente mostruoso quel dolore e quello che può succedere.
Comunque, nella stessa sala parto, c’è un’altra libertà attualmente che viene negata che è quella
della conservazione delle cellule staminali del cordone ombelicale. Strano paese appunto questo
qui. Delle cellule staminali del cordone ombelicale ormai ne abbiamo sentito parlare come cellule
salvavita, sono le cellule buone contro quelle cattive, quelle embrionali. Quindi quelle bisogna
utilizzarle, però per utilizzarle bisogna prima conservarle, bisogna raccoglierle, conservarle, crioconservarle. Bene, in Italia o le doni oppure vengono buttate, non hai alternativa o, meglio, per
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assurdo anche qui si hanno soltanto delle ordinanze che si sono, nel corso degli anni, ripetute. E
se inizialmente appunto si prevedeva solo ed esclusivamente la possibilità della donazione
pubblica delle cellule staminali del cordone ombelicale, poi via via si è visto che, per certi versi, si
veniva a creare una situazione assurda per cui alcune donne partorivano in clinica per quasi
rubarle, come se si facesse un atto illecito: prenderle, infilarle in un sacchetto e mandarle
all’estero. Allora, l’ordinanza è leggermente cambiata e si prevede la possibilità di autorizzare
questa raccolta delle cellule staminali del cordone ombelicale, raccolta che è possibile quindi fare
in Italia con l’autorizzazione del centro nazionale di trapianti, per cui uno deve fare un colloquio
telefonico, tutta una procedura molto macchinosa e complessa però poi, una volta che hai avuto
l’autorizzazione, hai l’autorizzazione a mandarle all’estero perché, ancora una volta, in Italia
comunque non è possibile fare la conservazione delle staminali del cordone ombelicale.
Io ho fatto un’interrogazione su questo argomento (anche perché scade a primavera, mi auguro
che questa ordinanza non la rinnoviamo così, con queste modalità) al ministero della Salute per
sapere quante sono le cellule staminali, quanti sono i cordoni che vanno all’estero. Dal centro
nazionale trapianti si dice che, nell’ultimo anno, con dei dati che sono una continua crescita, sono
stati mille e quattrocento i cordoni che sono stati autorizzati ad andare all’estero e, nell’ultimo mese
di dicembre, le richieste delle donne che chiamavano il centro nazionale di trapianti per avere
l’autorizzazione erano sedici al giorno. Una situazione assurda per cui, fra l’altro, si parlava di una
banca privata che avrebbe dovuto aprire i battenti a San Marino perché appunto è possibile farlo.
Le donne milanesi sono “fortunate” perché hanno veramente a due passi la Svizzera e quindi,
sempre così, tra un sentito dire e un altro, i ginecologi consigliano, già danno il kit per mandarlo in
Svizzera senza nemmeno fare tutta la trafila del centro nazionale trapianti perché, tra l’altro, il
colloquio telefonico deve avvenire non prima di un mese prima della data presunta del parto. Per
cui, se ti nasce prima, il colloquio lo hai perso. E poi è un vero e proprio interrogatorio: perché lo
vuoi mandare all’estero? Sei sicura dei rischi, che la conservazione autologa non serve
praticamente a nulla, invece la bontà della donazione è un atto di generosità, l’utilità ecc. ecc.?
Spesso, tra l’altro, si diceva: “Non si è mai sentito di un caso in cui sono servite per se stessi le
staminali del cordone ombelicale anche perché, se un bambino è malato, sono malate anche le
staminali del cordone”. Questa è un’altra falsità perché c’è stato uno studio recente, che è uscito
su “Nature” o su “Science”, di una bambina nata negli Stati Uniti alla quale sono state conservate
le staminali del cordone ombelicale in una banca privata. A tre anni è stata scoperta malata di
leucemia. Ha fatto un trattamento di chemioterapia che non è risultato efficace, il tumore è
ricomparso. Hanno iniziato a cercare un donatore compatibile di midollo, i genitori e i parenti
prossimi non erano compatibili. Hanno continuato ma, non trovando un donatore, già stavano
pensando di fare un secondo ciclo di chemioterapia. A quel punto si sono ricordati che avevano
conservato le staminali del cordone ombelicale, alla bambina è stato fatto questo trapianto e per il
momento ha funzionato.
Credo che lo Stato debba promuovere la donazione pubblica. Ciò non toglie che se c’è una
richiesta di conservazione per se stessi, non vedo perché negarla; anche perché ricordo che
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attualmente viene raccolto, negli ospedali e quindi nei punti di nascita in cui è possibile fare la
donazione pubblica, e non è possibile in tutti i punti nascita e neppure in tutte le regioni, il 10 per
cento dei cordoni ombelicali. Quindi abbiamo una fetta incredibile che viene buttata, un 90 per
cento dei cordoni viene buttato. Se questo 90 per cento qualcuno decidesse di conservarlo a
proprie spese, non si vede davvero cosa ci sia di male.
Torniamo al parto. Finito, donna e bambino escono dalla sala parto, escono dall’ospedale e siamo
soltanto all’inizio di quella che è, per certi versi, l’avventura – si dice così – di diventare genitori, di
trovarsi comunque di fatto una vita completamente scombussolata a causa della presenza di una
bellissima nuova vita . E allora, nel frattempo, si sente: fate figli, sposatevi o quantomeno fate delle
coppie di fatto (che poi siano o meno regolate dalle leggi lo andremo a vedere), comunque
riproducetevi. È una sorta di mantra che arriva un po’ da tutte le parti; poi a queste indicazioni, non
seguono però delle politiche idonee a supportare questa scelta. E che sia una scelta sempre più
ragionata è evidente anche dall’età in cui si fanno figli, si fanno sempre più in là e, di conseguenza,
si suppone che sia sempre una scelta più consapevole.
Io non parlo tanto delle politiche per la famiglia ma le politiche per la donna perché se c’è una cosa
di cui si può essere certi è che i figli li fanno le donne. In alcuni casi, se sono fortunate le donne e i
bambini, si trovano anche dei papà amorevoli, affettuosi, che collaborano, che danno una mano
ma soprattutto all’inizio è certo che c’è la donna. Le conseguenze le vivono le donne sulla propria
vita. Questo è senza ombra di dubbio, anche nella vita lavorativa. Qui parlo nella sede della Cgil,
quindi siete sicuramente più preparati di me. Io ho visto un dato del quale sono rimasta
particolarmente colpita, era un’indagine Isfol Plus del 2005 e si dice appunto che tra uomini e
donne ancora c’è una differenza di tipo retributivo in media del 22 per cento e la maternità è
ancora la causa principale dell’abbandono del lavoro da parte delle donne. Il 35 per cento delle
lavoratrici, infatti, esce dal mercato del lavoro momentaneamente o definitivamente dopo la nascita
di un figlio.
Questo sappiamo cosa comporta, non soltanto, quell’abbandono momentaneo quanto influisce poi
sul percorso lavorativo, sulla carriera di una donna, perché lasciare il lavoro e poi tornare non è
come prendersi le ferie un mese: cambia tutto il contesto in cui tu stavi lavorando. Diventare madre
è appunto il fattore primario che determina lo scivolamento verso l’inattività o il sommerso
femminile, e questo è un altro dato di non diritti, ed è la principale fonte poi di discriminazioni sui
luoghi di lavoro. Mandare avanti un uomo o mandare avanti una donna in età fertile, spesso
diventa discrimine: se questa mi fa figli, chi me lo fa fare? Tra un uomo e una donna, preferisco
mandare avanti l’uomo.
Allora, a questo punto, o non si fanno figli per fare carriera oppure ci si organizza in un altro modo.
Questo dovrebbe essere il compito di una società “civile”, ossia quello di organizzarsi in altro
modo, però gli strumenti che cercano di conciliare la vita privata e la vita professionale per le
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donne che, in qualche modo, tengono duro e continuano a lavorare dopo la maternità, il dato
impressionante è che il 50,5 per cento ricorre alla rete dei parenti e in particolar modo dei nonni, il
nido pubblico 17,7 per cento, privato 11,4 per cento (pari, praticamente), il 9 per cento babysitter.
L’aiuto del partner (quando prima dicevo che i figli li fanno le donne, non c’è verso) viene percepito
dalle donne come occasionale nel 41 per cento dei casi. Questo vuol dire che la condivisione dei
compiti all’interno della coppia non è tale da favorire in misura rilevante la permanenza delle donne
nel mercato del lavoro.
Si inizia anche in Italia a fruire dei congedi parentali da parte degli uomini, sono numeri in crescita.
Nel 2004 (anche qui il dato è esemplificativo) era il 24 per cento di uomini che ne fruivano contro
un 76 per cento di. C’è anche, per esempio, la richiesta del part-time maschile ma sono dati ridicoli
(l’11 per cento). Tra l’altro lo fanno quelli che appartengono a categorie professionali come
impiegati e insegnanti, cioè che possono farlo, perché poi il problema è il libero professionista che
non può farlo e qui c’è il discrimine tra la donna e l’uomo.
Il dato degli asili nido è un qualcosa in cui in Italia siamo veramente a un livello impressionante. Gli
accordi comunitari di Lisbona ci chiedono di arrivare nel 2010 ad avere una copertura territoriale di
asili nido pari al 33 per cento. Noi oggi non siamo neanche al 10 per cento e siamo nel 2007.
Abbiamo tre anni di tempo e, secondo un calcolo fatto dal governo nell’allegato alla Finanziaria, ci
vorrebbero 9 miliardi di euro in tre anni. La Finanziaria ha destinato 300 milioni. Il ministro Rosy
Bindi, a un certo punto, ha cercato di spiegare che, con una sorta di moltiplicazione dei pani e dei
pesci, se tutto va alla meraviglia, se questi 300 milioni vengono moltiplicati a livello regionale e
tutto funziona alla perfezione, si arriva al 15 per cento. Quindi stiamo parlando di una sorta di
miracolo in cui tutto funziona benissimo e arriveremo al 15 per cento contro il 33 per cento che ci
chiede Lisbona.
È quindi una sorta di fallimento annunciato non solo perché produrrà la mancanza di servizi per i
bambini (perché, sia chiaro, io ora stavo impostando la questione dal punto di vista della donna,
però anche al bambino fa bene andare all’asilo nido, fa sicuramente meglio che stare solo con i
nonni o con la nonna da sola perché sono anche generazioni differenti. Fa bene stare con le
mamme, fa bene stare con i bambini, fa bene stare anche con i nonni ma non solo con i nonni,
come invece spesso e purtroppo si ritrovano a crescere i bambini in Italia) ma produrrà anche
mancanza di servizi per le donne.
Quindi quando si parla di promuovere delle politiche per le famiglie e per le pari opportunità, e
quando poi si parla delle quote rosa alle elezioni o a livello delle imprese ecc. ecc., innanzitutto
vuol dire permettere alle donne di farle certe cose perché, se non si permette loro, è inutile poi
inserire un obbligo di percentuale per legge su quante devono essere elette e su quante devono
essere impiegate in un’impresa piuttosto che in un’altra. Per esempio, gli asili nido o i micro-nidi a
livello aziendale dovrebbero essere quantomeno un obiettivo e non dovrebbero esserci costi per lo
Stato. Potrebbero essere pensate detrazioni fiscali o altro, però almeno quello dovrebbe essere
incentivato anche perché, tra l’altro, uno avrebbe la possibilità di tenere i figli vicini nel luogo dove
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passa la maggior parte del tempo della giornata cioè al lavoro. Invece della pausa sigaretta
prendersi la pausa per andare a vedere il bambino, potrebbe credo essere una cosa ritenuta
salutare e utile; anche quell’azienda che vuole tenersi la donna perché l’ha cresciuta, perché è una
persona che le rende, dovrebbe preferire continuare ad averla in azienda invece che costretta ad
abbandonare il lavoro.
L’esempio che io continuo a fare e che continuo testardamente a citare come cattivo esempio di
come in Italia invece questo non si guardi, è quello della Camera dei deputati. Sia chiaro, non sto
parlando dei parlamentari perché già quelli in età fertile sono pochi, quelli che hanno bambini
piccoli sono ancora di meno. Quindi diciamo che le esigenze da parte dei parlamentari non ci sono
di avere un asilo nido, e infatti è per quello che l’asilo nido non c’è; ma l’esigenza di avere un asilo
nido c’è per i dipendenti della Camera dei deputati perché è una struttura gigantesca, è una cosa
enorme da un punto di vista di numero di funzionari e lì invece i funzionari sono in età fertile
perché soprattutto nelle ultime assunzioni sono davvero moltissime le persone giovani che hanno
figli e che potrebbero avere figli e che magari li avrebbero anche più volentieri se sapessero che, in
qualche modo, se li potrebbero gestire, anche perché poi lì effettivamente si sa quando si entra ma
non si sa quando si esce, non si sa quanto durano le sedute. Quindi è anche difficile programmare
i tempi con asili nido in cui invece ci sono degli orari più precisi.
Quando io sono arrivata in Parlamento, la scorsa primavera, avevo una bambina di un mese e
mezzo e ho deciso – potevo non farlo, questo sia chiaro – di entrare il primo giorno con la bambina
addosso e di dire: “Ho bisogno di una stanza dove allattare mia figlia”. Avrei potuto allattarla fuori
in un bar, avrei potuto allattarla in un albergo lì vicino, avrei potuto non andare in Parlamento,
aspettare il momento dello svezzamento. Mi sarei persa un po’ di soldi della diaria ma – sia chiaro
– tutto il resto dei soldi lo avrei avuto lo stesso, non è che dovevo timbrare il cartellino. Il fatto
invece di decidere di andare con la bambina era un segnale per dire appunto: “Parliamo sì di quote
rosa ma parliamo anche di donne che hanno una bambina. Che fanno?”. Oppure avrei anche
potuto fare un’ulteriore tortura, che anche questa purtroppo invece è prevista per molte donne che
lavorano che si tirano il latte la mattina, lo mettono in frigorifero e poi lo fanno dare al bambini dalla
babysitter. Sinceramente non volevo sottopormi ad alcuna di queste torture e ho detto: “Beh, una
stanza dove allattare non mi sembra una cosa così impossibile in un palazzo come quello di
Montecitorio”. Invece non è stata per niente facile perché, per il primo mese e mezzo, ho dovuto
allattare in infermeria, con i medici che continuavano a dirmi: “A noi fa piacere se vieni qua però
qui ci sono i virus e ci sono i batteri e non è proprio il luogo ideale per una bambina di un mese e
mezzo”. Insisti, insisti, lettere, letterine continue eccetera, alla fine minaccina soft: “Allatterò in
transatlantico se non trovate una stanza”.
La stanza alla fine è stata trovata. ‘Stanza’ è una parola grossa, però va benissimo per quelle che
erano le necessità, una seggiola, una mini-culletta regalata da un’associazione e una stanza
piccolissima ma che fa alla bisogna. In quel periodo mia madre e poi la babysitter venivano, me la
portavano, stavo lì, poi andavo in aula. Entra ed esci e vai.
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Il problema è che sono dieci anni che c’è una delibera della Camera dei deputati che dice che la
Camera può e dovrebbe avere un asilo nido ovviamente per soprattutto i dipendenti. Si sta
parlando di una realtà di circa duemila dipendenti, se ci mettiamo i 630 parlamentari (comunque
sono 630 persone che, a parte gli scherzi, alcuni hanno dei figli piccoli), gli assistenti, gli addetti
stampa, i giornalisti accreditati… Insomma, una struttura gigantesca che da dieci anni ha una
delibera che prevede di fare un asilo nido e non lo fa, c’è qualcosa che non funziona. Quello
stesso posto che parla di quote rosa, di pari opportunità, di politiche per la famiglia, poi non dà il
buon esempio. Allora si continua a mantenere un salone gigantesco per il barbiere, però che non
si possa riuscire a mettere in pratica questa storia dell’asilo nido è qualcosa di impressionante.
Non vogliamo metterlo a Palazzo Montecitorio? È pieno di palazzi, la Camera dei deputati si è
estesa nel centro di Roma in maniera impressionante: Palazzo Marini, vicolo Valdina, Sammacuto,
ci sono i palazzi dei gruppi. Se si vuole trovare una stanza la si trova, ovviamente.
La nuova presidenza della Camera di Bertinotti, a differenza di quella precedente di Casini, che
proprio aveva deciso di affossare l’argomento, ha già (anche se…è già passato un anno) affidato
la pratica alla vicepresidente Giorgia Meloni. Siamo ancora ai sopralluoghi. È passato un anno e
siamo ai sopralluoghi. I sopralluoghi sono dieci anni che vengono fatti. Aumentano i sopralluoghi,
aumentano i funzionari che devono fare ulteriori sopralluoghi per verificare la disponibilità o meno
di quelle stanze. Quindi un anno è perso. Io ho detto: se a inizio legislatura parte anche l’idea di
inizio asilo nido, ha un senso. Poi dopo è tutto in discesa. Dopo gli impegni sono altri, poi si inizia a
pensare alle elezioni, a come farsi confermare nel proprio collegio, se ci sarà un collegio o se non
ci sarà.
Questo era un esempio di come funzionano le cose nei posti in cui vengono fatte le leggi per le
pari opportunità. Ora, io me lo posso permettere, posso avere la babysitter (ne ho una a Firenze,
ne ho una a Roma) riesco a sopravvivere in qualche modo, faccio la pendolare, la faccio fare
anche a mia figlia. Lo stipendio di parlamentare mi consente di lavorare, di avere mia figlia con me,
quantomeno accudita nei dintorni. Il mio pensiero, ovviamente, e la mia preoccupazione è rivolta a
chi ha stipendi decisamente diversi e, a un certo punto, si inizia a chiedere se ha un qualche
significato e un qualche senso lavorare per mantenere il bambino o con la babysitter o all’asilo
nido, perché spesso si va pari. Lo stipendio viene automaticamente devoluto per l’asilo nido.
Credo che spesso la risposta che una donna si dà è che perlomeno momentaneamente sospendo
di lavorare. Chi me lo fa fare di tornare a casa stravolta, di non godermi mia figlia e di utilizzare i
soldi dello stipendio per pagare che mio figlio non stia con me? Ha un senso darsi questa risposta.
Io mi auguro però che siano sempre meno le donne a darsi questa risposta perché poi i bambini
crescono, il periodo dell’asilo nido dura poco e poi devi rimetterti in un mondo del lavoro ed è tutto
più difficile.
Io mi auguro che chi decide di lasciare il lavoro perché ha un figlio e decide di farlo liberamente,
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ben venga e lo faccia, ma mi auguro appunto che sempre di più questa sia una scelta libera, libera
da obblighi che vengono imposti e mancanza di servizi. Oggi così non è, ci si riempie la parola di
politiche per le pari opportunità e poi invece non si va ad agire su quei servizi. L’esempio dei
servizi dell’asilo nido era soltanto un esempio tra i tanti che si possono fare ma è senza ombra di
dubbio fondamentale.
Ho chiuso con questa testimonianza anche della Camera dei deputati e di come non si dota di un
asilo nido. Perché? Perché è l’esempio di come poi si fanno o non si fanno le politiche. Si danno
casomai degli indirizzi e poi, nella pratica, non si mettono in pratica.
Gianna Cioni
Segreteria Flc
Io chiederei se ci sono domande per aprire un po’ di dibattito. Io in realtà ne ho una, quindi magari
così rompo il ghiaccio, rispetto all’ultima relazione. Io ho scoperto che in altre nazioni, per esempio
il Canada, per dirne una che non è il Nord Europa, c’è un anno di maternità.
Mi chiedo qual è la valutazione che si dà sul fatto di aggiungere ovviamente a tutto quello che è
stato detto (diritti maggiori per la madre per poter avere una maternità consapevole e per poter
scegliere liberamente) anche la possibilità di cambiare la legge per la maternità non come obbligo
ma come possibilità.
Chiara Lalli
Io volevo fare una domanda semplice. Rispetto alla proposta di favorire e di programmare il parto
nelle case, sono state fornite delle spiegazioni o, come spesso accade in questi argomenti, è stata
fatta una proposta senza che ci sia stato nemmeno il tentativo di dirne le ragioni, vista anche la
problematicità della proposta?
Antonia Sani
Volevo fare una considerazione rispetto all’ultima parte del suo intervento.
L’attività di parlamentari non è un’attività lavorativa obbligatoria. Io ricordo che venti, trent’anni fa,
cioè all’epoca in cui si sono incrementati a Roma (dobbiamo dire grazie alla prima giunta di
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sinistra) gli asili nido, essi sono passati dai trenta asili dell’Onmi ai centouno negli anni della prima
giunta Argan e poi con Petroselli sono continuati. Ricordo che c’era un dibattito grandissimo e
questo riguardava ovviamente le madri lavoratrici con lavori obbligatori che, se lasciati,
provocavano tutto quello che prima lei diceva.
Noi c’eravamo sempre molto battute perché gli asili nido dei bambini fossero forniti di tutti quei
requisiti che dovevano avere, e cioè il giardino eccetera. E anzi il dibattito era: è giusto che, per
poter avere il bambino vicino e comodo, naturalmente per la mamma che lavora, si adibiscano ad
asilo certi stanzoni? Ricordo in particolare il dibattito con le lavoratrici del Poligrafico a piazza
Verdi. Noi eravamo del comitato di quartiere locale e quindi noi ci battevamo perché non venissero
adibite stanze e stanzoni che non avessero quei requisiti che hanno gli asili nido.
Gli asili nido di Roma sono bellissimi. Purtroppo non sono in numero sufficiente, e questo lo
sappiamo. Le mie nuore hanno potuto usufruire tutte e due di questi bellissimi asili nido; anzi una
delle mie nuore rappresenta proprio quel tipo di donna che, avendo un lavoro molto impegnativo e
molto importante (lei lavora in una struttura bancaria ai vertice, finisce alle dieci di sera molte volte
il lavoro), ha avuto un punteggio molto alto al nido. Lei ha fatto questa scelta, non ha lasciato il
lavoro. Ha usufruito della maternità consentita, cioè i famosi cinque mesi, e poi si è attrezzata un
po’ con me, nonna, un po’ con una babysitter a tempo pieno e ha potuto farlo grazie appunto a una
buona retribuzione e i bambini hanno frequentato felicemente un nido vicino a casa.
La domanda è: se si tratta di un’attività come quella del Parlamento, e che quindi è ben retribuita,
non è possibile forse vedere di inserire un bambino in un nido dove il bambino possa godere di tutti
quei vantaggi che sono tantissimi? Io conosco molto bene gli asili nido perché sono stata anche
consigliera circoscrizionale, ho presieduto un comitato di gestione per vari anni, sono veramente
molto ben attrezzati, con personale, come dice lei molto meglio della permanenza in casa con la
nonna eccetera. Quindi, in conclusione, dare al bambino tutto quello di cui il bambino ha bisogno
nei primi mesi di vita.
Non so come si possa conciliare con un’attività da Firenze a Roma, comunque l’idea era quella di
non fare questi micro-nidi a tutti i costi dove non ci sono le strutture adeguate per poterli fare.
Maria Gigliola Toniollo
Io volevo chiedere in merito ai reparti di neonatologia. Negli ospedali mi sembra che non siano
sempre presenti accanto alla sala parto, invece mi sembra che siano di altissima importanza.
Lilli Chiaromonte
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Abbiamo la conferma che per una donna scegliere di fare un figlio è ancora una scelta eroica
rispetto poi a quanto manca. Io però ho l’esigenza di richiamare un po’ l’attenzione di tutti al fatto
che esistono risorse e strumenti che non vengono utilizzati, soprattutto da parte di chi organizza il
lavoro degli altri.
Quindi, primo: c’è un problema di riflessione che dobbiamo fare rispetto a una maggiore
considerazione di che cosa vuol dire concepire, dare alla luce e poi crescere un bambino (cioè
tutto il problema della condivisione della fatica, delle responsabilità e dei lavori), ma a mio avviso
c’è un problema grosso che riguarda come sensibilizziamo. Noi abbiamo risorse, quelle per i
congedi parentali e quant’altro, che non vengono utilizzate. Ci sono imprese che non fanno
progetti, non utilizzano risorse che sono disponibili.
Secondo. Le imprese ma anche il sindacato. Bisogna contrattare anche flessibilità di orario
compatibili e corrispondenti alle esigenze delle lavoratrici, cosa che non sempre viene fatta.
Vediamo il part-time che non viene concesso – adesso non voglio entrare nel merito di alcune
questioni –.
Terza questione grossa. Secondo me – mi rivolgo a una donna giovane e parlamentare –
dobbiamo riprendere tutto il discorso della cura, perché oggi stiamo affrontando la nascita, la
crescita di un bambino ma c’è un problema di cura più in generale. Prima quest’attività veniva fatta
gratuitamente dalle donne del nostro paese e adesso questa cura viene affidata in genere ad altre
donne, in genere immigrate, e viene retribuita. Ha cambiato natura, diciamo così, questa attività e
io credo che bisogna riprendere questo ragionamento e vedere come inserirlo all’interno della
produzione delle norme ma riorganizzare anche un nostro modello di vita e di lavoro. Credo che le
donne in questo, per le cose che venivano dette, siano fondamentali.
Fiammetta Colapaoli
Presidente Proteo Fare Sapere Emilia Romagna
Visto che siamo in casa Cgil, io credo che sia necessario anche coniugare questi aspetti che
attengono al vissuto femminile, con la politica, con la politica alta.
La condizione della donna è peggiorata negli ultimi anni, inevitabilmente. Perché? Per le politiche
le politiche liberiste, dal punto di vista economico. Il liberismo ha precarizzato il lavoro e le donne,
per la maggior parte, hanno lavori precari. Il liberismo ha ridotto il tempo di lavoro ma per chi? Per
le donne. Il part-time – l’abbiamo visto – è prevalentemente femminile. Il liberismo impedisce
l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni. Di qui la riduzione dei posti negli asili nido; di qui il
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blocco delle politiche per lo sviluppo delle scuole dell’infanzia, della scuola, del tempo pieno. Tutto
ciò non può che penalizzare la donna che lavora.
Questa politica è prevedibile che abbia un’inversione di tendenza? Io credo che non sarà, nei
prossimi anni, possibile un’inversione di tendenza che rilanci il pubblico, che rilanci politiche alte.
Quindi quali orizzonti per la donna che vuole affermare se stessa nel proprio ruolo all’interno della
società? Io credo che l’unica strada sia quella di un forte impegno culturale, anche, senza
abbandonare le politiche ovviamente di tutela, quindi costruzione di asili nido, costruzione e
ampliamento della rete delle scuole dell’infanzia, ripresa del tempo pieno perché solo così la
donna può veramente essere inserita nel mondo del lavoro e partecipare alla pari con l’uomo.
Ma questo non basta. Ci vogliono delle politiche alte a partire dalla scuola, a partire dalla
formazione, per esempio, che portino l’uomo a partecipare alla gestione della vita familiare. Ecco
quindi le politiche – come si diceva prima – sui congedi parentali. Perché, nonostante ci siano
queste opportunità, in Italia sono scarsamente fruibili dagli uomini? Perché manca la cultura,
manca la formazione. E da dove cominciare se non dalla scuola, se non da quei luoghi ove
avviene la formazione del cittadino?
Io credo che una riflessione su questi temi sia importantissima.
Mirella Parachini
Volevo solo provocarvi forse un pochino sulla scia di questo dibattito (non è una domanda vera e
propria a qualcuno in particolare ma anch’io sono stimolata dal fatto di essere in questa sede) per
fare una riflessione che ovviamente, dato il mio lavoro, riguarda sempre la parte prima della
nascita e cioè la gravidanza, perché io non sono molto d’accordo su questa analisi del liberismo.
Nel pubblico impiego è patrimonio comune di noi ginecologi che per le lavoratrici con un posto in
un pubblico impiego esiste veramente un eccessivo ricorso al congedo anticipato per maternità,
con un atteggiamento tra l’altro del tipo: se non me lo fai tu il certificato, me lo fa qualcun altro.
Avrei piacere a sentire il vostro parere in questo, perlomeno bisogna rapportarlo alla mia
esperienza personale, e quindi su Roma, dove esistono delle scene – mi dicono – incredibili di file
dalle sei del mattino di fronte all’ispettorato con i certificati per ottenere questi congedi.
Noi raccontiamo tutta un’aneddotica che non è carino adesso venire a sciorinare ma che va dalla
certificazione – vista personalmente – tipo “Si richiede congedo anticipato per minaccia d’aborto in
sospetta gravidanza iniziale”. Da una parte quindi abbiamo questa inflazione. Dall’altra parte
questa constatazione assolutamente evidente che chi è libero professionista (riguarda molto
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spesso le commercianti, le parrucchiere eccetera) fino all’ultimo mese, giorno e ora prima del parto
mantiene dei comportamenti assolutamente a rischio.
Allora, questo ovviamente mi interessa moltissimo se mi si risponde alla luce di una situazione che
conoscete molto bene. Non vuole essere una provocazione, però in questo voglio dire che a chi
lavora dall’altra parte appare con tutta evidenza che una situazione “garantita” di posto fisso, di
impiego eccetera consente un ricorso eccessivo, secondo me, a questo istituto, che è benedetto e
sacrosanto perché il vero concedo anticipato per maternità in una gravidanza a rischio è
sacrosanto.
Corrada Giammarinaro
Sono Corrada Giammarinaro da Pisa e vi racconto una piccola cronaca dalla trincea. Io faccio
l’avvocato di provincia e ritengo che fare l’avvocato di provincia, se uno ne avesse le capacità, è
come scrivere le novelle per un anno di Pirandello, cioè se sei bravo ne puoi tirare fuori delle cose
veramente di significato molto generale.
Una cosa con cui ho a che fare – ora ho sentito tutto questo discorso degli asili nido eccetera – è
questa. Ormai ci sono sempre più persone che non sono povere, cioè che non è che non riescano
a portare a casa un dignitoso stipendio, ma col dignitoso stipendio, se sono anche in una fase di
separazione ecc. , quindi non sono affiancate dal dignitoso stipendio altrui, secondo il tipo di lavoro
che fanno non ce la fanno ad avvalersi di aiuti, ausili privati, a pagamento privato ecc. ecc.
Ci sono lavori particolari. Uno di questi è il cuoco, l’aiuto-cuoco o in genere il lavorare nella
ristorazione in un posto turistico quale è Viareggio. Allora che caso mi è capitato? Di questa
signora che fa appunto l’aiuto-cuoco a Viareggio, quindi porta a casa il suo decoroso stipendio. A
Viareggio lei è ritornata. C’era stata molti anni; poi lei, spostandosi con il marito, era andata in
un’altra città. Quando si sono lasciati, lei con le due bambine ritorna a Viareggio perché ha le sue
opportunità di lavoro che ritrova subito. Quindi va tutto bene. Quando fa la stagione a Viareggio,
deve naturalmente stare al ristorante fino alle due, alle tre di notte. Se di inverno ci si organizza
con i turni perché c’è meno afflusso di gente e dunque lei una volta è a pranzo e una volta a cena
e quindi d’inverno è più semplice, d’estate, durante i tre mesi della stagione, Viareggio funziona
tutto in un’altra maniera, quando si monta il baraccone. Allora va a parlare con i servizi sociali ecc.
ecc. e trovano che c’è una specie di servizio di casa famiglia che ha dei posti liberi, quindi dove le
bambine possono andare a dormire, cioè possono andare là nel tardo pomeriggio e restare lì nel
periodo non scolastico, che coincide con la stagione a Viareggio. Insomma, finisce che stanno lì
tutto il tempo.
I posti c’erano. È stato un servizio usato impropriamente perché serviva ad altro tipo di situazioni,
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ma era un servizio gestito molto bene, in un posto molto bello. Si era creata un’atmosfera familiare,
c’erano anche queste ragazze madri ricoverate lì con il bimbo piccolo. Queste bambine giocavano,
avevano fatto amicizia eccetera. Quindi va tutto bene. C’è il servizio vuoto, lei ne ha diritto...
Lo sapete che è andata a finire a segnalazione al Tribunale dei minori? Cosa succedeva? Perché
quel servizio non nasce per quello, quindi è usato in modo improprio e ad una che lascia i bambini
tre mesi a farli dormire fuori di casa, l’assistente sociale decide di fare una segnalazione.
Allora, qual è la morale della favola? In ogni legge di welfare noi dovremmo abbinare una parte
consistente e interessante sui diritti di libertà, per cui come vanno cresciuti i bambini e qual è la
modalità migliore tra babysitter, rumeni, nonni, servizi sociali, e qual è il mix, lo decide la persona,
in base alle sue esigenze lavorative, in base a una sua valutazione complessiva che non è tenuta
sempre e necessariamente a dichiarare ai servizi sociali, perché ci possono essere delle situazioni
in cui c’è anche un parente vicino ma si valuta che non è il caso di lasciarli a quel parente.
Allora, o partiamo dal presupposto che uno non è l’eterno minorenne che deve sempre e
necessariamente giustificarsi ma che, l’educazione, la cura può anche fuoriuscire da quella che è
l’idea del modello dominante… che poi sarà veramente dominante o è di Buttiglione? Io questo a
volte me lo chiedo. È dominante, cioè, chi parla di più a “Porta a porta”? Siccome ci va ogni sera e
dice sempre la stessa cosa è dominante? Perché non è dominante la mia casistica che è molto più
varia?
Naturalmente la sinistra si deve liberare di un’idea: che i diritti di libertà, che questo genere di
garanzie sono per i borghesi. Non è vero perché al professionista che lascia tre figli eccetera
nessun assistente sociale gli verrà mai a rompere le scatole. Rompe le scatole proprio alla
persona che non ha quel budget economico e direi socioculturale, più che economico, e che
dunque non sa difendersi rispetto a questi attacchi. Per fortuna c’era una alla casa famiglia che le
ha detto (frase meridionale bellissima): “Metti di mezzo l’avvocato”. Che non è neanche una
rivendicazione di un diritto (perché questa persona non pensava di averlo, ora faticosamente
stiamo facendo un percorso per dirle che il diritto ce l’ha). Dire “metti di mezzo l’avvocato” significa:
dai seccature all’assistente sociale così forse, giocando sul fatto che poi amano lavorar poco quelli
del pubblico ecc. ecc., la cosa si ferma lì, perché diventa una grande seccatura e cose varie.
Quindi sul discorso dei servizi sociali bisogna stare attenti e anzi secondo me questa era una
lezione importantissima invece da cui si doveva cogliere un elemento per la rinnovazione, per la
ristrutturazione del servizio. Quindi va posto in luce questo pericolo, cioè è il servizio che si deve di
volta in volta adattare alla nuova esigenza sociale e non è la persona che si deve adattare alla
strutturazione del servizio.
E vorrei dire anche un’altra cosa. Il precedente governo si è battuto molto su questo interesse del
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minore. Io ricordo che si vedevano sempre tutti i programmi con la Mussolini che diceva: “I
bambini…” come se dall’altra parte ci fosse Erode che voleva fare la strage degli innocenti. Quindi
lei sola difendeva i bambini e cose di questo genere. Naturalmente questo interesse del minore…
non so chi fosse così unto dal signore che lo conosceva lui, cioè i minori anche uno li interpella. Se
c’è un diritto del minore va sancito come diritto del minore. E allora c’è una direttiva europea
completamente inattuata sull’avvocato del minore; cioè il minore, nei giudizi che lo riguardano, in
quasi tutta Europa (non solo quella del Nord, non pigliamo sempre quella del Nord), ha diritto a
essere sentito, a stare in giudizio con una rappresentanza tecnica propria.
Ora, guardate, non è che ci sono solo gli assistenti sociali che sanno fare. Gli avvocati di diritto di
famiglia, quando fanno le separazioni consensuali con i ragazzini sono abituati a parlare, sono
abituati a tenere in considerazione il loro punto di vista. Ce ne facciamo un punto di deontologia di
fare l’accordo che tenga anche conto dell’interesse del minore inteso come situazione giuridica
soggettiva di una persona che trova dei limiti e degli incontri e degli incastri con le situazioni
giuridiche soggettive di tutte le altre persone coinvolte, perché non è neanche il centro
dell’universo. Questa deviazione del linguaggio, ormai, che per riconoscere qualcosa alla persona
si dice: “È giovane, è un ragazzo”, locandina del giornale, due ragazzi di quarant’anni,
poverini….Ma ragazza è mia nipote che ce n’ha diciotto, che viene dalla zia per dei consigli, per
dei quattrini, che manda l’sms “Richiamami subito”, perché giustamente i ragazzi veri di soldi ne
hanno pochi e quindi scaricano la scheda, ma due ragazzi di quarant’anni mi fa un’impressione
culturale di dire: “ormai in che mondo viviamo”.
Quindi il minore che è minore ha i suoi diritti, si attui questa direttiva. È uno scandalo che questa
legge tanto decantata sull’affido condiviso, che era l’occasione buona per l’attuazione della
direttiva, non sia stata attuata. Il minore non è un sacco di patate, di cui poi l’unto del signore a
“Porta a porta” delirando dice: “Il minore ha bisogno di questo, di quello, di due genitori di sesso
diverso, di quattro nonni, una zia libera professionista che ricarica il telefonino” perché tra poco ci
mettiamo pure questo. Il minore è una persona, va sentita e ha i suoi diritti insieme a quelli delle
altre persone.
Chiara Recchia
Ritorno al discorso della relatrice: quella proposta di legge dovrebbe essere uno strumento per
garantire delle libertà alla donna partoriente eccetera. Condivido la disapprovazione a proposito
del diritto di partorire in casa, anche perché, nella mia esperienza personale di figli e nipoti
eccetera, vedo che tra i giovani è abbastanza diffusa, invece, quella cultura del parto cosiddetto
naturale, quello cioè che fa molto soffrire e quindi rifiuta in anticipo epidurali eccetera.
Ora, il fatto che si garantisca questa libertà mi pare veramente pericoloso. Si potrebbe anche
allargare il discorso: ci sono dei diritti e delle libertà che arrivano fino a un certo punto, cioè delle
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cose che non possono essere considerati diritti e libertà, altrimenti si fa veramente un passo
indietro.
Allora, nella comprensione della difesa di quelli che sono veramente i passi in avanti che si devono
fare e dei pericoli invece dei passi indietro, io vedo che le donne nonne (che abbiamo visto essere
una delle garanzie principali, uno dei fondamenti per cui una donna con bambini piccoli possa
continuare a fare il suo lavoro perché per il momento non ci sono molte altre alternative) di oggi
sono diverse dalle nonne di ieri, sono le nonne della generazione che ha vissuto tutto il discorso
dell’aborto, del divorzio, delle lotte per i diritti civili. Ancora oggi io credo che questa generazione
possa essere utile per le donne giovani, giovani mamme di oggi perché, nel momento in cui
vogliono garantire i propri diritti a continuare ad avere una vita, una cittadinanza attiva, come si
dice, di non essere, finito il lavoro, esaurite in quelli che sono i compiti familiari, nel momento in cui
queste nonne di oggi fanno queste battaglie, fanno battaglia per sé e anche per le proprie figlie,
per la generazione che ha bisogno invece ancora di asili nido ecc. ecc.
Quando, due anni fa, mi occupai della raccolta delle firme per la legge sulla scuola da zero a sei
anni, le raccoglievo, queste firme, dicendo che era una legge a favore delle nonne, prima ancora
che delle donne, perché fare delle scuole, garantire questo servizio educativo all’infanzia da zero e
per sei anni è una garanzia anche per le nonne.
L’ultima osservazione a proposito di quello che veniva detto sulla legge, sul fatto che non si usi
molto il part-time da parte anche dei maschi eccetera. Io ho presente, sempre nella mia esperienza
(ma un sindacato Cgil dovrebbe avere e forse ci darà dei numeri), delle situazioni in cui la
maternità è combattuta. È difficile rimanere incinte e continuare a lavorare perché è il padrone del
lavoro che non lo vuole. Ci sono delle situazioni in cui le donne che devono essere assunte
devono garantire di non rimanere incinte. Ci sono delle situazioni in cui donne che aspettano un
figlio vengono licenziate, e continua poi la situazione quando ritornano e vengono maltrattate (il
mobbing ecc. ecc. Ci sono anche opere cinematografiche su questo).
È questa la situazione all’interno della condizione di lavoro. Quindi non è che non si voglia
usufruire di quegli strumenti legislativi: è la situazione reale purtroppo che lo impedisce.
Donatella Poretti
Provo un po’ a rispondere, partendo dalla coda.
Effettivamente – lo avevo detto – non è soltanto il discorso di prendersi l’assenza per maternità: il
problema è che quando un datore di lavoro deve decidere a chi far fare carriera, è evidente che
influisce se essere donna e poter avere degli figli e essere uomo, e quindi essere certi che non
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avrà dei figli. Questo è evidente e fa parte di un percorso culturale perché i diritti in teoria ci sono,
le norme scritte ci sono: non si può licenziare una donna perché ha avuto un figlio. Il problema è
più grande. Non è di aver bisogno di una legge, ma è di promuovere culturalmente e di far sì che
appunto non venga visto come un handicap il fatto di essere donna in età feconda; cosa che
invece attualmente accade.
Su questo riprendo dalla domanda iniziale. Io vedrei con più interesse la possibilità di dare alla
donna gli strumenti per continuare a lavorare, cioè non è che vedo con contrarietà che ci sia la
possibilità di avere maternità più lunghe però io credo che le donne dovrebbero organizzarsi il più
possibile per continuare a lavorare sempre. Evidentemente appena uscite dall’ospedale no, però
se è possibile sì. Io fino alle sei sono stata in ufficio, a mezzanotte ho avuto la bambina. La
settimana dopo ovviamente non stavo in ufficio ma passavo, era un continuo prendere il latte,
quindi era un incubo, però volevo continuare a mantenere il mio filo.
Ora, è evidente che non facevo la parlamentare: appena partorito facevo la giornalista, collaboravo
con un’associazione di consumatori. Quindi facevo un’altra cosa e potevo tranquillamente
starmene beatamente a casa, però non sentivo la necessità di prendermi l’anno sabbatico. E
quando ho deciso di accettare la candidatura, uno può dire: “Ma come fai a rifiutare la
candidatura?”, beh si fa anche alla svelta, si dice di no, non è che è obbligatorio fare il
parlamentare. Sì dà dei privilegi, dà dei vantaggi però sinceramente io posso fare anche altro nella
mia vita e sicuramente tornerò a fare altro nella mia vita dopo i cinque anni. Io ho accettato di farlo
sapendo tutte le difficoltà in cui mi sarei andata a mettere per i primi mesi.
I lavori sono molto diversi, io credo, e credo che di caso in caso si possa tranquillamente valutare
se c’è la necessità fisica, psicologica, del tipo di lavoro che si fa, se mantenersi un anno di
maternità o se invece prendersi alcuni mesi e poi riiniziare con un part-time. Ecco, io chiederei
questo a una legislazione che guarda alla donna e al mercato del lavoro, cioè la massima
flessibilità su richiesta della donna, cioè su come la donna possa organizzarsi una volta che ha
avuto il figlio. Tra l’altro ogni gravidanza è diversa da un’altra. E allora c’è quella che riesce a farsi
tutti i nove mesi che è una meraviglia, quella è “fortuna”, cioè dipende dal fisico della donna; c’è
quella che invece è costretta a stare a letto. Bisogna vedere di caso in caso. Se una donna se la
sente e riesce ad andare a lavorare, prendendo lo spunto di Mirella Parachini, anche se ha quella
possibilità di usufruire della gravidanza, io opterei per continuare ad andare a lavorare; ciò non
toglie che ovviamente deve essere invece garantito il diritto se quella donna sta male, questo è
evidente.
Il problema, però, è un altro, secondo me, ed è un problema culturale appunto che non ti deve
mettere nella condizione di dover per forza andare a lavorare perché altrimenti ti scavalcano e a un
certo punto tu poi rimani senza lavoro. Quindi è un problema più ampio, in questo senso .
Su questo starei attenta. Cercherei di garantire il periodo più lungo di possibilità di maternità, però
punterei ad altre formule più flessibili per cercare di continuare, se la donna vuole, a mantenere il
rapporto con il lavoro e con il proprio lavoro, proprio per tenerlo stretto.
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Sul fatto del parto in casa, io ho subito sgranato gli occhi e ho detto: “Il parto in casa? Ma siete
pazzi? Mi viene in mente il medioevo, la levatrice, le pezze, le stoffe, il catino con l’acqua…” e ho
avuto un’immagine veramente da film del medioevo. Mi è stato detto: “Ma guarda, ne abbiamo
parlato anche la scorsa legislatura, abbiamo sentito tutti e anche se c’è una sola donna che ne fa
richiesta, tu questo diritto lo devi garantire”. Di fronte a “anche una sola donna che ne fa richiesta,
tu devi dare un diritto”, ti mettono anche un po’ in difficoltà perché sembra quasi che tu vuoi negare
un diritto a una donna.
Io credo che poi si faccia confusione tra il diritto a partorire, e quindi ad avere un figlio sano e ad
avere un buon parto, una buona assistenza sanitaria, che non si deve confondere con il diritto di
una donna di fare una cosa piuttosto che un’altra. Secondo me, qui c’è confusione tra il diritto a
partorire e ad avere un’assistenza sanitaria e a farlo in casa. Non lo vedo come diritto,
sinceramente, però può darsi che mi sbagli.
Io allora farei un discorso più pratico di costi perché partorire in casa ha un costo pazzesco per
quanto riguarda la sanità pubblica perché devi garantire l’ostetrica, il ginecologo, il neonatologo,
cioè tutta una rete che sia lì in casa e che sia anche disponibile, a un certo punto, se c’è la
malaparata, a portare la donna rapidamente all’ospedale. In una situazione in cui abbiamo ancora
delle sale travaglio che sono proprio un travaglio a vedersi, come sale, io non so se… Ciò non
toglie che se c’è una regione che decide che ha dei soldi e li vuole investire in sperimentazioni, io
non è che lo vieterei, però non lo incentiverei con una legge.
D’altro canto c’è anche chi aveva pensato di promuovere addirittura delle case del parto, che
sembra una sorta di clinica privata dei poveri. Ma per quale motivo uno dovrebbe andare a
partorire in una casa del parto senza l’assistenza medica e sanitaria? Tanto vale partorire in
ospedale, se non sei in casa tua.
Quindi non so per quale motivo questo ritorno, comunque ancora la legge non è fatta. Per quanto
mi riguarda, io sono veramente contraria. L’unica cosa che mi lascia perplessa è che persone che
nella scorsa legislatura si dicevano contrarie al parto in casa, nel frattempo hanno cambiato perché
hanno detto: “Va beh, comunque c’è chi lo vuole e dunque bisogna concederlo”.
Sul fatto degli asili nido e che debbano essere idonei, cioè che debbano avere dei giardini, dell’aria
aperta eccetera, io sono d’accordo. Infatti quando io insisto a dire che la Camera dei deputati è
piena di palazzi, è piena di spazi, è piena anche di piccoli giardinetti, è piena di cortili, è piena di
terrazze gigantesche che comunque, se attrezzate alla bisogna, possono funzionare da sorta di
giardini pensili. È possibile, tutto ciò è possibile. C’è soltanto la volontà…
Delle volte però i micro-nidi, secondo me, possono avere una loro utilità, anche aziendale.
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Possono averla casomai per un po’ di ore, è evidente che non puoi tenere un bambino dalla
mattina alle otto alla sera alle dieci in una stanzina piccola con due bambini tutto il giorno. Questa
soluzione anch’io la vedrei con difficoltà.
Sia chiaro, anche se non l’avevo detto, che l’ipotesi dell’asilo nido alla Camera dei deputati è a
pagamento. Non è che è una cosa gratuita…
L’isola neonatale. È previsto nel progetto di legge di fare una sorta di isola neonatale. Questo non
è che vuol dire chissà che ma perlomeno che ci sia uno spazio adiacente, se non nella sala parto,
in cui poter dare subito la prima assistenza al bambino nel caso ce ne fosse bisogno. Comunque
proprio in questo testo è molto lo spazio che viene dato al neonatologo e altro.
Sul discorso delle condizioni delle donne che sono peggiorate per le politiche liberiste, in particolar
modo il riferimento fatto al part-time o alla flessibilità, però quel part-time e quel lavoro flessibile per
certi versi almeno ora c’è con un contratto non è più al nero, perché altrimenti quel part-time prima
c’era ma non era con un contratto.
L’alternativa sarebbe di non avere il contratto e di lavorare al nero, perché poi di questo si parla.
Poi so che è argomento complesso e ci potrebbe prendere ore… Se poi tutto ciò ricade sulle spalle
delle donne, il problema è un altro: il problema che è una società decisamente e completamente
maschilista in cui è l’uomo al centro degli orari, dei tempi, dei lavori di tutto quanto. La donna c’è
ma è come se non ci fosse, cioè è tutto organizzato e strutturato sull’uomo. Quindi è evidente che,
se c’è una prima vittima da fare da qualche parte, la prima vittima è la donna ma non per le
politiche liberiste, secondo me, bensì proprio per come è organizzata la società che è decisamente
maschilista. Su questo c’è poco da dirsi.
All’avvocato di provincia non ho nulla da rispondere, nel senso che è una bella storia sintomatica
che poi le leggi bisogna anche vederle nella pratica, perché se in teoria si fa una legge severa in
cui si danno delle linee guida che poi nella realtà si trasformano in qualcos’altro e invece che in un
diritto diventano il contrario, diventano la depressione, questo è il problema di molte leggi che
abbiamo in Italia che sono davvero molto pesanti e ci sarebbe bisogno, invece che di farne, di
toglierle, ma questo è un problema decisamente annoso. Invece continuiamo a farle e continuiamo
a farle sempre più pesanti, che coinvolgono anche altre leggi, che si sommano ad altre. Per cui,
quando devi togliere una cosa, devi andare a incidere su chissà quante leggi, ma questo appunto
è un altro problema.
Gianna Cioni
Il dibattito che noi stiamo facendo, le tematiche che stiamo affrontando sono tematiche che hanno
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un notevole livello di complicazione. Io sono contenta ed è per questo che lo facciamo qui, dentro
questo edificio. Non vogliamo considerare chiuso alcun argomento e non dobbiamo considerare
nessuna delle affermazioni, nemmeno quella degli autorevoli relatori, come “quella è la cosa
perfetta” perché su queste problematiche non è proprio possibile e perché noi siamo un sindacato
e vogliamo andare avanti, e capire e affrontare e approfondire sempre di più queste problematiche.
Avevo promesso una brevissima risposta a Mirella Parachini. Lei aveva fatto una provocazione, io
rispondo alla provocazione. Io non ho i dati in mano. Io oggi sono una sindacalista e ho sempre
lavorato nel pubblico, ma non faccio il caso mio, ovviamente. Probabilmente ci sono nel pubblico
come nel privato persone che abusano. Mi chiedo, facendo un banalissimo esempio, se un
insegnante giovane, perché precario, deve andare a insegnare a cento chilometri di distanza, se
rimane incinta, se questa è una cosa che va d’accordo con la sua condizione di lavoro, e
probabilmente di questi oggi ce ne sono tanti. Questo è un puro esempio.
Poi, invece di continuare a dire che il pubblico non fa niente, perché non affrontiamo il discorso di
quanto purtroppo nei posti di lavoro la donna venga di fatto sfruttata, perché esistono delle leggi,
esiste la tutela della maternità, non si può essere licenziati perché si è incinte ma di fatto si viene
licenziati, oppure poi si viene emarginati .
Per fortuna questo nel pubblico non succede? L’emarginazione succede anche nel pubblico,
questo è sicuro. Le donne che non fanno carriera sono tutte sceme? Ho dei dubbi. Si dimostra che
i voti più alti all’università ce li hanno le donne, però poi dopo si fermano sempre ai livelli bassi.
Io ritengo che la cosa fondamentale (e questo mi sembra che sia veramente nella linea di un
sindacato come la Cgil) sia che la politica deve garantire, su questo settore, la libertà di scelta
della donna e la tutela dei bambini e che queste cose non devono essere poste in
contrapposizione.
A me è piaciuto moltissimo l’inizio del discorso di Mirella Parachini in cui faceva la sua storia. Io
ritengo che una donna abbia il diritto, per il bene suo e per il bene del figlio, di poter stare vicino al
figlio (parlo di vicinanza fisica, quella che si è tentato per tanti anni di negare) perché entrambi
crescono e saranno più utili alla società. Vogliamo permetterlo questo? Non imporlo, per cui io non
chiederei mai l’obbligo di stare a casa un anno, adesso non c’è nemmeno l’obbligo di stare a casa i
due mesi prima perché, se un medico dà il permesso, se ne sta uno solo e uno si tiene per dopo.
Certo, se il lavoro è usurante si deve, ma questo è ovvio, però credo si debba dare questa
possibilità proprio come crescita della madre, del bambino e della società, perché una società che
avrà dei bambini che sono cresciuti meglio, sarà migliore.
Chiara Lalli
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Ricercatrice della università di Roma La Sapienza e dell’università di Chieti
Genetica, uso dei test genetici e delle informazioni genetiche.
Cambiamo abbastanza drasticamente argomento. Fortunatamente, mi viene da dire, mi capita di
dover parlare di un argomento un po’ più freddo rispetto a quelli di cui abbiamo parlato finora.
Dopo che in questi ultimi anni si è tanto dibattuto di sacralità dell’embrione in tema di aborto e
tecniche di procreazione assistita, di sacralità della vita in tema di eutanasia e decisioni di fine vita
e ultimamente di sacralità della famiglia in tema di dibattiti su diritti delle coppie di fatto, il dominio
delle informazioni genetiche ancora non è stato travolto, almeno recentemente, da questa idea di
sacralità. Senz’altro è in agguato anche qui perché, come vi sarà venuto in mente anche
semplicemente per un’assonanza, genetica, i test genetici richiamano un argomento caldo,
scottante che tira in ballo anche la legge 40, ovvero la diagnosi genetica di preimpianto (poi ne
parleremo in dettaglio), e che inevitabilmente, come dicevo prima, richiama la sacralità
dell’embrione perché la decisione o le presunte motivazioni per vietare il ricorso alla diagnosi
genetica di preimpianto in Italia sono legate allo statuto personale dell’embrione e a una
motivazione abbastanza delirante – passatemi l’aggettivo un po’ duro – su presunte finalità
eugenetiche. Parleremo approfonditamente anche del richiamo costante all’eugenetica che è
assolutamente sbagliato dal punto di vista storico e sbagliato dal punto di vista concettuale.
Due premesse o due punti cui tengo ad accennare e che credo siano fondamentali in tutti i dibattiti
che riguardano le biotecnologie, ma forse in tutti i dibattiti in generale. Il primo è che, di fronte a
una nuova possibilità (in questo caso parliamo di nuove possibilità biomediche offerte
dall’avanzamento della biomedicina, dalla medicina o dalla scienza, dalla tecnologia), c’è spesso la
tentazione o la malafede di dire: se non si fa nulla, non si incappa in alcuna conseguenza. Ma la
passività, il non fare nulla di fronte a una nuova possibilità che ci è offerta, non è immune da
conseguenze e, soprattutto, non è moralmente neutrale e ancor più, non è moralmente
ammissibile. Se io decido di ignorare una possibilità non sono buona: sono soltanto una persona
che ha ignorato una possibilità e qualche volta posso macchiarmi di una colpa ben più grave di
quella che potrei rischiare avvalendomi di quella nuova possibilità o scegliendo anche un
procedimento rischioso. Pensate alle sperimentazioni.
Il secondo punto è un po’ più specifico e richiama, in una giornata in cui parliamo di diritti, anche
l’uso un po’ strambo di richiamare alcuni pretesi diritti. Mi ha fatto sorridere il diritto ai quattro
nonni, ancora non lo avevo sentito, ma di diritti ad avere due genitori e di tanti altri diritti, ne
abbiamo sentito di tutti i colori, ma in questo campo specifico un diritto veramente esilarante che
viene invocato è il diritto al caso, per esempio rispetto alla possibilità di manipolare i patrimoni
genetici. Si dice: il nascituro – ma le persone in generale – hanno diritto ad avere il caso, la lotteria
genetica. E’ divertente pensare che in nessuna altra circostanza si tende a invocare il diritto al
caso. Nessuno invocherebbe il diritto al caso per una terapia medica, nessuno invoca il diritto al
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caso quando si parla di politica o di gestione di risorse finanziarie o perfino di una cosa meno
importante o rilevante come è andare in vacanza.
Il diritto al caso o alla casualità è quasi esclusivamente invocato in tema di biotecnologie,
accompagnandosi anche al discorso che lo sostiene, del principio di precauzione che, in tema di
bioetica, è diventato quasi esclusivamente un principio di negazione, di divieto e non è più un invito
a una cautela, per quanto poi difficile sia declinare, rendere sostanziale l’invito alla cautela, ovvero
che significa quando qualcuno mi dice: “Sii cauto”? Non significa nulla ma in bioetica, e
ultimamente soprattutto in Italia, è diventato non solo il “sii cauto” ma non fare, divieto, no.
Riguardo alla genetica e all’uso dei test genetici, molti dei problemi che ci troviamo a dover
affrontare sono riportabili a problemi tradizionali, come quello di informare o non informare, di
considerare le conseguenze di questa informazione, di bilanciare i diritti che si vengono a
scontrare e che entrano in collisione inevitabilmente: il diritto alla privacy, il diritto all’informazione,
all’accesso o invece alla riservatezza e così via. C’è però un nodo fondamentale che caratterizza e
che forse dà un aspetto un po’ diverso da questi problemi tradizionali e che è una caratteristica
intrinseca dell’informazione genetica, cioè il fatto che non si tratta di problemi esclusivamente
personali. Alcuni dei casi più celeberrimi in tema di informazione genetica sono quei casi in cui una
persona ha bisogno di acquisire informazioni non proprie (dei genitori, dei congiunti, di persone
legate da un vincolo di parentela) per prendere una decisione, ad esempio una decisione
riproduttiva, personale. Quindi ha bisogno di accogliere informazioni che sono private, sono
riservate di altre persone per decidere su di sé e per prendere una decisione responsabile e
informata perché, in assenza di queste informazioni, non potrebbe avvenire una decisione corretta.
C’è stato un caso in Italia, negli ultimi anni, in cui una donna affetta da glaucoma bilaterale avevo
chiesto di accedere alle informazioni del padre per poter prendere una decisione riproduttiva. Il
padre si era opposto. La clinica, la struttura sanitaria e i medici si erano opposti in nome del
segreto professionale e il garante della privacy ha detto: “No. Il diritto qui più forte è quello alla
salute, alla salute riproduttiva e alla salute della donna, perciò gli altri diritti che sono stati invocati
(segreto professionale, riservatezza e quindi privacy del padre) sono più deboli. Perciò io do il
consenso”.
Io credo che sia anche interessante analizzare i casi singoli non solo e non tanto per costruire casi
umani, che non servono a granché se non a suscitare scandalo o pietà (e credo che entrambe le
reazioni siano abbastanza inutili), ma per sottolineare l’estrema complessità dei problemi che
andiamo ad affrontare e anche l’inefficacia, almeno in termini assoluti, di una legge per quanto ben
fatta. Ogni caso singolo ripropone aspetti, problemi e complicazioni che neanche una legge –
ripeto – ben fatta è in grado di risolvere a priori e in assoluto.
Il primo punto che vorrei affrontare riguarda la correttezza nell’individuare i nodi critici o i problemi
principali delle informazioni genetiche. Credo che tutti voi abbiate sentito parlare per esempio dei
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problemi di discriminazione rispetto alle assicurazioni sanitarie o lavorative sugli screening
genetici. Allora, le informazioni di debolezza genetica o di fragilità vengono utilizzate a fini di
discriminazione: assicurazioni che non concedono polizze sanitarie perché, per esempio, c’è un
genitore che ha una certa malattia o perché c’è stata un’informazione che dà una possibilità di
contrarre una malattia o, come dicevo prima, istituzioni lavorative che preferiscono assumere o
dare un contratto di lavoro a una persona che abbia un profilo geneticamente più saldo , con tutto
quello che può significare,.
Se ricordate il film “Gattaca”, lì viene fuori benissimo questa idea anche molto ingenua che da un
profilo genetico sia possibile ricostruire non solo l’identità personale ma anche il profilo futuro e
sanitario della persona su cui si acquisiscono informazioni.
Quindi il primo problema è chiarire che il determinismo genetico anche in questa circostanza è
un’idea molto ingenua e che non funziona perché poi in termini di salute, a parte rarissimi casi,
l’interazione tra ambiente e informazione genetica è il dato rilevante. Quindi anche andando a
rintracciare un profilo di debolezza o di predisposizione, questo non significa altro che aver
riscontrato una debolezza o una predisposizione. Non dà alcuna garanzia e alcuna certezza che la
persona in questione si ammalerà e che quindi sarà meno adatta ad affrontare delle posizioni di
responsabilità
o
comunque
a
gestire
unlavoro.
Però non bisogna neanche cadere nell’errore, che spesso capita, di attribuire l’immoralità e la
condanna, su cui credo non ci siano grosse discussioni, dell’atto discriminatorio, all’informazione in
sé. Quello che voglio dire è che non è l’informazione genetica a essere intrinsecamente immorale.
Qualche volta questa condanna passa nel senso di fermare, limitare la possibilità di raccogliere
informazioni perché il processo stesso di acquisire informazioni è moralmente condannabile,
perché è discriminatorio. Naturalmente non è così. Non è l’informazione in se stessa a essere
discriminatoria ma è l’uso che se ne fa. Allora il ruolo di una policy di un welfare, di una società
giusta è proprio quello di analizzare i problemi e di cercare soluzioni laddove il problema risiede. In
questo caso, ad esempio (e questo è lo scopo delle molte leggi che sono state fatte in tema di
discriminazione sanitaria e lavorativa, appunto, rispetto alle informazioni genetiche), lo scopo è
quello di impedire ad agenti che hanno un interesse specifico e particolare di utilizzare determinate
informazioni per scopi immorali.
Non dimentichiamo che rispetto alle informazioni genetiche, per quanto con tutti i loro limiti che
dicevo prima di indicazione probabilistica per cui, tranne in rarissimi casi, non c’è una certezza,
(per questo è fondamentale il counselling genetico, per questo è fondamentale un’informazione
attenta e accurata ai fruitori ma anche a tutte le persone che poi ragionano su questi argomenti), il
rischio determinato dalla discriminazione è bilanciato poi invece da un grosso vantaggio, che è
quello di poter assestare la propria esistenza, in termini anche di condizioni di vita, in presenza di
un rischio che viene individuato.
La cosiddetta medicina predittiva, per quanto incerta e difficile e appunto esposta a molti rischi, dà
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la possibilità a quelle stesse persone che sono esposte ai rischi di scegliere poi, per esempio,
abitudini di vita che possono non favorire certe predisposizioni. Quindi è, in questo senso,
un’offerta che giudico preziosa dal punto di vista sanitario e individuale.
Rispetto all’oggetto preciso da combattere, che è la discriminazione, pensate alle carte di
documentazione e documenti di identità, per esempio. Si potrebbe dire che, in una società sessista
o razzista, le informazioni che una fotografia offre sono intrinsecamente discriminatorie, perché se
io sono un capo di una fabbrica e culturalmente sono in una società o personalmente sono una
persona razzista, se ho davanti a me dei fogli, dei curriculum con delle foto di persone che hanno il
colore della pelle diversa, lì è in agguato la discriminazione perché butterò nel cestino tutte le foto
che non corrispondono alla mia stramba idea di razza da promuovere tenendo appunto soltanto
quelle che corrispondono alla mia idea.
In questo senso ciò che va combattuto è la discriminazione di una società sessista e razzista ma
non l’informazione. Sarebbe assolutamente sbagliato dire: un buon modo di combattere la
discriminazione è eliminare le foto dai documenti, eliminare le informazioni dai documenti e
dissimulare l’informazione. Se siamo d’accordo a dire che il procedimento per combattere la
discriminazione non è la dissimulazione sulle informazioni tradizionali, dovremmo essere d’accordo
su questo concetto anche appunto sul versante delle informazioni genetiche, non esserne
terrorizzati ma individuare i problemi di abuso, combattere i problemi di abuso e non appunto
l’informazione stessa.
I casi purtroppo sono numerosi e anche tristemente famosi. Qualche anno fa, negli Stati Uniti, una
donna si è vista rifiutare un’assicurazione perché il padre aveva avuto una diagnosi di corea di
Huntington. Essendo una malattia autosomica dominante, che quindi dà una possibilità del 50 per
cento ai figli di contrarre questa malattia, l’assicurazione ha detto: “In presenza di una percentuale
così alta, il 50 per cento, anche se tu, persona che mi ha richiesto la polizza, non ti sei sottoposta a
un test e anche in caso di tuo diniego a sottoporti” perché ovviamente fin qui non siamo ancora
arrivati, non siamo arrivati all’obbligo coercitivo di sottoporre una persona a un test “in base a
questa percentuale del 50 per cento io ti rifiuto la polizza assicurativa”.
Questo è un esempio complesso e moralmente condannabile ma che richiama in causa proprio
quello che dicevo prima, cioè una delle caratteristiche più rivoluzionarie dell’informazione genetica,
ovvero che non è soltanto l’informazione che riguarda la persona stessa, che sta chiedendo una
polizza o un posto di lavoro, ma del suo nucleo, delle persone che sono a lei legate per il gruppo
genetico. Quindi addirittura un’informazione che riguardava il padre ha finito per essere
discriminatoria nei confronti di questa donna.
Un punto certamente caldo e dolente è quello dei criteri per permettere la richiesta di informazioni.
Qualche tempo fa, a Dobbiaco è stata uccisa e violentata una donna. Le indagini si erano fermate
perché, sebbene avessero rintracciato tracce di dna, non c’erano campioni con cui fare il riscontro.
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Perciò si aveva un profilo dell’assassino ma non c’era modo per uscire dall’incertezza,
dall’ignoranza di chi fosse il proprietario di questo profilo genetico. Ebbene, la popolazione di
Dobbiaco si è prestata spontaneamente a rilasciare campioni di dna con cui confrontare. Da
questa raccolta di campioni di dna, sebbene non sia venuto fuori un riscontro perfetto, si è arrivati
a scoprire il colpevole che era il figlio di uno di questi che si erano offerti per il campione di dna.
Ora, in questo caso è avvenuto spontaneamente, però senz’altro ci dovremmo porre il problema di
quando, come e perché, in quali circostanze si potrebbe forzare il diritto alla riservatezza e alla
libertà individuale, e quindi in quali casi la raccolta di campioni del dna dovrebbe essere coercibile
in un caso analogo.
Un altro punto fondamentale e da non dimenticare è che esistono dei tratti genetici neutrali o più
neutrali di altri. Mi spiego. Quei tratti genetici che rimandano al colore dei capelli o al colore degli
occhi, potremmo considerarli, anzi direi che è legittimo considerarli come tratti neutrali, ovvero quei
tratti in presenza dei quali la nostra vita non cambia in maniera rilevante. Se io ho gli occhi scuri o
gli occhi chiari, la mia condizione di vita non è particolarmente mutata. I dati genetici invece non
neutrali riguardano le condizioni o di malattia, quindi i test pre-sintomatici che rivelano la certezza
della malattia (in casi di corea di Huntington, appunto. Sono test che si fanno in assenza di
malattia e sono casi sporadici, circa il 2 per cento delle malattie ha questa corrispondenza tra
malattia e gene e quindi è possibile fare una previsione certa anche in assenza di sintomi,
appunto) e test invece che non fanno altro che segnalare una probabilità ma sempre in termini di
malattia. Quindi c’è un dato neutrale (il colore della pelle o il colore degli occhi) e un dato non
neutrale che riguarda l’aspetto ampio e senz’atro difficile da delimitare della salute, perché se è
chiaro che nel dominio delle malattie rientra una serie di condizioni, ci sono poi tutte quelle fasi
intermedie, come di minore resistenza per esempio alle malattie e così via. Quindi fattori di
debolezza, chiamiamoli così.
Nel caso di malattia asintomatica, appunto di test pre-sintomatici, come nella corea di Huntington o
nella fibrosi cistica, alcuni dei problemi sono paragonabili con problemi appunto tradizionali, nel
senso che, ad esempio, ci sono stati molti casi moralmente difficili da risolvere di figli il cui genitore
era affetto da una malattia come la corea di Huntington e che si trovava di fronte alla difficilissima
situazione di sottoporsi o no a un test, un test genetico che poteva tranquillizzare al 50 per cento
quello che si andava a sottoporre al test oppure poteva dare una diagnosi nefasta.
Un problema del genere somiglia a quello che vive un medico o vive un parente nel dare una
diagnosi nefasta a una persona in caso di malattia più tradizionale. In molte circostanze, e
soprattutto in casi di test genetici, molte persone hanno deciso di non sapere. Io credo che il
criterio fondamentale rimanga sempre quello della libertà individuale (in questo campo in cui non
c’è un’immediata, almeno, conseguenza su altre persone, è sempre la persona singola che
dovrebbe scegliere), ma senz’altro questo rifiuto nel sapere, nel conoscere un futuro su cui,
peraltro tragicamente non si può intervenire, perché una diagnosi di corea non dà nessun’altra
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possibilità se non l’informazione, cioè sapere di essere condannati, di fronte a questo scenario
molte persone hanno detto: “Preferisco non sapere”, è senz’altro una risposta che lascia riflettere.
Credo che un dato di questo tipo sia senz’altro un dato significativo e che deve anche servire a
potenziare tutte le strutture per esempio di counselling genetico e soprattutto, non nei casi tragici
appunto come questi ma nei casi in cui si predice invece una condizione di rischio, a informare
correttamente le persone che stiamo parlando di una diagnosi di rischio e non invece di una
diagnosi così inamovibile e immodificabile come in questi rarissimi casi (ripeto, il 2 per cento delle
malattie rientra in questa situazione in cui la diagnosi è sicura e certa ed è anche impossibile
intervenire dal punto di vista terapeutico).
Rispetto al problema della discriminazione, io credo che un welfare state, uno Stato che voglia dirsi
giusto ha due compiti, due obiettivi fondamentali. Il primo è quello di porsi a difesa dei soggetti
deboli; i quali non devono subire, oltre al problema di avere una fragilità, una debolezza dal punto
di vista genetico, ulteriori discriminazioni, ulteriori elementi che possono rendere ancora più
complicata la loro esistenza. Il secondo obiettivo importante, che non riguarda soltanto o non
esclusivamente i fruitori di test genetici, è quello di combattere l’ignoranza che circola intorno alle
informazioni genetiche e, in generale, alla biomedicina e alle biotecnologie.
Quindi una società giusta non è senz’altro una società che si copre gli occhi di fronte appunto alle
innovazioni tecnologiche e di fronte anche alle informazioni, sia tradizionali che genetiche che
biomediche, ma è una società che cerca di mettere a fuoco quali sono gli elementi e le radici di
una discriminazione o di un’ingiustizia, attuale o possibile, e che propone degli strumenti per porre
rimedi.
Nel campo dell’ignoranza e del tentativo e della necessità di porre rimedio a questa ignoranza, io
credo che uno degli argomenti più significativi sia quello che chiamerei il fantasma dell’eugenetica,
lo spettro dell’eugenetica che poi viene quasi esclusivamente identificata con la politica razziale
nazista. Come dicevo prima, questo richiamo è sbagliato storicamente ma soprattutto è sbagliato
concettualmente. Storicamente perché l’eugenetica non è un’esclusiva della politica razziale
nazista, sebbene in quegli anni e in quella ideologia abbia incarnato forse in maniera più massiccia
appunto un’idea o un’ideologia che poco ha a che vedere con la scienza e con la genetica e molto
ha a che vedere invece con una visione politica del mondo. Visione politica totalitaria, tanto
assurda che da parte di tutti noi non credo sia problematica la condanna di quella ideologia; però
non bisogna dimenticare che l’eugenetica è stata utilizzata in molti altri paesi: non solo negli anni
trenta e quaranta della Germania nazista ma anche in paesi cosiddetti insospettabili, come Svezia,
paesi del Nord, Stati Uniti, in cui migliaia di persone sono state uccise o sterilizzate in nome di
un’entità sovraindividuale da preservare. Entità sovraindividuale che si è chiamata, a seconda dei
casi, razza, nazione, popolo o come volete voi. Il punto fondamentale è che le singole persone
erano considerate parti e, nel momento in cui quelle parti dimostravano di essere insoddisfacenti,
dimostravano di essere difettose, andavano eliminate o perlomeno, cosa ancora più agghiacciante,
andava impedito loro di avere la possibilità di procreare, anche secondo idee abbastanza assurde
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per cui erano caratteri ereditari, non so, l’antipatia o una certa predisposizione a un umore e così
via. Perciò era veramente un miscuglio di visioni politiche assurde ma anche di un’idea
terribilmente ingenua della scienza, della medicina e della stessa genetica.
Ebbene, appunto, il fantasma dell’eugenetica credo che sia fondamentale da scoprire e da
riconoscere per quello che è. Inutile per condannare oggi le possibilità che la genetica offre alle
singole persone, soprattutto perché il passaggio fondamentale è questo: che, abusi a parte (ma
abbiamo detto prima che va distinto il possibile errore, il possibile abuso dalla potenzialità
intrinseca che un’offerta ha), oggi la genetica offre alle singole persone possibilità in più per
ampliare la propria sfera di libertà individuale, la propria possibilità di curarsi e la propria possibilità
di vivere meglio. L’opposizione non potrebbe essere più radicale: un’entità che oggi potrebbe
essere lo Stato, che impone alle persone di seguire determinate strade in nome della sua salute e
invece possibilità, libertà, scelte date alle singole persone per poter migliorare la propria vita. Che
significa anche che le persone possono preferire non migliorare la propria esistenza. Dovrebbero
essere libere di farlo allo stesso modo.
L’eugenetica è venuta a essere nominata in moltissimi casi. Il più eclatante, come accennavo
prima, è il caso che riguarda la legge 40 in particolare e le linee guida successive, e cioè il divieto
di ricorrere alla diagnosi genetica di reimpianto. A me sembra che l’accusa di immoralità riguardo
alla diagnosi genetica di preimpianto sia quasi stata fatta per assonanza: eugenetica, diagnosi
genetica di preimpianto è qualcosa di terribile che condanniamo. Condanniamo dimenticando, per
usare un eufemismo, che le stesse finalità eugenetiche letteralmente scritte nelle linee guida: “la
diagnosi genetica di preimpianto è vietata perché segue finalità eugenetiche”, beh, quelle stesse
finalità eugenetiche sono quelle che poi usano le indagini prenatali.
Allora, su questo argomento bisogna prendere una decisione: o le finalità eugenetiche sono vietate
perché le riteniamo immorali e quindi non vietiamo esclusivamente un tipo di diagnosi che usa
finalità eugenetiche ma le vietiamo tutte, quindi torniamo ad affidarci appunto a quel diritto al caso,
e illegale è non solo la diagnosi genetica di preimpianto ma anche l’amniocentesi, la villocentesi,
tutte le indagini a gravidanza avviata che non fanno che rendere un servizio eugenetico alle
persone. Ovvero, una donna che si sottopone a una indagine prenatale, nel momento in cui ha la
risposta, ha la possibilità di eliminare (io uso la terminologia che verrebbe usata e che sarebbe
coerente usare partendo da queste premesse) la persona difettosa in nome di un’idea appunto
sovraindividuale e totalitaria di salute.
Io credo che le cose stiano diversamente da così.
Senz’altro entra anche nel divieto di diagnosi genetica di preimpianto un altro argomento abusato e
onnipresente che è la sacralità dell’embrione e il suo statuto giuridico e morale. Ancor più grave è il
giuridico perché nel morale ci potrebbe essere la possibilità di pensarla diversamente senza fare
troppi guai ma, nel momento in cui è stato mosso un primo e significativo passo nello statuto
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giuridico dell’embrione, abbiamo visto i primi risultati e che appunto il primo risultato eclatante è la
legge 40 e le linee guida.
Vorrei fare un breve accenno a uno dei maggiori rappresentanti del modo sbagliato, secondo me,
di approcciare le biotecnologie e la genetica in particolare, che purtroppo è considerato uno dei
filosofi viventi più importanti, che è Jürgen Habermas. Jürgen Habermas ha scritto un libro, nel
2001, che si chiamava “Il futuro della natura umana” che era proprio concentrato sugli aspetti
rivoluzionari, senz’altro rivoluzionari, della genetica. Jürgen Habermas arriva sostanzialmente a
dire che va tutto male, che la genetica offre soluzioni e proposte totalitarie, immorali, che violano la
sacralità della vita, dell’individualità, della libertà.
Vorrei citarvi solo alcuni degli argomenti che lui usa perché penso che siano abbastanza
significativi e soprattutto ricorrono nei dibattiti che riguardano la genetica, le informazioni genetiche
ma la scienza e la biotecnologia in generale.
Un primo argomento che fa sorridere ma che purtroppo ci ritroviamo quasi sempre a intralciare le
discussioni, è quello che si richiama all’innaturalità. Habermas dice: “Molte di queste tecniche,
molte di queste possibilità sono da condannare in quanto innaturali”, facendo leva su
un’identificazione, frequente ma assolutamente sbagliata, tra ciò che è naturale e ciò che è
moralmente buono, ciò che è innaturale o contro natura, per forzare ancora più l’accezione
negativa e ciò che è moralmente condannabile.
Gli esempi per contrastare questa identificazione sono molteplici. Il più banale è quello che ricorda
che la medicina è profondamente innaturale e che sarebbe allora moralmente più giusto lasciarci
morire perché sono le malattie a essere naturali e le medicine a essere innaturali. Allora, se
accettiamo questa premessa, dovremmo condannare gli usi delle aspirine ma anche dei mezzi per
rilevare, termometri, incubatrici. Tutto quello che la medicina offre, qualunque terapia è una
violazione della natura. Pertanto dovremmo essere disposti a essere coerenti e a prenderci tutte le
conseguenze di questo invocare l’innaturalità come elemento per scagliarsi contro le possibilità
offerte dalla tecnologia, appunto.
Habermas arriva a parlare in maniera proprio specifica della diagnosi genetica di preimpianto e si
arrampica in una strada veramente tortuosa e scivolosa perché, non riuscendo a produrre
argomenti sufficientemente forti per negare oggi gli utilizzi della diagnosi genetica di preimpianto
(che sono – lo ricordiamo – utilizzi destinati a prevenire malattie gravissime e anche, tutto
sommato, abbastanza rare, quindi non c’è un utilizzo di routine della diagnosi genetica di
preimpianto), è in agguato un altro argomento, che abbiamo avuto il piacere di sentire anche da
molti politici (non scorderò mai il bambino acquistato al supermarket di Francesco Rutelli).
L’argomento è che, nel momento in cui la tecnica evolverà un po’ di più di così, e lo scenario è
dietro l’angolo, la diagnosi genetica di preimpianto verrà utilizzata come un vero e proprio
strumento eugenetico per migliorare la razza e per rispondere ai capricci più assurdi dei genitori,
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ovvero il bambino bello, biondo e con gli occhi azzurri che ci ha riempito le orecchie per mesi e che
appunto sarebbe uno scenario in agguato tra pochissimo. Oltre al fatto che condannare una
pratica oggi, una possibilità oggi in virtù di possibili degenerazioni è un passo pericoloso e molto
scorretto, beh io vorrei chiedere ad Habermas e a chi la pensa come lui: perché no?
Mi spiego. Credo che, in tema di bioetica o di possibilità, appunto, offerte dalle biotecnologie, la
domanda principale è: perché no? perché qualcosa non si potrebbe fare? Insomma, sono i divieti a
richiedere una giustificazione e non la possibilità. Con una domanda un po’ provocatoria chiederei:
che male ci sarebbe a scegliere il colore degli occhi o dei capelli del proprio figlio, in tema di tratti
neutrali, ovvero non cambia l’esistenza del nascituro se ha i capelli biondi o neri. Accettata questa
premessa, che male ci sarebbe a dare ai genitori la possibilità, oltre che di scegliere di fare un
figlio (che è l’atto che viola più fortemente la libertà del nascituro perché lui non può dare il
consenso, siamo noi a scegliere se, come e quando fare un figlio), dicevo, quindi a seguito di
questo primo atto “irrispettoso” (sto forzando, ovviamente), quali sarebbero le ragioni per vietare
appunto la scelta del colore dei capelli o dei tratti migliorativi, per esempio, talenti migliorativi.
Premesso che siamo ancora in un terreno fantascientifico perché al momento, oggi non sarebbe
possibile manipolare il patrimonio genetico del nascituro inserendo, per esempio, talenti musicali o
talenti scientifici o talenti per la matematica, stiamo ragionando su un terreno di ipotesi, la risposta
che dà Habermas è: “No, io ti dico di no, che te lo vieto perché, in quel caso, appunto si viola
l’autodeterminazione del nascituro e gli si impone la tua visione, la tua visione di genitore, la tua
visione della felicità o del mondo”. Ma ancora una volta bisogna prendere una decisione. Se, come
lo stesso Habermas dice, il determinismo genetico è rifiutato, allora dobbiamo ricordare che
l’inserimento di un talento per la matematica non violerebbe in alcun modo la libertà del figlio poi di
ignorare questo talento.
Ci sono tantissimi casi che accettiamo abbastanza semplicemente di condizionamenti
infantili/adolescenziali che sono molto più irreversibili e molto più invadenti di una immissione di un
talento matematico. A me viene sempre in mente – qualche anno fa se ne parlava spesso – la
giovane e famosa tennista, Jennifer Capriati, non so se ve la ricordate, che da due anni il padre se
la trascinava nei campi da tennis facendole fare allenamenti per dodici, quattordici ore, diciotto ore.
Beh, insomma, sarei un po’ attenta a dire che l’inserimento nel patrimonio genetico è qualcosa che
turberebbe l’ordine delle cose e violerebbe la libertà del nascituro, e tutti questi altri casi no,
considerando poi appunto che non solo la nascita, la decisione di far nascere qualcuno come ho
detto prima, è un atto fortemente egoistico, ma anche tutte le decisioni che si prendono in età
precoci e anche in età un po’ meno precoci: le scuole, l’insegnamento, la lingua madre, il paese in
cui nasce, la cultura in cui il nascituro vivrà. Tutto questo, se non è un condizionamento, vorrei
sapere cos’è.
Senz’altro questo richiama l’inviolabilità della vita e la sacralità dell’embrione. Su questo non c’è
dubbio ed è lo stesso Habermas a ripeterlo in più occasioni e sono gli stessi che sostengono
questi argomenti a ripeterlo in continuazione. Non dimentichiamo poi che, se si vuole far rispettare
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il diritto al caso, si parla appunto di non toccare, non tocchiamo il patrimonio genetico del nascituro
perché ha diritto ad avere il patrimonio genetico che il caso gli offre, la lotteria genetica, la lotteria
cromosomica. Insomma, anche qui, a parte il fatto che stranamente il diritto al caso è nominato
soltanto in questa circostanza, anche l’avere una malattia è casuale. Perciò bisognerebbe invocare
quel diritto alla casualità anche in presenza per esempio di una trisomia del 21 o di un’altra
patologia. Ma in questo caso Habermas per primo ma dietro di lui tutti gli altri sono pronti a dire:
“Ma no. Di fronte alla malattia, allora interveniamo, manipoliamo”. Beh, e il diritto al caso? Qui
dobbiamo decidere se accettiamo il caso con tutto quello che ci offre, quindi quando va bene
siamo contenti, quando va male, e significa avere una malattia, una patologia, ce la dobbiamo
tenere oppure se la scelta (ed è la scelta nel migliore interesse della persona per cui stiamo
scegliendo se quella persona non può scegliere) è il criterio da preferire, da prediligere.
Nessuno, entrando in sala operatoria, anche per un’operazione semplice, direbbe: “Fatemi
un’operazione a caso, il chirurgo lo scegliete a caso, oppure l’anestesista. Chi c’è, c’è; tanto più o
meno noi rispettiamo il diritto al caso e vogliamo essere coerenti fino alla fine”.
Il problema è anche che la risposta che poi spesso viene tirata fuori “è semplice perché noi
dobbiamo distinguere gli interventi terapeutici da quelli meramente migliorativi”, ma io sfido ognuno
di voi a darmi una definizione soddisfacente di intervento terapeutico e intervento meramente
migliorativo, per quanto ci sono casi indubitabili ma sui casi indubitabili non si creano conflitti. È
chiaro che una trisomia del 21 è più semplice da identificare tra le malattie, per quanto poi
sappiamo che la vita delle persone affette dalla sindrome di down tutto sommato è una vita più che
dignitosa e tutto sommato la loro condizione di vita è migliorata e si è allungata, però senza dubbio
è più semplice rispondere a una domanda del genere che a tante altre condizioni intermedie.
Ma la risposta di distinzione così netta tra terapia e miglioria non funziona perché pensate anche a
un aumento, a un incremento dell’intelligenza o di risorse immunitarie. Dove la collochiamo questa
modificazione e questa manipolazione? Tra le terapie o tra le migliorie? Non lo so. È difficile.
Quindi aggrapparsi a questa distinzione per dare una risposta è una mossa che non risolve la
questione.
Simile al diritto al caso è quello che Habermas chiama “il diritto alla spontaneità”. Questo si
distingue un po’ dal diritto al caso perché si oppone all’intervento manipolatorio, appunto
spontaneità contro produzione, produzione tecnica; è un argomento, anche questo, abusato, in cui
si dice: si reifica il nascituro, si rende oggetto, si rende materia, quello che invece dovrebbe essere
trattato esclusivamente come fine e non come mezzo.
Il povero Kant che viene sempre, spesso invocato a questo proposito e si dice: la morale kantiana
in cui la persona non deve essere usata come mezzo bensì esclusivamente come fine, è
un’indicazione intanto troppo formale per essere una risposta soddisfacente, cioè ci dà un criterio
vuoto che però deve essere riempito, cioè che cosa significa essere un mezzo, che cosa significa
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essere un fine, e soprattutto, se davvero crediamo in questo dovremmo affrontare una serie di
battaglie contro l’utilizzo delle persone come mezzi che non finisce più.
Allora anche qui l’invito paradossale e anche un po’ sarcastico è alla coerenza e a non ricorrere a
queste vuote formule per risolvere problemi che sono sì difficili, a volte forse senza soluzione, ma
cui credo che senz’altro il modo peggiore per rispondere è dare una risposta che diventa una
cantilena
precodificata
e
che
poi,
a
ben
guardare,
non
significa
nulla.
Vorrei chiudere ricordando soltanto una questione, su cui anche Habermas torna spesso, anzi su
cui Habermas, secondo me, dà risposte sbagliate e cioè che il bersaglio deve essere individuato
con chiarezza. Per bersaglio in questo caso (abbiamo iniziato a parlare di informazioni genetiche
ma anche in termini di salute) è il problema, e dove si cela un’ingiustizia o un’immoralità. Il
processo per arrivare a capire quali sono davvero i passaggi immorali e sbagliati è, credo, una
condizione fondamentale per trovare poi delle soluzioni.
Contestualmente a questo, un’abitudine importante che bisognerebbe acquisire e suggerire nei
dibattiti di bioetica, di biotecnologie, di medicina e di tecnologia è quella di valutare attentamente le
argomentazioni offerte. Spessissimo nei dibattiti si ignora la necessità di fornire le ragioni per cui si
sta affermando o chiedendo qualcosa e si dimentica del tutto o si vuole dimenticare che le ragioni,
soprattutto quando interviene la coercizione legale, devono essere a sostegno del divieto e non
della libertà delle persone di scegliere. Io credo che la libertà delle persone di scegliere debba
essere considerata la condizione di partenza, la condizione di normalità su cui si interviene con dei
divieti, anche i conflitti a cui ho fatto cenno prima sulle informazioni genetiche. È chiaro che la
libertà o la riservatezza di quel padre di quella donna che aveva richiesto i test per fare una scelta
procreativa sono state in parte violate, perché è stato costretto a offrire informazioni sulla sua vita
personale e sulla sua salute, informazioni che lui non avrebbe voluto diffondere. Quindi c’è stata
una violazione, ma in quel caso c’è stato un bilanciamento di diritti, un bilanciamento di importanza
ed è stata presa una decisione, però in quel caso sono state offerte ragioni valide per sostenere
quella coercizione legale, perché di coercizione si parla. Non è stato un invito a rilasciare la cartella
clinica: è stato un preciso ordine.
Credo che il primo dei risultati che ci dovremmo aspettare è suggerire questo tipo di
atteggiamento, quindi offrire le ragioni per una tesi o per un’altra e soprattutto offrirle nel momento
in cui si parla di coercizione legale.
Ines Valanzuolo
Un intervento brevissimo che si riallaccia all’affermazione ultima della dottoressa e a una delle
precedenti che riguarda proprio il parto naturale.
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Qualsiasi cosa stamattina sia stata detta su nascita, parto eccetera si è sempre conclusa con un
richiamo alla necessità di modificare luoghi culturali obsoleti, cioè dobbiamo cambiare la cultura
perché questo maschilismo imperante nel campo del lavoro, delle possibilità della donna di
realizzarsi eccetera venga superato.
Io mi chiedo come è possibile questo cambiamento della cultura se anche tra noi che siamo
donne, e spesso ci sono anche donne che hanno potere nelle istituzioni politiche, cancelliamo
completamente e tranquillamente una parte grandissima della cultura elaborata delle donne.
Io ho fatto parte di un consultorio autogestito, sto nel movimento delle donne, insomma più o meno
ho frequentato la cultura femminile e femminista da anni e mi stupisco tutte le volte, adesso sono
la presidente degli archivi delle donne della casa internazionale, e abbiamo una cultura vastissima
accumulata che non ha accesso in nessun luogo né nelle università e né nei luoghi del potere. E
poi
noi
donne
ci
lamentiamo
del
perché
non
ci
si
arrivi.
Piccola osservazione e qui concludo. Non si può parlare per esempio del parto in casa ricorrendo
solo ai ricordi delle nonne quando esiste una cultura e una legislazione europea e nazionale che
parla del parto in casa in termini completamente diversi. Io non sono d’accordo, ho fatto due figli in
ospedale. Quello che mi stupisce è la mancanza di conoscenza. Pensate alla civilissima Toscana
che prevede per esempio non la nonna ma l’assistenza al parto in casa facendo calcoli sui risparmi
ecc. ecc., pensate all’Olanda. Se noi vogliamo dire che in Italia abbiamo una situazione sanitaria
disastrosa che rende difficile questo, sì; ma liquidare con quattro parole tanti anni di riflessioni, di
elaborazioni, di legislazione mi sembra veramente grave.
Marcello Vigli
Premetto che sono d’accordo totalmente sulla necessità di rivedere il concetto di natura,
giungendo ad affermare che nel tempo l’uomo ha prodotto, con i suoi interventi, una nuova natura.
Per cui quello che noi chiamiamo naturale, oggi va visto in quest’ottica. Quello che era naturale
mille anni fa, non è naturale oggi e viceversa.
Detto questo, mi pongo ugualmente una domanda. È la stessa cosa intervenire per ottenere un
colore degli occhi o un colore dei capelli e invece per evitare una malformazione? Esiste, cioè, in
qualche modo, un limite al diritto di chi procrea determinato dal potenziale diritto del procreato
oppure no?
Questo è l’interrogativo che mi pongo e credo che sia una discriminante molto importante proprio
per evitare che i discorsi siano puramente ideologici.
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Roberto Barale
Volevo dire una cosa relativamente al colore degli occhi. Qui c’è un embrione con gli occhi azzurri,
qui c’è un embrione con gli occhi neri. Ha il diritto il genitore di scegliere gli occhi neri o gli occhi
azzurri? Ma qui bisognerebbe dirgli una cosa, però, perché altrimenti l’operazione non funziona.
Cosa c’è in questo embrione con gli occhi azzurri di genetico che un domani questo bambino
svilupperà rispetto a quello con gli occhi neri? Cioè, questo embrione con gli occhi azzurri potrebbe
sviluppare una leucemia a dieci anni, quest’altro potrebbe avere, non so, l’epilessia, questo
potrebbe morire di un difetto cardiovascolare gravissimo a diciotto anni o questo potrebbe avere
una forma particolare di diabete. Tutte, cioè, condizioni genetiche oggi non ancora prevedibili.
I test genetici oggi vengono fatti su una settantina di malattie. Voi dovete sapere che le condizioni
patologiche note sotto il profilo genetico sono ottomila. Allora si parla di lotteria genetica ma si
parla anche di lotteria e di predisposizione alle malattie che oggi, e penso per ancora molti anni,
nessuno potrà mai prevedere.
Allora, a un genitore viene detto: “Lo vuoi con gli occhi azzurri però qui non sappiamo dopo cosa ci
sarà oltre agli occhi azzurri. Qui ha gli occhi neri, però non sappiamo se questo morirà o avrà delle
malattie”, qual è quel genitore che, a questo punto, si prende la responsabilità di dire: “Voglio
quello” con il rischio, dopo dieci anni, di vederselo morire di una malattia non prevista e con il
rimorso di dire: “Se avessi scelto l’altro, probabilmente sarebbe sopravvissuto”.
Allora viene da qui quello che dice questo signore, che secondo me è un profondo ignorante di
queste cose, questo Habermas, del diritto a non sapere. Il dritto a non sapere deriva proprio dal
fatto che nessuno oggi, posto di fronte a questa responsabilità di dover scegliere, nessuna
persona ragionevole e informata potrebbe scegliere. Io personalmente non lo farei mai. L’unica
cosa che potrei dire è che preferirei un feto femmina rispetto a un feto maschio perché noi
sappiamo che tutti i geni che sono sul cromosoma x dei maschi, e ce ne sono circa ottocento di
condizioni genetiche, nel maschio si esprime sempre come malattia o come condizione più o meno
grave e nella femmina no.
Allora se dovessi dire: voglio un figlio con maggior probabilità di essere sano, preferirei una
femmina, ma solo per questo.
Corrada Giammarinaro
Sempre in provincia, noi seguiamo Croce e lo storicismo perché siamo all’antica. Io non capisco
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perché mai esistano solo Platone, Kant e Habermas, e che ci siano stati anche Aristotele, Hegel e
Croce non interessa più a nessuno.
Qual è la cosa che voglio dire? Questo discorso dell’eugenetica, come diceva il professor Barale,
nella storia non è mai esistito in questi termini terrorizzanti dal punto di vista dei singoli individui. È
esistito in termini terrorizzanti dal punto di vista del potere. Allora se la storia da seimila anni va
avanti così, io non vedo perché mi devo inventare un nuovo corso delle cose; l’individuo non fa
scelte pazze, non fa scelte capricciose. È statisticamente una minoranza insignificante. Gli Stati
invece, parecchi e sotto mentite spoglie, tendono a fare scelte aberranti.
Allora, questo limite va posto al potere. E la libertà dell’individuo anzi è un freno rispetto a queste
tendenze del potere, per cui il fatto che il giorno in cui sarà possibile ragionevolmente avere degli
elementi di decisione la decisione sia lasciata al pluralismo mi garantisce anzi dal pericolo
dell’eugenetica vera, e cioè che a decidere sia lo Stato, perché poi, a un certo punto, quando le
informazioni ci saranno, qualcuno le vorrà utilizzare e qualcuno vorrà decidere e nessuno si è mai
tirato indietro rispetto a niente. La bomba atomica ce lo insegna. Allora, signori, dalla bomba
atomica in poi io non mi fido più né dello Stato e né della comunità degli scienziati. Io mi fido del
signore che va dal professor Barale, il professor Barale gli spiega il discorso degli occhi azzurri e
quello giustamente dice: “per carità di Dio!”
Altra considerazione. Non c’è niente di più innaturale della religione, di tutte le religioni, questo è
sicuro, apoliticamente, e finisco qua.
Vladimiro Bibolotti
Non vorrei che la domanda sembrasse fuori tema, però mi sembra pertinente perché mi occupo di
privacy.
Tra sabato e domenica, non so se è stata una fuga di notizie ad arte, è stato detto che esistono
delle macchine nuove che leggono l’attività elettrica del cervello e le sinapsi. Quindi altro che la
libertà di privacy! Siamo di fronte a uno scenario da “Minority report”, cioè la macchina che legge il
pensiero.
Io, a questo punto, mi dico: o è una grande balla oppure la scienza ha nuovi progetti Manhattan
dove esistono degli scienziati abilitati a un’informazione del cosiddetto cartello militare industriale
che, in barba a qualsiasi etica, fa ricerca veramente avanzata, e poi c’è una scienza da tv che
invece è iperscettica, che gioca sull’informazione e che poi viene puntualmente sconfessata
perché la legge dell’informatica, che non marcia in parallelo forse con la conoscenza di alcuni
scienziati, la famosa legge Moore che ogni due anni il processore acquista la doppia capacità di
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calcolo, allora abbiamo computer quantici e biologici, che usano magari l’NSA, o apparati
industriali,
ma
non
gli
scienziati
civili.
Allora mi pongo il problema. Qui altro che violazione di privacy. Se esiste questa macchina, l’uomo
muore come filosofia perché se qualcuno legge il pensiero prima ancora che venga costituito, qui
siamo di fronte a una violazione delle attività politiche, sindacali, morali, etiche.
Non volevo aprire un vespaio però, siccome si parlava del problema genetico, credo che il
pensiero sia la prima attività che ci distingue dalla scimmia, anche se forse le scimmie pensano
anche loro. Quindi credo che forse una cosa del genere andrebbe quantomeno o smentita o
confermata.
Quindi volevo sapere: è vero o no?
Chiara Lalli
Per quanto riguarda i limiti per chi procrea, io credo che possa valere in generale il discorso che
vale sui limiti delle azioni, ovvero la considerazione del danno a terzi.
Rispetto agli occhi o ai capelli, io giudico che non siano elementi dannosi in quanto occhio azzurro
o colore di capello nero, non associato poi ad altri problemi o ad altri fattori di rischio. L’occhio
azzurro come dato in sé per sé credo che sia neutrale. Non cambia granché se ce l’ho o se non ce
l’ho. Pertanto, rispetto alla casualità, perché non dare la libertà, la possibilità al genitore di
scegliere?
Ripeto, l’occhio azzurro non andrà a minare una vita di salute o di libertà del nascituro. Perciò,
tutto sommato, di fronte a queste due strade, perché no, mi viene da dire.
Sul richiamo alla natura, è difficile anche solo dare una definizione di cosa è natura e di cosa non
lo sia. Mi viene da rispondere con una domanda: una spremuta di arance è artificiale o naturale?
Non lo so, ne dovremmo parlare partendo dalle premesse che sono concettuali e terminologiche di
cosa intendiamo per natura, cosa intendiamo per artificio. Quindi la risposta non è senz’altro
semplice. Credo che proporla disgiunta da una considerazione di danni e di ipotesi che noi
facciamo (è necessariamente un’ipotesi) delle ricadute delle nostre scelte sulla vita del nascituro,
sia un po’ inutile nel senso che darsi una risposta “lo faccio perché è naturale per il nascituro” ha
poco senso. Chiediamoci se le nostre scelte, e in che modo, pesano o minacciano appunto una
vita di salute o peggiorano la vita che il nascituro potrebbe avere.
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Sul diritto al non sapere, è uno dei punti da cui sono partita che fare finta che una possibilità (e non
solo una possibilità medica e tecnologica, diagnostica) non esista coprendosi gli occhi, non solo
non è immune da conseguenze, non solo non è immune da un giudizio morale; secondo me, anzi
è, a parità di condizioni, peggiore di qualunque scelta che si assume un rischio consapevole,
perché poi l’assunzione del rischio è inevitabile anche nelle scelte dal punto di vista probabilistico
più sicure. Quindi non è che compiere una scelta giusta ci mette al riparo dai rischi, dagli errori e
dai problemi.
Questo anche in parte risponde a quella che forse non era neanche una domanda ma era
sollevare un problema, un dilemma complesso, ovvero: tra due embrioni che hanno determinate
caratteristiche e non solo neutrali, ovviamente, ma predisposizione a contrarre una malattia,
predisposizione a una debolezza, quindi una situazione molto più complessa e molto più spinosa
del colore degli occhi o dei capelli, di fronte a scelte del genere mi sembra di poter dire che
qualunque scelta tra l’embrione A e l’embrione B non può mettersi al riparo da rischi e da una
scommessa, che poi si fa con tutti i dati che si hanno a disposizione, e si fa una scelta che si spera
sia la migliore ma che senz’altro non è la scelta vera, giusta, unica e preferibile; è un rischio che ci
si assume, ricordandosi di stabilire i criteri della nostra scelta e credo che tra quelli più importanti
rientrino, nella considerazione del danno a terzi, le ricadute che poi le nostre scelte avranno sulla
vita del nascituro. In questo caso è il nascituro, in altre circostanze è un’altra persona, comunque è
una persona che è diversa da noi perché su scelte che riguardano soltanto me stessa, le
condizioni possono cambiare, credo, perché tra le decisioni che riguardano esclusivamente lo
stesso oggetto che decide e subisce e le decisioni che invece sono prese da una persona e
investono un’altra ci sono degli slittamenti e delle differenze.
Per quanto riguarda lo Stato, quello che non è successo io penso che possa essere utile dal punto
di vista storico, non ritengo che sia una garanzia sufficiente nel senso che dire “Finora non è mai
successo x” non ci mette a riparo dal fatto che non possa succedere tra un minuto, tra un mese o
tra un anno. Perciò devono esserci delle garanzie e dei requisiti a difesa delle libertà individuali, a
difesa della salute, a difesa di quello che vogliamo noi ma insomma non basta dire: “più o meno
finora ce la siamo cavata e quindi funziona così” rispetto al discorso di Stato.
Dico un’altra cosa, però: gli Stati che vengono invocati in opposizione alle persone dicendo: “Le
persone sono rassicuranti. Sono gli Stati che hanno fatto disastri”, beh gli Stati sono persone,
dentro gli Stati ci sono persone. Che poi seguano un’ideologia sovraindividuale è un’altra storia,
ma sono persone che prendono delle decisioni e in genere, in questi casi, sulla pelle di altri. Allora
in questo senso devono intervenire garanzie e tutele, per non permettere che dieci persone
decidano per cento, mille o centomila ma anche che dieci persone decidano per un’altra sola,
perché rispetto ai diritti individuali non vale il fatto che se rischiamo di violare i diritti di tre milioni di
persone è una cosa grave e se rischiamo di violare i diritti di una sola persona è meno grave. È
altrettanto grave perché qualunque provvedimento, qualunque decisione, qualunque coercizione
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rischi anche di violare i diritti di una sola persona, chi si macchia di questo: se è uno Stato, è
illegittimo, illiberale ecc. ecc.; se è una persona, è un criminale.
Sulla macchina, io naturalmente non mi sento di dare una risposta tecnica e specifica al posto di
chi ha dato la notizia. Mi viene un po’ da sorridere e mi sembra che annunci del genere somiglino
molto alle ricorrenti scoperte del gene della timidezza, del gene della simpatia, del gene
dell’innamoramento e del gene di non so cos’altro Allora è un’idea molto ingenua del sistema
nervoso centrale, è un’idea ingenua della mente, che io ritengo non coincidente e non
perfettamente identificabile con il cervello, e anche un’idea ingenua dei meccanismi di
connessione genetica, insomma, dei rapporti tra genotipo, fenotipo, vita, identità. Appunto è un
altro modo per dire: la nostra identità è il nostro dna. Ma no! Senz’altro il dna è un elemento
fondamentale, ma la nostra vita non è il nostro dna: la nostra vita è molto di più. Così come il
nostro modo di essere simpatici, timidi o di innamorarci, è molto diverso dal presunto gene della
timidezza, della simpatia. Poi la lista è indeterminata e potenzialmente infinita.
Mirella Parachini
Una cosa telegrafica sul parto, se mi posso permettere, perché non è possibile che noi
rivendichiamo la libertà alla salute riproduttiva e poi pensiamo a un divieto esplicito del parto a
casa. Quindi mi sembra che vada senz’altro riconosciuto.
Quello che secondo me però diventa pesante è il problema del consenso informato. Quindi il
consenso informato di quello che può succedere con un parto, secondo me è una questione, da un
punto di vista medico legale, veramente di una pesantezza straordinaria, anche perché in fondo si
può dire che tutto è andato bene solo alla fine. Anche nella migliore e più rosea previsione, senza
fattori di rischio e in una situazione con fattori prognostici favorevolissimi, ci può esser l’incidente.
Quindi, dal mio punto di vista – e ne abbiamo parlato con Donatella –, il grosso problema è che se
tu per legge chiedi a un medico di dare una definizione di parto che può avvenire fisiologicamente,
io sfido chiunque a trovare un ginecologo sulla faccia del territorio nazionale che ti metta per
iscritto che sicuramente quel parto ha le condizioni di un parto fisiologico e quindi può essere fatto
a casa, quando poi qualsiasi evento avverso verrà ascritto e attribuito a quella certificazione.
Quindi secondo me è molto difficile.
È chiaro che l’esperienza olandese o di altre realtà fa i conti anche con un discorso territoriale
molto diverso rispetto alle nostre città, ai nostri traffici, ai nostri collegamenti con gli ospedali ecc.
ecc.
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Io penso che vada sicuramente difeso il diritto di scelta, visto che l’abbiamo fatto su tutti i fronti, ma
nell’ambito sicuramente di un consenso informato.
Gilda Ricci
Siamo di fronte a materie di una grande delicatezza, e affrontarle anche con tanto rispetto, come si
sta cercando di fare in questa sede, è qualcosa che i giornalisti dovrebbero imparare. Scusatemi,
ma sono un po’ in polemica soprattutto per l’etica della stampa e della comunicazione, che
continua a darci segnali non sempre chiari, anche rispetto alla soglia di quel limite kantiano,
rispetto a quei paletti che, in un contesto diverso, storico, vanno messi e vanno sistemati, e che
spesso nuove o vecchie generazioni, non sempre in feeling fra di loro, riescono a stabilire,
figuriamoci poi nel mondo della scienza e della ricerca. Però, nel mondo della filosofia, queste
cose dovrebbero essere pane quotidiano da dare in pasto ai politici, alla stampa, e ai ricercatori,
forse, anche, perché l’intelligenza, come la scienza, può essere utilizzata nel bene e nel male.
Penso che sia proprio lì che noi dobbiamo pensare, ragionare, per educare i nostri figli e i nostri
alunni nelle scuole, i nostri studenti nelle università, quindi di capire fino a che punto possiamo
arrivare..
Roberto Barale
Ordinario di genetica dell’Università di Pisa
Personalizzazione dei farmaci
Innanzitutto anche io colgo l’occasione per ringraziarvi per questa opportunità, perché anche oggi
ho imparato un sacco di cose, e come diceva uno, di cui non ricordo il nome ma ricordo quello che
ha detto, “dopo una conferenza, speaker e uditorio non sono più quelli di prima”, perché si impara
tutti quanti. In realtà il titolo era un pochino più lungo, io parlerei anche di suscettibilità genetica alla
malattia, uso della genetica nella diagnosi, e poi personalizzazione della terapia delle malattie. La
dottoressa Lalli, stamattina, ha molto egregiamente spianato la strada a quello che andrò dicendo;
io cercherò di farvi vedere gli aspetti pratici, utili, della ricerca genetica, quello che si sa, e i limiti,
senza trionfalismi. Un famoso patologo, uno dei più grandi patologi della storia della medicina,
disse: “Se non fosse per la grande variabilità tra gli individui, la medicina sarebbe una scienza e
non un’arte”. Oggi la genetica può contribuire a far diventare la medicina una scienza, con
innovativi contributi alla prevenzione, diagnosi e terapia. Ecco, qui vi faccio vedere alcuni caratteri
genetici determinati da un singolo gene, quelli che si possono analizzare, vedete, i peli sulle
falangi, il mignolo curvo all’interno, le fossette nelle guance - sono tutti caratteri trasmissibili, dati
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da un singolo gene - il lobo staccato, le lentiggini, l’attaccatura dei capelli a V, il pollice verso, la
lingua arrotolabile oppure no, accavallare le gambe: il semplice modo di accavallare a destra, sulla
sinistra, o sulla sinistra o sulla destra, è un carattere genetico. Lo stesso la ritrosa – noi la
chiamiamo così, in Toscana – come girano i capelli, anche questi sono caratteri singoli. Così come
i capelli crespi, il naso alla francese, il nasino all’insù è recessivo, mentre il naso alla romana, tipo
alla De Sica, per intenderci, è dominante. Il labbro carnoso è dominante sul labbro sottile. Ecco,
questi sono tutti caratteri genetici dati da un singolo, e che forse potrebbero essere quei caratteri di
cui diceva stamattina la dottoressa Lalli, cioè una mamma potrebbe dire: io vorrei un fetino con le
labbra carnose, il naso alla romana, eccetera, eccetera. Ammesso che in quel feto combinino
giusti: uno potrebbe avere il naso alla romana e le labbra sottili, oppure i capelli lisci. Quali scegli?
Ecco, qui si pone già il problema, ammesso che si potesse fare questo, il genetista dovrebbe dire:
no, guarda, tu devi scegliere una combinazione, ma le combinazioni non le decidi tu, le ha decise il
caso, quando si sono formati quei gameti, quindi prendere o lasciare, cioè, può darsi che con gli
occhi azzurri ci siano delle labbra sottili, e a te non vadano bene, o ci siano i capelli negroidi,
crespi, e che a te non vadano bene. E allora? Ecco, esemplifico in modo molto banale un
problema che sarebbe molto grosso, se si potesse fare, perché uno non saprebbe poi quale
carattere decidere. Ci sono altri caratteri, per esempio il colore degli occhi, sono poligenici, non è
un gene solo, sono almeno quattro quelli che controllano il colore degli occhi, quindi già diventa
complicato che tutti e quattro siano presenti nello stesso modo, nello stesso feto, così anche come
il colore dei capelli, a parte che si possono tingere e quindi il problema non esiste più ma,
insomma, anche qui il problema non è così semplice.
Ecco, la maggior parte dei nostri caratteri sono determinati da più di un gene, e dalla interazione
da più geni, per cui diventa veramente difficile poter selezionare individui che abbiano quelle
combinazioni particolari, statisticamente sarebbero molto rari. Comunque, andiamo avanti. Ecco,
questo è un altro carattere abbastanza frequente nella popolazione, il daltonismo. Anche questi
sono caratteri genetici semplici, cioè dati da un singolo gene. Allora, così come noi ci vediamo tutti
diversi qui dentro, perché, mi domando e vi domando, perché non dovremmo essere altrettanto
diversi nel contrarre le malattie, visto che le basi molecolari, biologiche, che ci determinano il
colore degli occhi, la forma del naso, il colore dei capelli, eccetera, sono gli stessi, gli stessi
meccanismi non gli stessi geni, che ci rendono suscettibili a tutte le patologie. Per esempio
guardate questo caso, qua abbiamo due individui che da ragazzi fumavano e bevevano, quaranta
anni dopo uno è nel letto di un ospedale con un tumore al polmone e fa la chemioterapia, e
quell’altro se ne sta bene, e continua a fumare e a bere. Perché? Sono stati esposti allo stesso
cancerogeno, uno è finito malato e l’altro no. La spiegazione sta nei loro geni. L’epidemiologia è
quella scienza che studia i rapporti tra causa ed effetto, per esempio nella patologia: c’è uno che
fuma e poi dopo quaranta anni, dopo trent’anni, ha un grosso tumore polmonare. Ecco, con la
epidemiologia molecolare, cioè andando a vedere che cosa succede in quella scatola nera che
c’era tra l’esposizione e l’evento, si è scoperto che tutti i vari passaggi che portano dal fumo al
tumore, sono tutti passaggi, meccanismi biologici, che sono controllati da geni, i geni che noi
abbiamo, per cui, a seconda delle varianti genetiche che noi abbiamo ereditato, alla fine
svilupperemo il tumore oppure no, come succede in otto casi su nove. Queste differenze sono
dovute appunto al nostro Dna. Vedete, qui c’è un Dna srotolato e, vedete, quella stellina fa vedere
un’alterazione nell’informazione genetica, sono quelle collanine, sono le proteine, che sono i
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famosi enzimi, o quello che volete, che determinano le diversità biologiche dei vari funzionamenti
della macchina biologica. Ci possono essere alterazioni di vario tipo, qui aumenta il numero delle
collanine, collanine più corte, collanine modificate. Tutto questo si ripercuote a livello fenotipico con
un cambiamento: i capelli diventano bianchi, o cascano, oppure uno è più alto, uno è più basso,
eccetera eccetera. Allora, noi abbiamo il nostro fumatore, eccolo lì, le molecole del fumo sono quei
pallini grigi, generalmente sono poco tossiche, vengono modificate da una proteina, che
chiamiamo “attivatore”, e diventano rosse, vedete, diventano cancerogene. Questo attivatore che
vedete lì, varia da individuo a individuo, poi, queste molecole cancerogene, oltre ad essere
cancerogene del polmone, circolando nel sangue, finiscono nei reni, vedete, e anche nei reni c’è
un altro enzima, che chiamiamo volgarmente “eliminatore”, e trasforma queste molecole dannose
in molecole meno dannose, verdi, che vanno via. Allora, vedete qui, trovate le varie possibilità che
possono accadere nei vari individui, per esempio, se io ricevo dai miei genitori due copie di
attivatore molto attivo, tutto il fumo verrà trasformato in cancerogeno potente. Invece, ci può
essere chi mi siede accanto che ha un attivatore, per motivi genetici, pigro, e quindi delle molecole
del fumo solo poche verranno trasformate in cancerogene, e quindi questo potrà fumare tutta la
vita, abbastanza tranquillo, senza sviluppare il tumore. Poi, lo stesso, le eventuali molecole
cancerogene, rosse, finiscono nel rene, e anche lì, a seconda di cosa io ho ereditato come
eliminatore, più o meno veloce, avrò più molecole rosse, e avrò anche un rischio di un tumore
renale, infatti i fumatori rischiano anche di avere un tumore alla vescica, un tumore al rene, oppure,
se ho l’attivatore meno veloce, non mi succederà nulla. Per cui, a seconda delle combinazioni di
tutti questi geni che modificano il comportamento di questo cancerogeno, alla fine il risultato sarà:
arrivo a ottanta anni e poi magari morirò di infarto, qualcosa succederà, però non muoio di tumore
al polmone. Queste varianti sono dovute a piccoli cambiamenti nel nostro Dna; il Dna è una
sequenza di quattro lettere, e noi oggi siamo in grado, con delle macchine, di leggere queste
lettere nel nostro Dna e anche di valutare quanto questi geni si esprimono, e il modo di
espressione di questi geni, il livello di espressione di questi geni, viene tradotto, trasformato in
colori: ogni pallino rappresenta un gene, quando c’è il colore scuro, rosso, verde o giallo, questo mi
indica un’espressione di questo gene più o meno forte. Per cui, ogni individuo, indipendentemente
che sia maschio o che sia femmina, che sia negro o che sia bianco, ha un suo profilo genetico
individuale. Quindi, per il genetista, il colore degli occhi, a cui mi riferivo prima, il colore dei capelli,
non interessa niente, sono tre o quattro caratteri sui venticinquemila che abbiamo; quello che
interessa al genetista sono tutti i caratteri che non vediamo: quelli metabolici, quelli che
determinano il nostro funzionamento, quelli che determinano il rischio di una malattia piuttosto che
un’altra, che non si vedono dai capelli o dall’aspetto, si vedono con le analisi, e ognuno ha il suo.
Voglio ricordare che, dal punto di vista genetico, ogni individuo è unico, nella storia dell’umanità,
per cui la dignità genetica individuale deriva da questa consapevolezza. Vorrei anche dire ancora
una cosa, che ci mette a volte in difficoltà con i colleghi che trattano di leggi: mentre nella nostra
legge esistono… non so se esistono ancora i figli illegittimi, per il genetista, siccome ogni individuo
ha dignità assoluta, non esistono figli illegittimi, esistono padri illegittimi, cioè padri che credono di
essere il padre, volgarmente detti in un altro modo. Alla fine, e qui si arriva a quello che ci diceva
stamattina la dottoressa Lalli, dal profilo di espressione genetico di un soggetto, il dottore, il
medico, lo specialista, può dire: questo soggetto ha una più alta probabilità di avere un tumore al
rene. Ecco, che cosa se ne fa di questa informazione il dottore, e la deve trasmettere o meno a
questo soggetto? Qui si apre tutto un discorso, che però potrebbe essere interpretato in modo
positivo, qualora venga trasmessa nel modo corretto, e non è probabilmente il genetista la persona
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giusta a fare questo lavoro, ma sono altri personaggi, preparati per questo, per esempio per dare
consigli comportamentali: consigli dietetici, consigli di stile di vita, per sottrarre questo soggetto,
che ha la predisposizione al tumore del rene, ma non necessariamente contrarrà quella malattia,
se – e non sempre è vero anche se non lo fa – se cercherà di avere un comportamento piuttosto
che un altro. Qui vediamo, per esempio, geni che noi conosciamo e che manipoliamo, e che
studiamo, che controllano, quando c’è un’esposizione, aumentano il rischio, per esempio, di questi
tipi di tumore. Ce n’è una valanga, e questo giusto per fare un esempio. Ma proprio per questo, ce
ne sono talmente tanti che a un certo punto uno, se dovesse stare attento a tutti, non saprebbe più
che cosa fare, perché, dice: se fumo, mi viene il cancro di qua; se bevo, mi viene il cancro di là; se
sono esposto al benzene, mi viene l’ematossicità; se vado per strada, mi viene il cancro di là… ma
allora, che devo fare? Ecco perché quel determinismo, a un certo punto, sparisce, per il genetista
che conosce queste cose, non esiste più il problema, perché? Perché sono talmente tanti i fattori
di rischio, ambientali da una parte, e talmente tante le predisposizioni a quei fattori, e praticamente
non esiste il genoma ideale, il genoma che arriva a centocinquanta anni, sempre giovane,
sfolgorante, eccetera. Esiste una maggiore o minore probabilità, ma sono tutte sfumature,
sfumature a volte pochino più forti, a volte meno forti, ma niente di più. Ecco perché, interpretate
per davvero, queste cose non fanno così poi più tanta paura, fa paura quando vengono
interpretate male, o usate male, dalle persone sbagliate. Diagnostica: come i soggetti sono tutti
geneticamente diversi, anche le malattie sono tutte diverse. Quando uno dice “io ho un tumore”,
ma, un momento, quale tumore, come è fatto questo tumore? Innanzitutto questo tumore viene
dalle tue cellule, che non sono le mie, e che non sono le sue, quindi già parte, il tumore, già
diverso quando nasce, perché nasce in me e non in lui, quindi il tumore ha il mio genotipo e non il
suo. Dopo di che, nello svilupparsi, acquista ulteriori mutazioni, ulteriori variazioni, per cui è ancora
più diverso, per cui ogni tumore è una malattia a sé stante, non solo perché sta in un paziente
diverso ma perché lui stesso è diverso, e quindi necessita di essere conosciuto e di essere
aggredito in un modo a lui specifico. Ora, vedete, qui c’è un esempio di quello che oggi si può fare,
e si fa: prendere dalle cellule tumorali, vedete, quelle striscioline lì non sono altro che acidi nucleici,
Rna messaggeri, che sono l’espressione dei geni di quel tumore, e poi, vedete, sempre con quei
sistemini a colore, riusciamo a capire quale gene è attivo e quale gene funziona di meno in quel
tumore. Allora, vedete, qui, ci sono vari tipi di tumore e, a seconda di quali geni sono attivi o non
attivi, ci sono queste strisciate di colore che ci dicono quali geni funzionano e quali geni non
funzionano, e questo è importantissimo per capire quale sarà l’evoluzione del tumore, quanto
cattivo sarà questo tumore, quale probabilità di sopravvivenza avrà il paziente, quindi quale
atteggiamento terapeutico andrà preso per qual paziente. Questo è un lavoro fondamentale, fatto
dagli olandesi, pubblicato su Nature nel 2002, dove loro presero dei tumori piccoli, di mammella di
donna, analizzarono l’espressione dei geni, e poi andarono a vedere che cosa era successo a
queste donne, nei cinque anni successivi. Guardate, questo è veramente interessante, è un po’
complicato ma io vi farò vedere soltanto una piccola cosa: vedete questa tabella, nelle ordinate ci
sono i numeri di tumori analizzati, quindi ogni riga orizzontale, vedete ci sono tanti quadratini, rossi,
neri e verdi, ognuno di quei quadratini rappresenta un gene: quando è sottoespresso è rosso,
quando è sovraespresso è verde. Ogni riga rappresenta quindi un tumore. Vedete che sono tutti
diversi? Cioè ognuno ha un gene che funziona di più, o un gene che funziona di meno. Allora che
cosa hanno fatto? Con dei sistemi statistici e informatici, sono stati raggruppati per maggiore o
minore similitudine di espressione dei geni di ciascun tumore, quindi ne hanno quasi individuate
quattro classi, a seconda di come si esprimevano, all’ingrosso, tutti questi geni analizzati. Poi sono
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andati a vedere quale sarà stata la sopravvivenza di queste donne a distanza di cinque anni…
anzi, quindici anni, questo è un lavoro successivo, questo è del 2007, è uscito ora, quale è stata la
sopravvivenza. Vedete che quei quattro gruppi, a seconda dell’espressione genica dei tumori,
corrispondono a quattro gruppi di sopravvivenza: quello in alto, nero, sono quasi tutte
sopravvissute, a quindici anni di distanza solo quattro sono morte e tutte le altre sono
sopravvissute; al contrario, la riga in basso, verde, erano quelli che avevano una tipologia di
espressione genica, una delle quattro, sono morte praticamente il cinquanta percento. Quindi,
questo cosa vuol dire? Che al momento dell’espianto del tumore, se fosse stata fatta questa analisi
– questa analisi è stata fatta ora perché quindici anni fa queste tecnologie non erano disponibili,
questi sono tutti tumori presi quindici anni fa, messi in congelatore e analizzati adesso – se quindici
anni fa fosse stato possibile fare questa analisi, queste pazienti potevano essere divise in quattro
categorie: quelle che sarebbero sopravvissute, quindi queste potevano essere avviate a una
terapia leggera, solo radioterapia, ad esempio, mentre invece quelle che purtroppo sono poi
decedute sarebbero state trattate con una terapia più aggressiva, più a loro consona. Quindi,
l’analisi genetica, per esempio in questo caso della patologia, dovrebbe dare al clinico uno
strumento prognostico importante per indirizzare poi il paziente alla terapia più adatta. Per
esempio, a quelle del gruppo lassù in alto, si poteva benissimo risparmiare la chemioterapia, con
tutti gli svantaggi e le ripercussioni che noi conosciamo, mentre, invece, quelle che a una terapia
convenzionale non hanno ottenuto nessun vantaggio perché, ahimè, cinquanta percento sono
morte, dovevano essere avviate a terapie le più aggressive e le più importanti possibili. Questo con
un risparmio, se vogliamo parlare di soldi, per il Servizio Sanitario, ma soprattutto per il paziente
con un risparmio a volte di inutili, costose e pesanti terapie. Ecco, proprio qualche giorno fa, è
uscito un test genetico approvato dalla Fda americano, che appunto studiando, la compagnia, è
una compagnia olandese, la Gendia, studiando l’espressione di settanta geni del tumore della
mammella, riesce ad individuare i fenotipi a rischio, e riesce addirittura a dire se la donna avrà
beneficio dalla chemioterapia, oppure no. Questo è estremamente importante perché significa,
appunto, sollevare tante donne da una devastante terapia, che lo diventa ancora di più se poi è
inutile. Ecco, questo per esempio è un linfoma, un linfoma di tipo B, vedete, da un punto di vista
clinico, i clinici, guardando come stanno le cose, dividono i pazienti in basso rischio e altro rischio,
quello rosso. Però, anche dentro il basso rischio, fino ad ora non c’era nessun modo per andare a
vedere se c’erano delle sottoclassi, invece con l’analisi genetica quelli a basso rischio possono
essere suddivisi ancora una volta in due gruppi: quelli praticamente a bassissimo rischio, e quelli
ancora con un certo rischio, che devono essere trattati in modo più drastico, pur appartenendo al
gruppo che viene considerato a basso rischio. Questo perché nel basso rischio, in realtà, c’è una
moltitudine di tipologie, di cui alcune veramente basse, alcune un po’ meno, che richiedono un
atteggiamento terapeutico più aggressivo. Ancora una volta, quindi, il profilo, questa volta,
appunto, non del paziente ma del tumore. Ecco, la terapia personalizzata o farmacogenetica:
allora, come siamo diversi nell’avere i capelli bianchi, rossi, o neri, siamo anche diversi nel
metabolizzare i farmaci, quindi nell’assorbirli, nel trasformarli e nell’utilizzarli. Guardate… qui
vedete, nel pannello a sinistra, sono cellule dell’intestino, ci sono i villi, vedete, e i farmaci di solito
li prendiamo per bocca, vengono assorbiti e a destra c’è quella roba rossa che è il sangue, vanno
a finire nel circolo sanguigno. Il farmaco non è che entra e passa tranquillo, ci sono delle pompe
dentro le cellule, delle pompe che lo fanno entrare e lo ributtano fuori, cioè lo ributtano
nell’intestino. Anche queste pompe, come tutte le cose del nostro corpo, sono controllate da geni:
dobbiamo essere consapevoli che noi funzioniamo in tutti i modi perché ogni cosa la fa un gene.
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Ora, questi geni possono cambiare da individuo a individuo, per cui la mia pompa può funzionare
più della sua o meno della sua, per cui, se io assumo la stessa pasticca, io l’assorbo di più, lui
l’assorbe di meno… l’assorbimento è diverso; vedete, a seconda del genotipo, sarà basso, medio
o elevato. Per esempio qui abbiamo un lavoro fatto, recentemente pubblicato da noi, sulla risposta
di bambini alla chemioterapia per leucemia linfoblastica, vedete la diversa sopravvivenza di questi
bambini, trattati tutti nello stesso modo, a seconda di una variante nella pompa: vedete, quelli in
alto sono quelli che sono sopravvissuti di più perché hanno assorbito più farmaco; quelli che sono
tratteggiati, sono quelli che purtroppo hanno ottenuto minor giovamento dalla terapia, perché la
loro pompa ributtava il farmaco via nell’intestino e ne assorbivano di meno, quindi, invece di dargli
una pasticca, il dottore gliene avrebbe dovute dare due, gliene avrebbe dovute dare tre, per far
fronte a questa diversità genetica. La stessa cosa l’abbiamo fatta su malati sempre di mieloma
multiplo, anche questo è un lavoro pubblicato proprio ora, anche lì ancora una volta due curve di
sopravvivenza: venti, quaranta, sessanta mesi di sopravvivenza. Pazienti con mieloma multiplo,
trattati tutti nello stesso modo, per una sola differenza in un solo gene, questo trasportatore del
folato, vedete in alto quella curva, che sono vivi, il novanta percento è ancora vivo a sessanta
mesi, praticamente quasi tutti sono vivi perché hanno una variante del gene che non hanno quegli
altri che, vedete, sono morti . Io non mi sono interessato soltanto di risposta ai farmaci, in termini di
guarigione, ma ci stiamo occupando anche del dolore. Il dolore è, come è stato detto anche
stamani, un grosso problema, e ci siamo occupati della risposta alla morfina, che è l’antidolorifico
ancora più utilizzato. Bene, la morfina anche lei subisce il destino di tutti gli altri farmaci: deve
essere assorbita prima dall’intestino, poi deve andare nel sangue, poi deve superare la barriera
ematoencefalica, andare nel cervello, poi nel cervello ci sono i recettori della morfina e, se la
morfina non va nel recettore, non ha nessun effetto. Tutte queste cose sono ancora sotto controllo
genetico, quindi la solita pompa che mi fa assorbire più morfina, poi, quando arriva al cervello, la
pompa me la ributta fuori, deve entrare dentro; poi il recettore: io posso avere la pompa che mi
porta dentro il farmaco ma, se il recettore non funziona, la morfina non si attacca al recettore, e io
non ho l’effetto terapeutico. Allora, che cosa abbiamo fatto? Ecco, qui ci sono dei recettori,
abbiamo valutato il calo del dolore in pazienti, questi sono centoquaranta pazienti, è raffigurato il
calo del dolore da questo grafico, il dolore viene misurato in unità di dolore, dieci è il massimo, il
dolore intollerabile che più grande non si può, e zero è nessun dolore, gli specialisti indicano con
tre praticamente un dolore quasi scomparso. Vedete, questo modo di rappresentare, si chiama
“scatole e baffi”, vi dice che il cinquanta percento delle osservazioni sta dentro la scatola rossa, poi
il venticinque, superiore o inferiore, sta nei baffi, il che vuol dire che dei centoquaranta pazienti che
sono entrati nella terapia antidolore, il cinquanta percento aveva un dolore che andava da otto a
nove, poi c’era un venticinque percento che andava da nove a dieci, e un venticinque percento che
andava da otto a sei, questo per leggere questo grafico. Dopo una settimana di morfina, uno,
vedete il dolore mediamente calato, vedete la scatola è scesa giù, però vedete che la variabilità è
enorme, cioè ci sono cinquanta percento dei pazienti che ha dolore da tre a sette, che stanno nel
rosa, poi c’è ancora un venticinque percento di pazienti che ha un dolore praticamente come
all’inizio, cioè da sette a nove, e invece c’è un venticinque percento di pazienti che ha
praticamente ottenuto il massimo del vantaggio: ha un dolore da tre a uno. Quindi qui vedete tutta
la diversità nella risposta alla terapia antidolorifica, in una settimana. Allora ci siamo domandati:
tutta questa variabilità nella risposta è data da qualche gene? Abbiamo considerato, andammo a
vedere come sono fatti i geni di queste persone, i geni della pompa e i geni del recettore, due soli,
ce ne sono degli altri che entrano in gioco ma, per ora, ci siamo accontentati di questi due…
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“accontentati” si fa per dire: non avevamo altri soldi e abbiamo fatto solo questi. Allora, guardate,
abbiamo scomposto, quindi, tutta la variabilità, sconosciuta nel gruppo, dopo la prima settimana,
secondo le diversità nella pompa: A, B, CB1 è il nome della pompa. Vedete che i pazienti sono
diversi nella risposta al dolore, a secondo della loro caratteristica genetica che controlla l’efficacia
della pompa. Lo stesso, Oprm1 vuol dire “recettore della morfina 1” vi fa vedere come la loro
risposta può essere scomposta in tre livelli di risposta diversa: molto alta quelli che hanno avuto il
calo maggiore, oppure quasi niente, vedete Oprm1 il genotipo due, quelli che praticamente non
hanno risposto. Allora ci siamo detti, ma siccome noi ereditiamo gli uni e gli altri, qui abbiamo
diverse combinazioni di tutte queste possibile varianti. Guardiamo come funzionano le
combinazioni, eccole qui, allora, vedete, tutta la variabilità può essere scomposta, vedete, in tutte
quelle scatolette lassù, a seconda delle varie combinazioni di pompa e di recettori: chi aveva la
pompa buona e recettore cattivo; chi aveva recettore cattivo e la pompa cattiva; chi aveva la
pompa buona… e tutte le varie combinazioni. Alla fine, vedete, i nostri pazienti possono essere
divisi in non rispondenti, medio rispondenti e forti rispondenti, oppure a seconda del genotipo che
presentavano. Quindi, questi pazienti possono essere individuati subito, prima ancora di entrare
nella terapia. È chiaro che i non rispondenti, questi qui che erano una venticinquina, questi è inutile
dargli la morfina. Di solito i medici, quando non rispondono, aumentano la dose, e non succede
niente lo stesso perché, se uno ha il recettore scassato, che non capta la morfina, io posso dargli
quintali di morfina. Ecco, allora, un’analisi genetica, che tra l’altro costa pochi euro, stiamo
parlando di pochi euro, non stiamo parlando di centinaia di euro, un’analisi genetica, che può
essere fatta in un giorno, potrebbe indirizzare immediatamente il medico sulla terapia più giusta
per quel paziente. Quindi qui finisco con un esempio banale, ma provocatorio, che è questo: per la
maggioranza dei farmaci la posologia cambia solo del cinquanta percento… una o due compresse
al dì, prescrive il dottore, e è come se, entrando in un negozio, trovassimo solo due taglie di vestiti,
44 e 54, o due numeri di scarpe, 35 o 45. In realtà, nei negozi troviamo tutte le taglie, le mezze
taglie, il drop, il drop lungo, drop corto, eccetera eccetera, e ci si domanda: ma perché per i
farmaci non è così? E nei farmaci dovrebbe essere molto di più di così, perché noi sappiamo che,
mentre non abbiamo mai visto uno che va in un negozio di scarpe senza piedi, o a comprare in un
negozio senza avere un corpo, noi sappiamo che ci sono dei soggetti che mancano
completamente di certi geni, e quindi in certi casi siamo proprio nella situazione estrema di totale
incapacità di quel farmaco di agire su quel paziente, perché manca completamente il gene che
serve o come recettore o come metabolizzatore di quel farmaco. Quindi, ecco, tutto questo
andrebbe fatto, sotto certi profili, anche preventivamente, non solo al momento del ricovero ma
andrebbe fatto prima, ecco perché si parla di scheda genetica per certi farmaci, perché ci sono
delle patologie che richiedono farmaci di urgenza, che non offrono il tempo di fare un’analisi
genetica: pensate a un infartuato che ha bisogno di un anticoagulante per sciogliere il grumo: noi
sappiamo, per esempio, che uno degli anticoagulanti più utilizzati è il Warfarin, anche per questo il
paziente risponde a seconda anche della sua struttura genetica, e lì il medico non ha il tempo di
dire: vediamo se funziona, poi si cambia. O il farmaco funziona nelle prime tre ore, o se no il
coagulo ha fatto il suo danno. Allora, quello che noi proporremmo è che per tutte le patologie che
richiedono interventi di urgenza, e che non lasciano tempo all’analisi genetica, questa possa
essere fatta prima e che ogni paziente abbia, insieme al gruppo sanguigno e alle varie altre cose,
una sorta di targhetta che descriva il suo genotipo per i farmaci salvavita, di modo che il medico
possa veramente, in modo più efficace, e tempestivamente accettabile, dargli il farmaco che più si
attaglia al suo profilo biologico.
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Gilberto Corbellino
Professore di Storia della Medicina - Università di Roma, La Sapienza Libertà e controllo del
comportamento
Le sfide della neuroetica
Oggi è il Darwin Day, oggi è il compleanno di Darwin, e credo che la lezione di Paolo Barale sia
stata una fantastica lezione di biologia evoluzionistica, quindi un grande omaggio a Darwin perché,
se le cose stanno così, perché se ognuno di noi è geneticamente unico, questa è la conseguenza
del fatto che, con buona pace di tutti quelli a cui non sta simpatico, l’evoluzione esiste e ha
funzionato.
Ho scelto un tema abbastanza complicato, e lo svolgerò in modo molto franco, molto onesto, molto
sincero, con, quindi, probabilmente, anche delle tesi, o delle posizioni, che sosterrò, un po’ forse
eterodosse da qualche punto di vista, ma comunque credo che sia il modo migliore per
confrontarci e discutere, dialogare, perché altrimenti, come dire, facciamo finta di niente e non
facciamo il nostro mestiere. Allora, io parlerò un po’ di neuroetica, è un tema che oggi nel mondo,
soprattutto negli Stati Uniti, sta diventando sempre più importante, cominciano a nascere
dipartimenti, un po’ come quando nasceva la bioetica, e quindi prima di tutto due parole per
mettere in rapporto neuroetica con bioetica. C’è un po’ di discussione, oggi, alcuni filosofi morali e
psicologi morali americani cominciano a domandarsi se poi questa bioetica ha fatto del male o ha
fatto del bene. C’è un libro molto bello, che so che è in traduzione anche in Italia, di un bravo
filosofo morale, che è Jonathan Baron, uno psicologo morale in realtà, ha scritto un libro “Against
Bioetic”, in cui dice che la bioetica , di fatto, ha prodotto più danni che non vantaggi, negli Stati
Uniti. E come li ha prodotti questi danni? Baron analizza vari aspetti che sono un po’ delle trappole
all’interno delle quali la riflessione morale sulle scienze biomediche si è andata a ficcare, e
analizza anche tutta un’altra serie di aspetti, più legati a come la bioetica, in realtà, nel mondo
occidentale, ha fatto da veicolo a una sorta di controllo politico, esercitato in modo arbitrario e non
obiettivo, sulla scienza. Infatti fa anche un po’ riferimento ad alcuni discorsi che si cominciano a
fare negli Stati Uniti, dove si ritiene che c’è un’epidemia di politica e di interferenze sulla scienza:
non dimentichiamo che l’amministrazione Bush è stata fortemente attaccata da scienziati, e anche
da politici, anche dagli stessi repubblicani, per aver strumentalizzato, falsificato, censurato, fatto
una serie di cose piuttosto invereconde sulla scienza, sulle conoscenze scientifiche, manipolando i
dati scientifici. Questo è stato fatto anche all’interno del Comitato Nazionale di Bioetica
Statunitense: Elisabeth Blackburn, una ricercatrice, ha scritto un bell’articolo, qualche tempo fa, sul
New England Medical Journal, intitolato “La bioetica e la distorsione politica delle scienze
bioetiche”, sostenendo che attraverso la bioetica si è determinata una vera e propria operazione di
manipolazione della verità, del dato scientifico. In Italia ne siamo stati protagonisti con la legge 40,
gli scienziati non si sono ritratti a questo tipo di manipolazione, e l’Italia ha sicuramente una serie
di fatti che dimostrano chiaramente la manipolazione politica della scienza, e come la politica ha
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ignorato tranquillamente il dato scientifico, in modo piuttosto arbitrario, strumentale, mistificando
dati scientifici, per imporre regole, leggi che, appunto, hanno di fatto creato una distorsione della
scienza, anche della percezione della scienza, e questo è avvenuto, in buona parte, anche
attraverso la bioetica. Questi sono alcuni esempi, si parte dal caso Di Bella, e si arriva ad alcuni
aspetti del dibattito attuale sulle direttive anticipate di trattamento, ma ci sono anche questioni che
riguardano i criteri di valutazione dei docenti e dei progetti di ricerca, poi la legge sulla
fecondazione assistita, tutto il dibattito intorno all’istruzione primaria e secondaria e cioè la riforma
Moratti, per quanto riguarda il ruolo della scienza nell’insegnamento primario e secondario. Ma
questo è il clima in cui, secondo me, il mondo occidentale oggi un po’ si trova, nei riguardi della
scienza: c’è un attacco alla scienza, e questo credo sia molto difficile metterlo in discussione. Il
fondatore della bioetica, uno dei fondatori, ce ne sono tanti di fondatori, ma Albert Johns, che è
sicuramente colui che ha guidato, anche istituzionalmente, il processo di inserimento della bioetica
nel mondo nordamericano, ha detto, in una famosa conferenza del 1999, intitolata
significativamente “Perché la bioetica è diventata così noiosa”, che: “la bioetica ha smarrito gli
stimoli intellettuali e il coraggio morale delle prime battaglie contro il paternalismo medico e in
difesa del riconoscimento dell’autonomia decisionale dei pazienti, si è addomesticata diventando
una disciplina autoreferenziale e localistica”. Ed è lo stesso Johns che, a un certo punto, agli inizi
del 2000, lancia anche una grande operazione, organizza una conferenza a Stamford, con il
finanziamento della Dana Foundation, intitolato proprio: “Neuroetica, una mappa del settore”, e
quindi apre anche lui, insieme ad altri, il dibattito sulle implicazioni etiche negli avanzamenti della
ricerca in ambito neuroscientifico, tematiche che sono state toccate anche dalla Commissione
Presidenziale Statunitense, ai tempi in cui era diretta da Leon Cass, con tutta la questione legata
all’uso di tecnologie per il miglioramento, il rafforzamento di alcuni comportamenti, prestazioni
cognitive, eccetera. Ancora recentemente se ne è dibattuto al Massachusetts Institute Tecnology,
con un convegno che è durato quattro, cinque giorni, appunto su neuroetica, responsabilità, cioè
tutto il problema dei rapporti tra le conoscenze che via via stiamo maturando, su come funziona,
come è fatto, come va il nostro cervello, e le dimensioni sociali, culturali, politiche, eccetera, del
nostro comportamento. Perché non si è mai visto nessuno che abbia un comportamento senza un
cervello, e quindi in qualche modo, forse, conoscere il cervello ha qualche rilevanza. Allora, che
cosa è la neuroetica? Gli studiosi di neuroetica, coloro i quali negli ultimi anni hanno riflettuto su
questo terreno, tendono a riconoscere due filoni fondamentali della riflessione neuroetica. Un
aspetto è l’etica delle neuroscienze, cioè dimensioni etiche della ricerca neuroscientifica, quindi
qual è l’impatto, quali sono le problematiche etiche che sono aperte dalla ricerca neuroscientifica.
Quindi abbiamo l’etica della ricerca e della pratica neuroscientifica, ma anche le implicazioni etiche
delle neuroscienze perché, nel momento in cui noi conosciamo sempre di più, sempre meglio,
come intervenire sul cervello, sui meccanismi di funzionamento, questo ci apre nuove
problematiche etiche, oltre che darci quelle precedenti, che sono quelle che hanno a che fare con
l’etica in generale di qualsiasi tipo di ricerca biomedica. Poi c’è un altro settore che tra l’altro a me
in questi ultimi tempi interessa di più, ma su cui mi soffermerò pochissimo, ed è quello che
riguarda le neuroscienze dell’etica, cioè che cosa ci dice la conoscenza del cervello, perché e
come noi siamo animali morali, e questa è una cosa affascinante perché probabilmente, nel giro di
un po’ di anni, un bel po’ di discussioni, disquisizioni, di sfide filosofiche, saranno messe un po’ in
chiaro, e capiremo non tanto chi aveva ragione, perché stiamo cominciando a capire che avevano
ragione tutti, ma, insomma, cominceremo a capire come veramente noi produciamo i giudizi
morali, e quali sono i processi e i meccanismi che sostengono la moralità umana. Allora, etica delle
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neuroscienze: nell’etica delle neuroscienze, appunto, l’aspetto che riguarda l’etica della ricerca e
della pratica neuroscientifica, tratta di questioni che da un lato sono molto tradizionali, insomma, si
tratta di fare delle sperimentazioni cliniche, i cosiddetti trial clinici. I trial clinici sono sperimentazioni
di farmaci, e la sperimentazione di farmaci ha a che fare con un problema etico fondamentale, di
qualsiasi farmaco, di qualsiasi sperimentazione di test diagnostico, eccetera, ed è il consenso
informato. Il consenso informato è alla base, oggi non si può più fare ricerca clinica senza il
consenso informato, e questo è un assunto che dovrebbe essere acquisito, in Italia ancora poco,
ma ormai è acquisito nel mondo occidentale, in qualsiasi tipo di ricerca biomedica. C’è tutto il
problema legato alla riservatezza nell’accesso ai dati, insomma, si ottengono, si acquisiscono dei
dati personali, quando si fa della ricerca: i genetisti acquisiscono dati di un certo tipo, i
neuroscienziati dati di un altro tipo, e bisogna far sì che le persone che entrano in questo tipo di
contatto con il medico, con il ricercatore, siano garantiti sul fatto che questi dati siano mantenuti
riservati, e non possano essere utilizzati per fare delle discriminazioni. C’è una frontiera che nei
prossimi anni diventerà sempre più importante, riguardo la sperimentazione, cioè le nuove terapie
cellulari, quelle che verranno dalla ricerca sulle cellule staminali. Si cominciano già a fare alcune
cose di questo genere, ma molto ci si aspetta proprio per il trattamento delle malattie neuro
degenerative. Quindi, quando si andrà a fare questa sperimentazione, queste saranno
problematiche peculiari della ricerca neuroscientifica, perchè un conto è fare una sperimentazione
o una terapia cellulare sui muscoli, la distrofia muscolare di Duschen, un conto è andare a
impiantare delle cellule, che producono, se ci si riesce, un certo tipo di neurotrasmettitori, in una
certa parte del cervello, e quindi dire che cosa può succedere e che cosa non può succedere. Altri
problemi neuroetici, abbastanza più specifici del campo delle malattie mentali, dipendono, anche
se in larga parte non ne sappiamo molto, da anomalie nel funzionamento del cervello. Le anomalie
nel funzionamento del cervello creano disturbi al comportamento e un comportamento di
compliance o non di compliance, di adesione a una terapia, o di non adesione a una terapia, è un
comportamento come tutti gli altri. Quindi il medico ha il dovere ben preciso di regolarsi rispetto a
un malato che, per esempio, ha una depressione grave, di capire come anche suscitare e avere la
garanzia che quel periodo di trattamento, che spesso è necessario per uscire da quella condizione,
senza che si veda alcun beneficio, sia seguito dal malato in quel tipo di situazione, e appunto,
quindi, come garantire che un paziente con disturbi psichiatrici segua le prescrizioni mediche. Poi
c’è tutto il settore delle cosiddette terapie somatiche, che ancora esistono, esistono gli
elettroshock, esiste la psicochirurgia, ci sono le indicazioni per trattamenti di alcune condizioni con
questo tipo di terapie, e però ci sono delle posizioni critiche su questo tipo di trattamenti. Esistono
dei protocolli bioetici già da molto tempo per l’uso di questi trattamenti, ovviamente per alcuni
soggetti che di solito danno il loro consenso quando stanno bene, e questo consenso viene
utilizzato validamente, questo nel mondo anglosassone soprattutto, viene utilizzato validamente
quando in realtà poi stanno male, per sottoporli, per esempio, a un trattamento di elettroshock.
Passiamo alle implicazioni etiche delle neuroscienze. Le implicazioni etiche delle neuroscienze
vogliono dire che si possono utilizzare le conoscenze sul funzionamento del cervello per,
eventualmente, migliorare, in linea di principio, il funzionamento della società: se noi sappiamo che
certe caratteristiche certi fatti di attività del cervello sono più o meno a beneficio della società, che
cosa ne facciamo? Dobbiamo evitare che si usino, dobbiamo regolamentarli? Che facciamo?
Adesso farò qualche esempio, però per entrare nel merito. In che modo le conoscenze e gli
interventi sul funzionamento del cervello cambieranno il significato di “normale” o “anormale” e di
“salute” o “malattia”? In che misura si sposteranno le definizioni di salute e malattia? C’è una
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rincorsa alla medicalizzazione talmente accelerata, insomma, che immaginarsi che questo non
riguardi anche il comportamento, è assurdo, perché poi è proprio il benessere psicologico la
dimensione a cui teniamo veramente, forse, di più. E la definizione di vita e di morte: oggi c’è un
grande dibattito negli Stati Uniti, se è ancora corretta le definizione di morte secondo lo standard
del Comitato di Harward, del 1968 che dice che la morte è data dalla cessazione di tutte le attività
del cervello nel suo complesso. Ovvero, se si è in assenza di una attività corticale accertata,
perché non dire che anche quella potrebbe essere una definizione di morte? Una persona con
assenza di attività corticale accertata non ha alcun tipo di relazione con l’ambiente circostante, non
è assolutamente in grado di interagire, di fare alcunché per sopravvivere, e d’altra parte i bambini
privi di corteccia celebrale non vengono molto spesso, normalmente, trattatati e mantenuti in vita.
Sulla definizione di morte il dibattito è acceso, e alcuni, negli Stati Uniti, sostengono che bisogna
cambiare la definizione di morte perché questo amplierebbe ulteriormente la possibilità di avere
organi per i trapianti. D’altra parte questo è un discorso che avrà le sue implicazioni per quanto
riguarda, poi, l’uso di queste conoscenze su quelle che possono essere le direttive anticipate di
trattamento perché noi, per “direttive anticipate di trattamento” o per dire “io non voglio essere
trattato, mantenuto in vita, intubato”, o cose di questo genere, pensiamo soltanto a uno stato di un
certo tipo, in cui c’è necessariamente la morte. Ma ci possono anche essere delle condizioni che al
momento non sono rilevabili con le tecnologie del neuro-imagine, ma forse dopodomani, o tra dieci
anni, o tra quindici anni, sarà misurabile lo stato, e la mia condizione, e io vorrei poter essere in
grado di decidere anche su quello, anche, diciamo, su quali sono le situazioni in cui voglio o meno
essere trattato, sulla base dello stato delle attività del mio cervello. Altra questione: in quale
condizione è lecito prescrivere un farmaco o una stimolazione fisica per migliorare le normali
capacità, piuttosto che per trattare un deficit? Cioè, la medicina, oggi, è il trattamento della
malattia, anche se la promozione della salute è già un’altra cosa dal trattamento della malattia,
però, una volta che si accetta che la medicina non deve più trattare deficit, ovvero una volta che la
soglia della cosiddetta normalità, o accettabilità di una certa prestazione, in un ambito competitivo,
come possono essere alcuni ambiti della attività sociale, si abbassa, perché non ricorrere al
medico, ma lo si fa già, basta guardare i giornali, e l’uso di cocaina, e cose di questo genere per
rendersi conto che siamo già con dei metodi anche, tra l’altro, piuttosto dannosi. In che misura si
possono utilizzare le conoscenze acquisite per prevenire o trattare comportamenti socialmente
devianti? Ci sono studi, anche questi con il brain-imagine, che fanno vedere, insomma, che
l’assenza di certi tipi di attività, ma anche studi anatomici dello sviluppo di certe aree celebrali,
sono fortemente predittivi di certi comportamenti antisociali. E una volta che noi lo sappiamo?
Certo, possiamo dire no. Io ho qualche dubbio che le Corti e i Tribunali statunitensi, o altri
Tribunali, una volta che avranno a disposizione alcuni di questi strumenti, se non se ne discute
molte chiaramente, se non si mettono chiaramente delle regole per utilizzarli, eviteranno di
utilizzarli solo perché noi diciamo “no, è sbagliato, è immorale”, eccetera. Poi bisogna vedere
anche le conseguenze. C’è una grande discussione sul Ritalin, su certi trattamenti sui bambini, sul
trattamento psicofarmacologico dei bambini, un forte dibattito in corso soprattutto negli Stati Uniti,
c’è stato un caso anche in Italia, e questo ci porta a tutta la sfilza di cose che già si fanno, io ve ne
cito solo qualcuna, quelle che proprio stanno in letteratura, non una letteratura di parrocchia, una
letteratura pubblicata su riviste P. Revue, cioè su riviste scientifiche, dove ci sono dati clinici, dove
si hanno tutta una serie di indicazioni da prendere seriamente.
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E’ indiscutibile che c’è un aumento stratosferico della vendita in tutto il mondo degli inibitori della
ricaptazione, della serotonina, e soprattutto che è prescritto sempre di più al di fuori delle
indicazioni, cioè non tanto più solo per depressioni gravi ma anche per depressioni lievi, insomma
si è passati dal Prozac, come uso diciamo un po’ consuetudinario, direttamente a questi. Ma ci
sono studi che dimostrano che l’assunzione di questi farmaci produce anche dei benefici, e quindi
questi benefici devono essere presi comunque in considerazione perché, se le persone,
prendendo un farmaco, stanno meglio, io credo che tendenzialmente potrebbero insistere nel
prenderlo. L’uso di una serie di anfetaminici, poi, che modulano alcuni sistemi che sono ritenuti
coinvolti nei deficit dell’attenzione, soprattutto per quanto riguarda i bambini, è un problema che,
come dicevo, è molto dibattuto negli Stati Uniti e poi, se volete, ne discutiamo in dettaglio. Quali
sono i dati, che cosa si sa, oggi, sulla base di tutta la letteratura che è disponibile? Che questo
potenziamento farmacologico, cioè il trattamento di bambini cosiddetti iperattivi - poi, attenzione
perché qui si potrebbe fare anche una battuta: se un bambino non è iperattivo non è un bambino –
però, insomma, ci sono dei criteri clinici abbastanza affidabili…. È vero che poi negli Stati Uniti le
maestre ormai lo chiedono, è un trattamento routinario, cioè sicuramente non ci sono deficit
dell’attenzione del livello del venticinque, trenta percento, come succede per alcune classi che
sono trattate a quei livelli, e quindi c’è questa pressione, ma sicuramente, insomma, si sa, ci sono
degli indicatori clinici, ben precisi, psicofarmacologici ben precisi, che consentono di definire un
deficit di attenzione. Tra l’altro, il Ritalin è ormai uno stimolante di cui si fa uso routinario nei
campus americani, gli studenti sono persino stimolati ormai a prenderlo, perché hanno troppa
attività, soprattutto sono gli allenatori delle squadre sportive, quando gli studenti non riescono a
concentrarsi, a passare da un argomento all’altro, sono stimolati e indotti a fare uso di Ritalin. Poi,
appunto, ci sono studi clinici che dimostrano dei benefici rispetto al trattamento di soggetti
diagnosticati, quando c’è effettivamente una indicazione medica per questi farmaci. Quindi, metterli
al bando così, genericamente, e dire che non è possibile che esista la malattia “deficit
dell’attenzione” nei bambini, è un po’, secondo me, un voler nascondere la testa sotto la sabbia. Ci
sono poi altri farmaci che cominciano ad essere studiati anche per un uso che va al di là della
prescrizione medica, per esempio un farmaco che stimola la memoria, che è stato messo a punto
per contrastare i deficit di memoria nei pazienti di Alzheimer, e che comincia anche ad essere
utilizzato per dare aiuto a livello di capacità mnestiche, alle persone che non ne avrebbero
bisogno, e ci sono diversi laboratori, diverse multinazionali, che stanno investendo proprio in
ricerca su farmaci per potenziare la memoria. Un altro settore molto, molto di interesse negli Stati
Uniti, per quanto riguarda il potenziamento delle cosiddette funzioni normali, ha a che fare con il
sonno: grandi e ingenti finanziamenti sono dati per studiare il sonno, da parte dell’esercito, il quale
sa, da un po’ di tempo, che molte delle perdite per cosiddetto fuoco amico, durante le guerre, sui
teatri bellici, sono dovuti proprio a problemi di sonno, perché un’assenza di sonno riduce il livello di
vigilanza, e quindi la capacità di affrontare e decidere in modo adeguato, in quelle condizioni. Non
vi sto a dire che cosa non si prescrive, che cosa non si cerca di mettere a punto, per quanto
riguarda il potenziamento delle performance sessuali. Quali sono le dimensioni e le tematizzazioni
etico legali, etiche, e quindi politico giuridiche legate al potenziamento delle funzioni nervose,
insomma. Certamente c’è un problema etico legato agli effetti collaterali di questi trattamenti: non
si sa bene quali possono essere gli effetti collaterali, le conseguenze di una stimolazione costante
dei processi mnestici. La memoria non è un fatto così, astratto, la memoria comporta delle
modificazioni biochimiche ben precise, ci sono delle molecole, dei processi metabolici che
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accompagnano l’acquisizione di tutta una serie di abilità comportamentali, eccetera, e interferire
con i processi di, appunto, oblio, di omeostasi, che regolano questi tipi di situazioni, non si sa bene
a che cosa possa portare. Quindi bisogna riflettere su un punto di vista etico, sulle conseguenze di
queste potenzialità. Usare queste cose fa parte del desiderio individuale di ottenere risultati senza
fatica. Se le persone riescono ad ottenere un qualche tipo di risultato senza fare molta fatica, e se
hanno successo in una certa capacità, senza doversi addestrare costantemente, usando
semplicemente un certo farmaco, è molto difficile che non lo facciano, nonostante tutte le critiche
morali, o politiche che potranno venire. Per la società c’è sicuramente il discorso che questo tipo di
trattamenti non sono equamente distribuiti, e quindi ci saranno quelli che se lo potranno
permettere, altri che non se lo potranno permettere. Il diffuso potenziamento aumenterà gli
standard di normalità, determinando una coercizione indiretta, quindi tutti quanti vorranno
accedere a quel livello: anche se non volessero prenderlo, per rimanere competitivi lo dovranno
fare. Insomma, il discorso molto più generale è che, forse, non ci sono grosse novità rispetto al
passato, noi oggi sappiamo che anche i famosi, mitici, e sempre citati atleti di Olimpia, gli atleti
insomma che facevano le gare, che si pensa che non praticassero il doping, praticavano quello
che potevano, ma il doping c’è sempre stato. Quindi non ci sono novità, la novità, forse, è che
esistono oggi farmaci, modalità, per intervenire in modo più selettivo e con meno effetti collaterali,
invece di farsi delle bombe di carne al sangue, e di fare delle diete iperproteiche per mesi e mesi,
per poter fare le corse, le maratone, o cose di questo genere. Oggi si usano altri sistemi, che non
vuol dire che non siano pericolosi, forse sono anche più pericolosi, ma il problema è che la
domanda esiste. Due parole, perché l’altro giorno su Repubblica è uscita la storia di leggere il
cervello. In realtà Repubblica ha ripreso un articoletto dal Guardian, non c’è nessuna novità,
ancora non si riesce a leggere la mente, però ci si sta attrezzando. Oggi, veramente, con lo
scanning del cervello si possono davvero fare grosse cose, non si possono ancora avere delle
indicazioni predittive ma, per alcuni aspetti, ci si avvicina molto, molto, molto. Uno dei problemi
importanti è che questo tipo di studi portano ad entrare in quegli aspetti che sono considerati più
privati, più personali, insomma: che cosa io penso, che cosa sto pensando, se mento o non mento.
Oggi è possibile, la macchina della verità, quella che si vede nei film americani, è vicinissima,
insomma, la macchina della verità ormai esiste, si tratta solo di decidere il momento in cui la si
mette in uso, anche se alcuni laboratori la stanno attivando. Certamente, c’è la dimensione delle
neuroscienze dell’etica, questa secondo me è la sfida, questa è la sfida non solo per la società ma
è anche la sfida per l’etica, perché oggi noi siamo in grado di capire, analizzando il cervello, come
si producono le scelte, come noi arriviamo a dire che una cosa è giusta o non è giusta, che è bene
o che è male, che è morale o che non è morale. Ci sono gli elementi per dire come costruiamo la
nostra identità, la nostra percezione del sè, come prendiamo le decisioni, come costruiamo giudizi
morali, cosa sono i giudizi morali, l’autodeterminazione. In questo contesto, stanno uscendo libri
con sempre maggior frequenza, nel mondo anglosassone, che mettono in discussione, o che
analizzano in una chiave che da molto tempo non era così radicalmente negativa, tutta la
problematica del libero arbitrio e dell’autodeterminazione. In fondo l’autodeterminazione è il
concetto chiave della bioetica, e che cosa ne può derivare e quali implicazioni ci possono essere
per lo status della morale, a livello sociale, come risultato della biologizzazione dell’etica. Io potrei
dare anche delle risposte, quello che penso io, ma secondo me quello che è più interessante è che
queste domande forse è venuto il momento di farsele. Grazie.
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Intervento dal pubblico
Professor Barale, visto che questa mattina avevamo fatto una carrellata di situazioni in cui le scelte
riproduttive della donna erano condizionate, di volta in volta, da situazioni religiose piuttosto che
statali, piuttosto che culturali, ed ideologiche; sentendo la sua relazione, mi veniva in mente questo
problema della predisposizione genetica alla trombofilia, che interpella noi ginecologi rispetto al
rischio tromboembolico della contraccezione ormonale, quindi degli estroprogestinici. Esiste il
rischio, credo, che il messaggio della identificazione di popolazioni a rischio, comporti poi una
mutazione, un cambiamento di atteggiamento nella clinica, ma in questo caso nella clinica che ha
che fare con la vita quotidiana, e di nuovo con la salute riproduttiva. Ci si comincia a interrogare se
prima di prescrivere una pillola, per esempio nella fascia di età abbastanza giovane, bisogna fare
tutti i testi della trombofilia, che sono anche dei test fattibilissimi, ma non necessariamente
accessibili in qualunque posto, o a qualunque età e in qualunque laboratorio di analisi. Quindi, la
mia domanda, adesso la faccio a lei come genetista, ma in realtà la faccio un po’ per mantenere la
discussione: quanto ci può essere, nel messaggio di identificare appunto un profilo genetico della
risposta al farmaco, il rischio di modificare nel concreto le scelte, che non sono solo terapeutiche
ma sono anche inerenti a scelte riproduttive. Perché, bisogna ben pensare a una giovane donna
cui si dice che non deve prendere la pillola dall’età di diciotto anni, o sedici anni, per tutto il periodo
della sua vita fertile, è una cosa carica di significato e di conseguenze. Fermo restando che una
gravidanza non desiderata comporta un rischio tromboembolico, che vada a finire sia in
gravidanza a termine sia in interruzione di gravidanza. Quindi le questioni sono tante.
Intervento 2
Al professor Corbellini: io vengo da studi filosofici, e vorrei sapere che cosa ne pensa lei proprio
del libero arbitrio, perché, mentre parlava, mi veniva in mente l’uomo macchina, cioè l’uomo è una
macchina complessa, retta da particolari leggi biologiche, e siamo nel 1748. Vorrei sapere adesso
dove andiamo, ecco, faccio una domanda kantiana.
Roberto Barale
E’ già stato fatto per un farmaco che viene dato in terapia sostituiva ormonale in menopausa, è
stato visto che le donne che avevano un tipo di rischio avevano un particolare genotipo. Questo
che cosa comporta visto al contrario? Che tante donne, che non farebbero la terapia sostituiva per
la menopausa, per paura del rischio, sapendo da un test genetico di non essere a rischio,
potrebbero fare la terapia sostituiva, con tutti i vantaggi che essa comporta. Quelle che invece
effettivamente sono a rischio, non la fanno, e quindi non hanno nessun rischio, possono fare
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qualcos’altro, usare altri farmaci, o altre cose alternative. Questa è una cosa piuttosto comune, e le
case farmaceutiche lo sanno molto bene, e sta diventando un problema enorme, con la
globalizzazione del farmaco. Mi spiego: quelle differenze genetiche che noi abbiamo visto le
troviamo non solo tra le persone ma tra le etnie, cioè nelle varie etnie cambiano le proporzioni di
rispondenti e di non rispondenti. Allora, che cosa succede? Il farmaco, oltre ad effetti benefici, dà
anche effetti collaterali, che a volte sono molto gravi; l’industria farmaceutica, quando sperimenta
un farmaco, se vede che gli effetti di questo farmaco non coprono almeno il novanta percento,
novantacinque percento dei possibili pazienti, ferma questo farmaco non lo immette sul mercato.
Un esempio drammaticamente istruttivo è un farmaco antitumorale del polmone, si chiama Iressa,
questo farmaco, provato sui topini, distruggeva completamente il tumore del polmone. Quando è
stato provato sugli umani, è stato visto che pochi di questi pazienti rispondevano: il dieci percento;
il novanta percento, acqua fresca. Il farmaco è stato bloccato perché non si può mettere sul
mercato un farmaco estremamente costoso, di cui beneficiano solo il dieci percento e il novanta
percento non ha niente, o addirittura degli effetti collaterali. Era un farmaco orfano, e così quel
dieci percento di possibili pazienti non aveva il farmaco. Si è scoperto che una mutazione in un
particolare gene rendeva questo dieci percento rispondente al farmaco. Allora, che cosa si fa
adesso? Si fa le genotipizzazione dei pazienti col tumore polmonare: buon per loro, quel dieci
percento ha un farmaco quasi miracoloso, per il novanta purtroppo no, bisognerà fare altre cose.
Altrimenti, quel dieci percento lì non avrebbe avuto nessuna possibilità. Quindi, , secondo me, è
vero che da un punto di vista generale, una persona potrebbe dire: “Ma se io sono…”, ma il
problema non c’è, secondo me, perché uno ha la possibilità di verificare se lui è o non è portatore
di quella caratteristica per la quale quel farmaco è o non è idoneo. Cioè, in altri termini, preferisco
sapere come stanno le cose, poi faccio la mia decisione.
Una volta che io so che sono predisposto, esamino quanto vale quel rischio, faccio una
valutazione su un rischio reale, piccolo ma reale. Nell’altro caso, non c’è nemmeno, e allora lo
elimino completamente.
I test genetici costano pochissimo. Il problema è che devono essere svolti correttamente, e questo
è un altro problema, perché ce n’è anche fin troppi di cialtroni, però i test costano pochissimo,
allora facciamo uno studio rapporto costo – beneficio, non c’è nessun problema, però, ecco, quello
che voglio dire, nella mia piccolissima esperienza, io non mi occupo di queste cose, però ogni
tanto sì, è che ci sono tantissime condizioni di estremo disagio che potrebbero essere rimediate
con pochissimo, alle quali generalmente non facciamo caso. Una cosa di cui mi sono occupato, la
sindrome di Klinefelter, tutti sapete che cosa è, maschi che hanno due XX, XXY, la metà di questi
maschi arriva al termine della vita senza sapere di essere Klinefelter, gli altri lo scoprono perché
non sono fertili, allora vanno a fare gli esami e scoprono di essere Klinefelter perché sono
apparentemente normali, un pochino più alti, eccetera. Se però si va a indagare sulla vita
psicologica di questi soggetti, che non hanno mai saputo, che poi l’hanno saputo tardivamente, si
scopre che hanno avuto grossissimi disagi nell’infanzia, grossissimi disagi di tipo psicologico,
soprattutto legati alla sfera sessuale. Lo sapete da cosa deriva questa situazione? Bene,
recentemente si è visto che il neonato, dal terzo mese al sesto mese, mi sembra, ha una montata
enorme di testosterone nel sangue, e uno dice: cosa ci fa il testosterone in un bambino in culla?
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perché uno pensa al testosterone attività della pubertà. Bene, sembra che questa montata enorme
di testosterone modifichi le connessioni neuronali, a livello del cervello, e indirizzi la psiche del
bambino verso l’indirizzo maschile. Ora, questi bambini Klinefelter mancano di questa montata di
testosterone, e si pensa che questa deficienza, in questo periodo specifico della vita, poi condizioni
in larga misura il loro sviluppo psicologico, e determini quei problemi che poi hanno. Guardate, i
Klinefelter non identificati sono circa venticinque trentamila in Italia, non sono due, considerando la
frequenza della sindrome. Basterebbe che alla nascita si facesse il test più banale genetico, il test
della cromatina sessuale, quella che si faceva per gli atleti, perché basta uno striscio di sangue,
che cosa può costare, due euro, per identificare i Klinefelter e potergli dare quella quantità di
testosterone che gli serve in quella fase particolare dello sviluppo, per aiutarli a normalizzare
quella situazione che poi potrebbe eliminare i problemi nella vita adulta. Voglio dire, l’analisi
genetica ci permette di capire meglio come stanno le cose, e laddove esistono… ecco, il problema
è che ci deve essere una soluzione, perché sapere che tu hai un problema, e poi non c’è la
soluzione, era meglio se non me lo dicevi. Se però la soluzione c’è, allora sarebbe un delitto
tapparci gli occhi e far finta di nulla.
Gilberto Corbellini
Volevo collegarmi a questo discorso che faceva Roberto Barale. Credo che la storia della
commercializzazione, da parte della Miriad, anni fa, del test per il Brca1 e il Brca2 sia molto
istruttiva. Insomma, a parte i costi esorbitanti che aveva quel test, la risposta delle donne negli
Stati Uniti, di fronte al fatto che poi non c’era nessun tipo di possibilità di intervenire, in presenza
delle mutazioni predisponenti per il cancro della mammella, ha prodotto in larga parte che le donne
non lo compravano. Quindi, secondo me, la condizione migliore è sempre quella di offrire
istruzione, educazione, massimo di disponibilità, e poi vedere anche da parte dello Stato come
governare la domanda e l’offerta, incentivando, disincentivando, ma comunque io sono convinto
che in linea di principio è sempre meglio conoscere, perché poi uno ha sempre il diritto, la
possibilità, se non vuole, di ignorare l’informazione. Sul fatto di Kant, anche io ho studi filosofici, e
ritengo che effettivamente abbia dato un grande contributo filosofico, che Kant sia imprescindibile,
però imprescindibile per metterlo da parte perché, secondo me, con Kant è molto difficile che noi
riusciamo a governare tutta una serie di sfide che, appunto, ci troviamo a dover gestire oggi, due
secoli dopo Kant, e forse non è un caso che molti filosofi in questo momento, parlo di Paul
Churchland, parlo di Patricia Churchland, parlo dei Dennet, bypassino completamente Kant.
Comunque sia, io credo che … l’illusione del libero arbitrio sia una delle più straordinarie invenzioni
dell’evoluzione umana e del cervello umano.
Gianna Cioni
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Noi abbiamo fatto anche una campagna contro il Ritalin, in Italia, non so se sul nostro sito di
Proteo l’avete mai visto, ma Omer Bonezzi, ci ha dedicato pagine sul nostro sito, perché qualcuno
lo usava anche in Italia, non solo negli Stati Uniti, e perché di bambini iperattivi, con le diagnosi
funzionali sul sostegno, insomma, se ne sono diagnosticati fin troppi, e per iperattivi si intendono
anche gli autistici, casi anche più gravi. Ormai è inflazionato, questo termine, che ha la sua
scientificità, e che forse persone che non sono del mestiere hanno inflazionato. Scusate, ma
questa cosa va chiarita soprattutto per chi di è scuola…
Corbellini
Però questo è un altro problema, dal dire che non esiste…
Cioni
Esiste, esiste eccome, purtroppo sì.
Corbellini
O che il Ritalin non lo tratta, perché invece il Ritalin lo tratta.
Elena Mancini
Bioeticista
Fine vita: Categorie logiche e analisi etica
L’aver introiettato l’idea del libero arbitrio fa sì che praticamente le persone abbiano acquisito un
certo significato della loro vita e che, di conseguenza, si comportino in un certo modo. Pensarsi
liberi o no cambia il modo di comportarsi, avere un’idea di sé in cui è possibile scegliere oppure no
cambia il processo di scelta. Facevo questa osservazione perché un po’ si ricollega anche al
discorso che dovrò fare adesso riguardo all’eutanasia, che è un problema appunto in gran parte
legato a una scelta, e possibilmente a una scelta per sé, che però, purtroppo, le persone non
possono attuare da sole. Perché, ovviamente, in un contesto di bioetica, parlare di fine vita
significa quasi esclusivamente parlare di scelta. Prima di tutto, occorre fare un chiarimento: in
genere si parla di eutanasia intesa come eutanasia attiva, cioè come un atto che è
intenzionalmente, e questo “intenzionalmente” è molto importante, soprattutto dal punto di vista
della morale cattolica, teso a procurare direttamente la morte; invece l’eutanasia cosiddetta
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“passiva” significa semplicemente omettere un’azione, con la conseguenza che appunto si procura
la morte di una persona. Dal punto di vista strettamente logico, osservano gli utilitaristi, non ci
dovrebbe essere una differenza così importante tra eutanasia attiva e eutanasia passiva, cioè se la
conseguenza è la stessa, sia che io agisca o che io non agisca, cioè comunque la morte di una
persona, non si capisce perché dovrebbe fare tanta differenza il compiere un’azione o non
compierla. L’intenzione è la stessa, le conseguenze sono le stesse, e si presume la volontà è la
stessa, ovviamente da parte sia di chi agisce sia da parte di chi subisce l’azione, in genere il
paziente, per cui non ci dovrebbe essere una differenza dal punto di vista morale. Ora, fermo
restando le altre condizioni, portare alle estreme conseguenze un’osservazione di questo genere
significa che allora anche tutti gli atti tesi a procurare la morte, se ci sono delle giustificazioni,
praticamente sono equivalenti alle omissioni che procurano la morte. Questo, esteso nel contesto
sociale, nella prassi sociale, ha delle conseguenze inaccettabili e può, in certi casi, osservano
alcuni, addirittura avere l’effetto paradossale di legittimare l’omicidio. Dal punto di vista
strettamente legato all’analisi metaetica, si può osservare che una morale che pretende di porre
veramente sullo stesso piano azioni ed omissioni sarebbe inesigibile, cioè praticamente una
morale che è inefficace, perché mentre una persona può essere responsabile dei propri atti, e
quindi dei propri comportamenti, e consapevole, almeno si spera, delle proprie azioni, è molto
difficile pretendere che abbia la stessa consapevolezza di ogni omissione, perché le omissioni
sono, per una questione puramente pratica, considerevolmente maggiori di qualsiasi azione, e
quindi praticamente è impossibile essere responsabili di tutte le proprie omissioni, ed è impossibile
tenere in considerazione tutte le proprie omissioni. Fermo restando questo, però, effettivamente
rimangono dei casi, che infatti vengono portati avanti, perché hanno una sorta di purezza logica, in
cui sembra difficile giustificare una differenza tra eutanasia attiva e eutanasia passiva. Per
esempio, alcuni osservano, tutti siamo abbastanza d’accordo sul fatto che quella di una persona in
stato vegetativo permanente, come Luana, la ragazza di Lecco, è una condizione inaccettabile,
almeno gran parte delle persone non vorrebbero vivere in quelle condizioni. Tuttavia, nel suo caso,
per esempio, decidere di farla morire, significa toglierle l’alimentazione e l’idratazione, cioè toglierle
praticamente il sostegno vitale, e questo porterà ad una morte non so in che misura sofferta, ma
sicuramente non particolarmente desiderabile. Allora si può anche ritenere che questa, per
esempio, che è di fatto una eutanasia passiva, cioè si lascia che la persona muoia, per esempio
non si inietta una sostanza velenosa, è accettabile, mentre l’eutanasia attiva non lo sarebbe. Però,
poi, la conseguenza è che si deve accettare che una persona praticamente muoia in quelle
condizioni, quando si sarebbe invece potuto evitare questo, con la stessa conseguenza; cioè noi
pur sempre, razionalmente, abbiamo scelto che questa persona muoia, solo che farlo con una
omissione ha delle conseguenze più negative che farlo con un’azione. Questa è l’argomentazione
di chi ritiene che non è in sé giustificato distinguere eutanasia attiva e eutanasia passiva, dal punto
di vista strettamente logico. Poi, appunto, come dicevo prima, dal punto vista delle conseguenze
sociali che questo ha, e dal punto di vista delle conseguenze anche argomentative che questo ha,
effettivamente ci può essere una differenza fondamentale, ma in alcuni casi, che hanno una
purezza, appunto, teorica particolare, è molto difficile fare questa distinzione. Tuttavia, ovviamente,
la stragrande maggioranza delle persone è favorevole all’eutanasia cosiddetta passiva, e non
all’eutanasia attiva. Sotto il termine di eutanasia passiva, in genere, ricade anche tutto ciò che
riguarda l’accanimento terapeutico, la sospensione delle cure, e così via. Però anche qui va fatta
una distinzione, cioè per eutanasia si intende, pur sempre, il procurare la morte, mentre tutte le
giustificazioni e gli argomenti che sostengono, da parte cattolica, la liceità della sospensione del
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trattamento, si basano sul presupposto che non sei tu che procuri la morte, ma la morte è già in
atto, praticamente è già un processo avviato ed inevitabile, che tu sostanzialmente lasci
proseguire, non interferisci con un processo naturale che porterà inevitabilmente alla morte, con un
intervento tecnologico massiccio, con delle cure che vengono definite sproporzionate, inefficaci,
che ovviamente, spesso, procurano dolore e disagio. Quindi c’è tutta una giustificazione basata sia
sul beneficio del paziente, sia appunto sul fatto che sul piano di realtà tu non procuri la morte ma la
morte è già in qualche modo in atto, che fa sì che possa essere giustificato il rifiuto del cosiddetto
accanimento terapeutico. Mentre, l’eutanasia passiva, in sè per sè, non dice questo; dice anche
questo, nella maggior parte dei casi, si parla di eutanasia passiva in queste situazioni, però, dal
punto di vista teorico, si può parlare di eutanasia passiva anche nelle situazioni in cui non è in atto
un processo di morte, non siamo di fronte a una situazione terminale; possiamo essere di fronte,
per esempio, a persone che non vogliono semplicemente vivere in alcune condizioni che reputano
non… degne di essere vissute (una brutta espressione, molto criticata e molto ambigua). Per
esempio, ci sono dei casi abbastanza terribili di sindromi, sindromi che si chiamano “delle persone
chiuse dentro”, bloccate dentro, praticamente delle paralisi totali che non consentono alle persone
di eseguire nessun movimento, tranne, forse, quello degli occhi. Queste persone alcune volte,
addirittura, possono essere scambiate con delle persone in stato vegetativo, invece, dal punto di
vista mentale esistono, però non hanno nessuna possibilità di comunicazione con l’esterno.
Potrebbero desiderare di morire, e allora, in questo caso, per esempio, non ci si trova di fronte
necessariamente a una malattia che porterà alla morte, bisognerà attivamente decidere se è il
caso di vivere in quelle condizioni oppure no, e quindi praticamente il piano della scelta si sposta
perché non si tratta più, semplicemente, di non interferire, diciamo così, con il corso della natura, in
questo caso con il corso della malattia, che comunque andrà a portare alla morte, ma si tratta di,
appunto, scegliere in quali condizioni vivere. Per esempio, la tanto criticata legge olandese
ammette anche il suicidio assistito. È vero che l’ammette se le condizioni sono gravi, se la persona
è in condizioni di sofferenza, di dolore, eccetera, però in realtà, in questo caso, una persona
potrebbe ritenere che psicologicamente la sua condizione non è accettabile, e quindi, in qualche
maniera, avere diritto di morire. Voi sapete, la legge olandese è stata molto criticata.
Tra l’altro ho visto anche che il Partito Radicale, o comunque l’Associazione Luca Coscioni, invita a
fare un’indagine su quante sono le morti clandestine, le eutanasie clandestine con
l’argomentazione polemica che la legge olandese non discrimina, nel senso che praticamente è
consentita anche l’eutanasia su soggetti incapaci e su minorenni. Questo avrebbe fatto sì che,
appunto, ci siano una serie di eutanasie che in termine tecnico vengono definite involontarie, cioè
senza la volontà del soggetto, o addirittura contro la volontà del soggetto, che però, di fatto,
equivalgono a un vero e proprio omicidio, nel senso che il presupposto dell’eutanasia è
ovviamente la volontà della persona che vuole porre termine alla sua vita. Quindi, appunto,
secondo alcuni c’è stato un incremento di queste eutanasie involontarie e, secondo altri,
semplicemente sono venute alla luce una serie di situazioni, che possedere uno strumento
giuridico permette di controllare. Nel senso che le eutanasie sarebbero praticate comunque spesso
dai medici, anche in Italia, anche in posti in cui non è consentito, e invece uno strumento giuridico,
non fosse altro perché, per esempio, il medico è tenuto a documentare, ovviamente, quello che ha
fatto, permette di controllarle. La legge olandese, praticamente, non riconosce il diritto di uccidere,
né in qualche modo, in senso proprio, il diritto di suicidarsi. Quello che fa è depenalizzare, cioè
ritenere lecita l’azione del medico, se ricorrono alcune circostanze particolari, che sono previste
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dalla legge, per cui il medico praticamente deve tenere la documentazione di quello che ha fatto, e
poi è soggetto alla valutazione del Comitato Etico, e dell’autorità, che valuta se si sono
effettivamente verificate le condizioni previste dalla legge, oppure no. Facevo questo esempio
perché l’Olanda è uno dei pochissimi paesi che ha riconosciuto quella che noi abbiamo definito
prima come eutanasia attiva, e ha riconosciuto anche il suicidio assistito, cioè praticamente una
persona può decidere di uccidersi e il medico gli prescrive i farmaci necessari per farlo. È chiaro
che la differenza è abbastanza rilevante, nel senso che comunque una persona è in grado di
decidere per sé e il suicidio assistito, almeno in via ipotetica, desta minori riserve, diciamo, di una
persona che appunto subisce una eutanasia, non fosse altro che perché quasi nessuno, oramai,
non riconosce la legittimità del suicidio, tranne quei casi in cui sia dovuto a depressioni, a stati
psicologici particolari, mentre l’eutanasia comporta tuttora una grossa discussione perché viene
praticata da terzi su un’altra persona che non può in quel momento, autonomamente, farlo da sé.
Una ulteriore questione, come dicevamo prima, riguarda invece il testamento biologico. Ho visto
che la linea argomentativa di Marino in difesa di questo disegno di legge sul testamento biologico,
si basa su due presupposti fondamentali, il primo è che questo disegno di legge, dal punto di vista
logico dal punto di vista etico, discende dal consenso informato, cioè può essere inteso come un
ampliamento coerente del principio del consenso informato. Ovvero, se una persona autonoma e
libera, mentalmente e fisicamente, può decidere di rifiutare un trattamento perché semplicemente
si alza dal suo letto in ospedale, firma e se ne va, così una persona che non può invece decidere
per sé, dovrebbe avere la possibilità di usufruire dello stesso diritto. Cioè, non è possibile
discriminare una persona perché in condizioni di impossibilità in quel momento di opporsi a quanto
viene fatto al suo corpo, rispetto a un’altra persona che lo può fare semplicemente perché,
fisicamente o psicologicamente, è abile a farlo. Per cui bisogna dare anche a chi si troverà in
quelle condizioni uno strumento giuridico tale da tutelare i suoi diritti, e quindi il testamento
biologico funziona in questo modo, per cui una persona, quando è in condizioni di intendere e di
volere, se prevede la possibilità di ammalarsi in condizioni tali da non poter più decidere per sé,
può usare le direttive anticipate, per indicare quali trattamenti intende che le vengano fatti, e quali
no. La sostanza morale di questo disegno di legge si basa sul presupposto che, in questo caso,
stiamo esclusivamente parlando di sospensione del trattamento, quindi ricade praticamente in
quanto già previsto anche dal Codice Deontologico Medico, come rifiuto dell’accanimento
terapeutico. Su questo argomento esiste un larghissimo consenso, per cui, dati questi due
presupposti che sono oramai acquisiti, cioè la legittimità del consenso informato e la legittimità del
rifiuto dell’accanimento terapeutico, una persona può disporre ora, per allora, che quei trattamenti
vengano sospesi o non attivati. Tuttavia vorrei invitare a considerare un problema: lo stesso
Marino dichiara di essersi trovato, alcune volte, sia pur rare, in situazioni in cui lui, personalmente,
sarebbe andato avanti, avrebbe continuato la terapia, sia pure in quel momento vista senza
speranza, impegnativa, costosa, e anche difficile da accettare per le famiglie, perché riteneva che
ci fosse un margine di possibilità di guarigione, e invece i famigliari si sono opposti duramente e
risolutamente, in ragione del fatto di voler applicare quanto previsto dal testamento biologico. Per
cui lui, pure non d’accordo, praticamente è stato costretto a cedere le armi e quindi a non
continuare il trattamento. Questa osservazione, però, secondo lui, non deve far sì che il
testamento biologico venga messo in discussione, nel senso che non si può ritenere che, siccome
possono darsi casi di questo genere, allora l’ultima parola debba spettare al medico. Perché se
effettivamente, in ragione del fatto che ci possono essere delle situazioni incerte dal punto di vista
clinico, o possono aprirsi delle cosiddette speranze, il testamento biologico dovesse essere in
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ultimo valutato dal medico, e il medico dovesse decidere se applicarlo o no, questo inficierebbe di
fatto tutto il senso del testamento biologico, che invece è basato sul principio di
autodeterminazione del paziente. Per cui la cosa migliore è rimandare, in casi di contrasto tra la
famiglia, il paziente e il medico, il giudizio al Comitato Etico, e soprattutto alla figura di un fiduciario
che deve interpretare le volontà del paziente. Tuttavia, questi casi mi pongono un dubbio nel senso
che, secondo me, effettivamente non ci può essere una sovrapposizione così automatica, dal
punto di vista logico, tra il principio del consenso informato e quello del testamento biologico, o
meglio, dal principio del consenso informato non può derivare una giustificazione così piena del
testamento biologico, perché il consenso informato, ovviamente, legittima anche i casi in cui una
persona semplicemente rifiuta un trattamento, anche quando da questo trattamento possono
derivare dei sicuri benefici, ma non lo fa semplicemente in ragione del fatto che il trattamento,
ovviamente, è inutile, può farlo in virtù semplicemente dell’applicazione della sua volontà. Se
questo stesso presupposto si attua anche nel testamento biologico, ovviamente si può arrivare a
delle conclusioni paradossali, dove ci possono essere delle terapie ancora utili che però, siccome
non sono state previste nel testamento biologico, poi non possono essere attuate. Per cui la via di
prudenza, in questo caso, sarebbe riferirsi solo alle terapie considerate e ritenute, almeno al
momento, sicuramente inutili, e quindi effettivamente si ricade sotto la categoria del rifiuto
dell’accanimento terapeutico. Dico questo perché non è scontato, nel senso che, effettivamente,
per come è stato argomentato da altri autori, il testamento biologico può contenere molto di più.
Cioè, possono esserci delle situazioni in cui, semplicemente, si decide che in alcune condizioni la
persona non desidera vivere, anche se non si è in prossimità della morte, anche se, forse, ci sono
delle terapie ancora da fare, in base al presupposto dell’autonomia o, meglio, di quel modello di
autonomia come integrità, di cui parla Dworkin, in cui rientra anche un certo tipo di immagine di sé.
Non semplicemente autonomia intesa come esercizio della volontà qui ed ora, ma un’autonomia
intesa come difesa della propria identità, della propria immagine, del senso della propria vita, che
porta a rifiutare alcune condizioni, anche indipendentemente dal fatto che si debba essere per
forza di fronte a malattie dolorose e terminali.
Nicola Colaianni
Costituzionalista
Il diritto e la persona
Noi partiamo da questa illusione che ci sia una libertà della persona e, se c’è libertà, vuol dire che
questa libertà sconta che non ci sia una fissità della natura. Laddove ci fosse una natura fissa, una
nostra identità personale fissa, non avremmo una libertà. Stamattina si citava un passo biblico,
quello del “partorirai con dolore”, a proposito appunto della nascita, e potremmo citare anche un
altro passo biblico, per rappresentare il presupposto di molte delle nostre concezioni etiche e
giuridiche in questo campo, laddove si dice che c’è un tempo per vivere e c’è un tempo per morire.
Secondo la visione del Vecchio Testamento, tutto era fisso, ci sono altre espressioni che danno
questa immagine in quel libro, i fiumi che precipitano nel mare e poi dal mare ritornano di nuovo
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sulla
terra
e
così
via.
E così c’è un tempo per nascere e un tempo per morire. In realtà noi abbiamo capito che questa
visione non è esatta, non è corretta, un confine fra la vita e la morte non esiste, i buddisti pongono
un limite di 72 ore, perché credono che la morte è la conclusione di una serie di stadi, quello che è
l’ottavo stadio, e credono invece che la nostra concezione della medicina ufficiale della morte sia
illusoria perché, in realtà lì il momento della morte arriva soltanto al quarto stadio, per dire come tra
oriente, anche, tra filosofie orientali e filosofie occidentali, tra medicina ufficiale – non so come
chiamarla – e la concezione della medicina e della filosofia orientale, esistono delle grandi
differenze, anche per quanto riguarda il momento della morte. La vita biologica del resto continua,
non c’è una vera e propria dicotomia; una volta appunto uno scienziato mi disse: “In fondo, dalla
nascita il cronometro comincia ad andare sempre all’inverso”. Ci sono poi le dicotomie sociali, ci
sono le difficoltà di nascere. Forse una delle cose più interessanti di questo seminario di oggi, è
stata proprio quello di pensare ai problemi e alle difficoltà del nascere, non soltanto dal punto di
vista della volontà della donna di interrompere eventualmente la gravidanza o, prima ancora, di
disgiungere l’atto dell’amore, l’atto sessuale, dall’atto procreativo, ma c’è stata anche la
considerazione della difficoltà sociale del nascere. Oggi è difficile nascere, ed è difficile perché
quando, abbiamo sentito quelle cifre che sono state fatte stamattina, ben la metà, il cinquanta
percento più uno dei bambini che nascono viene affidato alle nonne, ai parenti, perché non ci sono
altri servizi, allora ci rendiamo conto che oggi nascere è molto più difficile di quanto non fosse ieri.
Credo che questo sia un punto molto importante del seminario di oggi. Poi c’è stata l’irruzione della
tecnica, l’artificio: si può nascere prima, si può procreare con assistenza, si può morire dopo,
essere mantenuto in vita, c’è stata l’irruzione della tecnica in tutto questo, e tutto ciò pone difficoltà.
Recentemente, per esempio, il Papa ha detto che la vita va tutelata dalla nascita fino al tramonto
naturale. E qual è questo tramonto naturale? È il tramonto, per esempio, con le macchine, con
l’aiuto delle macchine, è naturale questo tramonto? E perché, invece, non si può allora utilizzare
l’artificio per la nascita, perché la nascita non può essere invece, secondo la stessa dottrina
cattolica, aiutata artificialmente, appunto, con la procreazione assistita? Sembra, in questo, che
giochi molto un’idea della sofferenza, del dolore, che si ritiene connaturata, in fondo, alla
condizione umana. Quel riferimento che si faceva stamattina al “partorirai con dolore”, piuttosto
che essere visto come il mito, come la migliore esegesi ormai dice - si tratta di un mito per
spiegare la condizione umana - viene invece interpretata come una condizione strutturale della
persona. Quindi bisogna davvero partorire con dolore, bisogna soffrire se non si è in grado di
procreare naturalmente, non si può fare affidamento sui progressi della tecnica, però, al momento
della morte, quando ci aspetteremmo che almeno si abbia la stessa concezione, no, lì bisogna
utilizzare fino in fondo questi progressi, e quindi avere quella che potremmo chiamare una
sofferenza di carattere tecnologico, una sofferenza assolutamente ignota fino a venti, trent’anni fa,
e che invece adesso sembra far parte della condizione umana. Allora, riprendendo e tenendo
conto anche di alcune posizioni ufficiali della teologia cattolica, anzi del magistero, del catechismo
cattolico, del magistero pontificio, su questi temi, potremmo dire che sulla nascita e sulla morte,
specialmente sulla morte, non ci sono delle idee molto chiare, molto ben definite. C’è normalmente
un consenso di fondo, almeno in Italia, sul fatto che l’eutanasia sia da respingere. Normalmente si
fa riferimento, quando si dice questo, all’eutanasia provocata attivamente, come giustamente
veniva poco fa ricordato, e questa è anche la posizione, per esempio, del catechismo cattolico.
Non è dappertutto così, in Europa, e si è ricordato il caso dell’Olanda, anche se pure per l’Olanda
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bisogna riconoscere che non c’è un diritto all’eutanasia, un diritto al suicidio, o al suicidio assistito.
È come per l’Italia, diciamo: un diritto di aborto non c’è, c’è una legge che regolamenta i casi in cui
si possa interrompere la gravidanza, che è una cosa diversa dall’affermare senz’altro che esiste un
diritto ad abortire o, come nel caso dell’ Olanda, di un diritto a suicidarsi. Anche in Italia ci sono
posizioni più o meno simili a quella olandese, per esempio quella di Veronesi è un po’ in questi
termini. Normalmente, però, la concezione più diffusa è quella, per esempio, che ancora
recentemente esprimeva il Cardinale Martini in un articolo sul Sole 24 Ore, quando diceva che è
moralmente inaccettabile questo gesto, l’eutanasia, perché è un gesto che intende abbreviare la
vita, causando positivamente la morte. In generale, l’eutanasia, appunto, viene considerata come
una forma di suicidio assistito, quindi suscita la stessa reazione che si ha nei confronti di un
suicida, anche se non in condizioni di malattia, di prossimità alla morte, cioè viene considerato un
atto riprovevole, come si dice, rivolgere la mano contro se stesso, tant’è che in questi casi il diritto
considera un fatto positivo la controviolenza, la violenza di chiunque impedisce all’altra persona di
suicidarsi. Anche se è una controviolenza che in realtà non costringe a continuare a vivere, perché
c’è sempre un’autodeterminazione: del resto, se un suicida ha la persistente volontà di suicidarsi,
poi troverà il modo, comunque, di farla finita. Allora, l’atteggiamento di chi interrompe questa
condotta, si giustifica proprio perché non costringe il suicida a continuare a vivere, ma solo
semplicemente lascia aperta la questione, gli permette di rimeditare di nuovo questa sua scelta.
Ma il problema non è tanto nell’eutanasia attiva, quanto in quella passiva. Certamente, per
esempio, sempre tenendo presente la posizione cattolica come una posizione etica abbastanza
diffusa, al di là di chi crede, anzi ci sono gli “atei devoti” che ci credono ancora di più in queste
posizioni, il problema è che l’eutanasia passiva viene assimilata a quella attiva, perché omettere
una condotta che si ha il dovere morale di impedire, equivale a mettere in atto positivamente
questa condotta. Un po’ è questo il principio giuridico. Però, con il progresso delle tecnologie,
l’eutanasia passiva comincia sempre a meno a differenziarsi dall’accanimento terapeutico, contro il
quale c’è un no corale, sia da parte cattolica, sia da parte laica, non credente, eccetera. Ancora,
recentemente, nell’intervista che ha fatto Marino a Coleman, sull’ultimo numero dell’Espresso, c’è
per esempio il problema della mancanza di alimentazione, della sospensione di alimentazione.
Che cosa è questa? Probabilmente si potrebbe dire, da parte di alcuni: “è un suicidio assistito
perché tu fai morire di fame la persona”. Però, se noi teniamo conto che l’alimentazione in quel
momento è una terapia, allora c’è anche la possibilità di sospendere una terapia che risulti
particolarmente accanita, e senza possibilità di evoluzione. Allora, vedete, nel primo caso
naturalmente si tratta di una condotta riprovevole, nel secondo caso, invece, saremmo tutti quanti
d’accordo nel dire che non si vuole, cito anche qui il catechismo cattolico, non si vuole così
procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire, che è il principio per il quale il povero
Cardinal Martini poi si è ritrovato un po’ messo all’indice, un paio di giorni dopo, da Monsignor
Sgreggia, in un articolo sul Corriere della Sera. Certo, se noi partiamo dalla nozione di
accanimento terapeutico, potremmo anche dire che è una nozione, anche questa, incerta ed
evanescente, per utilizzare le parole di una recente ordinanza proprio sul caso Welby, del giudice
di Roma; cioè ci si può chiedere effettivamente quale sia il confine tra accanimento e
ragionevolezza. Tuttavia il diritto vive di queste nozioni molto aperte, di queste clausole aperte, e
proprio Stefano Rodotà, recentemente, criticando quella decisione, ricordava per esempio alcune
formule che si prestano, certamente, a letture diverse, ma che poi, con l’aiuto della giurisprudenza
si sono andate sempre più definendo nel tempo, come il comune senso del pudore. Qual è? E’ una
formula anche quella generica però, mano mano che sono passati gli anni, sono cambiate le
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condizioni sociali, queste nozioni si sono ben definite. Nel Diritto Civile, c’è la clausola della buona
fede, della tutela dell’affidamento, che secondo la Cassazione è proprio un principio di ordine
pubblico, cioè un principio attorno al quale si realizza la coesione sociale di tutta quanta la
comunità nazionale. Dunque è una nozione non più incerta di tante altre che esistono nel diritto.
Poi bisogna dire che, anche se non c’è una legge che dia tutela specifica, processuale, questo non
ha molto rilievo, quando di fronte c’è la Costituzione. In realtà, l’articolo 32 della Costituzione, che
secondo me è una delle norme più avveniristiche, più chiare, più complete che il nostro costituente
abbia potuto fare, insieme all’articolo 2, all’articolo 3, per esempio, ma io metterei l’articolo 32
davvero sullo stesso piano, quando dice che nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario, se non per disposizioni di legge, evidentemente dice che, in mancanza di
una legge, è il trattamento a cui si vuole obbligare una persona che è illegittimo perché, appunto,
soltanto per disposizione di legge si può obbligare al trattamento. Non lo è invece la richiesta di
interrompere un trattamento, perché questo, appunto, appartiene senz’altro ai diritti indisponibili
della persona. Da questo concetto di accanimento terapeutico, comunque, bisogna tenere sempre
distinto il rifiuto delle cure: sono due concetti molto diversi. Nel caso di Welby, per esempio, il
Comitato per la Bioetica ha ritenuto che non ci fosse accanimento terapeutico nel continuare quelle
cure. Questo non significa nulla: anche se non c’è accanimento terapeutico, rimane l’articolo 32,
con il diritto che esso riconosce a ciascuno di noi a non essere obbligato a determinati trattamenti
sanitari se non, appunto, per disposizioni di legge. Quindi c’è tutto, insomma. Il rifiuto delle cure è
legittimo, abbiamo avuto degli esempi: la donna che non si è fatta amputare la gamba perché non
riteneva dignitoso vivere in quella maniera, e si sa che è morta; la donna che ha rifiutato la
chemioterapia, pur essendo ammalata di tumore ed essendo incinta, però ha voluto proseguire la
gravidanza, piuttosto che interromperla per effetto della chemioterapia. Quindi, il rifiuto delle cure è
perfettamente legittimo e, d’altro canto, bisogna dire che questa norma, ripeto, straordinaria,
secondo me, dell’articolo 32 della Costituzione non solo dice che nessuno può essere obbligato ad
un determinato trattamento se non per disposizioni di legge, ma aggiunge addirittura un altro
controlimite alla legge stessa, perché dice che in ogni caso la legge non può violare i limiti imposti
dal rispetto della persona umana.
Corbellini
Ma allora, scusa, perché c’è stato il caso Welby?
Colaianni
Non lo so... perché abbiamo, secondo me, ideologizzato una storia che, (anche se c’è stata
un’ordinanza del Tribunale di Roma, del giudice, però, che non ha acconsentito all’interruzione del
trattamento terapeutico), dal punto di vista giuridico, costituzionale, perlomeno, a mio avviso, ma
ad avviso di molti, qui c’è il professor Rodotà che potrà dirlo molto meglio di me, non ha
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giustificazione. Poi, se costruiamo le gabbie ideologiche, cominciamo a dire: la vita e la morte…
noi siamo per la vita… la vita è sacra… la vita è indisponibile
Intervento dal Pubblico
Cominciamo però a dire nomi e cognomi, cioè chi costruisce le gabbie ideologiche, cioè non è
“costruiamo gabbie ideologiche”, io non è che riesco a capire bene questo ragionamento.
Colaianni
Io qua ho fatto riferimento in modo particolare al magistero pontificio, ma credo che non sia
soltanto quello perché c’è la stampa, ci sono varie fette della società che si basano e
strumentalizzano anche alcune affermazioni di questo magistero per mandare avanti determinate
concezioni della società. Anche su questo fatto per cui la vita è indisponibile, è sacra, mi ha
sempre colpito quello che disse un gesuita, Carlo Casalone, che è in pratica il vicedirettore di
Aggiornamenti Sociali, una delle riviste dei padri gesuiti, il quale disse a un convegno che, dal
punto di vista biblico, la vita non è affatto sacra, è sacra la vita dell’altro, ma non la propria vita,
tant’è che è scritto, addirittura, che “chi perde la propria vita per causa mia, la guadagnerà”.
Secondo tutta la teologia cattolica, Gesù nel momento stesso in cui decide di perdere la propria
vita redime gli altri. Quindi, anche questi stereotipi “la vita è sacra”, “la vita è indisponibile”, “la vita
non si può toccare”, evidentemente andrebbero in qualche misura riveduti. Certamente il rifiuto
delle cure fonda, ma questo è un altro problema, il cosiddetto testamento biologico, che meglio
sarebbe chiamare però, “direttive anticipate”, nel senso che non possono essere delle decisioni
prese ora per allora, sono sempre delle direttive che poi potrebbero essere, al momento
opportuno, a mio avviso, rivedute in qualche modo dalle persone più care, dagli amici, dai parenti,
con l’aiuto naturalmente dei medici, perché se, per esempio, e questo è il caso fatto da Marino a
cui si accennava prima, se la medicina ha fatto dei progressi tali per cui possiamo ritenere che ci
siano delle speranze di soluzione della malattia, io credo che sia giusto, naturalmente, non
impiccarsi alle direttive anticipate. Allora, in conclusione, io credo che il problema che ci dobbiamo
porre, appunto libertà della persona, è sempre lo stesso, è quello: che cosa è la vita, è soltanto un
dato biologico, è soltanto materia, significa essere tenuti in vita, oppure è qualcosa di diverso? In
questo senso, il dibattito sulla morte si aggancia senz’altro al dibattito sulla nascita, alla
procreazione, alla dignità dell’embrione, eccetera. Oggi sono venuti anche degli accenti particolari,
che sono, direi, caratteristici della comunità scientifica, e che in particolare poi hanno colpito,
diciamo uno per tutti, Habermas, e tutte le sue ultime posizioni sul diritto di autodeterminazione.
Credo che fondamentalmente con quelle posizioni, certamente discutibili, Habermas ponesse con
forza il principio di precauzione, davanti ai tanti progressi che fa la scienza. Di questo credo che la
comunità scientifica debba esserne consapevole, e debba essere anche capace di confrontarsi
con… verrebbe da dire la comunità giuridica, ma può sembrare una rivendicazione di potere della
comunità alla quale io appartengo, quindi diciamo con la comunità politica più in generale. Il
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problema della scienza oggi si pone nel senso che, come tanti filosofi hanno evidenziato, la
scienza è in qualche modo afinalistica, non si pone dei fini, non se li deve porre; probabilmente,
però non si pone spesso neanche il problema degli effetti collaterali. Mi ha stupito, mi ha fatto
molto pensare questo fatto che la macchina della verità tra poco potrebbe essere messa a punto
davvero in maniera definitiva. Ecco, questo è un problema, il problema degli effetti collaterali che
naturalmente lo scienziato in linea di massima non si pone, perché vuole perfezionare al massimo
il risultato di una ricerca, però poi ci sono questi problemi. Forse il primo filosofo che ha posto il
problema della macchinizzazione del mondo, è stato Gunther Anders, e l’ha fatto sulla base del
libretto di quasi cinquanta anni fa, “Noi figli di Eichmann”, e lui mise in evidenza proprio questo
problema dell’uomo che ormai è ridotto a un ingrediente della macchina mondiale, quindi l’uomo
che, poi dirà lui, è antiquato perché ormai fa parte di questa macchina, che non ha fini perché è
diventata essa stessa il fine. Certamente, l’etica allora può sembrare patetica, come spesso dicono
Severino, Galimberti, … e questo è il grande problema del quale noi, penso, ci dobbiamo far
carico. La precauzione allora è riduzione del diritto in questo campo, perché il diritto è per sua
natura presbite, cerca di guardare lontano, cerca di darsi dei fini, il diritto non decide, su certe
questioni, non decide a maggioranza, il diritto non decide l’indecidibile, per esempio la libertà di
autodeterminazione della persona, accetta di non decidere non soltanto la libertà di
autodeterminazione delle persone di oggi, esistenti, ma anche quella delle generazioni future. E
quando decide, è proprio del diritto il bilanciamento dei vari interessi in gioco. Per esempio, proprio
sulla tutela del concepito, c’è una sentenza della Corte Costituzionale, di trenta anni fa, del ’75,
con cui la Corte fece un bilanciamento tra chi è già persona, come la madre – riguardava l’aborto –
la cui salute prevale sulla salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare. Ecco,
vedete come questo sia il lavoro che il diritto fa. Perché, in fondo, la madre è già persona? Perché,
“persona”, secondo il disegno costituzionale, è una relazione, è un’unità sociale, potremmo dire è
un io… in un io/tu: non è un individuo. Su questo, fu nel 1946 trovato l’accordo tra le grandi
componenti dell’Assemblea Costituente, la cattolico popolare, la socialista comunista e la corrente
liberale, cioè proprio sul valore che bisognava dare alle persona, prima ancora che allo Stato. Fu
un ordine del giorno che presentò Dossetti, il 9 settembre del ’46, che appunto sottolineò che è
intorno a questo valore della persona, intesa non soltanto come individuo ma - disse Dossetti, con
grande apertura mentale - anche nel pluralismo sociale che essa subisce naturalmente, che noi
possiamo costruire il nuovo ordine costituzionale, non soltanto sull’ingegneria: repubblica
presidenziale, parlamentare, regionalismo più o meno accentuato, cioè i problemi di cui si stava
discutendo fino a allora, ma invece era su questo dato essenziale. Noi, questo concetto di persona
umana, di unità sociale, di relazione, lo troviamo appunto in alcune norme della Costituzione, lo
troviamo non a caso nell’articolo 32, qui si parla proprio di persona umana e, prima ancora
dell’articolo 32, la troviamo nell’articolo 3, secondo comma, laddove si parla del pieno sviluppo
della persona umana, ed è compito dello Stato, si dice lì, rimuovere gli ostacoli che di fatto si
ergono contro il pieno sviluppo della persona umana. Allora, ecco, se la persona è un io/tu, è una
relazione, si potrebbe dire che si diventa persona con l’annidamento dell’embrione nell’endometrio
materno, prima di allora probabilmente non c’è una persona perché non c’è una relazione. Sotto
questo profilo, potremmo recuperare alcune visioni presupposte dalla Costituzioni, e quindi si
cessa di essere persona quando si sente di non avere più una relazione con la società, e quindi di
non avere più un motivo per vivere dignitosamente - altro concetto che esiste nella nostra
Costituzione – la propria vita. In una conferenza di una ventina di anni fa, Hans Jonas è stato forse
il primo filosofo che ha affrontato questo tema, e allora forse molto provocatoriamente intitolò
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quella relazione come “Il diritto di morire”. Hans Jonas sottolineava proprio questo: che è
evidentemente altra cosa, rispetto al suicidio assistito, o altro, costringere un malato sofferente e
senza speranza, a continuare una terapia di sopravvivenza che gli fa dono di una vita che egli non
ritiene degna di essere vissuta. Ecco, io credo che questo sia un principio fondamentale, quando
affrontiamo questo tipo di problemi, è una specie di bussola, che però ricaviamo non soltanto dalle
parole quanto mai lapidarie, icastiche, direi, di un grande filosofo, ma io credo che ricaviamo
appunto dalla nostra Costituzione. Perché nella Costituzione questo concetto di persona umana,
che deve rimanere sempre relazione, è un concetto fondamentale, ed è un concetto che può
anche guidarci nella ricerca scientifica - questa è sempre l’ambizione del diritto - per dirci quando
quella relazione ancora esiste, e quando non esiste più, ma, appunto, l’autodeterminazione di una
persona nel decidere una cosa del genere, è sempre fondamentale e non ci saranno comunità di
medici, comitati etici o comunità del diritto che la potranno modificare. Potranno probabilmente
indurre ad aspettare, a rimeditare la questione, però la decisione finale poi credo che debba
essere
sempre
ricollegata
e
attribuita
alla
persona.
Stefano Rodotà
Ordinario di Diritto Civile, Università di Roma, La Sapienza
Un momento fa, sentivo che giustamente Gilberto Corbellini diceva: “Ma allora perché è nato il
caso Welby?”, se quell’itinerario così nitidamente tracciato da Nicola Colaianni è quello che
corrisponde allo stato dell’arte, almeno sul terreno giuridico. Devo dire che la Procura di Roma,
con un parere molto nitido, quell’itinerario l’aveva tracciato, ed è quello che si ricava da una
riflessione; io non è che voglio fare l’apologia del diritto come pura tecnica, perché non ci crede
Nicola, non ci credo io, abbiamo lavorato in questi anni sempre tenendo presente che, certo, è una
tecnica, il diritto, ma è una tecnica di regolazione sociale, è una tecnica che risente di una serie di
dati culturali, di dati ambientali, della situazione politica. Così quello che è un itinerario limpido, non
è sembrato tale a una magistrata che non ha in quel momento ritenuto di avere la forza, dico
intellettuale, di misurarsi con una situazione difficile. Per questo io sono critico rispetto a quella
decisione. Io mi ricordo sempre quando Montesquieu parlava della funzione del giudice, diceva:
“La fonction de juge est ainsi terribile par mille raisons” questa funzione di giudicare che è così
terribile. Lui ha fatto il giudice e ne sa qualcosa, ma è vero, è una grande assunzione di
responsabilità, e la responsabilità si deve esercitare. E’ un momento molto difficile perché la
funzione di giudicare, ma in genere, non solo quella del giudice ma la responsabilità del giurista nel
ricostruire il sistema, del politico di vedere quali sono i valori di riferimento, è in questo momento
messa radicalmente in discussione da quello che non è solo un fondamentalismo ma un vero e
proprio dogmatismo, che mette in difficoltà lo scienziato, il giurista, il politico, ed è una questione
che poi preclude anche la possibilità di fare bene il proprio mestiere. Io sono stato molto colpito dai
ripetuti interventi, nell’ordinanza della magistrata di Roma: non se l’è sentita, ha detto questa
frase,… sull’accanimento terapeutico, ma quando poi me la sono ritrovata nella relazione di
apertura dell’anno giudiziario, da parte del Presidente facente funzione, io sono rimasto sbalordito.
Perché qui vuol dire che i giuristi non sanno più fare il loro mestiere, che da una parte c’è
quell’itinerario che noi conosciamo, che è l’itinerario della libera determinazione, che, lo sappiamo
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bene, ma io lo ricordo sempre in questo periodo, il consenso informato, la libertà di disporre di sé è
stato il potente mezzo con il quale il mondo civilizzato occidentale reagì al nazismo dopo i processi
ai medici nazisti; viene fuori nel ’46 il Codice di Norimberga, che mette al centro il consenso della
persona. È un passaggio storicamente rilevantissimo, che noi dobbiamo tenere presente, dico noi
giuristi, perché viene fuori, viene prima delle due Costituzioni che poi di quel tempo sono state le
più consapevoli: la Costituzione Italiana del ’48, la legge fondamentale tedesca del ’49, che non a
caso rompe uno schema costituzionale e mette al primo articolo la dignità della persona. Quella è
la storia, quindi attenzione, coloro i quali mettono in discussione questo, riaprono la strada anche
agli autoritarismi, e ai rischi molto gravi di sopraffazione della libertà. Dico questo perché quei
principi sono ormai consolidati e, quando il magistrato, la magistrata dice: “Io non so poi che cosa
è l’accanimento terapeutico”, dice una… voglio essere garbato perché sono stato piuttosto rude,
pare, in un articolo che ho scritto su Repubblica, ma poi mi pare che fosse giusto, dice delle cose
tecnicamente poco esatte, e fugge davanti alle sue responsabilità. Ha già ricordato Nicola
Colaianni, che ci sono alcuni concetti che non possono essere definiti una volta per tutte dal
legislatore, perché sono figli del clima, del contesto, dello stato delle conoscenze scientifiche:
quello che oggi, o ieri, poteva essere ritenuto accanimento terapeutico, in un momento successivo
può non esserlo perché invece è lo spiraglio verso un’opportunità e, viceversa, quando noi
abbiamo accertato che certi interventi ritenuti terapeutici non funzionano assolutamente, li
facciamo rientrare lì. Questo rientra nella soggettività assoluta del giudice? Per niente. Il giudice
che oggi voglia interrogarsi sull’accanimento terapeutico, ha molte fonti a disposizione: il Codice di
Deontologia Medica, le linee guida dei rianimatori, c’è molto materiale, che consente di dire: tu,
magistrato, devi fare i conti con questa nozione senza bisogno di andare a chiedere al legislatore.
Questo è un punto, a mio giudizio, fondamentale: fino a che punto, in queste materie, noi
possiamo invocare l’intervento della legge,
Gilberto Corbellini
...che cosa è accanimento terapeutico. Ma, se io leggo la Costituzione, e tu me l’hai insegnato,
cioè, che cosa è accanimento terapeutico, se sono cosciente, lo so io; se sono incosciente…
Stefano Rodotà
Lo deve sapere il medico
Gilberto Corbellino
Esatto, sarà un’altra questione, e per questo servono le direttive anticipate, e non voglio nemmeno
che qualcuno le vada a cambiare, se non è qualcuno indicato da me, perché non sarò io a valutare
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l’avanzamento della scienza, vorrei comunque essere io presente. Secondo me, sull’accanimento
terapeutico, stiamo cadendo in una trappola perché nessuno, se non io, posso definire che cosa è
accanimento su di me.
Stefano Rodotà
Allora, su questo voglio essere ancora più radicale di te, e cioè da una parte non è invocato a
proposito l’accanimento terapeutico, quando la persona è consapevole, in quel caso rientra nella
disponibilità. Il discorso sulla indisponibilità della vita è o un’affermazione di pura dogmatica
religiosa, oppure è qualcosa di insostenibile perché, Nicola Colaianni ce lo ricordava,
l’indisponibilità della mia vita da parte degli altri, ma questa è una cosa molto diversa dal fatto che
la vita mi appartiene, e non mi appartiene soltanto per una sorta di, come si dice, lassismo
individualista o individualismo radicale. Perché, chi ha un certo tipo di convinzione religiosa, vedi i
testimoni di Geova, dispone della vita nel momento in cui rifiuta le trasfusioni di sangue, quindi non
è neanche vero che questo sia il portato dell’abbandono di qualsiasi riferimento religioso nella
nostra società. Quindi lì non c’è alcun problema.
In secondo luogo, vorrei aggiungere qualche cosa, nel senso che io posso anche aver individuato,
attraverso le mie direttive anticipate, alcune mie volontà nel caso in cui divenga incapace in quel
momento, ma può darsi che io le abbia definite in maniera tale per cui alcune forme che sarebbero
accanimento terapeutico, io non le ho prese in considerazione. Tuttavia, anche se io non ho fatto
questo riferimento, ma quello è tecnicamente configurabile come accanimento terapeutico, se io
leggo il Codice di Deontologia Medica, e non solo, anche i discorsi di Pio XII nel ’57, io devo
interrompere i trattamenti, altrimenti, attenzione, il medico sarebbe imputabile di violazione del
Codice Deontologico, e quindi passibile di sanzione disciplinare. Io sono ancora più radicale in
questo, perché l’accanimento terapeutico noi lo dobbiamo vedere come una situazione rispetto alla
quale la valutazione ulteriore non c’è. Quando io dico “c’è accanimento terapeutico”, mi devo
fermare e, aggiungo, non è affatto quella nozione incerta, evanescente, di cui si parla
nell’ordinanza di Roma perché se io vado a guardare l’insieme degli strumenti tecnici che vengono
messi a disposizione del magistrato, in questa materia come in infinite altre - non tutto sta nelle
leggi, ci sono protocolli, ci sono standard, gli scienziati lo sanno benissimo - io li trovo: io leggo le
linee guida dei rianimatori e trovo una serie di indicazioni molto precise. Quindi, su questo punto, io
sono d’accordo che noi dobbiamo essere estremamente critici nei confronti di chi, in queste
materie, invoca l’intervento del legislatore perché, o vuole sfuggire alle proprie responsabilità,
oppure vuol fare apparire aperta una questione che già è stata in realtà risolta. Quindi o fa una
mossa politica, oppure è abbastanza ignorante, e non fa il suo mestiere perché non si provvede di
tutti gli strumenti che dovrebbero essere necessari. Poi perché c’è un limite obiettivo, soprattutto di
fronte a quella che si chiama la rapidità dell’innovazione scientifica e tecnologica: non possiamo
affidare tutto al legislatore, perché il legislatore non può vivere una sorta di continuo inseguimento
di quelle che sono le innovazioni che gli vengono dal mondo della scienza e della tecnologia, deve
fissare dei principi in base ai quali, poi, si potranno apprezzare le novità e ricondurle a quei
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principi. Questo è un fatto del tutto ovvio, ormai, tant’è che anche quando si discute del
Parlamento, se sopravvivrà o non sopravvivrà, si dice: ma il legislatore non deve fare ormai
l’amministrazione, deve recuperare la capacità della grande legislazione di principi. Cioè, c’è
questa consapevolezza che purtroppo in questo momento, in Italia, per una sorta di fuga dalla
responsabilità, si vuole imputare tutto al Parlamento. Dobbiamo farlo, questo discorso, con molta
chiarezza, perché i giudici fuggono dalle loro responsabilità. Fugge la Corte Costituzionale di fronte
alla legge sulla procreazione assistita, adesso non voglio entrare nei dettagli ma quell’ordinanza
che ha dichiarato inammissibile la questione posta dai giudici di Cagliari, che potevano pure loro
risolverla, comunque, anche lì, la Corte Costituzionale: dichiara “inammissibile”, e fugge di fronte a
tutto questo. Fugge il Primo Presidente facente funzione della Cassazione, dicendo: “Ah,
l’accanimento terapeutico… ah, il legislatore mi deve spiegare le cose”, no, c’è una ripartizione di
compiti, oggi, all’interno delle organizzazioni sociali che vede i giudici, per esempio, come dei
soggetti che devono concretizzare dei principi che in queste materie sono sostanzialmente ormai
consolidati, tenendo conto, questo è il passaggio essenziale, che ciascuno di noi è padrone della
propria vita. Questo è un punto sul quale noi non possiamo assolutamente ritenere che si possano
fare dei passi indietro. Io voglio rileggere quell’ultimo pezzetto dell’articolo 32, ha ragione Nicola
Colaianni, che ci sono dei miracoli, anche quando si scrivono le leggi o le costituzioni, queste sono
norme che furono scritte fra il ’46 e il ‘47, in un clima difficile ma con una tale sensibilità per il fatto
che la libertà andasse difesa in tutte le sue sfaccettature, e con un tale spirito di comunanza di
valori, che oggi ci colpisce, e i risultati sono importanti. “La legge non può in nessun caso sottolineo tre volte “in nessun caso” - violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”,
quindi c’è qualcosa che non è decidibile neanche dal legislatore. Questo è un punto chiave:
quando siamo su questa frontiera: la persona umana, di cui ciascuno di noi stabilisce il destino.
Non può entrare in quest’area il legislatore, ma non perché noi siamo lassisti, ma perché ce lo dice
la Costituzione Italiana, perché il rispetto della persona umana è qualcosa di inviolabile, e dunque
la persona umana ha questo pieno potere di autodeterminarsi, in queste situazioni. Cioè, c’è
qualcosa di indecidibile da parte della legge; quando questa norma si vuole leggere dicendo che lo
stesso interessato non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, si fa una lettura
che a uno studente che dicesse questo a un esame di diritto costituzionale costerebbe, io sono un
professore all’antica, la bocciatura, perché dico: a chi si riferisce questo “in nessun caso”? La
legge non può “in nessun caso” violare, non è un altro soggetto, perché quel soggetto è lui che
stabilisce qual è il grado di dignità che ritiene di dover affermare. Questo è un punto importante
nella discussione. Se io volessi tirare un po’, ma non troppo, la corda, direi che questa è la
versione dell’”habeas corpus”. L’habeas corpus che cosa era? Era la dichiarazione fatta nel 1215
dal Re di Inghilterra ai suoi cavalieri, dicendo: “Non metteremo la mano su di te”, questa è la
dichiarazione di habeas corpus, cioè: il corpo non te lo toccherò. Allora era la violenza, la tortura,
ahimè tutt’altro che scomparsa. Questa era la promessa. Nel sistema democratico non è il
sovrano, ma il sovrano democratico è l’assemblea costituente che dice ai cittadini: non metteremo
la mano sulla tua dignità. Questo dice l’articolo 32, questo bellissimo, straordinario… io sono
d’accordo, questo articolo sta, nella costruzione del sistema delle libertà, a livello dell’articolo 2 e
dell’articolo 3, non c’è nessun dubbio. Fatto questo discorso, io voglio dire due cose, una riguardo
a questo continuo, insistente e crescente rinvio alla natura inviolabile. Qui c’è un passaggio
anch’esso significativo: ciò di cui si parla come inviolabile nei testi laici - Ciampi chiamò la nostra
Costituzione la Bibbia laica, ed è giusto che sia così - è la persona, la sua dignità. Questo
trasferimento dell’inviolabilità dalla persona alla natura, fa sì che poi la persona non sia più in
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grado di governare èe stessa perché, se io non posso toccare la natura, allora ho un limite perché
io di questa natura faccio parte. Ha scritto un bel saggio qualche mese fa Gian Enrico Rusconi,
che è uscito sul Mulino, proprio su questo punto dell’uso e abuso del riferimento alla natura, e ci ha
ricordato le contraddizioni pratiche che incontra questo modo di ragionare da parte della stessa
Chiesa, perché la “fine naturale” significherebbe nessun trattamento meccanico, nessuno, perché
quello non è nella natura, quello è artificio, per usare l’espressione corrente, quella è tecnica, è
artificio, è manipolazione, chiamatela come volete. E poi perché la natura non deve essere
aiutata… deve essere aiutata lì e non deve essere aiutata nel momento della procreazione? Ma
sappiamo che queste sono contraddizioni che sono il segno, però, di un intento politico,
evidentemente. Allora permettetemi di dare una valutazione su quello che sta succedendo in
questo momento, perché io sono molto colpito dalle dichiarazioni di oggi, non perché siano più
intense di altre… il Papa ha detto che c’è un sovvertimento dell’ordine, e Ruini ha annunciato un
indirizzo per i cattolici. Allora, è un intervento legittimo, è un’interferenza… non ne faccio questione
di parole, io valuto la sostanza e le conseguenze politiche. Quello che è avvenuto stamattina è che
il Pontefice ha aperto un conflitto con il governo italiano: un atto di governo, l’approvazione del
disegno di legge sui Dico è stato giudicato un atto sovversivo. Questo è accaduto. Ora, questo noi
non lo possiamo velare. Ha diritto di parlare, però abbiamo sul tavolo questo fatto. E’ indirizzato ai
cattolici, ma è chiaro che questa volta i cattolici sono in primo luogo i parlamentari che “dichiarano
di essere tali”, ma …permettetemi di dirlo, il conflitto di lealtà che ciascuno di noi si porta dietro, e
che sente fortemente, si porta, ciascuno di noi. Questa volta si dice: il tuo conflitto di lealtà tra
l’appartenenza religiosa e i doveri repubblicani – usiamo questa nobile espressione – cioè di
membro del Parlamento della Repubblica, li devi sciogliere nel primo senso: l’appartenenza
religiosa fa premio su tutto il resto. Questo è un altro passaggio importante, non voglio dire altro.
L’altro punto è che non si può mai sovvertire un ordine di valori, che è indicato dalla Chiesa con il
riferimento alla natura. Ora, anche qui il sovvertimento è fondamentale, cioè la bussola, il
riferimento, la tavola di valori del Parlamento Italiano non è più la Costituzione della Repubblica,
ma ciò che mi dice una entità esterna, anche se dotata del massimo di autorevolezza, che però
con la democrazia ha, diciamolo, poco a che vedere. Ma non perché lo diciamo noi, ma perché la
struttura della Chiesa non è una struttura democratica. Allora, questi fatti credo che aprano una
fase molto impegnativa, anche perché, poi discuteremo a lungo, non so come si farà ad accettare
su questo discutibilissimo disegno di legge l’indicazione della Chiesa, tenendo conto del fatto che
le letture costituzionali non sostengono quel tipo di tesi. Io lo voglio dire per un momento - non per
fare il mestiere un po’ pignolo del tecnico del diritto, ma poi il mio mestiere è questo - ma credo che
serva. Primo, queste discussioni sulla famiglia intoccabile io me le ricordo benissimo quando, tra la
fine degli sessanta e gli inizi degli anni settanta, si dovette riformare il diritto di famiglia. Anche
allora addirittura si sosteneva che la natura della famiglia, società naturale, era quella di essere
gerarchica, quindi neppure si poteva eliminare la norma che diceva: il marito è il capo della
famiglia. Attenzione, si sosteneva che la parificazione dei figli nati fuori dal matrimonio con quelli in
costanza di matrimonio, sia pure prevista dall’articolo 30 della Costituzione, non poteva essere tale
da mettere in discussione i diritti della famiglia legittima… e via andando avanti. Questa
interpretazione chiusa dell’idea di famiglia, allora fu battuta, fu battuta in parte perché ci fu una
cultura meno chiusa, ma fu battuta anche perché nel ’74 ci fu il referendum sul divorzio, perché io
ricordo benissimo, voi siete tutti molto più giovani di me, ma due dei promotori del referendum sul
divorzio, che si chiamavano Gabrio Lombardi e Sergio Cotta, avevano già dichiarato
pubblicamente che avrebbero fatto un referendum – udite! - contro la parificazione dei figli nati
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fuori dal matrimonio con quelli nati in costanza del matrimonio. Con quale spirito di carità cristiana,
io ve lo lascio dire. Be’, non siamo lontani da quel modo di vedere le cose, perché questa
interpretazione chiusa è la chiusura totale al mondo, perché io non voglio usare l’argomento
statistico, ma oggi, o ieri, l’Istat dice che hanno superato i 500 mila le unioni, diciamo, di fatto. I dati
del Comune di Roma, nell’ultimo anno, segnalano una caduta intorno al quindici, venti percento sia
dei matrimoni religiosi che dei matrimoni civili. Dobbiamo chiudere gli occhi di fronte a questa
realtà? Io posso anche capire la risposta che ho sentito, di Monsignor Negri, che è stato
interpellato in una delle tante trasmissioni televisive e gli è stato detto: “Ma perché fate questo in
Italia, perché su queste cose?”, “Sa – semplifico – gli altri paesi sono perduti e in Italia ancora
qualcosa c’è da fare”. Questa è stata una dimostrazione che siamo sul terreno di una partita
dichiaratamente politica, dove la fede gioca in funzione di che cosa? Di quanto la Chiesa può
guadagnare sul terreno della politica. Aggiungo su questo un dato istituzionale importante: uno,
che ormai nessuno può negare quello che sta scritto nell’articolo 2 della Costituzione, laddove si
dice che i diritti inviolabili sono tutelati non solo nell’ambito familiare ma in qualsiasi formazione
sociale, e badate che questa idea delle formazioni sociali entra nella Costituzione per via
democristiana, cioè c’erano molte perplessità di fronte a questa idea comunitaria, diciamo, tra i
liberali e anche tra i socialisti e comunisti, e entra per la forza di persuasione di Dossetti, in
particolare, e di La Pira, quindi, non è che dietro c’è questo spirito laicista pericoloso. Seconda
considerazione: il Parlamento italiano. l’Italia ha firmato, e il Parlamento italiano ha votato la Carta
dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. L’articolo 9 della Carta dice questo: “Il diritto di
sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne
disciplinano l’esercizio”. Questa norma, che è già di per sé eloquente, lo diventa ancora di più se si
considera che è stata scritta, e vi porto diretta testimonianza, perché ho fatto parte di questa
cosiddetta convenzione che ha scritto questo testo, tenendo conto della norma analoga della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del ’50, laddove si diceva che quelli che qui sono
indicati come due diritti, erano un unico diritto, e in più si faceva riferimento al fatto “persone di
sesso diverso”. Nella versione della Carta, primo è caduto il riferimento alla diversità di sesso,
conformemente a quello che è un principio contenuto nel trattato di Maastricht, dove è vietata ogni
discriminazione in base agli orientamenti sessuali delle persone. In secondo luogo, al posto di un
diritto, ce ne sono due, le parole sono chiare, il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia
sono “garantiti”, mentre nella vecchia versione c’era il singolare, quindi ci sono due diritti, uno
riprende la tradizionale struttura matrimoniale, e uno invece che apre a un mondo, che poi sarà
disciplinato, e qui è ovvio perché l’idea di diversità culturale, religiosa, che è affermata anche nella
Carta, può portare, all’interno dei singoli Stati, a delle discipline almeno parzialmente differenziate.
Ma questi due diritti ci sono, e non c’è più una gerarchia, cioè un diritto di serie A, quello del
matrimonio tradizionale, e un diritto di serie B che è quello, chiamiamolo, delle convivenze o unioni
di fatto. Quindi, se noi vogliamo un po’ ragionare, senza essere solo prigionieri delle nostre
ideologie, dobbiamo tener conto che la società è quella che conosciamo, e non possiamo chiudere
gli occhi. Non è, credo, retorica, ricordare che la compagna - io ho sempre un po’ di pudore nel
fare questi riferimenti - la compagna di uno dei morti di Nassiriya non poté entrare alla cerimonia
funebre. “Eh, ma – si dice – quello è stato uno sbaglio”, uno sbaglio, sì, ma nasce da questo tipo di
cultura perché il poliziotto che sta lì, dice: “Qual è il tuo titolo?” “Nessuno” , “Sei la moglie?”. “No”,
“Sei la figlia?” , “No”, allora non entri perché solo i famigliari. Allora, questi sono dati di realtà, la
legge non vale solo per quello che disciplina ma anche per il tipo di cultura che cerca di fare
entrare in un ordinamento. Allora oggi siamo di fronte ad alcuni passaggi nei quali si vuole
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legiferare laddove non ce ne sarebbe bisogno, per restringere le libertà, e si vuole impedire la
legislazione laddove invece avrebbe una funzione di liberazione, perché, rispetto a questo
riferimento forte, il rispetto della persona, del suo consenso, della sua dignità, ci sono due modi di
legiferare, o per aumentare i vincoli, e credo che questo sia non solo antistorico ma anche
contrastante con la Carta Costituzionale che ci siamo dati, oppure per ampliare gli spazi di libertà.
Quando abbiamo avuto la stagione agli inizi degli anni settanta, la legge sul divorzio era una legge
che aumentava gli spazi di libertà; la normativa sull’interruzione di gravidanza aumentava gli spazi
di libertà. In questo momento siamo di fronte a un tentativo di richiudere la libertà individuale in una
sorta di prigione che non ha più le garanzie costituzionali, si sta facendo una revisione
costituzionale impropria e strisciante, le cose che leggo oggi confermano tutto questo. Il che vuol
dire che, come dire, i tempi sono difficili, però nessuno si dovrebbe tirare indietro.
Cioni
Grazie. Saremo tutti in trincea a vivere la battaglia di questi nostri giorni. Tempi duri, siamo
abituati… Comunque, grazie a voi tutti. Ci vediamo al prossimo seminario.
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