Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Libertà della Persona: Nascere, Curarsi, Morire Nuove Conoscenze e Privacy Roma, 12 febbraio 2007 Maria Gigliola Toniollo Cgil Nazionale - Responsabile del Settore Nuovi Diritti Oggi ci dedichiamo alla libertà individuale, e il sottotitolo è “Libertà della persona: nascere, curarsi, morire, nuove conoscenze e privacy”. La libertà della persona di questi tempi è stata messa in discussione da molte questioni, noi siamo stati particolarmente colpiti dalla vicenda di Piergiorgio Welby, dove si parlava di fine vita, di libertà di interruzione delle cure, e questo ha provocato anche un grande dibattito, sull’eutanasia ma anche sul testamento biologico, (che è stato molto spesso sostituito indebitamente al termine ‘eutanasia’ ma si tratta di un’altra questione), e sulla fine della vita: chi decide, se si può o non si può decidere per sé. Siamo reduci, in questi giorni, dall’annuncio di un disegno di legge sui diritti e doveri dei conviventi. Anche in questo caso ci sono stati problemi e discussioni che non sono per nulla terminati; e anche in questo caso la parola ‘laicità’ è balzata in primo piano. Abbiamo avuto, in entrambe queste esperienze recenti (e ci sarebbero infiniti casi ma mi attengo all’attualità), una pesantissima ingerenza delle gerarchie vaticane nel dibattito politico e abbiamo avuto anche dei politici che sono deliberatamente, apertamente, andati in Vaticano disponibili a trattare sui testi di legge per non scontentare troppo la Conferenza episcopale. Questo, per uno stato laico, per uno stato rispettoso delle idee, delle religioni e delle appartenenze delle persone, è una questione molto grave perché parla di ingerenza, parla di un’arrendevolezza a dei dettami esterni, e di uno scarso rispetto del proprio mandato elettorale da parte dei nostri parlamentari. Comunque è un dibattito molto vivo. Stamattina lo stesso D’Alema a un certo punto diceva: non si capisce veramente perché la Chiesa abbia preso queste posizioni così forti, così insistenti tanto da parlarne quotidianamente. Ultimamente non si parla più di grandi argomenti, come la fame nel mondo, dei problemi della guerra, non si parla più nemmeno della pace, non si parla più di niente ma si parla soltanto della famiglia per metterla in contrapposizione e per dire che qualunque legge che riconosca una convivenza non sancita dal matrimonio, la danneggia, la distrugge, la dissacra. E nessuno poi è in grado, però, di spiegare perché, in quale modo. Io personalmente mi sono trovata in diversi dibattiti in cui c’era questa espressione di famiglia attaccata, rovinata e messa a www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ rischio; ma quando poi chiedevo: “Ditemi dove, come. Voglio dire, se i miei due vicini di casa, posto che io sia una famiglia tradizionale, hanno riconosciuto qualche diritto per la loro convivenza, ditemi in che cosa io vengo danneggiata, che cosa mi si toglie”, nessuno poi sa effettivamente rispondere. Peraltro ci sarebbe anche molto da dire rispetto alla famiglia tradizionale rispetto al 95 per cento delle violenze che il Censis ci dice vengono consumate all’interno della famiglia contro i minori e a tutti i fatti tristissimi e disperati che ci riporta la cronaca quotidianamente. Questo termine ‘laicità’ è un termine fondamentale che guida tutta l’iniziativa, ‘laicità’ e ‘libertà’ sono i due termini che sono la ragione di questa fatica che abbiamo fatto perché effettivamente, tra le mille incombenze sindacali (che per altro vedono questa sala non così gremita come dovrebbe essere), abbiamo dato a questi temi una grande importanza, come avviene del resto da anni, perché il mio settore da circa tre anni organizza conversazioni sulla laicità, assieme agli amici di “Critica liberale”. Anche queste sono a disposizione on-line e sono state trascritte. Inizieremo parlando della libertà e salute riproduttiva. Oltre al non nascere, ci interessa molto parlare del nascere e del crescere, di quanto debba essere a disposizione del bimbo e della bimba che arrivano, che devono avere il massimo dell’assistenza e della tecnologia possibile e deve essere poi loro consentito di crescere nella serenità e la donna in particolare, le famiglie, comunque i genitori, non devono trovarsi nell’incombenza di scegliere se avere un figlio o se continuare a lavorare. La società deve essere attrezzata perché i figli possano arrivare e possano essere accolti come meritano. Poi parleremo di come ci si cura, della possibilità delle cure, delle nuove tecnologie, dei test genetici, delle informazioni che ci vengono date, della necessità di porsi dei quesiti sulla tutela della privacy, se è il caso che le informazioni che derivano dalle nuove conoscenze possano essere condivise, con chi e fino a che punto, la personalizzazione dei farmaci e una nuova sfida che si presenta sui controlli del comportamento: il tema della neuroetica. Infine, un discorso molto importante, molto difficile sul quale abbiamo aperto anche queste poche parole, che è il discorso di fine vita: quanto questo appartenga alla persona, quanto non le appartenga secondo alcuni. Ci sarà poi tutta una parte di trattazioni giuridiche e le considerazioni conclusive (si dice così ma poi sono argomenti che non è possibile concludere) di Stefano Rodotà. Mirella Parachini Ginecologa - Federazione Internazionale degli Libertà e salute riproduttiva www.cgil.it Operatori Aborto e Contraccezione Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Io inizio con una riflessione, che mi sembra dire tantissimo di quello che vorrei dire, presa da un libro straordinario, che mi permetto di consigliare a chi non lo dovesse conoscere, che è il libro “Corpo e libertà”, sull’argomento proprio della libertà di scelta dell’individuo a partire proprio dalla rivendicazione delle donne riguardante il controllo della propria capacità riproduttiva e del proprio corpo in tutte le forme. In effetti, questo problema nasce perché, come dice un altro libro che mi permetto di segnalarvi, di Marina D’Amelia, che è “Storia della maternità”, al centro dell’esperienza della maternità vi è il fatto che la donna alleva dei figli che non le appartengono. Io farò dei brevissimi flash per segnalare come l’itinerario di questa disappropriazione del proprio diritto riproduttivo da parte di volta in volta di vari soggetti, sulla donna, è un tema che appunto continua fino a oggi, visto che appunto stiamo ancora parlandone in Portogallo, per esempio. Cito il diritto romano, il concetto di patria potestà, che praticamente nega il legame di filiazione tra figli e madre, i figli che vengono istituiti come eredi vengono proprio considerati come esterni, e questo tipo di negazione del rapporto giuridico di filiazione, che risale ai tempi del diritto romano, lo ritroviamo nell’epoca medievale moderna e si ha in questo periodo per altro un paradosso, per cui tanto più la tradizione religiosa insiste sulla funzione di tale legame, quanto più in termini giuridici si continua a negarlo. In questo c’è anche da segnalare il paradosso della negazione di come avviene il concepimento nel caso della Vergine e quindi di questa sorta di antipatia, avversione rispetto alla sessualità femminile che viene racchiusa nella negazione di un elemento biologico fondante: la gravidanza. Questo si riflette anche sull’allattamento. Nel corso dell’epoca rinascimentale, con molte differenze tra le situazioni città e campagna, però c’èra la grossa questione di staccare i figli dalla madre. Qui vi riporto questo signore che dice: “Sittosto che più non succiano il latte, toglili dal fianco di tutte le donne et precipuamente da quello dell’istessa matre; né lasciagli più a quelle vedere finché non siano usciti de tutta la vezzosa età perché queste nel vero et sono et sempre furo la somma e la massima corruzione dei figlioli sì per li vezzi incomposti sì per l’inepzia della vita”. Questi spunti li ritroviamo ripetutamente. Badate che, in questo caso, stiamo parlando di un signore che prevede che possano essere allattati ma, in moltissimi casi, si evita, con il baliatico, che i figli vengano allattati dalla madre. Quindi ulteriore negazione del rapporto di filiazione. Qui cito un insospettabile, da un certo punto di vista, ma lo cito soprattutto perché c’è una parola che ritroveremo ancora molto aggiornata ed è Montaigne che dice: “È pericoloso lasciare al giudizio delle madri la designazione del nostro successore secondo la scelta che esse faranno dei figli, che è sempre ingiusta e cervellotica, di quel – e qui scandisco la parola benedetta – desiderio www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ sregolato e quel busto malato che hanno al tempo delle loro gravidanze lo hanno nell’anima in ogni tempo”. Ecco, di questo desiderio sregolato risentiremo parlare, ahimè, anche da persone molto vicine a noi. Nella seconda metà dei seicento, la scoperta dell’ovaio e degli spermatozoi rivoluziona le tradizionali spiegazioni ippocratiche sulla fecondazione, quindi si riconosce che esiste una parte femminile e una parte maschile, e si comincia a conoscere il feto nella sua autonomia; anzi, si viene a considerare lo sviluppo dell’embrione e lo sviluppo del feto come un vero e proprio processo senza soluzioni di continuità in cui gli organi si creano per dispiegamento di parti già presenti. Vi cito questa chicca che è: “Il feto è così indipendente dalla madre che il porta come l’uovo lo è dalla gallina che il cova”. Quindi si approfondisce, nel corso del settecento, questa separazione tra feto e madre, e io trovo che è geniale paragonarlo all’uovo che viene covato. C’è una bellissima definizione che racchiude questo dibattito che avviene a livello scientifico in questa fase ma che è avvenuto fino a quel momento a livello teologico, a livello religioso, ed è la definizione del corpo della donna come luogo pubblico. In effetti a questo punto la donna viene considerata come un contenitore vero e proprio di qualche cosa che appunto, come avevamo detto, non le appartiene e che però diventa non solo più figli o anime, come era stato fino a ora, ma diventa un corpo contenitore di cittadini. “I cittadini che sono ancora racchiusi nell’utero materno, non sono anch’essi membri dello Stato, non abbisognano e non meritano essi la protezione dei magistrati?”. Di questo si interroga un consigliere di governo direttore degli affari medici della Lombardia austriaca nella sua opera di polizia medica. Quindi il feto e l’embrione come cittadino. Il dibattito religioso trae da queste scoperte scientifiche una riflessione di carattere teologico sul feto, sulla sua “animazione” e condizione all’interno dell’utero. Vi cito un’importantissima opera di un gesuita del settecento, il Cangiamila, che nella “Embriologia sacra” dice: “È da considerare nascita già lo sviluppo dell’embrione, prima nascita, di cui il mostrarsi alla luce diventa solo un secondo passaggio”. Questo naturalmente mette in discussione il principio di priorità della vita materna che affondava le sue radici nell’immaginario di una vita fetale incerta e imperfetta. Fino ad allora nei parti a rischio la pratica tradizionale o si asteneva dall’intervenire, lasciando fare alla natura, oppure interveniva sul bambino con strumenti quali l’embriotomo o il craniotomo. Queste pratiche ora risultano barbare e ripugnanti, vere e proprie azioni omicide contro cui si invocano apposite leggi. Io non ho voluto caricare troppo questa carrellata ma esistono a questo proposito, per esempio, i documenti su taglio cesareo su donna senza anestesia per salvare un bambino, che sono assolutamente agghiaccianti. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Secondo la teologizzazione di questa nuova entità fetale, abbiamo quindi il dettato che ci portiamo dietro. La madre è tenuta, secondo l’ordine della carità, ad anteporre, alla propria vita materiale, la vita spirituale del bambino. Siamo in piena legge 40, mi verrebbe da dire; ma non solo in piena legge 40. Siamo nel luglio del 2002 quando abbiamo un documento ufficiale che riprende esattamente la stessa argomentazione. “Sappiamo cosa significa il termine aborto sicuro. Quella sicurezza non riguarda propriamente i bambini ammazzati nei grembi materni, convertiti da fonti di vita in sepolcri: la sicurezza riguarda soltanto i rischi di salute della madre, i cui diritti prevalgono sui diritti dei concepiti come se questi fossero appendici e loro proprietà.” In realtà, a livello internazionale di istituzioni e di regolamenti e di mozioni e di documenti ufficiali che ribaltano completamente questo concetto è pieno il mondo. Ve ne riporto qualcuno, però credo che sia accettato e assodato che sono questi i testi cui far riferimento quando si parla di diritti alla salute riproduttiva. I diritti alla salute riproduttiva sono equiparati, a livello internazionale, ai diritti fondamentali che sono i diritti alla vita e alla sopravvivenza, alla libertà e alla sicurezza personale, al trattamento equo, all’istruzione, allo sviluppo e a ottenere lo standard di salute più alto possibile. Esiste una quantità di documenti che contengono affermazioni di questo tipo, dichiarazioni, statement eccetera. Credo che veramente abbiamo la possibilità di pescare da diversissime fonti. Qui vi riporto la conferenza internazionale del Cairo del ’94 in cui si includeva la salute riproduttiva all’interno della parità tra uomo e donna e si includeva il diritto di decidere liberamente e responsabilmente il numero dei figli, l’intervallo delle nascite, la possibilità di avere l’informazione, l’istruzione e i mezzi per farlo. Buona parte dei temi della conferenza del Cairo del ’94 sono stati ripresi dalla conferenza di Pechino nel ’95 in cui di nuovo si ribadisce il concetto che la salute sessuale e riproduttiva è parte dei diritti umani e quindi si fa propria una definizione che dovrebbe essere un punto di non ritorno. Ma arriviamo a noi. Io ho voluto concentrare, a questo punto della mia relazione, la riflessione su queste due situazioni che, secondo me, rappresentano un vero e proprio paradigma della situazione italiana. Paradigma di che cosa? Paradigma di come non abbiamo a disposizione una libertà che ha a che fare con le definizioni che ho dato finora. Sia il caso della pillola abortiva che il caso della legge 40 rappresentano bene che cosa sta succedendo nel nostro paese, e in fondo il motivo per cui il tipo di iniziativa che avete organizzato ha ancora molto senso. Allora, voi vedete qui le tappe di questo farmaco, che si chiama mifepristone o Ru 486 dal nome della Roussel Uclaf che per prima lo ha prodotto. Siamo quindi quasi a vent’anni dall’introduzione in commercio di questo prodotto e nel settembre scorso ancora stavamo alla sospensione non dell’utilizzazione ma della sperimentazione del farmaco che ha quasi vent’anni di storia. Quindi credo che questi rappresenti bene e raffiguri bene anche la presunzione ideologica di anteporre www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ alla buona pratica clinica, a tutta una serie di considerazioni che dovrebbero entrare nella gestione di un tema squisitamente di ordine medico, una questione ideologica. Il percorso della Ru 486 in Italia è un percorso accidentatissimo, e non l’ho voluto riproporre tutto. Ho riproposto soltanto la prima ordinanza del ministro della Salute che ha cercato di bloccare una sperimentazione che era stata accettata dal comitato etico regionale (perché, nel caso del Sant’Anna di Torino, il comitato etico dell’ospedale coincideva con il comitato etico regionale). Ebbene, la prima ordinanza ha tentato, sulla base di obiezioni legali, sulla base di una presunta incompatibilità con la legge 194, di bloccare la sperimentazione. Ma vi riporto anche, alla fine di questo percorso, l’ultima sospensione, in cui non si sospende la sperimentazione sulla base dell’efficacia del farmaco, la cui validità è ampiamente dimostrata in Europa – dice il documento della direzione dell’ospedale Sant’Anna –, ma all’origine della decisione c’è la violazione del protocollo che prevedeva per le donne sottoposte al trattamento tre giorni di ricovero. L’80 per cento delle pazienti studiate fino a quel momento aveva usufruito del permesso di lasciare l’ospedale. E’ evidente che se anche il protocollo prevedeva la permanenza di tre giorni in ospedale, e questo ci dà il sentore di cose che abbiamo appena citato della storia passata, non si può certo pensare di impedire alla donna sotto sperimentazione di usufruire di quello di cui qualunque paziente può usufruire e cioè la possibilità di firmare volontariamente e di andare a casa. Questo invece è stato il motivo per inficiare i risultati della sperimentazione. Allora è evidente che qui il problema è un atteggiamento punitivo nei confronti della paziente che richiede l’aborto farmacologico perché erroneamente si pensa che l’aborto farmacologico sia una scorciatoia, sia qualche cosa che rende più accettabile l’aborto rispetto all’aborto chirurgico. Non è questa la sede per discutere di questa questione, che pure è molto discutibile. Sicuramente ci può essere, per una parte di pazienti, la preferenza di un’anestesia generale, per esempio, e di un intervento chirurgico che dura pochi minuti rispetto a un’altra categoria di pazienti che può invece preferire una non chirurgizzazione dell’intervento e quindi l’assunzione di un farmaco che però rende più lunga la trafila visto che si tratta di prendere, in realtà, due farmaci: il primo farmaco per interrompere la gravidanza; e, dopo due giorni, il secondo farmaco per espellere il prodotto del concepimento. Quindi rimane una questione di possibilità di scegliere e di diritto di scegliere. Vi riporto qui un importante elemento di riflessione, che è un trial clinico che ha preso in considerazione i tre paesi tra quelli che per primi hanno introdotto la Ru 486 nella loro pratica clinica, che sono la Francia, la Gran Bretagna e la Svezia. È stato fatto uno studio retrospettivo per www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ vedere se l’introduzione dell’aborto farmacologico avesse, in qualche modo, aumentato il tasso di abortività che è il numero di interruzioni volontarie di gravidanza per mille donne in età fertile. Ebbene, i dati non danno alcuna indicazione in questo senso. Un raffronto tra i tassi di abortività nell’87 e a distanza di dieci anni nel ’97, vi fa vedere un tasso assolutamente invariabile di 13 per mille donne in età fertile. In Inghilterra il tasso è maggiore ma non è questo in questo momento che ci interessa: quello che ci interessa è vedere che anche qui dopo dieci anni di introduzione del mifepristone, non c’è modificazione del tasso di abortività. Ho voluto qui riportarvi la lista dell’Ru 486 o del mifepristone, per meglio dire, all’interno dell’ultimo aggiornamento dei farmaci essenziali secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. L’ho voluto fare perché stiamo parlando dell’impossibilità, per le donne italiane, di far ricorso a un farmaco che viene considerato un farmaco essenziale dall’Organizzazione mondiale della sanità. La cosa però carina di questa diapositiva è che hanno aggiunto che fa parte sì dei farmaci essenziali ma laddove è permessa dalle leggi nazionali e dove è culturally acceptable, cioè culturalmente accettabile. Questo mi sembra che, dal punto di vista Organizzazione mondiale della sanità, in qualche modo traccia un chiarimento per tutti e la spiegazione al quesito che mi stavo ponendo e cioè evidentemente il mifepristone non è culturalmente accettabile nel nostro paese. Inutile dire che le linee guida delle maggiori società di specialisti, quindi la società inglese, la società americana, la Federazione internazionale dell’ostetricia e ginecologica, così come l’Fda che dal 2000 l’ha approvata e l’Oms, prevedono il ricorso nella gravidanza precoce al mifepristone. Questo penso che tutti qui lo sappiamo ma mi sembra necessario ricordarlo perché stiamo parlando di sperimentazioni bloccate, di ordinanze che sospendono qualche cosa che è raccomandato nella buona pratica clinica da queste istituzioni. Quindi non è che stiamo parlando del solito desiderio smodato di cui sopra della donna. Che cosa è successo, in effetti? Che la scelta del metodo farmacologico verso la scelta chirurgica, si è andata a sostituire, in fondo, allo storico dibattito sull’aborto sì, aborto no; e se voi vedete tutta la letteratura e gli argomenti usati dalle organizzazioni antiabortiste oggi, il metodo e quindi la contestazione della pillola abortiva (della kill pill, della pillola di Caino, come è stata chiamata), in qualche modo ha concentrato e attualmente concentra quella che è la vera discussione e cioè aborto sì, aborto no. Io devo dare atto all’ex ministro della salute Sirchia che evidentemente conservava pur sempre un atteggiamento di tipo medico, di una molto più ragionevole e accettabile posizione, e cioè che si usi un mezzo meccanico o si usi uno strumento chimico farmacologico, a chi è contrario alla cosa in sé non fa alcuna differenza. Quindi non confondiamo il dibattito sul metodo con il dibattito sulla sostanza, che è quello che è successo in Italia e che continua a succedere. Non solo in Italia, per la verità; però quello che è successo in Italia rispetto agli altri paesi europei è che di fatto il farmaco non è commercializzato. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Riporto velocissimamente l’articolo 15 della 194 (che ormai veramente è sempre di più una legge vecchietta che sta resistendo ai colpi del tempo) in cui era già prevista, nel ’78, la possibilità che venissero introdotte delle tecniche più moderne e più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna. Quindi basterebbe l’applicazione della 194, senza scomodare chissà quante altre cose, per ottenere la possibilità di avere quella che è una pratica comunemente usata. Qui risentiamo le parole che riecheggiavano nella frase di Montaigne. E da parte di chi? Da parte di un nutritissimo gruppo di donne (che a suo tempo avevano anche partecipato alla discussione e alla battaglia sull’aborto) che, coniugando la questione aborto con la questione procreazione medicalmente assistita, sono cadute, secondo me, nel trappolone del “Oddio, questa donna può veramente decidere lei” e hanno aperto questo dibattito che si può trovare, perché c’è una raccolta di tutti gli articoli che sono stati pubblicati in quel periodo (siamo nel febbraio del 2005, quindi all’indomani dell’approvazione della legge 40) in cui si leggono delle cose veramente incredibili da parte di persone che pure si sono battute per queste questioni. Legge 40. Il secondo paradosso. Sappiamo tutti che è stato detto, durante la battaglia parlamentare e la discussione della legge al Senato, in particolare, ma anche alla Camera e poi durante la campagna referendaria, che questa legge avrebbe diminuito il numero di gravidanze portate a casa con la fecondazione assistita. È assolutamente vero, perché intanto già è ridotto il numero dei soggetti che possono ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. Quindi anche solo con questa spiegazione diminuirebbero le gravidanze perché è diminuita la possibilità di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Sapete che le donne devono essere parti di coppie sterili, non è ammessa l’eterologa, quindi tutta una parte di cause di sterilità viene negata, e poi c’è anche l’impossibilità di fare una diagnostica preimpianto e quindi l’impossibilità di accedere a queste tecniche da parte di persone non sterili ma portatrici di anomalie genetiche trasmissibili. Quindi in tutta Europa, con il miglioramento delle tecniche di fecondazione assistita, abbiamo un aumento delle gravidanze; noi in Italia abbiamo, per la prima volta, una riduzione significativa del numero delle gravidanze. Quando si vanno a vedere i numeri, la riduzione può non sembrare così importante ma, da un punto di vista clinico, questo si traduce in centinaia di gravidanze in meno, quindi in meno bambini, e, da un punto di vista analitico, la alta significatività dei dati conferma che i limiti imposti dalla legge hanno avuto un chiaro effetto. Non sono io a dirlo: lo dice una tra le più qualificate esperte del settore che è la professoressa Anna Pia Ferraretti. L’altra questione, che è di una cattiveria che si ricollega alle cose dette all’inizio, è che l’impossibilità di non trasferire gli embrioni prodotti obbliga a trasferire degli embrioni che già si sa non potranno essere portati a termine come gravidanza. Quindi è aumentato il numero degli aborti precoci. E un trattamento, che sappiamo essere estremamente frustrante, di procreazione medicalmente assistita, quando esita in un aborto precoce è ancora più frustrante che non quando www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ non c’è nessuna gravidanza, e chiunque di voi ha avuto esperienze in questo senso lo potrà testimoniare, come sicuramente vi posso testimoniare io dalla mia pratica clinica. L’inevitabile conseguenza è l’aumento del turismo procreativo. È abbastanza recente una conferenza stampa che ha riportato uno studio del Cecos, che è stato fatto su dei centri internazionali tra quelli dove più spesso vanno gli italiani, che dimostra come le presenze degli italiani dopo la legge 40 sono quadruplicate. Io non ho riportato i costi dei vari centri, che pure nella ricerca del Cecos sono ben documentati. Quindi lo segnalo a chi volesse interessarsene. Dunque noi volevamo una legge che favorisse le coppie infertili, che favorisse il miglioramento all’accessibilità dei trattamenti ma, a due anni dall’entrata in vigore (questo è un documento dell’anno scorso), i dati disponibili dimostrano che la legge 40 non ha perseguito queste finalità ma ha soltanto creato ostacoli alla soluzione del problema e – dice ancora la Ferraretti – “ci auguriamo – e qui viene l’ultimissimo passo da fare – che i nostri politici accolgano rapidamente le nostre richieste di modifica della legge 40”. Tralascerei il problema degli embrioni abbandonati se non per segnalare che la legge 40 prevedeva il censimento, finalmente, sia dei centri di fecondazione medicalmente assistita sia degli embrioni cosiddetti orfani e cioè non rivendicati da nessuna coppia. Si è parlato di questa strage di embrioni abbandonati eccetera; in realtà, nel censimento, è venuto fuori che sono molti ma molti meno di quello che si era previsto. Anche l’accademia dei Lincei si era espressa a favore dell’uso degli embrioni in sovranumero a fini di ricerca rispetto alla prospettiva di una sicura distruzione. Ma questo era il passetto con il quale volevo concludere, e cioè la dichiarazione del ministro Turco del 6 febbraio alla conferenza sulle mutilazioni genitali femminili in cui si ribadisce quello che si ribadisce in tutti i documenti internazionali, e cioè che ogni donna deve sapere che solo lei può decidere della propria vita e del proprio corpo; ma il giorno dopo, il 7 febbraio, viene, in qualche modo, disturbata questa dichiarazione dalla dichiarazione che il ministro della Salute fa dicendo: “Non modificherò la legge sulla fecondazione assistita: non mi compete e non è nel programma di governo”. Ho riportato questa mattina in fretta e furia questa ultimissima notizia, perché c’è Donatella Poretti che lo ha riportato sul suo sito, e cioè che è stata annunciata la revisione delle linee guida della legge 40. Anche questa sembra tanto una via all’italiana perché non si capisce per quale motivo se la legge contiene dei mostri non si debba modificare la legge e invece si debba invocare le linee guida per cercare di introdurre delle riparazioni a queste storture. Ultimissima è questa notizia che stavamo commentando, che è una bella notizia, una notizia www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ importante, e cioè il fatto che, nonostante non sia stato raggiunto il quorum, l’espressione della volontà popolare con il referendum in Portogallo è stata a maggioranza per la depenalizzazione e per una legge sull’aborto. Quindi il premier Soares, socialista, ha affermato che il risultato è inequivoco e l’aborto cesserà di essere un crimine in Portogallo. Questa veramente è una buona notizia. Ne approfitto solo per ricordare che il Portogallo era uno dei paesi in cui, appunto, le donne avevano come prospettiva di andare nella vicina Spagna, naturalmente, ma c’è un’interessante iniziativa da anni che si chiama “Women on waves”, che vuol dire “donne sull’onda” ed è una nave che era nelle acque extraterritoriali del Portogallo su cui appunto era attrezzata una vera e propria clinica dove praticare le interruzioni di gravidanza. Quindi siamo contenti per il Portogallo. Qui chiudo non senza avervi segnalato in questa diapositiva una curiosa immagine, e l’orifizio di questa veste in cui è scritto “Dieu le veut”, “dio lo vuole”, per introdurre quanto andasse introdotto. Donatella Poretti Segretaria della commissione Affari sociali, componente della Commissione Bicamerale Infanzia Nascere, crescere Quando mi è stato chiesto di intervenire a questo convegno su questo argomento: nascere e crescere, ne sono stata molto felice anche perché è una materia che mi vede coinvolta sia politicamente che personalmente da poco più di undici mesi. È un calcolo che faccio facilmente perché mia figlia ha appunto undici mesi. Ovviamente il privato, in questo caso, si va a confondere e diventa anche occasione e spunto proprio per interventi pubblici e anche per fare politica su questo argomento. Del resto poi io credo che se la politica non si occupa della vita dei cittadini, a cosa servirebbe? Potrei anche invertire la domanda e dire: a cosa servono dei politici che non hanno una vita privata dove anche testano le leggi e le norme e si vede se davvero poi queste funzionano nella vita di tutti i giorni? Uscendo da questa doverosa premessa di pubblico e privato, provo a tenere un unico filo che è quello cronologico. Partorire, praticare in Italia un parto senza dolore e le difficoltà che ci sono e poi, una volta che hai www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ partorito, ti ritrovi questa creatura e la vita completamente scombussolata. Per chiudere con una sorta di domanda che rimane aperta: la donna è davvero libera poi, una volta che ha avuto un figlio? Ed è davvero libera, per esempio, di continuare quella che era la sua vita precedente anche lavorativa, anche di impegni vari? E la società com’è che si mette di fronte a questa donna che ha scelto di avere un figlio? Del parto senza dolore se n’è parlato molto nell’ultimo anno, credo davvero se n’è parlato abbastanza, e mi auguro che ci sia anche un intervento a questo punto da parte del legislatore. Nella mia commissione Affari sociali è in discussione un testo sul parto. Del resto già nella scorsa legislatura ne avevano dibattuto, era uscito un testo molto pesante, molto lungo che, per certi versi, ora ereditiamo, mischiato a un disegno di legge del governo del ministro Livia Turco. La scorsa legislatura comunque non era approdata a nulla. La motivazione è quella classica: mancanza di fondi. Ora mi auguro che questa volta i fondi si vogliano trovare, perché tanto è solo ed esclusivamente una questione di volontà politica: quando si vogliono, i soldi si trovano sempre. E il fatto che ci sia anche un testo del governo per certi versi ci dovrebbe tirare un pochino più su di morale. Il nome che è stato dato a questo testo (per ora siamo a un testo unificato ancora molto in itinere, quindi non ben definito, però dovrebbe già indicare quella che è la direzione) è: “Norme per la tutela dei diritti della partoriente, la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della salute del neonato”. Varie finalità, però il punto un po’ centrale è quello di intervenire su un eccessivo ricorso che c’è in Italia al parto con il taglio cesareo e di iniziare a parlare di parto senza dolore, e di iniziare a parlarne dando i soldi perché ci sia l’anestesista in sala parto, perché questo è il passaggio ovviamente fondamentale. Poi certo, c’è bisogno di farne promozione, di parlarne con le donne, però il passaggio principale è quello, cioè inserire tra i Lea, i livelli essenziali delle prestazioni a carico del sistema sanitario nazionale, l’epidurale. Infatti nella legge si scrive testualmente: “Nel quadro di una sempre maggiore umanizzazione dell’evento nascita mediante il controllo e la gestione del dolore nel travaglio parto”. C’è un’attenzione particolare, tra l’altro, che viene rivolta al diritto della donna di vivere questo evento del parto in un contesto umanizzato e sicuro, e quindi garantendo la possibilità di fruire di uno spazio riservato dove possono avere accesso le persone con cui la donna abbia deciso di condividere l’evento, anche perché qui si va di regione in regione ma anche di ospedale in ospedale e la donna si trova in situazioni completamente differenti. Delle volte anche di momento in momento: c’è un’infornata di donne, sala travaglio con cinque o sei donne che urlano e un evento che io definirei traumatico, più che lieto; oppure invece ti trovi in una situazione ideale, piccola stanza, la possibilità di avere accanto la persona con cui desideri condividere l’evento, una sorta di salottino, anche perché poi sono diverse le ore che uno si trova a passare lì. Quindi credo che sia fondamentale cercare di renderlo il più umano possibile. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Una cosa che sta scritta in questo testo di legge, e che per il momento mi trova decisamente contraria, e che non vorrei davvero che passasse, però questo è un dibattito aperto, è la possibilità di prevedere il parto a domicilio. Io credo che il parto debba avvenire in delle strutture sanitarie laddove è possibile. Ovviamente se succede in un ascensore, succede; però programmare nel 2007 un parto in casa, sinceramente non lo vedo utile. Purtroppo ancora si muore di parto, ancora il bambino muore appena nato, sono cose che capitano. Avere a disposizione le attrezzature, medici e tutto quello che è possibile per cercare di salvare la vita alla donna o al bambino, credo che sia un’opportunità da utilizzare. Invece che prevedere di far partorire delle donne a casa, credo che gli ospedali e le sale travaglio dovrebbero diventare delle sorte di piccole case, cioè renderle il più umane, il più friendly possibile, la situazione più idonea in cui uno si dovrebbe trovare. Ma torniamo all’epidurale. I dati dell’ultimo rapporto dell’Istat del giugno 2006 parlano chiaro: l’Italia è il paese con il più alto numero di parti con taglio cesareo dell’Unione europea. La percentuale è pari al 35,2 per cento, cioè oltre il doppio della quota massima o comunque consigliata dall’Organizzazione mondiale della salute, che è il 15-20 per cento. È evidente anche uno stacco rispetto ad altri paesi dell’Unione europea: il tasso medio di cesarei è infatti del 23,7 per cento. Stati Uniti e Canada si attestano rispettivamente su 27 e 21 per cento. Insomma, noi abbiamo un dato che è qualcosa che dobbiamo affrontare, non si capisce perché in Italia ci dovrebbe essere questo alto ricorso. E l’ipotesi di inserire e promuovere il parto senza dolore è strettamente legata all’ipotesi di far calare il ricorso al taglio cesareo. Ma la vicenda del parto senza dolore è, per certi versi, sintomatica. Nel 2001 l’allora comitato di bioetica, sollecitato dall’allora presidente del Consiglio che era Giuliano Amato, dedicava un intero capitolo al dolore nel parto e si scriveva che la decisione se praticare o meno questa anestesia deve essere riservata a ogni singola donna sulla base di un’informazione corretta sui vantaggi, i rischi e le possibilità delle due soluzioni. E ancora si evidenziava come il diritto della partoriente di scegliere un’anestesia efficace dovrebbe essere incluso tra quelli garantiti a titolo gratuito nei livelli essenziali di assistenza. Sono passati sei anni. Il documento e le sue raccomandazioni, appunto sollecitate allora da Amato, non sono ancora diventate realtà. In gran Bretagna e in Francia questo tipo di anestesia viene utilizzato dal 70 per cento delle partorienti; negli Stati uniti il 90 per cento. In Italia addirittura esistono pochi dati. Dati Istat, quindi concreti e affidabili, risalgono al 2001 e, tra l’altro, si forniva anche uno spaccato sociologico delle donne che fanno ricorso al parto senza dolore. Il 63,3 per cento delle partorienti non è stato sottoposto ad alcun tipo di anestesia; soltanto nell’11,2 per cento dei parti spontanei è stata fatta l’anestesia: il 7,2 per cento locale e il 3,7 per cento epidurale. Qui appunto si parla del 2001. Che succede? Che la diffusione in Italia del parto senza dolore è decisamente affidata alla buona volontà delle strutture e dei Piani sanitari regionali. Proprio prima di partorire avevo collaborato a fare un’indagine con un’associazione per i diritti degli utenti e consumatori nella Toscana. Si pensa che funzioni sempre tutto in Toscana: come l’Emilia www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Romagna, sono le due regioni che vengono sempre prese a modello. Bene, nella Toscana, nonostante ci sia un piano regionale 2005-2007 dove si fa un esplicito richiamo al fatto che la donna possa scegliere questo tipo di parto, il parto senza dolore, poi nella pratica diventa praticamente impossibile. Soltanto nel 36 per cento dei punti nascita è possibile – sto parlando della Toscana – partorire con l’epidurale su richiesta della paziente e in maniera gratuita. E’ possibile, però in teoria…nella pratica è impossibile farlo. Ma di più: nel 57 per cento non è proprio previsto, cioè la donna non ha diritto di scegliere un parto senza dolore in Toscana, nonostante che nel piano regionale ci sia scritto che la donna ha il diritto, perchè gli ospedali non sono decisamente attrezzati. Ecco quindi perché è fondamentale inserire il parto senza dolore nei livelli essenziali di assistenza. Si è aperto, per assurdo, in questo strano paese, anche un dibattito se sia giusto o meno che la donna possa scegliere un parto senza dolore. Polemicamente si può anche citare il fatto che a parlare di dolore nel parto c’è un vecchissimo testo, cioè quello della bibbia, che cita la donna che partorirà con dolore, e poi da lì è stata costruita tutta una cultura sul dolore nel parto, non solo nel parto ma nel parto ancora più accentuato, di quanto il dolore sia quasi una guida, che indica anche al medico qual è il percorso che deve essere seguito. Per cui ci si ritrova davvero anche a scontrarsi da un punto di vista quasi ideologico se sia giusto o non sia giusto partorire senza dolore. Dopo di che si inseriscono le difficoltà pratiche e poi anche le obiezioni tecniche. Addirittura io ho sentito ginecologi dire: “Attenzione. L’epidurale è pericolosa: si può rimanere paralizzati”, che è un po’ come dire: non ti operare di cuore che, a un certo punto, ti ci potrebbero rimanere le forbici e ti richiudono e muori. Certo, tutto può succedere. Se una prassi viene male realizzata, è certo che ti può succedere qualcosa ma del resto, appunto, si muore di parto. Quindi che il parto in sé non sia un evento così tranquillo ma sia un evento duro e traumatico, questo è senza ombra di dubbio. Quindi l’obiettivo non è di imporre questa modalità ma di iniziare a parlarne, di iniziare a dire che è possibile partorire senza dolore, è possibile farlo e dovrebbe essere diritto della donna di scegliere di fare un parto senza dolore, senza essere criminalizzata, senza far sentire la donna che non vuol avere il dolore durante il parto come se prendesse l’appuntamento dal parrucchiere, vuole fare una cosa veloce senza provare dolore. No, è possibile farlo e non vedo che male ci sia nel cercare di vivere nella maniera più serena e felice un evento che dovrebbe essere un evento felice, ma che delle volte non lo è così tanto e non lo è al punto che fa anche decidere di non rifare altri figli, perché delle volte è veramente mostruoso quel dolore e quello che può succedere. Comunque, nella stessa sala parto, c’è un’altra libertà attualmente che viene negata che è quella della conservazione delle cellule staminali del cordone ombelicale. Strano paese appunto questo qui. Delle cellule staminali del cordone ombelicale ormai ne abbiamo sentito parlare come cellule salvavita, sono le cellule buone contro quelle cattive, quelle embrionali. Quindi quelle bisogna utilizzarle, però per utilizzarle bisogna prima conservarle, bisogna raccoglierle, conservarle, crioconservarle. Bene, in Italia o le doni oppure vengono buttate, non hai alternativa o, meglio, per www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ assurdo anche qui si hanno soltanto delle ordinanze che si sono, nel corso degli anni, ripetute. E se inizialmente appunto si prevedeva solo ed esclusivamente la possibilità della donazione pubblica delle cellule staminali del cordone ombelicale, poi via via si è visto che, per certi versi, si veniva a creare una situazione assurda per cui alcune donne partorivano in clinica per quasi rubarle, come se si facesse un atto illecito: prenderle, infilarle in un sacchetto e mandarle all’estero. Allora, l’ordinanza è leggermente cambiata e si prevede la possibilità di autorizzare questa raccolta delle cellule staminali del cordone ombelicale, raccolta che è possibile quindi fare in Italia con l’autorizzazione del centro nazionale di trapianti, per cui uno deve fare un colloquio telefonico, tutta una procedura molto macchinosa e complessa però poi, una volta che hai avuto l’autorizzazione, hai l’autorizzazione a mandarle all’estero perché, ancora una volta, in Italia comunque non è possibile fare la conservazione delle staminali del cordone ombelicale. Io ho fatto un’interrogazione su questo argomento (anche perché scade a primavera, mi auguro che questa ordinanza non la rinnoviamo così, con queste modalità) al ministero della Salute per sapere quante sono le cellule staminali, quanti sono i cordoni che vanno all’estero. Dal centro nazionale trapianti si dice che, nell’ultimo anno, con dei dati che sono una continua crescita, sono stati mille e quattrocento i cordoni che sono stati autorizzati ad andare all’estero e, nell’ultimo mese di dicembre, le richieste delle donne che chiamavano il centro nazionale di trapianti per avere l’autorizzazione erano sedici al giorno. Una situazione assurda per cui, fra l’altro, si parlava di una banca privata che avrebbe dovuto aprire i battenti a San Marino perché appunto è possibile farlo. Le donne milanesi sono “fortunate” perché hanno veramente a due passi la Svizzera e quindi, sempre così, tra un sentito dire e un altro, i ginecologi consigliano, già danno il kit per mandarlo in Svizzera senza nemmeno fare tutta la trafila del centro nazionale trapianti perché, tra l’altro, il colloquio telefonico deve avvenire non prima di un mese prima della data presunta del parto. Per cui, se ti nasce prima, il colloquio lo hai perso. E poi è un vero e proprio interrogatorio: perché lo vuoi mandare all’estero? Sei sicura dei rischi, che la conservazione autologa non serve praticamente a nulla, invece la bontà della donazione è un atto di generosità, l’utilità ecc. ecc.? Spesso, tra l’altro, si diceva: “Non si è mai sentito di un caso in cui sono servite per se stessi le staminali del cordone ombelicale anche perché, se un bambino è malato, sono malate anche le staminali del cordone”. Questa è un’altra falsità perché c’è stato uno studio recente, che è uscito su “Nature” o su “Science”, di una bambina nata negli Stati Uniti alla quale sono state conservate le staminali del cordone ombelicale in una banca privata. A tre anni è stata scoperta malata di leucemia. Ha fatto un trattamento di chemioterapia che non è risultato efficace, il tumore è ricomparso. Hanno iniziato a cercare un donatore compatibile di midollo, i genitori e i parenti prossimi non erano compatibili. Hanno continuato ma, non trovando un donatore, già stavano pensando di fare un secondo ciclo di chemioterapia. A quel punto si sono ricordati che avevano conservato le staminali del cordone ombelicale, alla bambina è stato fatto questo trapianto e per il momento ha funzionato. Credo che lo Stato debba promuovere la donazione pubblica. Ciò non toglie che se c’è una richiesta di conservazione per se stessi, non vedo perché negarla; anche perché ricordo che www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ attualmente viene raccolto, negli ospedali e quindi nei punti di nascita in cui è possibile fare la donazione pubblica, e non è possibile in tutti i punti nascita e neppure in tutte le regioni, il 10 per cento dei cordoni ombelicali. Quindi abbiamo una fetta incredibile che viene buttata, un 90 per cento dei cordoni viene buttato. Se questo 90 per cento qualcuno decidesse di conservarlo a proprie spese, non si vede davvero cosa ci sia di male. Torniamo al parto. Finito, donna e bambino escono dalla sala parto, escono dall’ospedale e siamo soltanto all’inizio di quella che è, per certi versi, l’avventura – si dice così – di diventare genitori, di trovarsi comunque di fatto una vita completamente scombussolata a causa della presenza di una bellissima nuova vita . E allora, nel frattempo, si sente: fate figli, sposatevi o quantomeno fate delle coppie di fatto (che poi siano o meno regolate dalle leggi lo andremo a vedere), comunque riproducetevi. È una sorta di mantra che arriva un po’ da tutte le parti; poi a queste indicazioni, non seguono però delle politiche idonee a supportare questa scelta. E che sia una scelta sempre più ragionata è evidente anche dall’età in cui si fanno figli, si fanno sempre più in là e, di conseguenza, si suppone che sia sempre una scelta più consapevole. Io non parlo tanto delle politiche per la famiglia ma le politiche per la donna perché se c’è una cosa di cui si può essere certi è che i figli li fanno le donne. In alcuni casi, se sono fortunate le donne e i bambini, si trovano anche dei papà amorevoli, affettuosi, che collaborano, che danno una mano ma soprattutto all’inizio è certo che c’è la donna. Le conseguenze le vivono le donne sulla propria vita. Questo è senza ombra di dubbio, anche nella vita lavorativa. Qui parlo nella sede della Cgil, quindi siete sicuramente più preparati di me. Io ho visto un dato del quale sono rimasta particolarmente colpita, era un’indagine Isfol Plus del 2005 e si dice appunto che tra uomini e donne ancora c’è una differenza di tipo retributivo in media del 22 per cento e la maternità è ancora la causa principale dell’abbandono del lavoro da parte delle donne. Il 35 per cento delle lavoratrici, infatti, esce dal mercato del lavoro momentaneamente o definitivamente dopo la nascita di un figlio. Questo sappiamo cosa comporta, non soltanto, quell’abbandono momentaneo quanto influisce poi sul percorso lavorativo, sulla carriera di una donna, perché lasciare il lavoro e poi tornare non è come prendersi le ferie un mese: cambia tutto il contesto in cui tu stavi lavorando. Diventare madre è appunto il fattore primario che determina lo scivolamento verso l’inattività o il sommerso femminile, e questo è un altro dato di non diritti, ed è la principale fonte poi di discriminazioni sui luoghi di lavoro. Mandare avanti un uomo o mandare avanti una donna in età fertile, spesso diventa discrimine: se questa mi fa figli, chi me lo fa fare? Tra un uomo e una donna, preferisco mandare avanti l’uomo. Allora, a questo punto, o non si fanno figli per fare carriera oppure ci si organizza in un altro modo. Questo dovrebbe essere il compito di una società “civile”, ossia quello di organizzarsi in altro modo, però gli strumenti che cercano di conciliare la vita privata e la vita professionale per le www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ donne che, in qualche modo, tengono duro e continuano a lavorare dopo la maternità, il dato impressionante è che il 50,5 per cento ricorre alla rete dei parenti e in particolar modo dei nonni, il nido pubblico 17,7 per cento, privato 11,4 per cento (pari, praticamente), il 9 per cento babysitter. L’aiuto del partner (quando prima dicevo che i figli li fanno le donne, non c’è verso) viene percepito dalle donne come occasionale nel 41 per cento dei casi. Questo vuol dire che la condivisione dei compiti all’interno della coppia non è tale da favorire in misura rilevante la permanenza delle donne nel mercato del lavoro. Si inizia anche in Italia a fruire dei congedi parentali da parte degli uomini, sono numeri in crescita. Nel 2004 (anche qui il dato è esemplificativo) era il 24 per cento di uomini che ne fruivano contro un 76 per cento di. C’è anche, per esempio, la richiesta del part-time maschile ma sono dati ridicoli (l’11 per cento). Tra l’altro lo fanno quelli che appartengono a categorie professionali come impiegati e insegnanti, cioè che possono farlo, perché poi il problema è il libero professionista che non può farlo e qui c’è il discrimine tra la donna e l’uomo. Il dato degli asili nido è un qualcosa in cui in Italia siamo veramente a un livello impressionante. Gli accordi comunitari di Lisbona ci chiedono di arrivare nel 2010 ad avere una copertura territoriale di asili nido pari al 33 per cento. Noi oggi non siamo neanche al 10 per cento e siamo nel 2007. Abbiamo tre anni di tempo e, secondo un calcolo fatto dal governo nell’allegato alla Finanziaria, ci vorrebbero 9 miliardi di euro in tre anni. La Finanziaria ha destinato 300 milioni. Il ministro Rosy Bindi, a un certo punto, ha cercato di spiegare che, con una sorta di moltiplicazione dei pani e dei pesci, se tutto va alla meraviglia, se questi 300 milioni vengono moltiplicati a livello regionale e tutto funziona alla perfezione, si arriva al 15 per cento. Quindi stiamo parlando di una sorta di miracolo in cui tutto funziona benissimo e arriveremo al 15 per cento contro il 33 per cento che ci chiede Lisbona. È quindi una sorta di fallimento annunciato non solo perché produrrà la mancanza di servizi per i bambini (perché, sia chiaro, io ora stavo impostando la questione dal punto di vista della donna, però anche al bambino fa bene andare all’asilo nido, fa sicuramente meglio che stare solo con i nonni o con la nonna da sola perché sono anche generazioni differenti. Fa bene stare con le mamme, fa bene stare con i bambini, fa bene stare anche con i nonni ma non solo con i nonni, come invece spesso e purtroppo si ritrovano a crescere i bambini in Italia) ma produrrà anche mancanza di servizi per le donne. Quindi quando si parla di promuovere delle politiche per le famiglie e per le pari opportunità, e quando poi si parla delle quote rosa alle elezioni o a livello delle imprese ecc. ecc., innanzitutto vuol dire permettere alle donne di farle certe cose perché, se non si permette loro, è inutile poi inserire un obbligo di percentuale per legge su quante devono essere elette e su quante devono essere impiegate in un’impresa piuttosto che in un’altra. Per esempio, gli asili nido o i micro-nidi a livello aziendale dovrebbero essere quantomeno un obiettivo e non dovrebbero esserci costi per lo Stato. Potrebbero essere pensate detrazioni fiscali o altro, però almeno quello dovrebbe essere incentivato anche perché, tra l’altro, uno avrebbe la possibilità di tenere i figli vicini nel luogo dove www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ passa la maggior parte del tempo della giornata cioè al lavoro. Invece della pausa sigaretta prendersi la pausa per andare a vedere il bambino, potrebbe credo essere una cosa ritenuta salutare e utile; anche quell’azienda che vuole tenersi la donna perché l’ha cresciuta, perché è una persona che le rende, dovrebbe preferire continuare ad averla in azienda invece che costretta ad abbandonare il lavoro. L’esempio che io continuo a fare e che continuo testardamente a citare come cattivo esempio di come in Italia invece questo non si guardi, è quello della Camera dei deputati. Sia chiaro, non sto parlando dei parlamentari perché già quelli in età fertile sono pochi, quelli che hanno bambini piccoli sono ancora di meno. Quindi diciamo che le esigenze da parte dei parlamentari non ci sono di avere un asilo nido, e infatti è per quello che l’asilo nido non c’è; ma l’esigenza di avere un asilo nido c’è per i dipendenti della Camera dei deputati perché è una struttura gigantesca, è una cosa enorme da un punto di vista di numero di funzionari e lì invece i funzionari sono in età fertile perché soprattutto nelle ultime assunzioni sono davvero moltissime le persone giovani che hanno figli e che potrebbero avere figli e che magari li avrebbero anche più volentieri se sapessero che, in qualche modo, se li potrebbero gestire, anche perché poi lì effettivamente si sa quando si entra ma non si sa quando si esce, non si sa quanto durano le sedute. Quindi è anche difficile programmare i tempi con asili nido in cui invece ci sono degli orari più precisi. Quando io sono arrivata in Parlamento, la scorsa primavera, avevo una bambina di un mese e mezzo e ho deciso – potevo non farlo, questo sia chiaro – di entrare il primo giorno con la bambina addosso e di dire: “Ho bisogno di una stanza dove allattare mia figlia”. Avrei potuto allattarla fuori in un bar, avrei potuto allattarla in un albergo lì vicino, avrei potuto non andare in Parlamento, aspettare il momento dello svezzamento. Mi sarei persa un po’ di soldi della diaria ma – sia chiaro – tutto il resto dei soldi lo avrei avuto lo stesso, non è che dovevo timbrare il cartellino. Il fatto invece di decidere di andare con la bambina era un segnale per dire appunto: “Parliamo sì di quote rosa ma parliamo anche di donne che hanno una bambina. Che fanno?”. Oppure avrei anche potuto fare un’ulteriore tortura, che anche questa purtroppo invece è prevista per molte donne che lavorano che si tirano il latte la mattina, lo mettono in frigorifero e poi lo fanno dare al bambini dalla babysitter. Sinceramente non volevo sottopormi ad alcuna di queste torture e ho detto: “Beh, una stanza dove allattare non mi sembra una cosa così impossibile in un palazzo come quello di Montecitorio”. Invece non è stata per niente facile perché, per il primo mese e mezzo, ho dovuto allattare in infermeria, con i medici che continuavano a dirmi: “A noi fa piacere se vieni qua però qui ci sono i virus e ci sono i batteri e non è proprio il luogo ideale per una bambina di un mese e mezzo”. Insisti, insisti, lettere, letterine continue eccetera, alla fine minaccina soft: “Allatterò in transatlantico se non trovate una stanza”. La stanza alla fine è stata trovata. ‘Stanza’ è una parola grossa, però va benissimo per quelle che erano le necessità, una seggiola, una mini-culletta regalata da un’associazione e una stanza piccolissima ma che fa alla bisogna. In quel periodo mia madre e poi la babysitter venivano, me la portavano, stavo lì, poi andavo in aula. Entra ed esci e vai. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Il problema è che sono dieci anni che c’è una delibera della Camera dei deputati che dice che la Camera può e dovrebbe avere un asilo nido ovviamente per soprattutto i dipendenti. Si sta parlando di una realtà di circa duemila dipendenti, se ci mettiamo i 630 parlamentari (comunque sono 630 persone che, a parte gli scherzi, alcuni hanno dei figli piccoli), gli assistenti, gli addetti stampa, i giornalisti accreditati… Insomma, una struttura gigantesca che da dieci anni ha una delibera che prevede di fare un asilo nido e non lo fa, c’è qualcosa che non funziona. Quello stesso posto che parla di quote rosa, di pari opportunità, di politiche per la famiglia, poi non dà il buon esempio. Allora si continua a mantenere un salone gigantesco per il barbiere, però che non si possa riuscire a mettere in pratica questa storia dell’asilo nido è qualcosa di impressionante. Non vogliamo metterlo a Palazzo Montecitorio? È pieno di palazzi, la Camera dei deputati si è estesa nel centro di Roma in maniera impressionante: Palazzo Marini, vicolo Valdina, Sammacuto, ci sono i palazzi dei gruppi. Se si vuole trovare una stanza la si trova, ovviamente. La nuova presidenza della Camera di Bertinotti, a differenza di quella precedente di Casini, che proprio aveva deciso di affossare l’argomento, ha già (anche se…è già passato un anno) affidato la pratica alla vicepresidente Giorgia Meloni. Siamo ancora ai sopralluoghi. È passato un anno e siamo ai sopralluoghi. I sopralluoghi sono dieci anni che vengono fatti. Aumentano i sopralluoghi, aumentano i funzionari che devono fare ulteriori sopralluoghi per verificare la disponibilità o meno di quelle stanze. Quindi un anno è perso. Io ho detto: se a inizio legislatura parte anche l’idea di inizio asilo nido, ha un senso. Poi dopo è tutto in discesa. Dopo gli impegni sono altri, poi si inizia a pensare alle elezioni, a come farsi confermare nel proprio collegio, se ci sarà un collegio o se non ci sarà. Questo era un esempio di come funzionano le cose nei posti in cui vengono fatte le leggi per le pari opportunità. Ora, io me lo posso permettere, posso avere la babysitter (ne ho una a Firenze, ne ho una a Roma) riesco a sopravvivere in qualche modo, faccio la pendolare, la faccio fare anche a mia figlia. Lo stipendio di parlamentare mi consente di lavorare, di avere mia figlia con me, quantomeno accudita nei dintorni. Il mio pensiero, ovviamente, e la mia preoccupazione è rivolta a chi ha stipendi decisamente diversi e, a un certo punto, si inizia a chiedere se ha un qualche significato e un qualche senso lavorare per mantenere il bambino o con la babysitter o all’asilo nido, perché spesso si va pari. Lo stipendio viene automaticamente devoluto per l’asilo nido. Credo che spesso la risposta che una donna si dà è che perlomeno momentaneamente sospendo di lavorare. Chi me lo fa fare di tornare a casa stravolta, di non godermi mia figlia e di utilizzare i soldi dello stipendio per pagare che mio figlio non stia con me? Ha un senso darsi questa risposta. Io mi auguro però che siano sempre meno le donne a darsi questa risposta perché poi i bambini crescono, il periodo dell’asilo nido dura poco e poi devi rimetterti in un mondo del lavoro ed è tutto più difficile. Io mi auguro che chi decide di lasciare il lavoro perché ha un figlio e decide di farlo liberamente, www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ ben venga e lo faccia, ma mi auguro appunto che sempre di più questa sia una scelta libera, libera da obblighi che vengono imposti e mancanza di servizi. Oggi così non è, ci si riempie la parola di politiche per le pari opportunità e poi invece non si va ad agire su quei servizi. L’esempio dei servizi dell’asilo nido era soltanto un esempio tra i tanti che si possono fare ma è senza ombra di dubbio fondamentale. Ho chiuso con questa testimonianza anche della Camera dei deputati e di come non si dota di un asilo nido. Perché? Perché è l’esempio di come poi si fanno o non si fanno le politiche. Si danno casomai degli indirizzi e poi, nella pratica, non si mettono in pratica. Gianna Cioni Segreteria Flc Io chiederei se ci sono domande per aprire un po’ di dibattito. Io in realtà ne ho una, quindi magari così rompo il ghiaccio, rispetto all’ultima relazione. Io ho scoperto che in altre nazioni, per esempio il Canada, per dirne una che non è il Nord Europa, c’è un anno di maternità. Mi chiedo qual è la valutazione che si dà sul fatto di aggiungere ovviamente a tutto quello che è stato detto (diritti maggiori per la madre per poter avere una maternità consapevole e per poter scegliere liberamente) anche la possibilità di cambiare la legge per la maternità non come obbligo ma come possibilità. Chiara Lalli Io volevo fare una domanda semplice. Rispetto alla proposta di favorire e di programmare il parto nelle case, sono state fornite delle spiegazioni o, come spesso accade in questi argomenti, è stata fatta una proposta senza che ci sia stato nemmeno il tentativo di dirne le ragioni, vista anche la problematicità della proposta? Antonia Sani Volevo fare una considerazione rispetto all’ultima parte del suo intervento. L’attività di parlamentari non è un’attività lavorativa obbligatoria. Io ricordo che venti, trent’anni fa, cioè all’epoca in cui si sono incrementati a Roma (dobbiamo dire grazie alla prima giunta di www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ sinistra) gli asili nido, essi sono passati dai trenta asili dell’Onmi ai centouno negli anni della prima giunta Argan e poi con Petroselli sono continuati. Ricordo che c’era un dibattito grandissimo e questo riguardava ovviamente le madri lavoratrici con lavori obbligatori che, se lasciati, provocavano tutto quello che prima lei diceva. Noi c’eravamo sempre molto battute perché gli asili nido dei bambini fossero forniti di tutti quei requisiti che dovevano avere, e cioè il giardino eccetera. E anzi il dibattito era: è giusto che, per poter avere il bambino vicino e comodo, naturalmente per la mamma che lavora, si adibiscano ad asilo certi stanzoni? Ricordo in particolare il dibattito con le lavoratrici del Poligrafico a piazza Verdi. Noi eravamo del comitato di quartiere locale e quindi noi ci battevamo perché non venissero adibite stanze e stanzoni che non avessero quei requisiti che hanno gli asili nido. Gli asili nido di Roma sono bellissimi. Purtroppo non sono in numero sufficiente, e questo lo sappiamo. Le mie nuore hanno potuto usufruire tutte e due di questi bellissimi asili nido; anzi una delle mie nuore rappresenta proprio quel tipo di donna che, avendo un lavoro molto impegnativo e molto importante (lei lavora in una struttura bancaria ai vertice, finisce alle dieci di sera molte volte il lavoro), ha avuto un punteggio molto alto al nido. Lei ha fatto questa scelta, non ha lasciato il lavoro. Ha usufruito della maternità consentita, cioè i famosi cinque mesi, e poi si è attrezzata un po’ con me, nonna, un po’ con una babysitter a tempo pieno e ha potuto farlo grazie appunto a una buona retribuzione e i bambini hanno frequentato felicemente un nido vicino a casa. La domanda è: se si tratta di un’attività come quella del Parlamento, e che quindi è ben retribuita, non è possibile forse vedere di inserire un bambino in un nido dove il bambino possa godere di tutti quei vantaggi che sono tantissimi? Io conosco molto bene gli asili nido perché sono stata anche consigliera circoscrizionale, ho presieduto un comitato di gestione per vari anni, sono veramente molto ben attrezzati, con personale, come dice lei molto meglio della permanenza in casa con la nonna eccetera. Quindi, in conclusione, dare al bambino tutto quello di cui il bambino ha bisogno nei primi mesi di vita. Non so come si possa conciliare con un’attività da Firenze a Roma, comunque l’idea era quella di non fare questi micro-nidi a tutti i costi dove non ci sono le strutture adeguate per poterli fare. Maria Gigliola Toniollo Io volevo chiedere in merito ai reparti di neonatologia. Negli ospedali mi sembra che non siano sempre presenti accanto alla sala parto, invece mi sembra che siano di altissima importanza. Lilli Chiaromonte www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Abbiamo la conferma che per una donna scegliere di fare un figlio è ancora una scelta eroica rispetto poi a quanto manca. Io però ho l’esigenza di richiamare un po’ l’attenzione di tutti al fatto che esistono risorse e strumenti che non vengono utilizzati, soprattutto da parte di chi organizza il lavoro degli altri. Quindi, primo: c’è un problema di riflessione che dobbiamo fare rispetto a una maggiore considerazione di che cosa vuol dire concepire, dare alla luce e poi crescere un bambino (cioè tutto il problema della condivisione della fatica, delle responsabilità e dei lavori), ma a mio avviso c’è un problema grosso che riguarda come sensibilizziamo. Noi abbiamo risorse, quelle per i congedi parentali e quant’altro, che non vengono utilizzate. Ci sono imprese che non fanno progetti, non utilizzano risorse che sono disponibili. Secondo. Le imprese ma anche il sindacato. Bisogna contrattare anche flessibilità di orario compatibili e corrispondenti alle esigenze delle lavoratrici, cosa che non sempre viene fatta. Vediamo il part-time che non viene concesso – adesso non voglio entrare nel merito di alcune questioni –. Terza questione grossa. Secondo me – mi rivolgo a una donna giovane e parlamentare – dobbiamo riprendere tutto il discorso della cura, perché oggi stiamo affrontando la nascita, la crescita di un bambino ma c’è un problema di cura più in generale. Prima quest’attività veniva fatta gratuitamente dalle donne del nostro paese e adesso questa cura viene affidata in genere ad altre donne, in genere immigrate, e viene retribuita. Ha cambiato natura, diciamo così, questa attività e io credo che bisogna riprendere questo ragionamento e vedere come inserirlo all’interno della produzione delle norme ma riorganizzare anche un nostro modello di vita e di lavoro. Credo che le donne in questo, per le cose che venivano dette, siano fondamentali. Fiammetta Colapaoli Presidente Proteo Fare Sapere Emilia Romagna Visto che siamo in casa Cgil, io credo che sia necessario anche coniugare questi aspetti che attengono al vissuto femminile, con la politica, con la politica alta. La condizione della donna è peggiorata negli ultimi anni, inevitabilmente. Perché? Per le politiche le politiche liberiste, dal punto di vista economico. Il liberismo ha precarizzato il lavoro e le donne, per la maggior parte, hanno lavori precari. Il liberismo ha ridotto il tempo di lavoro ma per chi? Per le donne. Il part-time – l’abbiamo visto – è prevalentemente femminile. Il liberismo impedisce l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni. Di qui la riduzione dei posti negli asili nido; di qui il www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ blocco delle politiche per lo sviluppo delle scuole dell’infanzia, della scuola, del tempo pieno. Tutto ciò non può che penalizzare la donna che lavora. Questa politica è prevedibile che abbia un’inversione di tendenza? Io credo che non sarà, nei prossimi anni, possibile un’inversione di tendenza che rilanci il pubblico, che rilanci politiche alte. Quindi quali orizzonti per la donna che vuole affermare se stessa nel proprio ruolo all’interno della società? Io credo che l’unica strada sia quella di un forte impegno culturale, anche, senza abbandonare le politiche ovviamente di tutela, quindi costruzione di asili nido, costruzione e ampliamento della rete delle scuole dell’infanzia, ripresa del tempo pieno perché solo così la donna può veramente essere inserita nel mondo del lavoro e partecipare alla pari con l’uomo. Ma questo non basta. Ci vogliono delle politiche alte a partire dalla scuola, a partire dalla formazione, per esempio, che portino l’uomo a partecipare alla gestione della vita familiare. Ecco quindi le politiche – come si diceva prima – sui congedi parentali. Perché, nonostante ci siano queste opportunità, in Italia sono scarsamente fruibili dagli uomini? Perché manca la cultura, manca la formazione. E da dove cominciare se non dalla scuola, se non da quei luoghi ove avviene la formazione del cittadino? Io credo che una riflessione su questi temi sia importantissima. Mirella Parachini Volevo solo provocarvi forse un pochino sulla scia di questo dibattito (non è una domanda vera e propria a qualcuno in particolare ma anch’io sono stimolata dal fatto di essere in questa sede) per fare una riflessione che ovviamente, dato il mio lavoro, riguarda sempre la parte prima della nascita e cioè la gravidanza, perché io non sono molto d’accordo su questa analisi del liberismo. Nel pubblico impiego è patrimonio comune di noi ginecologi che per le lavoratrici con un posto in un pubblico impiego esiste veramente un eccessivo ricorso al congedo anticipato per maternità, con un atteggiamento tra l’altro del tipo: se non me lo fai tu il certificato, me lo fa qualcun altro. Avrei piacere a sentire il vostro parere in questo, perlomeno bisogna rapportarlo alla mia esperienza personale, e quindi su Roma, dove esistono delle scene – mi dicono – incredibili di file dalle sei del mattino di fronte all’ispettorato con i certificati per ottenere questi congedi. Noi raccontiamo tutta un’aneddotica che non è carino adesso venire a sciorinare ma che va dalla certificazione – vista personalmente – tipo “Si richiede congedo anticipato per minaccia d’aborto in sospetta gravidanza iniziale”. Da una parte quindi abbiamo questa inflazione. Dall’altra parte questa constatazione assolutamente evidente che chi è libero professionista (riguarda molto www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ spesso le commercianti, le parrucchiere eccetera) fino all’ultimo mese, giorno e ora prima del parto mantiene dei comportamenti assolutamente a rischio. Allora, questo ovviamente mi interessa moltissimo se mi si risponde alla luce di una situazione che conoscete molto bene. Non vuole essere una provocazione, però in questo voglio dire che a chi lavora dall’altra parte appare con tutta evidenza che una situazione “garantita” di posto fisso, di impiego eccetera consente un ricorso eccessivo, secondo me, a questo istituto, che è benedetto e sacrosanto perché il vero concedo anticipato per maternità in una gravidanza a rischio è sacrosanto. Corrada Giammarinaro Sono Corrada Giammarinaro da Pisa e vi racconto una piccola cronaca dalla trincea. Io faccio l’avvocato di provincia e ritengo che fare l’avvocato di provincia, se uno ne avesse le capacità, è come scrivere le novelle per un anno di Pirandello, cioè se sei bravo ne puoi tirare fuori delle cose veramente di significato molto generale. Una cosa con cui ho a che fare – ora ho sentito tutto questo discorso degli asili nido eccetera – è questa. Ormai ci sono sempre più persone che non sono povere, cioè che non è che non riescano a portare a casa un dignitoso stipendio, ma col dignitoso stipendio, se sono anche in una fase di separazione ecc. , quindi non sono affiancate dal dignitoso stipendio altrui, secondo il tipo di lavoro che fanno non ce la fanno ad avvalersi di aiuti, ausili privati, a pagamento privato ecc. ecc. Ci sono lavori particolari. Uno di questi è il cuoco, l’aiuto-cuoco o in genere il lavorare nella ristorazione in un posto turistico quale è Viareggio. Allora che caso mi è capitato? Di questa signora che fa appunto l’aiuto-cuoco a Viareggio, quindi porta a casa il suo decoroso stipendio. A Viareggio lei è ritornata. C’era stata molti anni; poi lei, spostandosi con il marito, era andata in un’altra città. Quando si sono lasciati, lei con le due bambine ritorna a Viareggio perché ha le sue opportunità di lavoro che ritrova subito. Quindi va tutto bene. Quando fa la stagione a Viareggio, deve naturalmente stare al ristorante fino alle due, alle tre di notte. Se di inverno ci si organizza con i turni perché c’è meno afflusso di gente e dunque lei una volta è a pranzo e una volta a cena e quindi d’inverno è più semplice, d’estate, durante i tre mesi della stagione, Viareggio funziona tutto in un’altra maniera, quando si monta il baraccone. Allora va a parlare con i servizi sociali ecc. ecc. e trovano che c’è una specie di servizio di casa famiglia che ha dei posti liberi, quindi dove le bambine possono andare a dormire, cioè possono andare là nel tardo pomeriggio e restare lì nel periodo non scolastico, che coincide con la stagione a Viareggio. Insomma, finisce che stanno lì tutto il tempo. I posti c’erano. È stato un servizio usato impropriamente perché serviva ad altro tipo di situazioni, www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ ma era un servizio gestito molto bene, in un posto molto bello. Si era creata un’atmosfera familiare, c’erano anche queste ragazze madri ricoverate lì con il bimbo piccolo. Queste bambine giocavano, avevano fatto amicizia eccetera. Quindi va tutto bene. C’è il servizio vuoto, lei ne ha diritto... Lo sapete che è andata a finire a segnalazione al Tribunale dei minori? Cosa succedeva? Perché quel servizio non nasce per quello, quindi è usato in modo improprio e ad una che lascia i bambini tre mesi a farli dormire fuori di casa, l’assistente sociale decide di fare una segnalazione. Allora, qual è la morale della favola? In ogni legge di welfare noi dovremmo abbinare una parte consistente e interessante sui diritti di libertà, per cui come vanno cresciuti i bambini e qual è la modalità migliore tra babysitter, rumeni, nonni, servizi sociali, e qual è il mix, lo decide la persona, in base alle sue esigenze lavorative, in base a una sua valutazione complessiva che non è tenuta sempre e necessariamente a dichiarare ai servizi sociali, perché ci possono essere delle situazioni in cui c’è anche un parente vicino ma si valuta che non è il caso di lasciarli a quel parente. Allora, o partiamo dal presupposto che uno non è l’eterno minorenne che deve sempre e necessariamente giustificarsi ma che, l’educazione, la cura può anche fuoriuscire da quella che è l’idea del modello dominante… che poi sarà veramente dominante o è di Buttiglione? Io questo a volte me lo chiedo. È dominante, cioè, chi parla di più a “Porta a porta”? Siccome ci va ogni sera e dice sempre la stessa cosa è dominante? Perché non è dominante la mia casistica che è molto più varia? Naturalmente la sinistra si deve liberare di un’idea: che i diritti di libertà, che questo genere di garanzie sono per i borghesi. Non è vero perché al professionista che lascia tre figli eccetera nessun assistente sociale gli verrà mai a rompere le scatole. Rompe le scatole proprio alla persona che non ha quel budget economico e direi socioculturale, più che economico, e che dunque non sa difendersi rispetto a questi attacchi. Per fortuna c’era una alla casa famiglia che le ha detto (frase meridionale bellissima): “Metti di mezzo l’avvocato”. Che non è neanche una rivendicazione di un diritto (perché questa persona non pensava di averlo, ora faticosamente stiamo facendo un percorso per dirle che il diritto ce l’ha). Dire “metti di mezzo l’avvocato” significa: dai seccature all’assistente sociale così forse, giocando sul fatto che poi amano lavorar poco quelli del pubblico ecc. ecc., la cosa si ferma lì, perché diventa una grande seccatura e cose varie. Quindi sul discorso dei servizi sociali bisogna stare attenti e anzi secondo me questa era una lezione importantissima invece da cui si doveva cogliere un elemento per la rinnovazione, per la ristrutturazione del servizio. Quindi va posto in luce questo pericolo, cioè è il servizio che si deve di volta in volta adattare alla nuova esigenza sociale e non è la persona che si deve adattare alla strutturazione del servizio. E vorrei dire anche un’altra cosa. Il precedente governo si è battuto molto su questo interesse del www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ minore. Io ricordo che si vedevano sempre tutti i programmi con la Mussolini che diceva: “I bambini…” come se dall’altra parte ci fosse Erode che voleva fare la strage degli innocenti. Quindi lei sola difendeva i bambini e cose di questo genere. Naturalmente questo interesse del minore… non so chi fosse così unto dal signore che lo conosceva lui, cioè i minori anche uno li interpella. Se c’è un diritto del minore va sancito come diritto del minore. E allora c’è una direttiva europea completamente inattuata sull’avvocato del minore; cioè il minore, nei giudizi che lo riguardano, in quasi tutta Europa (non solo quella del Nord, non pigliamo sempre quella del Nord), ha diritto a essere sentito, a stare in giudizio con una rappresentanza tecnica propria. Ora, guardate, non è che ci sono solo gli assistenti sociali che sanno fare. Gli avvocati di diritto di famiglia, quando fanno le separazioni consensuali con i ragazzini sono abituati a parlare, sono abituati a tenere in considerazione il loro punto di vista. Ce ne facciamo un punto di deontologia di fare l’accordo che tenga anche conto dell’interesse del minore inteso come situazione giuridica soggettiva di una persona che trova dei limiti e degli incontri e degli incastri con le situazioni giuridiche soggettive di tutte le altre persone coinvolte, perché non è neanche il centro dell’universo. Questa deviazione del linguaggio, ormai, che per riconoscere qualcosa alla persona si dice: “È giovane, è un ragazzo”, locandina del giornale, due ragazzi di quarant’anni, poverini….Ma ragazza è mia nipote che ce n’ha diciotto, che viene dalla zia per dei consigli, per dei quattrini, che manda l’sms “Richiamami subito”, perché giustamente i ragazzi veri di soldi ne hanno pochi e quindi scaricano la scheda, ma due ragazzi di quarant’anni mi fa un’impressione culturale di dire: “ormai in che mondo viviamo”. Quindi il minore che è minore ha i suoi diritti, si attui questa direttiva. È uno scandalo che questa legge tanto decantata sull’affido condiviso, che era l’occasione buona per l’attuazione della direttiva, non sia stata attuata. Il minore non è un sacco di patate, di cui poi l’unto del signore a “Porta a porta” delirando dice: “Il minore ha bisogno di questo, di quello, di due genitori di sesso diverso, di quattro nonni, una zia libera professionista che ricarica il telefonino” perché tra poco ci mettiamo pure questo. Il minore è una persona, va sentita e ha i suoi diritti insieme a quelli delle altre persone. Chiara Recchia Ritorno al discorso della relatrice: quella proposta di legge dovrebbe essere uno strumento per garantire delle libertà alla donna partoriente eccetera. Condivido la disapprovazione a proposito del diritto di partorire in casa, anche perché, nella mia esperienza personale di figli e nipoti eccetera, vedo che tra i giovani è abbastanza diffusa, invece, quella cultura del parto cosiddetto naturale, quello cioè che fa molto soffrire e quindi rifiuta in anticipo epidurali eccetera. Ora, il fatto che si garantisca questa libertà mi pare veramente pericoloso. Si potrebbe anche allargare il discorso: ci sono dei diritti e delle libertà che arrivano fino a un certo punto, cioè delle www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ cose che non possono essere considerati diritti e libertà, altrimenti si fa veramente un passo indietro. Allora, nella comprensione della difesa di quelli che sono veramente i passi in avanti che si devono fare e dei pericoli invece dei passi indietro, io vedo che le donne nonne (che abbiamo visto essere una delle garanzie principali, uno dei fondamenti per cui una donna con bambini piccoli possa continuare a fare il suo lavoro perché per il momento non ci sono molte altre alternative) di oggi sono diverse dalle nonne di ieri, sono le nonne della generazione che ha vissuto tutto il discorso dell’aborto, del divorzio, delle lotte per i diritti civili. Ancora oggi io credo che questa generazione possa essere utile per le donne giovani, giovani mamme di oggi perché, nel momento in cui vogliono garantire i propri diritti a continuare ad avere una vita, una cittadinanza attiva, come si dice, di non essere, finito il lavoro, esaurite in quelli che sono i compiti familiari, nel momento in cui queste nonne di oggi fanno queste battaglie, fanno battaglia per sé e anche per le proprie figlie, per la generazione che ha bisogno invece ancora di asili nido ecc. ecc. Quando, due anni fa, mi occupai della raccolta delle firme per la legge sulla scuola da zero a sei anni, le raccoglievo, queste firme, dicendo che era una legge a favore delle nonne, prima ancora che delle donne, perché fare delle scuole, garantire questo servizio educativo all’infanzia da zero e per sei anni è una garanzia anche per le nonne. L’ultima osservazione a proposito di quello che veniva detto sulla legge, sul fatto che non si usi molto il part-time da parte anche dei maschi eccetera. Io ho presente, sempre nella mia esperienza (ma un sindacato Cgil dovrebbe avere e forse ci darà dei numeri), delle situazioni in cui la maternità è combattuta. È difficile rimanere incinte e continuare a lavorare perché è il padrone del lavoro che non lo vuole. Ci sono delle situazioni in cui le donne che devono essere assunte devono garantire di non rimanere incinte. Ci sono delle situazioni in cui donne che aspettano un figlio vengono licenziate, e continua poi la situazione quando ritornano e vengono maltrattate (il mobbing ecc. ecc. Ci sono anche opere cinematografiche su questo). È questa la situazione all’interno della condizione di lavoro. Quindi non è che non si voglia usufruire di quegli strumenti legislativi: è la situazione reale purtroppo che lo impedisce. Donatella Poretti Provo un po’ a rispondere, partendo dalla coda. Effettivamente – lo avevo detto – non è soltanto il discorso di prendersi l’assenza per maternità: il problema è che quando un datore di lavoro deve decidere a chi far fare carriera, è evidente che influisce se essere donna e poter avere degli figli e essere uomo, e quindi essere certi che non www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ avrà dei figli. Questo è evidente e fa parte di un percorso culturale perché i diritti in teoria ci sono, le norme scritte ci sono: non si può licenziare una donna perché ha avuto un figlio. Il problema è più grande. Non è di aver bisogno di una legge, ma è di promuovere culturalmente e di far sì che appunto non venga visto come un handicap il fatto di essere donna in età feconda; cosa che invece attualmente accade. Su questo riprendo dalla domanda iniziale. Io vedrei con più interesse la possibilità di dare alla donna gli strumenti per continuare a lavorare, cioè non è che vedo con contrarietà che ci sia la possibilità di avere maternità più lunghe però io credo che le donne dovrebbero organizzarsi il più possibile per continuare a lavorare sempre. Evidentemente appena uscite dall’ospedale no, però se è possibile sì. Io fino alle sei sono stata in ufficio, a mezzanotte ho avuto la bambina. La settimana dopo ovviamente non stavo in ufficio ma passavo, era un continuo prendere il latte, quindi era un incubo, però volevo continuare a mantenere il mio filo. Ora, è evidente che non facevo la parlamentare: appena partorito facevo la giornalista, collaboravo con un’associazione di consumatori. Quindi facevo un’altra cosa e potevo tranquillamente starmene beatamente a casa, però non sentivo la necessità di prendermi l’anno sabbatico. E quando ho deciso di accettare la candidatura, uno può dire: “Ma come fai a rifiutare la candidatura?”, beh si fa anche alla svelta, si dice di no, non è che è obbligatorio fare il parlamentare. Sì dà dei privilegi, dà dei vantaggi però sinceramente io posso fare anche altro nella mia vita e sicuramente tornerò a fare altro nella mia vita dopo i cinque anni. Io ho accettato di farlo sapendo tutte le difficoltà in cui mi sarei andata a mettere per i primi mesi. I lavori sono molto diversi, io credo, e credo che di caso in caso si possa tranquillamente valutare se c’è la necessità fisica, psicologica, del tipo di lavoro che si fa, se mantenersi un anno di maternità o se invece prendersi alcuni mesi e poi riiniziare con un part-time. Ecco, io chiederei questo a una legislazione che guarda alla donna e al mercato del lavoro, cioè la massima flessibilità su richiesta della donna, cioè su come la donna possa organizzarsi una volta che ha avuto il figlio. Tra l’altro ogni gravidanza è diversa da un’altra. E allora c’è quella che riesce a farsi tutti i nove mesi che è una meraviglia, quella è “fortuna”, cioè dipende dal fisico della donna; c’è quella che invece è costretta a stare a letto. Bisogna vedere di caso in caso. Se una donna se la sente e riesce ad andare a lavorare, prendendo lo spunto di Mirella Parachini, anche se ha quella possibilità di usufruire della gravidanza, io opterei per continuare ad andare a lavorare; ciò non toglie che ovviamente deve essere invece garantito il diritto se quella donna sta male, questo è evidente. Il problema, però, è un altro, secondo me, ed è un problema culturale appunto che non ti deve mettere nella condizione di dover per forza andare a lavorare perché altrimenti ti scavalcano e a un certo punto tu poi rimani senza lavoro. Quindi è un problema più ampio, in questo senso . Su questo starei attenta. Cercherei di garantire il periodo più lungo di possibilità di maternità, però punterei ad altre formule più flessibili per cercare di continuare, se la donna vuole, a mantenere il rapporto con il lavoro e con il proprio lavoro, proprio per tenerlo stretto. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Sul fatto del parto in casa, io ho subito sgranato gli occhi e ho detto: “Il parto in casa? Ma siete pazzi? Mi viene in mente il medioevo, la levatrice, le pezze, le stoffe, il catino con l’acqua…” e ho avuto un’immagine veramente da film del medioevo. Mi è stato detto: “Ma guarda, ne abbiamo parlato anche la scorsa legislatura, abbiamo sentito tutti e anche se c’è una sola donna che ne fa richiesta, tu questo diritto lo devi garantire”. Di fronte a “anche una sola donna che ne fa richiesta, tu devi dare un diritto”, ti mettono anche un po’ in difficoltà perché sembra quasi che tu vuoi negare un diritto a una donna. Io credo che poi si faccia confusione tra il diritto a partorire, e quindi ad avere un figlio sano e ad avere un buon parto, una buona assistenza sanitaria, che non si deve confondere con il diritto di una donna di fare una cosa piuttosto che un’altra. Secondo me, qui c’è confusione tra il diritto a partorire e ad avere un’assistenza sanitaria e a farlo in casa. Non lo vedo come diritto, sinceramente, però può darsi che mi sbagli. Io allora farei un discorso più pratico di costi perché partorire in casa ha un costo pazzesco per quanto riguarda la sanità pubblica perché devi garantire l’ostetrica, il ginecologo, il neonatologo, cioè tutta una rete che sia lì in casa e che sia anche disponibile, a un certo punto, se c’è la malaparata, a portare la donna rapidamente all’ospedale. In una situazione in cui abbiamo ancora delle sale travaglio che sono proprio un travaglio a vedersi, come sale, io non so se… Ciò non toglie che se c’è una regione che decide che ha dei soldi e li vuole investire in sperimentazioni, io non è che lo vieterei, però non lo incentiverei con una legge. D’altro canto c’è anche chi aveva pensato di promuovere addirittura delle case del parto, che sembra una sorta di clinica privata dei poveri. Ma per quale motivo uno dovrebbe andare a partorire in una casa del parto senza l’assistenza medica e sanitaria? Tanto vale partorire in ospedale, se non sei in casa tua. Quindi non so per quale motivo questo ritorno, comunque ancora la legge non è fatta. Per quanto mi riguarda, io sono veramente contraria. L’unica cosa che mi lascia perplessa è che persone che nella scorsa legislatura si dicevano contrarie al parto in casa, nel frattempo hanno cambiato perché hanno detto: “Va beh, comunque c’è chi lo vuole e dunque bisogna concederlo”. Sul fatto degli asili nido e che debbano essere idonei, cioè che debbano avere dei giardini, dell’aria aperta eccetera, io sono d’accordo. Infatti quando io insisto a dire che la Camera dei deputati è piena di palazzi, è piena di spazi, è piena anche di piccoli giardinetti, è piena di cortili, è piena di terrazze gigantesche che comunque, se attrezzate alla bisogna, possono funzionare da sorta di giardini pensili. È possibile, tutto ciò è possibile. C’è soltanto la volontà… Delle volte però i micro-nidi, secondo me, possono avere una loro utilità, anche aziendale. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Possono averla casomai per un po’ di ore, è evidente che non puoi tenere un bambino dalla mattina alle otto alla sera alle dieci in una stanzina piccola con due bambini tutto il giorno. Questa soluzione anch’io la vedrei con difficoltà. Sia chiaro, anche se non l’avevo detto, che l’ipotesi dell’asilo nido alla Camera dei deputati è a pagamento. Non è che è una cosa gratuita… L’isola neonatale. È previsto nel progetto di legge di fare una sorta di isola neonatale. Questo non è che vuol dire chissà che ma perlomeno che ci sia uno spazio adiacente, se non nella sala parto, in cui poter dare subito la prima assistenza al bambino nel caso ce ne fosse bisogno. Comunque proprio in questo testo è molto lo spazio che viene dato al neonatologo e altro. Sul discorso delle condizioni delle donne che sono peggiorate per le politiche liberiste, in particolar modo il riferimento fatto al part-time o alla flessibilità, però quel part-time e quel lavoro flessibile per certi versi almeno ora c’è con un contratto non è più al nero, perché altrimenti quel part-time prima c’era ma non era con un contratto. L’alternativa sarebbe di non avere il contratto e di lavorare al nero, perché poi di questo si parla. Poi so che è argomento complesso e ci potrebbe prendere ore… Se poi tutto ciò ricade sulle spalle delle donne, il problema è un altro: il problema che è una società decisamente e completamente maschilista in cui è l’uomo al centro degli orari, dei tempi, dei lavori di tutto quanto. La donna c’è ma è come se non ci fosse, cioè è tutto organizzato e strutturato sull’uomo. Quindi è evidente che, se c’è una prima vittima da fare da qualche parte, la prima vittima è la donna ma non per le politiche liberiste, secondo me, bensì proprio per come è organizzata la società che è decisamente maschilista. Su questo c’è poco da dirsi. All’avvocato di provincia non ho nulla da rispondere, nel senso che è una bella storia sintomatica che poi le leggi bisogna anche vederle nella pratica, perché se in teoria si fa una legge severa in cui si danno delle linee guida che poi nella realtà si trasformano in qualcos’altro e invece che in un diritto diventano il contrario, diventano la depressione, questo è il problema di molte leggi che abbiamo in Italia che sono davvero molto pesanti e ci sarebbe bisogno, invece che di farne, di toglierle, ma questo è un problema decisamente annoso. Invece continuiamo a farle e continuiamo a farle sempre più pesanti, che coinvolgono anche altre leggi, che si sommano ad altre. Per cui, quando devi togliere una cosa, devi andare a incidere su chissà quante leggi, ma questo appunto è un altro problema. Gianna Cioni Il dibattito che noi stiamo facendo, le tematiche che stiamo affrontando sono tematiche che hanno www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ un notevole livello di complicazione. Io sono contenta ed è per questo che lo facciamo qui, dentro questo edificio. Non vogliamo considerare chiuso alcun argomento e non dobbiamo considerare nessuna delle affermazioni, nemmeno quella degli autorevoli relatori, come “quella è la cosa perfetta” perché su queste problematiche non è proprio possibile e perché noi siamo un sindacato e vogliamo andare avanti, e capire e affrontare e approfondire sempre di più queste problematiche. Avevo promesso una brevissima risposta a Mirella Parachini. Lei aveva fatto una provocazione, io rispondo alla provocazione. Io non ho i dati in mano. Io oggi sono una sindacalista e ho sempre lavorato nel pubblico, ma non faccio il caso mio, ovviamente. Probabilmente ci sono nel pubblico come nel privato persone che abusano. Mi chiedo, facendo un banalissimo esempio, se un insegnante giovane, perché precario, deve andare a insegnare a cento chilometri di distanza, se rimane incinta, se questa è una cosa che va d’accordo con la sua condizione di lavoro, e probabilmente di questi oggi ce ne sono tanti. Questo è un puro esempio. Poi, invece di continuare a dire che il pubblico non fa niente, perché non affrontiamo il discorso di quanto purtroppo nei posti di lavoro la donna venga di fatto sfruttata, perché esistono delle leggi, esiste la tutela della maternità, non si può essere licenziati perché si è incinte ma di fatto si viene licenziati, oppure poi si viene emarginati . Per fortuna questo nel pubblico non succede? L’emarginazione succede anche nel pubblico, questo è sicuro. Le donne che non fanno carriera sono tutte sceme? Ho dei dubbi. Si dimostra che i voti più alti all’università ce li hanno le donne, però poi dopo si fermano sempre ai livelli bassi. Io ritengo che la cosa fondamentale (e questo mi sembra che sia veramente nella linea di un sindacato come la Cgil) sia che la politica deve garantire, su questo settore, la libertà di scelta della donna e la tutela dei bambini e che queste cose non devono essere poste in contrapposizione. A me è piaciuto moltissimo l’inizio del discorso di Mirella Parachini in cui faceva la sua storia. Io ritengo che una donna abbia il diritto, per il bene suo e per il bene del figlio, di poter stare vicino al figlio (parlo di vicinanza fisica, quella che si è tentato per tanti anni di negare) perché entrambi crescono e saranno più utili alla società. Vogliamo permetterlo questo? Non imporlo, per cui io non chiederei mai l’obbligo di stare a casa un anno, adesso non c’è nemmeno l’obbligo di stare a casa i due mesi prima perché, se un medico dà il permesso, se ne sta uno solo e uno si tiene per dopo. Certo, se il lavoro è usurante si deve, ma questo è ovvio, però credo si debba dare questa possibilità proprio come crescita della madre, del bambino e della società, perché una società che avrà dei bambini che sono cresciuti meglio, sarà migliore. Chiara Lalli www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Ricercatrice della università di Roma La Sapienza e dell’università di Chieti Genetica, uso dei test genetici e delle informazioni genetiche. Cambiamo abbastanza drasticamente argomento. Fortunatamente, mi viene da dire, mi capita di dover parlare di un argomento un po’ più freddo rispetto a quelli di cui abbiamo parlato finora. Dopo che in questi ultimi anni si è tanto dibattuto di sacralità dell’embrione in tema di aborto e tecniche di procreazione assistita, di sacralità della vita in tema di eutanasia e decisioni di fine vita e ultimamente di sacralità della famiglia in tema di dibattiti su diritti delle coppie di fatto, il dominio delle informazioni genetiche ancora non è stato travolto, almeno recentemente, da questa idea di sacralità. Senz’altro è in agguato anche qui perché, come vi sarà venuto in mente anche semplicemente per un’assonanza, genetica, i test genetici richiamano un argomento caldo, scottante che tira in ballo anche la legge 40, ovvero la diagnosi genetica di preimpianto (poi ne parleremo in dettaglio), e che inevitabilmente, come dicevo prima, richiama la sacralità dell’embrione perché la decisione o le presunte motivazioni per vietare il ricorso alla diagnosi genetica di preimpianto in Italia sono legate allo statuto personale dell’embrione e a una motivazione abbastanza delirante – passatemi l’aggettivo un po’ duro – su presunte finalità eugenetiche. Parleremo approfonditamente anche del richiamo costante all’eugenetica che è assolutamente sbagliato dal punto di vista storico e sbagliato dal punto di vista concettuale. Due premesse o due punti cui tengo ad accennare e che credo siano fondamentali in tutti i dibattiti che riguardano le biotecnologie, ma forse in tutti i dibattiti in generale. Il primo è che, di fronte a una nuova possibilità (in questo caso parliamo di nuove possibilità biomediche offerte dall’avanzamento della biomedicina, dalla medicina o dalla scienza, dalla tecnologia), c’è spesso la tentazione o la malafede di dire: se non si fa nulla, non si incappa in alcuna conseguenza. Ma la passività, il non fare nulla di fronte a una nuova possibilità che ci è offerta, non è immune da conseguenze e, soprattutto, non è moralmente neutrale e ancor più, non è moralmente ammissibile. Se io decido di ignorare una possibilità non sono buona: sono soltanto una persona che ha ignorato una possibilità e qualche volta posso macchiarmi di una colpa ben più grave di quella che potrei rischiare avvalendomi di quella nuova possibilità o scegliendo anche un procedimento rischioso. Pensate alle sperimentazioni. Il secondo punto è un po’ più specifico e richiama, in una giornata in cui parliamo di diritti, anche l’uso un po’ strambo di richiamare alcuni pretesi diritti. Mi ha fatto sorridere il diritto ai quattro nonni, ancora non lo avevo sentito, ma di diritti ad avere due genitori e di tanti altri diritti, ne abbiamo sentito di tutti i colori, ma in questo campo specifico un diritto veramente esilarante che viene invocato è il diritto al caso, per esempio rispetto alla possibilità di manipolare i patrimoni genetici. Si dice: il nascituro – ma le persone in generale – hanno diritto ad avere il caso, la lotteria genetica. E’ divertente pensare che in nessuna altra circostanza si tende a invocare il diritto al caso. Nessuno invocherebbe il diritto al caso per una terapia medica, nessuno invoca il diritto al www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ caso quando si parla di politica o di gestione di risorse finanziarie o perfino di una cosa meno importante o rilevante come è andare in vacanza. Il diritto al caso o alla casualità è quasi esclusivamente invocato in tema di biotecnologie, accompagnandosi anche al discorso che lo sostiene, del principio di precauzione che, in tema di bioetica, è diventato quasi esclusivamente un principio di negazione, di divieto e non è più un invito a una cautela, per quanto poi difficile sia declinare, rendere sostanziale l’invito alla cautela, ovvero che significa quando qualcuno mi dice: “Sii cauto”? Non significa nulla ma in bioetica, e ultimamente soprattutto in Italia, è diventato non solo il “sii cauto” ma non fare, divieto, no. Riguardo alla genetica e all’uso dei test genetici, molti dei problemi che ci troviamo a dover affrontare sono riportabili a problemi tradizionali, come quello di informare o non informare, di considerare le conseguenze di questa informazione, di bilanciare i diritti che si vengono a scontrare e che entrano in collisione inevitabilmente: il diritto alla privacy, il diritto all’informazione, all’accesso o invece alla riservatezza e così via. C’è però un nodo fondamentale che caratterizza e che forse dà un aspetto un po’ diverso da questi problemi tradizionali e che è una caratteristica intrinseca dell’informazione genetica, cioè il fatto che non si tratta di problemi esclusivamente personali. Alcuni dei casi più celeberrimi in tema di informazione genetica sono quei casi in cui una persona ha bisogno di acquisire informazioni non proprie (dei genitori, dei congiunti, di persone legate da un vincolo di parentela) per prendere una decisione, ad esempio una decisione riproduttiva, personale. Quindi ha bisogno di accogliere informazioni che sono private, sono riservate di altre persone per decidere su di sé e per prendere una decisione responsabile e informata perché, in assenza di queste informazioni, non potrebbe avvenire una decisione corretta. C’è stato un caso in Italia, negli ultimi anni, in cui una donna affetta da glaucoma bilaterale avevo chiesto di accedere alle informazioni del padre per poter prendere una decisione riproduttiva. Il padre si era opposto. La clinica, la struttura sanitaria e i medici si erano opposti in nome del segreto professionale e il garante della privacy ha detto: “No. Il diritto qui più forte è quello alla salute, alla salute riproduttiva e alla salute della donna, perciò gli altri diritti che sono stati invocati (segreto professionale, riservatezza e quindi privacy del padre) sono più deboli. Perciò io do il consenso”. Io credo che sia anche interessante analizzare i casi singoli non solo e non tanto per costruire casi umani, che non servono a granché se non a suscitare scandalo o pietà (e credo che entrambe le reazioni siano abbastanza inutili), ma per sottolineare l’estrema complessità dei problemi che andiamo ad affrontare e anche l’inefficacia, almeno in termini assoluti, di una legge per quanto ben fatta. Ogni caso singolo ripropone aspetti, problemi e complicazioni che neanche una legge – ripeto – ben fatta è in grado di risolvere a priori e in assoluto. Il primo punto che vorrei affrontare riguarda la correttezza nell’individuare i nodi critici o i problemi principali delle informazioni genetiche. Credo che tutti voi abbiate sentito parlare per esempio dei www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ problemi di discriminazione rispetto alle assicurazioni sanitarie o lavorative sugli screening genetici. Allora, le informazioni di debolezza genetica o di fragilità vengono utilizzate a fini di discriminazione: assicurazioni che non concedono polizze sanitarie perché, per esempio, c’è un genitore che ha una certa malattia o perché c’è stata un’informazione che dà una possibilità di contrarre una malattia o, come dicevo prima, istituzioni lavorative che preferiscono assumere o dare un contratto di lavoro a una persona che abbia un profilo geneticamente più saldo , con tutto quello che può significare,. Se ricordate il film “Gattaca”, lì viene fuori benissimo questa idea anche molto ingenua che da un profilo genetico sia possibile ricostruire non solo l’identità personale ma anche il profilo futuro e sanitario della persona su cui si acquisiscono informazioni. Quindi il primo problema è chiarire che il determinismo genetico anche in questa circostanza è un’idea molto ingenua e che non funziona perché poi in termini di salute, a parte rarissimi casi, l’interazione tra ambiente e informazione genetica è il dato rilevante. Quindi anche andando a rintracciare un profilo di debolezza o di predisposizione, questo non significa altro che aver riscontrato una debolezza o una predisposizione. Non dà alcuna garanzia e alcuna certezza che la persona in questione si ammalerà e che quindi sarà meno adatta ad affrontare delle posizioni di responsabilità o comunque a gestire unlavoro. Però non bisogna neanche cadere nell’errore, che spesso capita, di attribuire l’immoralità e la condanna, su cui credo non ci siano grosse discussioni, dell’atto discriminatorio, all’informazione in sé. Quello che voglio dire è che non è l’informazione genetica a essere intrinsecamente immorale. Qualche volta questa condanna passa nel senso di fermare, limitare la possibilità di raccogliere informazioni perché il processo stesso di acquisire informazioni è moralmente condannabile, perché è discriminatorio. Naturalmente non è così. Non è l’informazione in se stessa a essere discriminatoria ma è l’uso che se ne fa. Allora il ruolo di una policy di un welfare, di una società giusta è proprio quello di analizzare i problemi e di cercare soluzioni laddove il problema risiede. In questo caso, ad esempio (e questo è lo scopo delle molte leggi che sono state fatte in tema di discriminazione sanitaria e lavorativa, appunto, rispetto alle informazioni genetiche), lo scopo è quello di impedire ad agenti che hanno un interesse specifico e particolare di utilizzare determinate informazioni per scopi immorali. Non dimentichiamo che rispetto alle informazioni genetiche, per quanto con tutti i loro limiti che dicevo prima di indicazione probabilistica per cui, tranne in rarissimi casi, non c’è una certezza, (per questo è fondamentale il counselling genetico, per questo è fondamentale un’informazione attenta e accurata ai fruitori ma anche a tutte le persone che poi ragionano su questi argomenti), il rischio determinato dalla discriminazione è bilanciato poi invece da un grosso vantaggio, che è quello di poter assestare la propria esistenza, in termini anche di condizioni di vita, in presenza di un rischio che viene individuato. La cosiddetta medicina predittiva, per quanto incerta e difficile e appunto esposta a molti rischi, dà www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ la possibilità a quelle stesse persone che sono esposte ai rischi di scegliere poi, per esempio, abitudini di vita che possono non favorire certe predisposizioni. Quindi è, in questo senso, un’offerta che giudico preziosa dal punto di vista sanitario e individuale. Rispetto all’oggetto preciso da combattere, che è la discriminazione, pensate alle carte di documentazione e documenti di identità, per esempio. Si potrebbe dire che, in una società sessista o razzista, le informazioni che una fotografia offre sono intrinsecamente discriminatorie, perché se io sono un capo di una fabbrica e culturalmente sono in una società o personalmente sono una persona razzista, se ho davanti a me dei fogli, dei curriculum con delle foto di persone che hanno il colore della pelle diversa, lì è in agguato la discriminazione perché butterò nel cestino tutte le foto che non corrispondono alla mia stramba idea di razza da promuovere tenendo appunto soltanto quelle che corrispondono alla mia idea. In questo senso ciò che va combattuto è la discriminazione di una società sessista e razzista ma non l’informazione. Sarebbe assolutamente sbagliato dire: un buon modo di combattere la discriminazione è eliminare le foto dai documenti, eliminare le informazioni dai documenti e dissimulare l’informazione. Se siamo d’accordo a dire che il procedimento per combattere la discriminazione non è la dissimulazione sulle informazioni tradizionali, dovremmo essere d’accordo su questo concetto anche appunto sul versante delle informazioni genetiche, non esserne terrorizzati ma individuare i problemi di abuso, combattere i problemi di abuso e non appunto l’informazione stessa. I casi purtroppo sono numerosi e anche tristemente famosi. Qualche anno fa, negli Stati Uniti, una donna si è vista rifiutare un’assicurazione perché il padre aveva avuto una diagnosi di corea di Huntington. Essendo una malattia autosomica dominante, che quindi dà una possibilità del 50 per cento ai figli di contrarre questa malattia, l’assicurazione ha detto: “In presenza di una percentuale così alta, il 50 per cento, anche se tu, persona che mi ha richiesto la polizza, non ti sei sottoposta a un test e anche in caso di tuo diniego a sottoporti” perché ovviamente fin qui non siamo ancora arrivati, non siamo arrivati all’obbligo coercitivo di sottoporre una persona a un test “in base a questa percentuale del 50 per cento io ti rifiuto la polizza assicurativa”. Questo è un esempio complesso e moralmente condannabile ma che richiama in causa proprio quello che dicevo prima, cioè una delle caratteristiche più rivoluzionarie dell’informazione genetica, ovvero che non è soltanto l’informazione che riguarda la persona stessa, che sta chiedendo una polizza o un posto di lavoro, ma del suo nucleo, delle persone che sono a lei legate per il gruppo genetico. Quindi addirittura un’informazione che riguardava il padre ha finito per essere discriminatoria nei confronti di questa donna. Un punto certamente caldo e dolente è quello dei criteri per permettere la richiesta di informazioni. Qualche tempo fa, a Dobbiaco è stata uccisa e violentata una donna. Le indagini si erano fermate perché, sebbene avessero rintracciato tracce di dna, non c’erano campioni con cui fare il riscontro. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Perciò si aveva un profilo dell’assassino ma non c’era modo per uscire dall’incertezza, dall’ignoranza di chi fosse il proprietario di questo profilo genetico. Ebbene, la popolazione di Dobbiaco si è prestata spontaneamente a rilasciare campioni di dna con cui confrontare. Da questa raccolta di campioni di dna, sebbene non sia venuto fuori un riscontro perfetto, si è arrivati a scoprire il colpevole che era il figlio di uno di questi che si erano offerti per il campione di dna. Ora, in questo caso è avvenuto spontaneamente, però senz’altro ci dovremmo porre il problema di quando, come e perché, in quali circostanze si potrebbe forzare il diritto alla riservatezza e alla libertà individuale, e quindi in quali casi la raccolta di campioni del dna dovrebbe essere coercibile in un caso analogo. Un altro punto fondamentale e da non dimenticare è che esistono dei tratti genetici neutrali o più neutrali di altri. Mi spiego. Quei tratti genetici che rimandano al colore dei capelli o al colore degli occhi, potremmo considerarli, anzi direi che è legittimo considerarli come tratti neutrali, ovvero quei tratti in presenza dei quali la nostra vita non cambia in maniera rilevante. Se io ho gli occhi scuri o gli occhi chiari, la mia condizione di vita non è particolarmente mutata. I dati genetici invece non neutrali riguardano le condizioni o di malattia, quindi i test pre-sintomatici che rivelano la certezza della malattia (in casi di corea di Huntington, appunto. Sono test che si fanno in assenza di malattia e sono casi sporadici, circa il 2 per cento delle malattie ha questa corrispondenza tra malattia e gene e quindi è possibile fare una previsione certa anche in assenza di sintomi, appunto) e test invece che non fanno altro che segnalare una probabilità ma sempre in termini di malattia. Quindi c’è un dato neutrale (il colore della pelle o il colore degli occhi) e un dato non neutrale che riguarda l’aspetto ampio e senz’atro difficile da delimitare della salute, perché se è chiaro che nel dominio delle malattie rientra una serie di condizioni, ci sono poi tutte quelle fasi intermedie, come di minore resistenza per esempio alle malattie e così via. Quindi fattori di debolezza, chiamiamoli così. Nel caso di malattia asintomatica, appunto di test pre-sintomatici, come nella corea di Huntington o nella fibrosi cistica, alcuni dei problemi sono paragonabili con problemi appunto tradizionali, nel senso che, ad esempio, ci sono stati molti casi moralmente difficili da risolvere di figli il cui genitore era affetto da una malattia come la corea di Huntington e che si trovava di fronte alla difficilissima situazione di sottoporsi o no a un test, un test genetico che poteva tranquillizzare al 50 per cento quello che si andava a sottoporre al test oppure poteva dare una diagnosi nefasta. Un problema del genere somiglia a quello che vive un medico o vive un parente nel dare una diagnosi nefasta a una persona in caso di malattia più tradizionale. In molte circostanze, e soprattutto in casi di test genetici, molte persone hanno deciso di non sapere. Io credo che il criterio fondamentale rimanga sempre quello della libertà individuale (in questo campo in cui non c’è un’immediata, almeno, conseguenza su altre persone, è sempre la persona singola che dovrebbe scegliere), ma senz’altro questo rifiuto nel sapere, nel conoscere un futuro su cui, peraltro tragicamente non si può intervenire, perché una diagnosi di corea non dà nessun’altra www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ possibilità se non l’informazione, cioè sapere di essere condannati, di fronte a questo scenario molte persone hanno detto: “Preferisco non sapere”, è senz’altro una risposta che lascia riflettere. Credo che un dato di questo tipo sia senz’altro un dato significativo e che deve anche servire a potenziare tutte le strutture per esempio di counselling genetico e soprattutto, non nei casi tragici appunto come questi ma nei casi in cui si predice invece una condizione di rischio, a informare correttamente le persone che stiamo parlando di una diagnosi di rischio e non invece di una diagnosi così inamovibile e immodificabile come in questi rarissimi casi (ripeto, il 2 per cento delle malattie rientra in questa situazione in cui la diagnosi è sicura e certa ed è anche impossibile intervenire dal punto di vista terapeutico). Rispetto al problema della discriminazione, io credo che un welfare state, uno Stato che voglia dirsi giusto ha due compiti, due obiettivi fondamentali. Il primo è quello di porsi a difesa dei soggetti deboli; i quali non devono subire, oltre al problema di avere una fragilità, una debolezza dal punto di vista genetico, ulteriori discriminazioni, ulteriori elementi che possono rendere ancora più complicata la loro esistenza. Il secondo obiettivo importante, che non riguarda soltanto o non esclusivamente i fruitori di test genetici, è quello di combattere l’ignoranza che circola intorno alle informazioni genetiche e, in generale, alla biomedicina e alle biotecnologie. Quindi una società giusta non è senz’altro una società che si copre gli occhi di fronte appunto alle innovazioni tecnologiche e di fronte anche alle informazioni, sia tradizionali che genetiche che biomediche, ma è una società che cerca di mettere a fuoco quali sono gli elementi e le radici di una discriminazione o di un’ingiustizia, attuale o possibile, e che propone degli strumenti per porre rimedi. Nel campo dell’ignoranza e del tentativo e della necessità di porre rimedio a questa ignoranza, io credo che uno degli argomenti più significativi sia quello che chiamerei il fantasma dell’eugenetica, lo spettro dell’eugenetica che poi viene quasi esclusivamente identificata con la politica razziale nazista. Come dicevo prima, questo richiamo è sbagliato storicamente ma soprattutto è sbagliato concettualmente. Storicamente perché l’eugenetica non è un’esclusiva della politica razziale nazista, sebbene in quegli anni e in quella ideologia abbia incarnato forse in maniera più massiccia appunto un’idea o un’ideologia che poco ha a che vedere con la scienza e con la genetica e molto ha a che vedere invece con una visione politica del mondo. Visione politica totalitaria, tanto assurda che da parte di tutti noi non credo sia problematica la condanna di quella ideologia; però non bisogna dimenticare che l’eugenetica è stata utilizzata in molti altri paesi: non solo negli anni trenta e quaranta della Germania nazista ma anche in paesi cosiddetti insospettabili, come Svezia, paesi del Nord, Stati Uniti, in cui migliaia di persone sono state uccise o sterilizzate in nome di un’entità sovraindividuale da preservare. Entità sovraindividuale che si è chiamata, a seconda dei casi, razza, nazione, popolo o come volete voi. Il punto fondamentale è che le singole persone erano considerate parti e, nel momento in cui quelle parti dimostravano di essere insoddisfacenti, dimostravano di essere difettose, andavano eliminate o perlomeno, cosa ancora più agghiacciante, andava impedito loro di avere la possibilità di procreare, anche secondo idee abbastanza assurde www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ per cui erano caratteri ereditari, non so, l’antipatia o una certa predisposizione a un umore e così via. Perciò era veramente un miscuglio di visioni politiche assurde ma anche di un’idea terribilmente ingenua della scienza, della medicina e della stessa genetica. Ebbene, appunto, il fantasma dell’eugenetica credo che sia fondamentale da scoprire e da riconoscere per quello che è. Inutile per condannare oggi le possibilità che la genetica offre alle singole persone, soprattutto perché il passaggio fondamentale è questo: che, abusi a parte (ma abbiamo detto prima che va distinto il possibile errore, il possibile abuso dalla potenzialità intrinseca che un’offerta ha), oggi la genetica offre alle singole persone possibilità in più per ampliare la propria sfera di libertà individuale, la propria possibilità di curarsi e la propria possibilità di vivere meglio. L’opposizione non potrebbe essere più radicale: un’entità che oggi potrebbe essere lo Stato, che impone alle persone di seguire determinate strade in nome della sua salute e invece possibilità, libertà, scelte date alle singole persone per poter migliorare la propria vita. Che significa anche che le persone possono preferire non migliorare la propria esistenza. Dovrebbero essere libere di farlo allo stesso modo. L’eugenetica è venuta a essere nominata in moltissimi casi. Il più eclatante, come accennavo prima, è il caso che riguarda la legge 40 in particolare e le linee guida successive, e cioè il divieto di ricorrere alla diagnosi genetica di reimpianto. A me sembra che l’accusa di immoralità riguardo alla diagnosi genetica di preimpianto sia quasi stata fatta per assonanza: eugenetica, diagnosi genetica di preimpianto è qualcosa di terribile che condanniamo. Condanniamo dimenticando, per usare un eufemismo, che le stesse finalità eugenetiche letteralmente scritte nelle linee guida: “la diagnosi genetica di preimpianto è vietata perché segue finalità eugenetiche”, beh, quelle stesse finalità eugenetiche sono quelle che poi usano le indagini prenatali. Allora, su questo argomento bisogna prendere una decisione: o le finalità eugenetiche sono vietate perché le riteniamo immorali e quindi non vietiamo esclusivamente un tipo di diagnosi che usa finalità eugenetiche ma le vietiamo tutte, quindi torniamo ad affidarci appunto a quel diritto al caso, e illegale è non solo la diagnosi genetica di preimpianto ma anche l’amniocentesi, la villocentesi, tutte le indagini a gravidanza avviata che non fanno che rendere un servizio eugenetico alle persone. Ovvero, una donna che si sottopone a una indagine prenatale, nel momento in cui ha la risposta, ha la possibilità di eliminare (io uso la terminologia che verrebbe usata e che sarebbe coerente usare partendo da queste premesse) la persona difettosa in nome di un’idea appunto sovraindividuale e totalitaria di salute. Io credo che le cose stiano diversamente da così. Senz’altro entra anche nel divieto di diagnosi genetica di preimpianto un altro argomento abusato e onnipresente che è la sacralità dell’embrione e il suo statuto giuridico e morale. Ancor più grave è il giuridico perché nel morale ci potrebbe essere la possibilità di pensarla diversamente senza fare troppi guai ma, nel momento in cui è stato mosso un primo e significativo passo nello statuto www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ giuridico dell’embrione, abbiamo visto i primi risultati e che appunto il primo risultato eclatante è la legge 40 e le linee guida. Vorrei fare un breve accenno a uno dei maggiori rappresentanti del modo sbagliato, secondo me, di approcciare le biotecnologie e la genetica in particolare, che purtroppo è considerato uno dei filosofi viventi più importanti, che è Jürgen Habermas. Jürgen Habermas ha scritto un libro, nel 2001, che si chiamava “Il futuro della natura umana” che era proprio concentrato sugli aspetti rivoluzionari, senz’altro rivoluzionari, della genetica. Jürgen Habermas arriva sostanzialmente a dire che va tutto male, che la genetica offre soluzioni e proposte totalitarie, immorali, che violano la sacralità della vita, dell’individualità, della libertà. Vorrei citarvi solo alcuni degli argomenti che lui usa perché penso che siano abbastanza significativi e soprattutto ricorrono nei dibattiti che riguardano la genetica, le informazioni genetiche ma la scienza e la biotecnologia in generale. Un primo argomento che fa sorridere ma che purtroppo ci ritroviamo quasi sempre a intralciare le discussioni, è quello che si richiama all’innaturalità. Habermas dice: “Molte di queste tecniche, molte di queste possibilità sono da condannare in quanto innaturali”, facendo leva su un’identificazione, frequente ma assolutamente sbagliata, tra ciò che è naturale e ciò che è moralmente buono, ciò che è innaturale o contro natura, per forzare ancora più l’accezione negativa e ciò che è moralmente condannabile. Gli esempi per contrastare questa identificazione sono molteplici. Il più banale è quello che ricorda che la medicina è profondamente innaturale e che sarebbe allora moralmente più giusto lasciarci morire perché sono le malattie a essere naturali e le medicine a essere innaturali. Allora, se accettiamo questa premessa, dovremmo condannare gli usi delle aspirine ma anche dei mezzi per rilevare, termometri, incubatrici. Tutto quello che la medicina offre, qualunque terapia è una violazione della natura. Pertanto dovremmo essere disposti a essere coerenti e a prenderci tutte le conseguenze di questo invocare l’innaturalità come elemento per scagliarsi contro le possibilità offerte dalla tecnologia, appunto. Habermas arriva a parlare in maniera proprio specifica della diagnosi genetica di preimpianto e si arrampica in una strada veramente tortuosa e scivolosa perché, non riuscendo a produrre argomenti sufficientemente forti per negare oggi gli utilizzi della diagnosi genetica di preimpianto (che sono – lo ricordiamo – utilizzi destinati a prevenire malattie gravissime e anche, tutto sommato, abbastanza rare, quindi non c’è un utilizzo di routine della diagnosi genetica di preimpianto), è in agguato un altro argomento, che abbiamo avuto il piacere di sentire anche da molti politici (non scorderò mai il bambino acquistato al supermarket di Francesco Rutelli). L’argomento è che, nel momento in cui la tecnica evolverà un po’ di più di così, e lo scenario è dietro l’angolo, la diagnosi genetica di preimpianto verrà utilizzata come un vero e proprio strumento eugenetico per migliorare la razza e per rispondere ai capricci più assurdi dei genitori, www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ ovvero il bambino bello, biondo e con gli occhi azzurri che ci ha riempito le orecchie per mesi e che appunto sarebbe uno scenario in agguato tra pochissimo. Oltre al fatto che condannare una pratica oggi, una possibilità oggi in virtù di possibili degenerazioni è un passo pericoloso e molto scorretto, beh io vorrei chiedere ad Habermas e a chi la pensa come lui: perché no? Mi spiego. Credo che, in tema di bioetica o di possibilità, appunto, offerte dalle biotecnologie, la domanda principale è: perché no? perché qualcosa non si potrebbe fare? Insomma, sono i divieti a richiedere una giustificazione e non la possibilità. Con una domanda un po’ provocatoria chiederei: che male ci sarebbe a scegliere il colore degli occhi o dei capelli del proprio figlio, in tema di tratti neutrali, ovvero non cambia l’esistenza del nascituro se ha i capelli biondi o neri. Accettata questa premessa, che male ci sarebbe a dare ai genitori la possibilità, oltre che di scegliere di fare un figlio (che è l’atto che viola più fortemente la libertà del nascituro perché lui non può dare il consenso, siamo noi a scegliere se, come e quando fare un figlio), dicevo, quindi a seguito di questo primo atto “irrispettoso” (sto forzando, ovviamente), quali sarebbero le ragioni per vietare appunto la scelta del colore dei capelli o dei tratti migliorativi, per esempio, talenti migliorativi. Premesso che siamo ancora in un terreno fantascientifico perché al momento, oggi non sarebbe possibile manipolare il patrimonio genetico del nascituro inserendo, per esempio, talenti musicali o talenti scientifici o talenti per la matematica, stiamo ragionando su un terreno di ipotesi, la risposta che dà Habermas è: “No, io ti dico di no, che te lo vieto perché, in quel caso, appunto si viola l’autodeterminazione del nascituro e gli si impone la tua visione, la tua visione di genitore, la tua visione della felicità o del mondo”. Ma ancora una volta bisogna prendere una decisione. Se, come lo stesso Habermas dice, il determinismo genetico è rifiutato, allora dobbiamo ricordare che l’inserimento di un talento per la matematica non violerebbe in alcun modo la libertà del figlio poi di ignorare questo talento. Ci sono tantissimi casi che accettiamo abbastanza semplicemente di condizionamenti infantili/adolescenziali che sono molto più irreversibili e molto più invadenti di una immissione di un talento matematico. A me viene sempre in mente – qualche anno fa se ne parlava spesso – la giovane e famosa tennista, Jennifer Capriati, non so se ve la ricordate, che da due anni il padre se la trascinava nei campi da tennis facendole fare allenamenti per dodici, quattordici ore, diciotto ore. Beh, insomma, sarei un po’ attenta a dire che l’inserimento nel patrimonio genetico è qualcosa che turberebbe l’ordine delle cose e violerebbe la libertà del nascituro, e tutti questi altri casi no, considerando poi appunto che non solo la nascita, la decisione di far nascere qualcuno come ho detto prima, è un atto fortemente egoistico, ma anche tutte le decisioni che si prendono in età precoci e anche in età un po’ meno precoci: le scuole, l’insegnamento, la lingua madre, il paese in cui nasce, la cultura in cui il nascituro vivrà. Tutto questo, se non è un condizionamento, vorrei sapere cos’è. Senz’altro questo richiama l’inviolabilità della vita e la sacralità dell’embrione. Su questo non c’è dubbio ed è lo stesso Habermas a ripeterlo in più occasioni e sono gli stessi che sostengono questi argomenti a ripeterlo in continuazione. Non dimentichiamo poi che, se si vuole far rispettare www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ il diritto al caso, si parla appunto di non toccare, non tocchiamo il patrimonio genetico del nascituro perché ha diritto ad avere il patrimonio genetico che il caso gli offre, la lotteria genetica, la lotteria cromosomica. Insomma, anche qui, a parte il fatto che stranamente il diritto al caso è nominato soltanto in questa circostanza, anche l’avere una malattia è casuale. Perciò bisognerebbe invocare quel diritto alla casualità anche in presenza per esempio di una trisomia del 21 o di un’altra patologia. Ma in questo caso Habermas per primo ma dietro di lui tutti gli altri sono pronti a dire: “Ma no. Di fronte alla malattia, allora interveniamo, manipoliamo”. Beh, e il diritto al caso? Qui dobbiamo decidere se accettiamo il caso con tutto quello che ci offre, quindi quando va bene siamo contenti, quando va male, e significa avere una malattia, una patologia, ce la dobbiamo tenere oppure se la scelta (ed è la scelta nel migliore interesse della persona per cui stiamo scegliendo se quella persona non può scegliere) è il criterio da preferire, da prediligere. Nessuno, entrando in sala operatoria, anche per un’operazione semplice, direbbe: “Fatemi un’operazione a caso, il chirurgo lo scegliete a caso, oppure l’anestesista. Chi c’è, c’è; tanto più o meno noi rispettiamo il diritto al caso e vogliamo essere coerenti fino alla fine”. Il problema è anche che la risposta che poi spesso viene tirata fuori “è semplice perché noi dobbiamo distinguere gli interventi terapeutici da quelli meramente migliorativi”, ma io sfido ognuno di voi a darmi una definizione soddisfacente di intervento terapeutico e intervento meramente migliorativo, per quanto ci sono casi indubitabili ma sui casi indubitabili non si creano conflitti. È chiaro che una trisomia del 21 è più semplice da identificare tra le malattie, per quanto poi sappiamo che la vita delle persone affette dalla sindrome di down tutto sommato è una vita più che dignitosa e tutto sommato la loro condizione di vita è migliorata e si è allungata, però senza dubbio è più semplice rispondere a una domanda del genere che a tante altre condizioni intermedie. Ma la risposta di distinzione così netta tra terapia e miglioria non funziona perché pensate anche a un aumento, a un incremento dell’intelligenza o di risorse immunitarie. Dove la collochiamo questa modificazione e questa manipolazione? Tra le terapie o tra le migliorie? Non lo so. È difficile. Quindi aggrapparsi a questa distinzione per dare una risposta è una mossa che non risolve la questione. Simile al diritto al caso è quello che Habermas chiama “il diritto alla spontaneità”. Questo si distingue un po’ dal diritto al caso perché si oppone all’intervento manipolatorio, appunto spontaneità contro produzione, produzione tecnica; è un argomento, anche questo, abusato, in cui si dice: si reifica il nascituro, si rende oggetto, si rende materia, quello che invece dovrebbe essere trattato esclusivamente come fine e non come mezzo. Il povero Kant che viene sempre, spesso invocato a questo proposito e si dice: la morale kantiana in cui la persona non deve essere usata come mezzo bensì esclusivamente come fine, è un’indicazione intanto troppo formale per essere una risposta soddisfacente, cioè ci dà un criterio vuoto che però deve essere riempito, cioè che cosa significa essere un mezzo, che cosa significa www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ essere un fine, e soprattutto, se davvero crediamo in questo dovremmo affrontare una serie di battaglie contro l’utilizzo delle persone come mezzi che non finisce più. Allora anche qui l’invito paradossale e anche un po’ sarcastico è alla coerenza e a non ricorrere a queste vuote formule per risolvere problemi che sono sì difficili, a volte forse senza soluzione, ma cui credo che senz’altro il modo peggiore per rispondere è dare una risposta che diventa una cantilena precodificata e che poi, a ben guardare, non significa nulla. Vorrei chiudere ricordando soltanto una questione, su cui anche Habermas torna spesso, anzi su cui Habermas, secondo me, dà risposte sbagliate e cioè che il bersaglio deve essere individuato con chiarezza. Per bersaglio in questo caso (abbiamo iniziato a parlare di informazioni genetiche ma anche in termini di salute) è il problema, e dove si cela un’ingiustizia o un’immoralità. Il processo per arrivare a capire quali sono davvero i passaggi immorali e sbagliati è, credo, una condizione fondamentale per trovare poi delle soluzioni. Contestualmente a questo, un’abitudine importante che bisognerebbe acquisire e suggerire nei dibattiti di bioetica, di biotecnologie, di medicina e di tecnologia è quella di valutare attentamente le argomentazioni offerte. Spessissimo nei dibattiti si ignora la necessità di fornire le ragioni per cui si sta affermando o chiedendo qualcosa e si dimentica del tutto o si vuole dimenticare che le ragioni, soprattutto quando interviene la coercizione legale, devono essere a sostegno del divieto e non della libertà delle persone di scegliere. Io credo che la libertà delle persone di scegliere debba essere considerata la condizione di partenza, la condizione di normalità su cui si interviene con dei divieti, anche i conflitti a cui ho fatto cenno prima sulle informazioni genetiche. È chiaro che la libertà o la riservatezza di quel padre di quella donna che aveva richiesto i test per fare una scelta procreativa sono state in parte violate, perché è stato costretto a offrire informazioni sulla sua vita personale e sulla sua salute, informazioni che lui non avrebbe voluto diffondere. Quindi c’è stata una violazione, ma in quel caso c’è stato un bilanciamento di diritti, un bilanciamento di importanza ed è stata presa una decisione, però in quel caso sono state offerte ragioni valide per sostenere quella coercizione legale, perché di coercizione si parla. Non è stato un invito a rilasciare la cartella clinica: è stato un preciso ordine. Credo che il primo dei risultati che ci dovremmo aspettare è suggerire questo tipo di atteggiamento, quindi offrire le ragioni per una tesi o per un’altra e soprattutto offrirle nel momento in cui si parla di coercizione legale. Ines Valanzuolo Un intervento brevissimo che si riallaccia all’affermazione ultima della dottoressa e a una delle precedenti che riguarda proprio il parto naturale. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Qualsiasi cosa stamattina sia stata detta su nascita, parto eccetera si è sempre conclusa con un richiamo alla necessità di modificare luoghi culturali obsoleti, cioè dobbiamo cambiare la cultura perché questo maschilismo imperante nel campo del lavoro, delle possibilità della donna di realizzarsi eccetera venga superato. Io mi chiedo come è possibile questo cambiamento della cultura se anche tra noi che siamo donne, e spesso ci sono anche donne che hanno potere nelle istituzioni politiche, cancelliamo completamente e tranquillamente una parte grandissima della cultura elaborata delle donne. Io ho fatto parte di un consultorio autogestito, sto nel movimento delle donne, insomma più o meno ho frequentato la cultura femminile e femminista da anni e mi stupisco tutte le volte, adesso sono la presidente degli archivi delle donne della casa internazionale, e abbiamo una cultura vastissima accumulata che non ha accesso in nessun luogo né nelle università e né nei luoghi del potere. E poi noi donne ci lamentiamo del perché non ci si arrivi. Piccola osservazione e qui concludo. Non si può parlare per esempio del parto in casa ricorrendo solo ai ricordi delle nonne quando esiste una cultura e una legislazione europea e nazionale che parla del parto in casa in termini completamente diversi. Io non sono d’accordo, ho fatto due figli in ospedale. Quello che mi stupisce è la mancanza di conoscenza. Pensate alla civilissima Toscana che prevede per esempio non la nonna ma l’assistenza al parto in casa facendo calcoli sui risparmi ecc. ecc., pensate all’Olanda. Se noi vogliamo dire che in Italia abbiamo una situazione sanitaria disastrosa che rende difficile questo, sì; ma liquidare con quattro parole tanti anni di riflessioni, di elaborazioni, di legislazione mi sembra veramente grave. Marcello Vigli Premetto che sono d’accordo totalmente sulla necessità di rivedere il concetto di natura, giungendo ad affermare che nel tempo l’uomo ha prodotto, con i suoi interventi, una nuova natura. Per cui quello che noi chiamiamo naturale, oggi va visto in quest’ottica. Quello che era naturale mille anni fa, non è naturale oggi e viceversa. Detto questo, mi pongo ugualmente una domanda. È la stessa cosa intervenire per ottenere un colore degli occhi o un colore dei capelli e invece per evitare una malformazione? Esiste, cioè, in qualche modo, un limite al diritto di chi procrea determinato dal potenziale diritto del procreato oppure no? Questo è l’interrogativo che mi pongo e credo che sia una discriminante molto importante proprio per evitare che i discorsi siano puramente ideologici. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Roberto Barale Volevo dire una cosa relativamente al colore degli occhi. Qui c’è un embrione con gli occhi azzurri, qui c’è un embrione con gli occhi neri. Ha il diritto il genitore di scegliere gli occhi neri o gli occhi azzurri? Ma qui bisognerebbe dirgli una cosa, però, perché altrimenti l’operazione non funziona. Cosa c’è in questo embrione con gli occhi azzurri di genetico che un domani questo bambino svilupperà rispetto a quello con gli occhi neri? Cioè, questo embrione con gli occhi azzurri potrebbe sviluppare una leucemia a dieci anni, quest’altro potrebbe avere, non so, l’epilessia, questo potrebbe morire di un difetto cardiovascolare gravissimo a diciotto anni o questo potrebbe avere una forma particolare di diabete. Tutte, cioè, condizioni genetiche oggi non ancora prevedibili. I test genetici oggi vengono fatti su una settantina di malattie. Voi dovete sapere che le condizioni patologiche note sotto il profilo genetico sono ottomila. Allora si parla di lotteria genetica ma si parla anche di lotteria e di predisposizione alle malattie che oggi, e penso per ancora molti anni, nessuno potrà mai prevedere. Allora, a un genitore viene detto: “Lo vuoi con gli occhi azzurri però qui non sappiamo dopo cosa ci sarà oltre agli occhi azzurri. Qui ha gli occhi neri, però non sappiamo se questo morirà o avrà delle malattie”, qual è quel genitore che, a questo punto, si prende la responsabilità di dire: “Voglio quello” con il rischio, dopo dieci anni, di vederselo morire di una malattia non prevista e con il rimorso di dire: “Se avessi scelto l’altro, probabilmente sarebbe sopravvissuto”. Allora viene da qui quello che dice questo signore, che secondo me è un profondo ignorante di queste cose, questo Habermas, del diritto a non sapere. Il dritto a non sapere deriva proprio dal fatto che nessuno oggi, posto di fronte a questa responsabilità di dover scegliere, nessuna persona ragionevole e informata potrebbe scegliere. Io personalmente non lo farei mai. L’unica cosa che potrei dire è che preferirei un feto femmina rispetto a un feto maschio perché noi sappiamo che tutti i geni che sono sul cromosoma x dei maschi, e ce ne sono circa ottocento di condizioni genetiche, nel maschio si esprime sempre come malattia o come condizione più o meno grave e nella femmina no. Allora se dovessi dire: voglio un figlio con maggior probabilità di essere sano, preferirei una femmina, ma solo per questo. Corrada Giammarinaro Sempre in provincia, noi seguiamo Croce e lo storicismo perché siamo all’antica. Io non capisco www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ perché mai esistano solo Platone, Kant e Habermas, e che ci siano stati anche Aristotele, Hegel e Croce non interessa più a nessuno. Qual è la cosa che voglio dire? Questo discorso dell’eugenetica, come diceva il professor Barale, nella storia non è mai esistito in questi termini terrorizzanti dal punto di vista dei singoli individui. È esistito in termini terrorizzanti dal punto di vista del potere. Allora se la storia da seimila anni va avanti così, io non vedo perché mi devo inventare un nuovo corso delle cose; l’individuo non fa scelte pazze, non fa scelte capricciose. È statisticamente una minoranza insignificante. Gli Stati invece, parecchi e sotto mentite spoglie, tendono a fare scelte aberranti. Allora, questo limite va posto al potere. E la libertà dell’individuo anzi è un freno rispetto a queste tendenze del potere, per cui il fatto che il giorno in cui sarà possibile ragionevolmente avere degli elementi di decisione la decisione sia lasciata al pluralismo mi garantisce anzi dal pericolo dell’eugenetica vera, e cioè che a decidere sia lo Stato, perché poi, a un certo punto, quando le informazioni ci saranno, qualcuno le vorrà utilizzare e qualcuno vorrà decidere e nessuno si è mai tirato indietro rispetto a niente. La bomba atomica ce lo insegna. Allora, signori, dalla bomba atomica in poi io non mi fido più né dello Stato e né della comunità degli scienziati. Io mi fido del signore che va dal professor Barale, il professor Barale gli spiega il discorso degli occhi azzurri e quello giustamente dice: “per carità di Dio!” Altra considerazione. Non c’è niente di più innaturale della religione, di tutte le religioni, questo è sicuro, apoliticamente, e finisco qua. Vladimiro Bibolotti Non vorrei che la domanda sembrasse fuori tema, però mi sembra pertinente perché mi occupo di privacy. Tra sabato e domenica, non so se è stata una fuga di notizie ad arte, è stato detto che esistono delle macchine nuove che leggono l’attività elettrica del cervello e le sinapsi. Quindi altro che la libertà di privacy! Siamo di fronte a uno scenario da “Minority report”, cioè la macchina che legge il pensiero. Io, a questo punto, mi dico: o è una grande balla oppure la scienza ha nuovi progetti Manhattan dove esistono degli scienziati abilitati a un’informazione del cosiddetto cartello militare industriale che, in barba a qualsiasi etica, fa ricerca veramente avanzata, e poi c’è una scienza da tv che invece è iperscettica, che gioca sull’informazione e che poi viene puntualmente sconfessata perché la legge dell’informatica, che non marcia in parallelo forse con la conoscenza di alcuni scienziati, la famosa legge Moore che ogni due anni il processore acquista la doppia capacità di www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ calcolo, allora abbiamo computer quantici e biologici, che usano magari l’NSA, o apparati industriali, ma non gli scienziati civili. Allora mi pongo il problema. Qui altro che violazione di privacy. Se esiste questa macchina, l’uomo muore come filosofia perché se qualcuno legge il pensiero prima ancora che venga costituito, qui siamo di fronte a una violazione delle attività politiche, sindacali, morali, etiche. Non volevo aprire un vespaio però, siccome si parlava del problema genetico, credo che il pensiero sia la prima attività che ci distingue dalla scimmia, anche se forse le scimmie pensano anche loro. Quindi credo che forse una cosa del genere andrebbe quantomeno o smentita o confermata. Quindi volevo sapere: è vero o no? Chiara Lalli Per quanto riguarda i limiti per chi procrea, io credo che possa valere in generale il discorso che vale sui limiti delle azioni, ovvero la considerazione del danno a terzi. Rispetto agli occhi o ai capelli, io giudico che non siano elementi dannosi in quanto occhio azzurro o colore di capello nero, non associato poi ad altri problemi o ad altri fattori di rischio. L’occhio azzurro come dato in sé per sé credo che sia neutrale. Non cambia granché se ce l’ho o se non ce l’ho. Pertanto, rispetto alla casualità, perché non dare la libertà, la possibilità al genitore di scegliere? Ripeto, l’occhio azzurro non andrà a minare una vita di salute o di libertà del nascituro. Perciò, tutto sommato, di fronte a queste due strade, perché no, mi viene da dire. Sul richiamo alla natura, è difficile anche solo dare una definizione di cosa è natura e di cosa non lo sia. Mi viene da rispondere con una domanda: una spremuta di arance è artificiale o naturale? Non lo so, ne dovremmo parlare partendo dalle premesse che sono concettuali e terminologiche di cosa intendiamo per natura, cosa intendiamo per artificio. Quindi la risposta non è senz’altro semplice. Credo che proporla disgiunta da una considerazione di danni e di ipotesi che noi facciamo (è necessariamente un’ipotesi) delle ricadute delle nostre scelte sulla vita del nascituro, sia un po’ inutile nel senso che darsi una risposta “lo faccio perché è naturale per il nascituro” ha poco senso. Chiediamoci se le nostre scelte, e in che modo, pesano o minacciano appunto una vita di salute o peggiorano la vita che il nascituro potrebbe avere. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Sul diritto al non sapere, è uno dei punti da cui sono partita che fare finta che una possibilità (e non solo una possibilità medica e tecnologica, diagnostica) non esista coprendosi gli occhi, non solo non è immune da conseguenze, non solo non è immune da un giudizio morale; secondo me, anzi è, a parità di condizioni, peggiore di qualunque scelta che si assume un rischio consapevole, perché poi l’assunzione del rischio è inevitabile anche nelle scelte dal punto di vista probabilistico più sicure. Quindi non è che compiere una scelta giusta ci mette al riparo dai rischi, dagli errori e dai problemi. Questo anche in parte risponde a quella che forse non era neanche una domanda ma era sollevare un problema, un dilemma complesso, ovvero: tra due embrioni che hanno determinate caratteristiche e non solo neutrali, ovviamente, ma predisposizione a contrarre una malattia, predisposizione a una debolezza, quindi una situazione molto più complessa e molto più spinosa del colore degli occhi o dei capelli, di fronte a scelte del genere mi sembra di poter dire che qualunque scelta tra l’embrione A e l’embrione B non può mettersi al riparo da rischi e da una scommessa, che poi si fa con tutti i dati che si hanno a disposizione, e si fa una scelta che si spera sia la migliore ma che senz’altro non è la scelta vera, giusta, unica e preferibile; è un rischio che ci si assume, ricordandosi di stabilire i criteri della nostra scelta e credo che tra quelli più importanti rientrino, nella considerazione del danno a terzi, le ricadute che poi le nostre scelte avranno sulla vita del nascituro. In questo caso è il nascituro, in altre circostanze è un’altra persona, comunque è una persona che è diversa da noi perché su scelte che riguardano soltanto me stessa, le condizioni possono cambiare, credo, perché tra le decisioni che riguardano esclusivamente lo stesso oggetto che decide e subisce e le decisioni che invece sono prese da una persona e investono un’altra ci sono degli slittamenti e delle differenze. Per quanto riguarda lo Stato, quello che non è successo io penso che possa essere utile dal punto di vista storico, non ritengo che sia una garanzia sufficiente nel senso che dire “Finora non è mai successo x” non ci mette a riparo dal fatto che non possa succedere tra un minuto, tra un mese o tra un anno. Perciò devono esserci delle garanzie e dei requisiti a difesa delle libertà individuali, a difesa della salute, a difesa di quello che vogliamo noi ma insomma non basta dire: “più o meno finora ce la siamo cavata e quindi funziona così” rispetto al discorso di Stato. Dico un’altra cosa, però: gli Stati che vengono invocati in opposizione alle persone dicendo: “Le persone sono rassicuranti. Sono gli Stati che hanno fatto disastri”, beh gli Stati sono persone, dentro gli Stati ci sono persone. Che poi seguano un’ideologia sovraindividuale è un’altra storia, ma sono persone che prendono delle decisioni e in genere, in questi casi, sulla pelle di altri. Allora in questo senso devono intervenire garanzie e tutele, per non permettere che dieci persone decidano per cento, mille o centomila ma anche che dieci persone decidano per un’altra sola, perché rispetto ai diritti individuali non vale il fatto che se rischiamo di violare i diritti di tre milioni di persone è una cosa grave e se rischiamo di violare i diritti di una sola persona è meno grave. È altrettanto grave perché qualunque provvedimento, qualunque decisione, qualunque coercizione www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ rischi anche di violare i diritti di una sola persona, chi si macchia di questo: se è uno Stato, è illegittimo, illiberale ecc. ecc.; se è una persona, è un criminale. Sulla macchina, io naturalmente non mi sento di dare una risposta tecnica e specifica al posto di chi ha dato la notizia. Mi viene un po’ da sorridere e mi sembra che annunci del genere somiglino molto alle ricorrenti scoperte del gene della timidezza, del gene della simpatia, del gene dell’innamoramento e del gene di non so cos’altro Allora è un’idea molto ingenua del sistema nervoso centrale, è un’idea ingenua della mente, che io ritengo non coincidente e non perfettamente identificabile con il cervello, e anche un’idea ingenua dei meccanismi di connessione genetica, insomma, dei rapporti tra genotipo, fenotipo, vita, identità. Appunto è un altro modo per dire: la nostra identità è il nostro dna. Ma no! Senz’altro il dna è un elemento fondamentale, ma la nostra vita non è il nostro dna: la nostra vita è molto di più. Così come il nostro modo di essere simpatici, timidi o di innamorarci, è molto diverso dal presunto gene della timidezza, della simpatia. Poi la lista è indeterminata e potenzialmente infinita. Mirella Parachini Una cosa telegrafica sul parto, se mi posso permettere, perché non è possibile che noi rivendichiamo la libertà alla salute riproduttiva e poi pensiamo a un divieto esplicito del parto a casa. Quindi mi sembra che vada senz’altro riconosciuto. Quello che secondo me però diventa pesante è il problema del consenso informato. Quindi il consenso informato di quello che può succedere con un parto, secondo me è una questione, da un punto di vista medico legale, veramente di una pesantezza straordinaria, anche perché in fondo si può dire che tutto è andato bene solo alla fine. Anche nella migliore e più rosea previsione, senza fattori di rischio e in una situazione con fattori prognostici favorevolissimi, ci può esser l’incidente. Quindi, dal mio punto di vista – e ne abbiamo parlato con Donatella –, il grosso problema è che se tu per legge chiedi a un medico di dare una definizione di parto che può avvenire fisiologicamente, io sfido chiunque a trovare un ginecologo sulla faccia del territorio nazionale che ti metta per iscritto che sicuramente quel parto ha le condizioni di un parto fisiologico e quindi può essere fatto a casa, quando poi qualsiasi evento avverso verrà ascritto e attribuito a quella certificazione. Quindi secondo me è molto difficile. È chiaro che l’esperienza olandese o di altre realtà fa i conti anche con un discorso territoriale molto diverso rispetto alle nostre città, ai nostri traffici, ai nostri collegamenti con gli ospedali ecc. ecc. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Io penso che vada sicuramente difeso il diritto di scelta, visto che l’abbiamo fatto su tutti i fronti, ma nell’ambito sicuramente di un consenso informato. Gilda Ricci Siamo di fronte a materie di una grande delicatezza, e affrontarle anche con tanto rispetto, come si sta cercando di fare in questa sede, è qualcosa che i giornalisti dovrebbero imparare. Scusatemi, ma sono un po’ in polemica soprattutto per l’etica della stampa e della comunicazione, che continua a darci segnali non sempre chiari, anche rispetto alla soglia di quel limite kantiano, rispetto a quei paletti che, in un contesto diverso, storico, vanno messi e vanno sistemati, e che spesso nuove o vecchie generazioni, non sempre in feeling fra di loro, riescono a stabilire, figuriamoci poi nel mondo della scienza e della ricerca. Però, nel mondo della filosofia, queste cose dovrebbero essere pane quotidiano da dare in pasto ai politici, alla stampa, e ai ricercatori, forse, anche, perché l’intelligenza, come la scienza, può essere utilizzata nel bene e nel male. Penso che sia proprio lì che noi dobbiamo pensare, ragionare, per educare i nostri figli e i nostri alunni nelle scuole, i nostri studenti nelle università, quindi di capire fino a che punto possiamo arrivare.. Roberto Barale Ordinario di genetica dell’Università di Pisa Personalizzazione dei farmaci Innanzitutto anche io colgo l’occasione per ringraziarvi per questa opportunità, perché anche oggi ho imparato un sacco di cose, e come diceva uno, di cui non ricordo il nome ma ricordo quello che ha detto, “dopo una conferenza, speaker e uditorio non sono più quelli di prima”, perché si impara tutti quanti. In realtà il titolo era un pochino più lungo, io parlerei anche di suscettibilità genetica alla malattia, uso della genetica nella diagnosi, e poi personalizzazione della terapia delle malattie. La dottoressa Lalli, stamattina, ha molto egregiamente spianato la strada a quello che andrò dicendo; io cercherò di farvi vedere gli aspetti pratici, utili, della ricerca genetica, quello che si sa, e i limiti, senza trionfalismi. Un famoso patologo, uno dei più grandi patologi della storia della medicina, disse: “Se non fosse per la grande variabilità tra gli individui, la medicina sarebbe una scienza e non un’arte”. Oggi la genetica può contribuire a far diventare la medicina una scienza, con innovativi contributi alla prevenzione, diagnosi e terapia. Ecco, qui vi faccio vedere alcuni caratteri genetici determinati da un singolo gene, quelli che si possono analizzare, vedete, i peli sulle falangi, il mignolo curvo all’interno, le fossette nelle guance - sono tutti caratteri trasmissibili, dati www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ da un singolo gene - il lobo staccato, le lentiggini, l’attaccatura dei capelli a V, il pollice verso, la lingua arrotolabile oppure no, accavallare le gambe: il semplice modo di accavallare a destra, sulla sinistra, o sulla sinistra o sulla destra, è un carattere genetico. Lo stesso la ritrosa – noi la chiamiamo così, in Toscana – come girano i capelli, anche questi sono caratteri singoli. Così come i capelli crespi, il naso alla francese, il nasino all’insù è recessivo, mentre il naso alla romana, tipo alla De Sica, per intenderci, è dominante. Il labbro carnoso è dominante sul labbro sottile. Ecco, questi sono tutti caratteri genetici dati da un singolo, e che forse potrebbero essere quei caratteri di cui diceva stamattina la dottoressa Lalli, cioè una mamma potrebbe dire: io vorrei un fetino con le labbra carnose, il naso alla romana, eccetera, eccetera. Ammesso che in quel feto combinino giusti: uno potrebbe avere il naso alla romana e le labbra sottili, oppure i capelli lisci. Quali scegli? Ecco, qui si pone già il problema, ammesso che si potesse fare questo, il genetista dovrebbe dire: no, guarda, tu devi scegliere una combinazione, ma le combinazioni non le decidi tu, le ha decise il caso, quando si sono formati quei gameti, quindi prendere o lasciare, cioè, può darsi che con gli occhi azzurri ci siano delle labbra sottili, e a te non vadano bene, o ci siano i capelli negroidi, crespi, e che a te non vadano bene. E allora? Ecco, esemplifico in modo molto banale un problema che sarebbe molto grosso, se si potesse fare, perché uno non saprebbe poi quale carattere decidere. Ci sono altri caratteri, per esempio il colore degli occhi, sono poligenici, non è un gene solo, sono almeno quattro quelli che controllano il colore degli occhi, quindi già diventa complicato che tutti e quattro siano presenti nello stesso modo, nello stesso feto, così anche come il colore dei capelli, a parte che si possono tingere e quindi il problema non esiste più ma, insomma, anche qui il problema non è così semplice. Ecco, la maggior parte dei nostri caratteri sono determinati da più di un gene, e dalla interazione da più geni, per cui diventa veramente difficile poter selezionare individui che abbiano quelle combinazioni particolari, statisticamente sarebbero molto rari. Comunque, andiamo avanti. Ecco, questo è un altro carattere abbastanza frequente nella popolazione, il daltonismo. Anche questi sono caratteri genetici semplici, cioè dati da un singolo gene. Allora, così come noi ci vediamo tutti diversi qui dentro, perché, mi domando e vi domando, perché non dovremmo essere altrettanto diversi nel contrarre le malattie, visto che le basi molecolari, biologiche, che ci determinano il colore degli occhi, la forma del naso, il colore dei capelli, eccetera, sono gli stessi, gli stessi meccanismi non gli stessi geni, che ci rendono suscettibili a tutte le patologie. Per esempio guardate questo caso, qua abbiamo due individui che da ragazzi fumavano e bevevano, quaranta anni dopo uno è nel letto di un ospedale con un tumore al polmone e fa la chemioterapia, e quell’altro se ne sta bene, e continua a fumare e a bere. Perché? Sono stati esposti allo stesso cancerogeno, uno è finito malato e l’altro no. La spiegazione sta nei loro geni. L’epidemiologia è quella scienza che studia i rapporti tra causa ed effetto, per esempio nella patologia: c’è uno che fuma e poi dopo quaranta anni, dopo trent’anni, ha un grosso tumore polmonare. Ecco, con la epidemiologia molecolare, cioè andando a vedere che cosa succede in quella scatola nera che c’era tra l’esposizione e l’evento, si è scoperto che tutti i vari passaggi che portano dal fumo al tumore, sono tutti passaggi, meccanismi biologici, che sono controllati da geni, i geni che noi abbiamo, per cui, a seconda delle varianti genetiche che noi abbiamo ereditato, alla fine svilupperemo il tumore oppure no, come succede in otto casi su nove. Queste differenze sono dovute appunto al nostro Dna. Vedete, qui c’è un Dna srotolato e, vedete, quella stellina fa vedere un’alterazione nell’informazione genetica, sono quelle collanine, sono le proteine, che sono i www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ famosi enzimi, o quello che volete, che determinano le diversità biologiche dei vari funzionamenti della macchina biologica. Ci possono essere alterazioni di vario tipo, qui aumenta il numero delle collanine, collanine più corte, collanine modificate. Tutto questo si ripercuote a livello fenotipico con un cambiamento: i capelli diventano bianchi, o cascano, oppure uno è più alto, uno è più basso, eccetera eccetera. Allora, noi abbiamo il nostro fumatore, eccolo lì, le molecole del fumo sono quei pallini grigi, generalmente sono poco tossiche, vengono modificate da una proteina, che chiamiamo “attivatore”, e diventano rosse, vedete, diventano cancerogene. Questo attivatore che vedete lì, varia da individuo a individuo, poi, queste molecole cancerogene, oltre ad essere cancerogene del polmone, circolando nel sangue, finiscono nei reni, vedete, e anche nei reni c’è un altro enzima, che chiamiamo volgarmente “eliminatore”, e trasforma queste molecole dannose in molecole meno dannose, verdi, che vanno via. Allora, vedete qui, trovate le varie possibilità che possono accadere nei vari individui, per esempio, se io ricevo dai miei genitori due copie di attivatore molto attivo, tutto il fumo verrà trasformato in cancerogeno potente. Invece, ci può essere chi mi siede accanto che ha un attivatore, per motivi genetici, pigro, e quindi delle molecole del fumo solo poche verranno trasformate in cancerogene, e quindi questo potrà fumare tutta la vita, abbastanza tranquillo, senza sviluppare il tumore. Poi, lo stesso, le eventuali molecole cancerogene, rosse, finiscono nel rene, e anche lì, a seconda di cosa io ho ereditato come eliminatore, più o meno veloce, avrò più molecole rosse, e avrò anche un rischio di un tumore renale, infatti i fumatori rischiano anche di avere un tumore alla vescica, un tumore al rene, oppure, se ho l’attivatore meno veloce, non mi succederà nulla. Per cui, a seconda delle combinazioni di tutti questi geni che modificano il comportamento di questo cancerogeno, alla fine il risultato sarà: arrivo a ottanta anni e poi magari morirò di infarto, qualcosa succederà, però non muoio di tumore al polmone. Queste varianti sono dovute a piccoli cambiamenti nel nostro Dna; il Dna è una sequenza di quattro lettere, e noi oggi siamo in grado, con delle macchine, di leggere queste lettere nel nostro Dna e anche di valutare quanto questi geni si esprimono, e il modo di espressione di questi geni, il livello di espressione di questi geni, viene tradotto, trasformato in colori: ogni pallino rappresenta un gene, quando c’è il colore scuro, rosso, verde o giallo, questo mi indica un’espressione di questo gene più o meno forte. Per cui, ogni individuo, indipendentemente che sia maschio o che sia femmina, che sia negro o che sia bianco, ha un suo profilo genetico individuale. Quindi, per il genetista, il colore degli occhi, a cui mi riferivo prima, il colore dei capelli, non interessa niente, sono tre o quattro caratteri sui venticinquemila che abbiamo; quello che interessa al genetista sono tutti i caratteri che non vediamo: quelli metabolici, quelli che determinano il nostro funzionamento, quelli che determinano il rischio di una malattia piuttosto che un’altra, che non si vedono dai capelli o dall’aspetto, si vedono con le analisi, e ognuno ha il suo. Voglio ricordare che, dal punto di vista genetico, ogni individuo è unico, nella storia dell’umanità, per cui la dignità genetica individuale deriva da questa consapevolezza. Vorrei anche dire ancora una cosa, che ci mette a volte in difficoltà con i colleghi che trattano di leggi: mentre nella nostra legge esistono… non so se esistono ancora i figli illegittimi, per il genetista, siccome ogni individuo ha dignità assoluta, non esistono figli illegittimi, esistono padri illegittimi, cioè padri che credono di essere il padre, volgarmente detti in un altro modo. Alla fine, e qui si arriva a quello che ci diceva stamattina la dottoressa Lalli, dal profilo di espressione genetico di un soggetto, il dottore, il medico, lo specialista, può dire: questo soggetto ha una più alta probabilità di avere un tumore al rene. Ecco, che cosa se ne fa di questa informazione il dottore, e la deve trasmettere o meno a questo soggetto? Qui si apre tutto un discorso, che però potrebbe essere interpretato in modo positivo, qualora venga trasmessa nel modo corretto, e non è probabilmente il genetista la persona www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ giusta a fare questo lavoro, ma sono altri personaggi, preparati per questo, per esempio per dare consigli comportamentali: consigli dietetici, consigli di stile di vita, per sottrarre questo soggetto, che ha la predisposizione al tumore del rene, ma non necessariamente contrarrà quella malattia, se – e non sempre è vero anche se non lo fa – se cercherà di avere un comportamento piuttosto che un altro. Qui vediamo, per esempio, geni che noi conosciamo e che manipoliamo, e che studiamo, che controllano, quando c’è un’esposizione, aumentano il rischio, per esempio, di questi tipi di tumore. Ce n’è una valanga, e questo giusto per fare un esempio. Ma proprio per questo, ce ne sono talmente tanti che a un certo punto uno, se dovesse stare attento a tutti, non saprebbe più che cosa fare, perché, dice: se fumo, mi viene il cancro di qua; se bevo, mi viene il cancro di là; se sono esposto al benzene, mi viene l’ematossicità; se vado per strada, mi viene il cancro di là… ma allora, che devo fare? Ecco perché quel determinismo, a un certo punto, sparisce, per il genetista che conosce queste cose, non esiste più il problema, perché? Perché sono talmente tanti i fattori di rischio, ambientali da una parte, e talmente tante le predisposizioni a quei fattori, e praticamente non esiste il genoma ideale, il genoma che arriva a centocinquanta anni, sempre giovane, sfolgorante, eccetera. Esiste una maggiore o minore probabilità, ma sono tutte sfumature, sfumature a volte pochino più forti, a volte meno forti, ma niente di più. Ecco perché, interpretate per davvero, queste cose non fanno così poi più tanta paura, fa paura quando vengono interpretate male, o usate male, dalle persone sbagliate. Diagnostica: come i soggetti sono tutti geneticamente diversi, anche le malattie sono tutte diverse. Quando uno dice “io ho un tumore”, ma, un momento, quale tumore, come è fatto questo tumore? Innanzitutto questo tumore viene dalle tue cellule, che non sono le mie, e che non sono le sue, quindi già parte, il tumore, già diverso quando nasce, perché nasce in me e non in lui, quindi il tumore ha il mio genotipo e non il suo. Dopo di che, nello svilupparsi, acquista ulteriori mutazioni, ulteriori variazioni, per cui è ancora più diverso, per cui ogni tumore è una malattia a sé stante, non solo perché sta in un paziente diverso ma perché lui stesso è diverso, e quindi necessita di essere conosciuto e di essere aggredito in un modo a lui specifico. Ora, vedete, qui c’è un esempio di quello che oggi si può fare, e si fa: prendere dalle cellule tumorali, vedete, quelle striscioline lì non sono altro che acidi nucleici, Rna messaggeri, che sono l’espressione dei geni di quel tumore, e poi, vedete, sempre con quei sistemini a colore, riusciamo a capire quale gene è attivo e quale gene funziona di meno in quel tumore. Allora, vedete, qui, ci sono vari tipi di tumore e, a seconda di quali geni sono attivi o non attivi, ci sono queste strisciate di colore che ci dicono quali geni funzionano e quali geni non funzionano, e questo è importantissimo per capire quale sarà l’evoluzione del tumore, quanto cattivo sarà questo tumore, quale probabilità di sopravvivenza avrà il paziente, quindi quale atteggiamento terapeutico andrà preso per qual paziente. Questo è un lavoro fondamentale, fatto dagli olandesi, pubblicato su Nature nel 2002, dove loro presero dei tumori piccoli, di mammella di donna, analizzarono l’espressione dei geni, e poi andarono a vedere che cosa era successo a queste donne, nei cinque anni successivi. Guardate, questo è veramente interessante, è un po’ complicato ma io vi farò vedere soltanto una piccola cosa: vedete questa tabella, nelle ordinate ci sono i numeri di tumori analizzati, quindi ogni riga orizzontale, vedete ci sono tanti quadratini, rossi, neri e verdi, ognuno di quei quadratini rappresenta un gene: quando è sottoespresso è rosso, quando è sovraespresso è verde. Ogni riga rappresenta quindi un tumore. Vedete che sono tutti diversi? Cioè ognuno ha un gene che funziona di più, o un gene che funziona di meno. Allora che cosa hanno fatto? Con dei sistemi statistici e informatici, sono stati raggruppati per maggiore o minore similitudine di espressione dei geni di ciascun tumore, quindi ne hanno quasi individuate quattro classi, a seconda di come si esprimevano, all’ingrosso, tutti questi geni analizzati. Poi sono www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ andati a vedere quale sarà stata la sopravvivenza di queste donne a distanza di cinque anni… anzi, quindici anni, questo è un lavoro successivo, questo è del 2007, è uscito ora, quale è stata la sopravvivenza. Vedete che quei quattro gruppi, a seconda dell’espressione genica dei tumori, corrispondono a quattro gruppi di sopravvivenza: quello in alto, nero, sono quasi tutte sopravvissute, a quindici anni di distanza solo quattro sono morte e tutte le altre sono sopravvissute; al contrario, la riga in basso, verde, erano quelli che avevano una tipologia di espressione genica, una delle quattro, sono morte praticamente il cinquanta percento. Quindi, questo cosa vuol dire? Che al momento dell’espianto del tumore, se fosse stata fatta questa analisi – questa analisi è stata fatta ora perché quindici anni fa queste tecnologie non erano disponibili, questi sono tutti tumori presi quindici anni fa, messi in congelatore e analizzati adesso – se quindici anni fa fosse stato possibile fare questa analisi, queste pazienti potevano essere divise in quattro categorie: quelle che sarebbero sopravvissute, quindi queste potevano essere avviate a una terapia leggera, solo radioterapia, ad esempio, mentre invece quelle che purtroppo sono poi decedute sarebbero state trattate con una terapia più aggressiva, più a loro consona. Quindi, l’analisi genetica, per esempio in questo caso della patologia, dovrebbe dare al clinico uno strumento prognostico importante per indirizzare poi il paziente alla terapia più adatta. Per esempio, a quelle del gruppo lassù in alto, si poteva benissimo risparmiare la chemioterapia, con tutti gli svantaggi e le ripercussioni che noi conosciamo, mentre, invece, quelle che a una terapia convenzionale non hanno ottenuto nessun vantaggio perché, ahimè, cinquanta percento sono morte, dovevano essere avviate a terapie le più aggressive e le più importanti possibili. Questo con un risparmio, se vogliamo parlare di soldi, per il Servizio Sanitario, ma soprattutto per il paziente con un risparmio a volte di inutili, costose e pesanti terapie. Ecco, proprio qualche giorno fa, è uscito un test genetico approvato dalla Fda americano, che appunto studiando, la compagnia, è una compagnia olandese, la Gendia, studiando l’espressione di settanta geni del tumore della mammella, riesce ad individuare i fenotipi a rischio, e riesce addirittura a dire se la donna avrà beneficio dalla chemioterapia, oppure no. Questo è estremamente importante perché significa, appunto, sollevare tante donne da una devastante terapia, che lo diventa ancora di più se poi è inutile. Ecco, questo per esempio è un linfoma, un linfoma di tipo B, vedete, da un punto di vista clinico, i clinici, guardando come stanno le cose, dividono i pazienti in basso rischio e altro rischio, quello rosso. Però, anche dentro il basso rischio, fino ad ora non c’era nessun modo per andare a vedere se c’erano delle sottoclassi, invece con l’analisi genetica quelli a basso rischio possono essere suddivisi ancora una volta in due gruppi: quelli praticamente a bassissimo rischio, e quelli ancora con un certo rischio, che devono essere trattati in modo più drastico, pur appartenendo al gruppo che viene considerato a basso rischio. Questo perché nel basso rischio, in realtà, c’è una moltitudine di tipologie, di cui alcune veramente basse, alcune un po’ meno, che richiedono un atteggiamento terapeutico più aggressivo. Ancora una volta, quindi, il profilo, questa volta, appunto, non del paziente ma del tumore. Ecco, la terapia personalizzata o farmacogenetica: allora, come siamo diversi nell’avere i capelli bianchi, rossi, o neri, siamo anche diversi nel metabolizzare i farmaci, quindi nell’assorbirli, nel trasformarli e nell’utilizzarli. Guardate… qui vedete, nel pannello a sinistra, sono cellule dell’intestino, ci sono i villi, vedete, e i farmaci di solito li prendiamo per bocca, vengono assorbiti e a destra c’è quella roba rossa che è il sangue, vanno a finire nel circolo sanguigno. Il farmaco non è che entra e passa tranquillo, ci sono delle pompe dentro le cellule, delle pompe che lo fanno entrare e lo ributtano fuori, cioè lo ributtano nell’intestino. Anche queste pompe, come tutte le cose del nostro corpo, sono controllate da geni: dobbiamo essere consapevoli che noi funzioniamo in tutti i modi perché ogni cosa la fa un gene. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Ora, questi geni possono cambiare da individuo a individuo, per cui la mia pompa può funzionare più della sua o meno della sua, per cui, se io assumo la stessa pasticca, io l’assorbo di più, lui l’assorbe di meno… l’assorbimento è diverso; vedete, a seconda del genotipo, sarà basso, medio o elevato. Per esempio qui abbiamo un lavoro fatto, recentemente pubblicato da noi, sulla risposta di bambini alla chemioterapia per leucemia linfoblastica, vedete la diversa sopravvivenza di questi bambini, trattati tutti nello stesso modo, a seconda di una variante nella pompa: vedete, quelli in alto sono quelli che sono sopravvissuti di più perché hanno assorbito più farmaco; quelli che sono tratteggiati, sono quelli che purtroppo hanno ottenuto minor giovamento dalla terapia, perché la loro pompa ributtava il farmaco via nell’intestino e ne assorbivano di meno, quindi, invece di dargli una pasticca, il dottore gliene avrebbe dovute dare due, gliene avrebbe dovute dare tre, per far fronte a questa diversità genetica. La stessa cosa l’abbiamo fatta su malati sempre di mieloma multiplo, anche questo è un lavoro pubblicato proprio ora, anche lì ancora una volta due curve di sopravvivenza: venti, quaranta, sessanta mesi di sopravvivenza. Pazienti con mieloma multiplo, trattati tutti nello stesso modo, per una sola differenza in un solo gene, questo trasportatore del folato, vedete in alto quella curva, che sono vivi, il novanta percento è ancora vivo a sessanta mesi, praticamente quasi tutti sono vivi perché hanno una variante del gene che non hanno quegli altri che, vedete, sono morti . Io non mi sono interessato soltanto di risposta ai farmaci, in termini di guarigione, ma ci stiamo occupando anche del dolore. Il dolore è, come è stato detto anche stamani, un grosso problema, e ci siamo occupati della risposta alla morfina, che è l’antidolorifico ancora più utilizzato. Bene, la morfina anche lei subisce il destino di tutti gli altri farmaci: deve essere assorbita prima dall’intestino, poi deve andare nel sangue, poi deve superare la barriera ematoencefalica, andare nel cervello, poi nel cervello ci sono i recettori della morfina e, se la morfina non va nel recettore, non ha nessun effetto. Tutte queste cose sono ancora sotto controllo genetico, quindi la solita pompa che mi fa assorbire più morfina, poi, quando arriva al cervello, la pompa me la ributta fuori, deve entrare dentro; poi il recettore: io posso avere la pompa che mi porta dentro il farmaco ma, se il recettore non funziona, la morfina non si attacca al recettore, e io non ho l’effetto terapeutico. Allora, che cosa abbiamo fatto? Ecco, qui ci sono dei recettori, abbiamo valutato il calo del dolore in pazienti, questi sono centoquaranta pazienti, è raffigurato il calo del dolore da questo grafico, il dolore viene misurato in unità di dolore, dieci è il massimo, il dolore intollerabile che più grande non si può, e zero è nessun dolore, gli specialisti indicano con tre praticamente un dolore quasi scomparso. Vedete, questo modo di rappresentare, si chiama “scatole e baffi”, vi dice che il cinquanta percento delle osservazioni sta dentro la scatola rossa, poi il venticinque, superiore o inferiore, sta nei baffi, il che vuol dire che dei centoquaranta pazienti che sono entrati nella terapia antidolore, il cinquanta percento aveva un dolore che andava da otto a nove, poi c’era un venticinque percento che andava da nove a dieci, e un venticinque percento che andava da otto a sei, questo per leggere questo grafico. Dopo una settimana di morfina, uno, vedete il dolore mediamente calato, vedete la scatola è scesa giù, però vedete che la variabilità è enorme, cioè ci sono cinquanta percento dei pazienti che ha dolore da tre a sette, che stanno nel rosa, poi c’è ancora un venticinque percento di pazienti che ha un dolore praticamente come all’inizio, cioè da sette a nove, e invece c’è un venticinque percento di pazienti che ha praticamente ottenuto il massimo del vantaggio: ha un dolore da tre a uno. Quindi qui vedete tutta la diversità nella risposta alla terapia antidolorifica, in una settimana. Allora ci siamo domandati: tutta questa variabilità nella risposta è data da qualche gene? Abbiamo considerato, andammo a vedere come sono fatti i geni di queste persone, i geni della pompa e i geni del recettore, due soli, ce ne sono degli altri che entrano in gioco ma, per ora, ci siamo accontentati di questi due… www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ “accontentati” si fa per dire: non avevamo altri soldi e abbiamo fatto solo questi. Allora, guardate, abbiamo scomposto, quindi, tutta la variabilità, sconosciuta nel gruppo, dopo la prima settimana, secondo le diversità nella pompa: A, B, CB1 è il nome della pompa. Vedete che i pazienti sono diversi nella risposta al dolore, a secondo della loro caratteristica genetica che controlla l’efficacia della pompa. Lo stesso, Oprm1 vuol dire “recettore della morfina 1” vi fa vedere come la loro risposta può essere scomposta in tre livelli di risposta diversa: molto alta quelli che hanno avuto il calo maggiore, oppure quasi niente, vedete Oprm1 il genotipo due, quelli che praticamente non hanno risposto. Allora ci siamo detti, ma siccome noi ereditiamo gli uni e gli altri, qui abbiamo diverse combinazioni di tutte queste possibile varianti. Guardiamo come funzionano le combinazioni, eccole qui, allora, vedete, tutta la variabilità può essere scomposta, vedete, in tutte quelle scatolette lassù, a seconda delle varie combinazioni di pompa e di recettori: chi aveva la pompa buona e recettore cattivo; chi aveva recettore cattivo e la pompa cattiva; chi aveva la pompa buona… e tutte le varie combinazioni. Alla fine, vedete, i nostri pazienti possono essere divisi in non rispondenti, medio rispondenti e forti rispondenti, oppure a seconda del genotipo che presentavano. Quindi, questi pazienti possono essere individuati subito, prima ancora di entrare nella terapia. È chiaro che i non rispondenti, questi qui che erano una venticinquina, questi è inutile dargli la morfina. Di solito i medici, quando non rispondono, aumentano la dose, e non succede niente lo stesso perché, se uno ha il recettore scassato, che non capta la morfina, io posso dargli quintali di morfina. Ecco, allora, un’analisi genetica, che tra l’altro costa pochi euro, stiamo parlando di pochi euro, non stiamo parlando di centinaia di euro, un’analisi genetica, che può essere fatta in un giorno, potrebbe indirizzare immediatamente il medico sulla terapia più giusta per quel paziente. Quindi qui finisco con un esempio banale, ma provocatorio, che è questo: per la maggioranza dei farmaci la posologia cambia solo del cinquanta percento… una o due compresse al dì, prescrive il dottore, e è come se, entrando in un negozio, trovassimo solo due taglie di vestiti, 44 e 54, o due numeri di scarpe, 35 o 45. In realtà, nei negozi troviamo tutte le taglie, le mezze taglie, il drop, il drop lungo, drop corto, eccetera eccetera, e ci si domanda: ma perché per i farmaci non è così? E nei farmaci dovrebbe essere molto di più di così, perché noi sappiamo che, mentre non abbiamo mai visto uno che va in un negozio di scarpe senza piedi, o a comprare in un negozio senza avere un corpo, noi sappiamo che ci sono dei soggetti che mancano completamente di certi geni, e quindi in certi casi siamo proprio nella situazione estrema di totale incapacità di quel farmaco di agire su quel paziente, perché manca completamente il gene che serve o come recettore o come metabolizzatore di quel farmaco. Quindi, ecco, tutto questo andrebbe fatto, sotto certi profili, anche preventivamente, non solo al momento del ricovero ma andrebbe fatto prima, ecco perché si parla di scheda genetica per certi farmaci, perché ci sono delle patologie che richiedono farmaci di urgenza, che non offrono il tempo di fare un’analisi genetica: pensate a un infartuato che ha bisogno di un anticoagulante per sciogliere il grumo: noi sappiamo, per esempio, che uno degli anticoagulanti più utilizzati è il Warfarin, anche per questo il paziente risponde a seconda anche della sua struttura genetica, e lì il medico non ha il tempo di dire: vediamo se funziona, poi si cambia. O il farmaco funziona nelle prime tre ore, o se no il coagulo ha fatto il suo danno. Allora, quello che noi proporremmo è che per tutte le patologie che richiedono interventi di urgenza, e che non lasciano tempo all’analisi genetica, questa possa essere fatta prima e che ogni paziente abbia, insieme al gruppo sanguigno e alle varie altre cose, una sorta di targhetta che descriva il suo genotipo per i farmaci salvavita, di modo che il medico possa veramente, in modo più efficace, e tempestivamente accettabile, dargli il farmaco che più si attaglia al suo profilo biologico. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Gilberto Corbellino Professore di Storia della Medicina - Università di Roma, La Sapienza Libertà e controllo del comportamento Le sfide della neuroetica Oggi è il Darwin Day, oggi è il compleanno di Darwin, e credo che la lezione di Paolo Barale sia stata una fantastica lezione di biologia evoluzionistica, quindi un grande omaggio a Darwin perché, se le cose stanno così, perché se ognuno di noi è geneticamente unico, questa è la conseguenza del fatto che, con buona pace di tutti quelli a cui non sta simpatico, l’evoluzione esiste e ha funzionato. Ho scelto un tema abbastanza complicato, e lo svolgerò in modo molto franco, molto onesto, molto sincero, con, quindi, probabilmente, anche delle tesi, o delle posizioni, che sosterrò, un po’ forse eterodosse da qualche punto di vista, ma comunque credo che sia il modo migliore per confrontarci e discutere, dialogare, perché altrimenti, come dire, facciamo finta di niente e non facciamo il nostro mestiere. Allora, io parlerò un po’ di neuroetica, è un tema che oggi nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, sta diventando sempre più importante, cominciano a nascere dipartimenti, un po’ come quando nasceva la bioetica, e quindi prima di tutto due parole per mettere in rapporto neuroetica con bioetica. C’è un po’ di discussione, oggi, alcuni filosofi morali e psicologi morali americani cominciano a domandarsi se poi questa bioetica ha fatto del male o ha fatto del bene. C’è un libro molto bello, che so che è in traduzione anche in Italia, di un bravo filosofo morale, che è Jonathan Baron, uno psicologo morale in realtà, ha scritto un libro “Against Bioetic”, in cui dice che la bioetica , di fatto, ha prodotto più danni che non vantaggi, negli Stati Uniti. E come li ha prodotti questi danni? Baron analizza vari aspetti che sono un po’ delle trappole all’interno delle quali la riflessione morale sulle scienze biomediche si è andata a ficcare, e analizza anche tutta un’altra serie di aspetti, più legati a come la bioetica, in realtà, nel mondo occidentale, ha fatto da veicolo a una sorta di controllo politico, esercitato in modo arbitrario e non obiettivo, sulla scienza. Infatti fa anche un po’ riferimento ad alcuni discorsi che si cominciano a fare negli Stati Uniti, dove si ritiene che c’è un’epidemia di politica e di interferenze sulla scienza: non dimentichiamo che l’amministrazione Bush è stata fortemente attaccata da scienziati, e anche da politici, anche dagli stessi repubblicani, per aver strumentalizzato, falsificato, censurato, fatto una serie di cose piuttosto invereconde sulla scienza, sulle conoscenze scientifiche, manipolando i dati scientifici. Questo è stato fatto anche all’interno del Comitato Nazionale di Bioetica Statunitense: Elisabeth Blackburn, una ricercatrice, ha scritto un bell’articolo, qualche tempo fa, sul New England Medical Journal, intitolato “La bioetica e la distorsione politica delle scienze bioetiche”, sostenendo che attraverso la bioetica si è determinata una vera e propria operazione di manipolazione della verità, del dato scientifico. In Italia ne siamo stati protagonisti con la legge 40, gli scienziati non si sono ritratti a questo tipo di manipolazione, e l’Italia ha sicuramente una serie di fatti che dimostrano chiaramente la manipolazione politica della scienza, e come la politica ha www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ ignorato tranquillamente il dato scientifico, in modo piuttosto arbitrario, strumentale, mistificando dati scientifici, per imporre regole, leggi che, appunto, hanno di fatto creato una distorsione della scienza, anche della percezione della scienza, e questo è avvenuto, in buona parte, anche attraverso la bioetica. Questi sono alcuni esempi, si parte dal caso Di Bella, e si arriva ad alcuni aspetti del dibattito attuale sulle direttive anticipate di trattamento, ma ci sono anche questioni che riguardano i criteri di valutazione dei docenti e dei progetti di ricerca, poi la legge sulla fecondazione assistita, tutto il dibattito intorno all’istruzione primaria e secondaria e cioè la riforma Moratti, per quanto riguarda il ruolo della scienza nell’insegnamento primario e secondario. Ma questo è il clima in cui, secondo me, il mondo occidentale oggi un po’ si trova, nei riguardi della scienza: c’è un attacco alla scienza, e questo credo sia molto difficile metterlo in discussione. Il fondatore della bioetica, uno dei fondatori, ce ne sono tanti di fondatori, ma Albert Johns, che è sicuramente colui che ha guidato, anche istituzionalmente, il processo di inserimento della bioetica nel mondo nordamericano, ha detto, in una famosa conferenza del 1999, intitolata significativamente “Perché la bioetica è diventata così noiosa”, che: “la bioetica ha smarrito gli stimoli intellettuali e il coraggio morale delle prime battaglie contro il paternalismo medico e in difesa del riconoscimento dell’autonomia decisionale dei pazienti, si è addomesticata diventando una disciplina autoreferenziale e localistica”. Ed è lo stesso Johns che, a un certo punto, agli inizi del 2000, lancia anche una grande operazione, organizza una conferenza a Stamford, con il finanziamento della Dana Foundation, intitolato proprio: “Neuroetica, una mappa del settore”, e quindi apre anche lui, insieme ad altri, il dibattito sulle implicazioni etiche negli avanzamenti della ricerca in ambito neuroscientifico, tematiche che sono state toccate anche dalla Commissione Presidenziale Statunitense, ai tempi in cui era diretta da Leon Cass, con tutta la questione legata all’uso di tecnologie per il miglioramento, il rafforzamento di alcuni comportamenti, prestazioni cognitive, eccetera. Ancora recentemente se ne è dibattuto al Massachusetts Institute Tecnology, con un convegno che è durato quattro, cinque giorni, appunto su neuroetica, responsabilità, cioè tutto il problema dei rapporti tra le conoscenze che via via stiamo maturando, su come funziona, come è fatto, come va il nostro cervello, e le dimensioni sociali, culturali, politiche, eccetera, del nostro comportamento. Perché non si è mai visto nessuno che abbia un comportamento senza un cervello, e quindi in qualche modo, forse, conoscere il cervello ha qualche rilevanza. Allora, che cosa è la neuroetica? Gli studiosi di neuroetica, coloro i quali negli ultimi anni hanno riflettuto su questo terreno, tendono a riconoscere due filoni fondamentali della riflessione neuroetica. Un aspetto è l’etica delle neuroscienze, cioè dimensioni etiche della ricerca neuroscientifica, quindi qual è l’impatto, quali sono le problematiche etiche che sono aperte dalla ricerca neuroscientifica. Quindi abbiamo l’etica della ricerca e della pratica neuroscientifica, ma anche le implicazioni etiche delle neuroscienze perché, nel momento in cui noi conosciamo sempre di più, sempre meglio, come intervenire sul cervello, sui meccanismi di funzionamento, questo ci apre nuove problematiche etiche, oltre che darci quelle precedenti, che sono quelle che hanno a che fare con l’etica in generale di qualsiasi tipo di ricerca biomedica. Poi c’è un altro settore che tra l’altro a me in questi ultimi tempi interessa di più, ma su cui mi soffermerò pochissimo, ed è quello che riguarda le neuroscienze dell’etica, cioè che cosa ci dice la conoscenza del cervello, perché e come noi siamo animali morali, e questa è una cosa affascinante perché probabilmente, nel giro di un po’ di anni, un bel po’ di discussioni, disquisizioni, di sfide filosofiche, saranno messe un po’ in chiaro, e capiremo non tanto chi aveva ragione, perché stiamo cominciando a capire che avevano ragione tutti, ma, insomma, cominceremo a capire come veramente noi produciamo i giudizi morali, e quali sono i processi e i meccanismi che sostengono la moralità umana. Allora, etica delle www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ neuroscienze: nell’etica delle neuroscienze, appunto, l’aspetto che riguarda l’etica della ricerca e della pratica neuroscientifica, tratta di questioni che da un lato sono molto tradizionali, insomma, si tratta di fare delle sperimentazioni cliniche, i cosiddetti trial clinici. I trial clinici sono sperimentazioni di farmaci, e la sperimentazione di farmaci ha a che fare con un problema etico fondamentale, di qualsiasi farmaco, di qualsiasi sperimentazione di test diagnostico, eccetera, ed è il consenso informato. Il consenso informato è alla base, oggi non si può più fare ricerca clinica senza il consenso informato, e questo è un assunto che dovrebbe essere acquisito, in Italia ancora poco, ma ormai è acquisito nel mondo occidentale, in qualsiasi tipo di ricerca biomedica. C’è tutto il problema legato alla riservatezza nell’accesso ai dati, insomma, si ottengono, si acquisiscono dei dati personali, quando si fa della ricerca: i genetisti acquisiscono dati di un certo tipo, i neuroscienziati dati di un altro tipo, e bisogna far sì che le persone che entrano in questo tipo di contatto con il medico, con il ricercatore, siano garantiti sul fatto che questi dati siano mantenuti riservati, e non possano essere utilizzati per fare delle discriminazioni. C’è una frontiera che nei prossimi anni diventerà sempre più importante, riguardo la sperimentazione, cioè le nuove terapie cellulari, quelle che verranno dalla ricerca sulle cellule staminali. Si cominciano già a fare alcune cose di questo genere, ma molto ci si aspetta proprio per il trattamento delle malattie neuro degenerative. Quindi, quando si andrà a fare questa sperimentazione, queste saranno problematiche peculiari della ricerca neuroscientifica, perchè un conto è fare una sperimentazione o una terapia cellulare sui muscoli, la distrofia muscolare di Duschen, un conto è andare a impiantare delle cellule, che producono, se ci si riesce, un certo tipo di neurotrasmettitori, in una certa parte del cervello, e quindi dire che cosa può succedere e che cosa non può succedere. Altri problemi neuroetici, abbastanza più specifici del campo delle malattie mentali, dipendono, anche se in larga parte non ne sappiamo molto, da anomalie nel funzionamento del cervello. Le anomalie nel funzionamento del cervello creano disturbi al comportamento e un comportamento di compliance o non di compliance, di adesione a una terapia, o di non adesione a una terapia, è un comportamento come tutti gli altri. Quindi il medico ha il dovere ben preciso di regolarsi rispetto a un malato che, per esempio, ha una depressione grave, di capire come anche suscitare e avere la garanzia che quel periodo di trattamento, che spesso è necessario per uscire da quella condizione, senza che si veda alcun beneficio, sia seguito dal malato in quel tipo di situazione, e appunto, quindi, come garantire che un paziente con disturbi psichiatrici segua le prescrizioni mediche. Poi c’è tutto il settore delle cosiddette terapie somatiche, che ancora esistono, esistono gli elettroshock, esiste la psicochirurgia, ci sono le indicazioni per trattamenti di alcune condizioni con questo tipo di terapie, e però ci sono delle posizioni critiche su questo tipo di trattamenti. Esistono dei protocolli bioetici già da molto tempo per l’uso di questi trattamenti, ovviamente per alcuni soggetti che di solito danno il loro consenso quando stanno bene, e questo consenso viene utilizzato validamente, questo nel mondo anglosassone soprattutto, viene utilizzato validamente quando in realtà poi stanno male, per sottoporli, per esempio, a un trattamento di elettroshock. Passiamo alle implicazioni etiche delle neuroscienze. Le implicazioni etiche delle neuroscienze vogliono dire che si possono utilizzare le conoscenze sul funzionamento del cervello per, eventualmente, migliorare, in linea di principio, il funzionamento della società: se noi sappiamo che certe caratteristiche certi fatti di attività del cervello sono più o meno a beneficio della società, che cosa ne facciamo? Dobbiamo evitare che si usino, dobbiamo regolamentarli? Che facciamo? Adesso farò qualche esempio, però per entrare nel merito. In che modo le conoscenze e gli interventi sul funzionamento del cervello cambieranno il significato di “normale” o “anormale” e di “salute” o “malattia”? In che misura si sposteranno le definizioni di salute e malattia? C’è una www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ rincorsa alla medicalizzazione talmente accelerata, insomma, che immaginarsi che questo non riguardi anche il comportamento, è assurdo, perché poi è proprio il benessere psicologico la dimensione a cui teniamo veramente, forse, di più. E la definizione di vita e di morte: oggi c’è un grande dibattito negli Stati Uniti, se è ancora corretta le definizione di morte secondo lo standard del Comitato di Harward, del 1968 che dice che la morte è data dalla cessazione di tutte le attività del cervello nel suo complesso. Ovvero, se si è in assenza di una attività corticale accertata, perché non dire che anche quella potrebbe essere una definizione di morte? Una persona con assenza di attività corticale accertata non ha alcun tipo di relazione con l’ambiente circostante, non è assolutamente in grado di interagire, di fare alcunché per sopravvivere, e d’altra parte i bambini privi di corteccia celebrale non vengono molto spesso, normalmente, trattatati e mantenuti in vita. Sulla definizione di morte il dibattito è acceso, e alcuni, negli Stati Uniti, sostengono che bisogna cambiare la definizione di morte perché questo amplierebbe ulteriormente la possibilità di avere organi per i trapianti. D’altra parte questo è un discorso che avrà le sue implicazioni per quanto riguarda, poi, l’uso di queste conoscenze su quelle che possono essere le direttive anticipate di trattamento perché noi, per “direttive anticipate di trattamento” o per dire “io non voglio essere trattato, mantenuto in vita, intubato”, o cose di questo genere, pensiamo soltanto a uno stato di un certo tipo, in cui c’è necessariamente la morte. Ma ci possono anche essere delle condizioni che al momento non sono rilevabili con le tecnologie del neuro-imagine, ma forse dopodomani, o tra dieci anni, o tra quindici anni, sarà misurabile lo stato, e la mia condizione, e io vorrei poter essere in grado di decidere anche su quello, anche, diciamo, su quali sono le situazioni in cui voglio o meno essere trattato, sulla base dello stato delle attività del mio cervello. Altra questione: in quale condizione è lecito prescrivere un farmaco o una stimolazione fisica per migliorare le normali capacità, piuttosto che per trattare un deficit? Cioè, la medicina, oggi, è il trattamento della malattia, anche se la promozione della salute è già un’altra cosa dal trattamento della malattia, però, una volta che si accetta che la medicina non deve più trattare deficit, ovvero una volta che la soglia della cosiddetta normalità, o accettabilità di una certa prestazione, in un ambito competitivo, come possono essere alcuni ambiti della attività sociale, si abbassa, perché non ricorrere al medico, ma lo si fa già, basta guardare i giornali, e l’uso di cocaina, e cose di questo genere per rendersi conto che siamo già con dei metodi anche, tra l’altro, piuttosto dannosi. In che misura si possono utilizzare le conoscenze acquisite per prevenire o trattare comportamenti socialmente devianti? Ci sono studi, anche questi con il brain-imagine, che fanno vedere, insomma, che l’assenza di certi tipi di attività, ma anche studi anatomici dello sviluppo di certe aree celebrali, sono fortemente predittivi di certi comportamenti antisociali. E una volta che noi lo sappiamo? Certo, possiamo dire no. Io ho qualche dubbio che le Corti e i Tribunali statunitensi, o altri Tribunali, una volta che avranno a disposizione alcuni di questi strumenti, se non se ne discute molte chiaramente, se non si mettono chiaramente delle regole per utilizzarli, eviteranno di utilizzarli solo perché noi diciamo “no, è sbagliato, è immorale”, eccetera. Poi bisogna vedere anche le conseguenze. C’è una grande discussione sul Ritalin, su certi trattamenti sui bambini, sul trattamento psicofarmacologico dei bambini, un forte dibattito in corso soprattutto negli Stati Uniti, c’è stato un caso anche in Italia, e questo ci porta a tutta la sfilza di cose che già si fanno, io ve ne cito solo qualcuna, quelle che proprio stanno in letteratura, non una letteratura di parrocchia, una letteratura pubblicata su riviste P. Revue, cioè su riviste scientifiche, dove ci sono dati clinici, dove si hanno tutta una serie di indicazioni da prendere seriamente. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ E’ indiscutibile che c’è un aumento stratosferico della vendita in tutto il mondo degli inibitori della ricaptazione, della serotonina, e soprattutto che è prescritto sempre di più al di fuori delle indicazioni, cioè non tanto più solo per depressioni gravi ma anche per depressioni lievi, insomma si è passati dal Prozac, come uso diciamo un po’ consuetudinario, direttamente a questi. Ma ci sono studi che dimostrano che l’assunzione di questi farmaci produce anche dei benefici, e quindi questi benefici devono essere presi comunque in considerazione perché, se le persone, prendendo un farmaco, stanno meglio, io credo che tendenzialmente potrebbero insistere nel prenderlo. L’uso di una serie di anfetaminici, poi, che modulano alcuni sistemi che sono ritenuti coinvolti nei deficit dell’attenzione, soprattutto per quanto riguarda i bambini, è un problema che, come dicevo, è molto dibattuto negli Stati Uniti e poi, se volete, ne discutiamo in dettaglio. Quali sono i dati, che cosa si sa, oggi, sulla base di tutta la letteratura che è disponibile? Che questo potenziamento farmacologico, cioè il trattamento di bambini cosiddetti iperattivi - poi, attenzione perché qui si potrebbe fare anche una battuta: se un bambino non è iperattivo non è un bambino – però, insomma, ci sono dei criteri clinici abbastanza affidabili…. È vero che poi negli Stati Uniti le maestre ormai lo chiedono, è un trattamento routinario, cioè sicuramente non ci sono deficit dell’attenzione del livello del venticinque, trenta percento, come succede per alcune classi che sono trattate a quei livelli, e quindi c’è questa pressione, ma sicuramente, insomma, si sa, ci sono degli indicatori clinici, ben precisi, psicofarmacologici ben precisi, che consentono di definire un deficit di attenzione. Tra l’altro, il Ritalin è ormai uno stimolante di cui si fa uso routinario nei campus americani, gli studenti sono persino stimolati ormai a prenderlo, perché hanno troppa attività, soprattutto sono gli allenatori delle squadre sportive, quando gli studenti non riescono a concentrarsi, a passare da un argomento all’altro, sono stimolati e indotti a fare uso di Ritalin. Poi, appunto, ci sono studi clinici che dimostrano dei benefici rispetto al trattamento di soggetti diagnosticati, quando c’è effettivamente una indicazione medica per questi farmaci. Quindi, metterli al bando così, genericamente, e dire che non è possibile che esista la malattia “deficit dell’attenzione” nei bambini, è un po’, secondo me, un voler nascondere la testa sotto la sabbia. Ci sono poi altri farmaci che cominciano ad essere studiati anche per un uso che va al di là della prescrizione medica, per esempio un farmaco che stimola la memoria, che è stato messo a punto per contrastare i deficit di memoria nei pazienti di Alzheimer, e che comincia anche ad essere utilizzato per dare aiuto a livello di capacità mnestiche, alle persone che non ne avrebbero bisogno, e ci sono diversi laboratori, diverse multinazionali, che stanno investendo proprio in ricerca su farmaci per potenziare la memoria. Un altro settore molto, molto di interesse negli Stati Uniti, per quanto riguarda il potenziamento delle cosiddette funzioni normali, ha a che fare con il sonno: grandi e ingenti finanziamenti sono dati per studiare il sonno, da parte dell’esercito, il quale sa, da un po’ di tempo, che molte delle perdite per cosiddetto fuoco amico, durante le guerre, sui teatri bellici, sono dovuti proprio a problemi di sonno, perché un’assenza di sonno riduce il livello di vigilanza, e quindi la capacità di affrontare e decidere in modo adeguato, in quelle condizioni. Non vi sto a dire che cosa non si prescrive, che cosa non si cerca di mettere a punto, per quanto riguarda il potenziamento delle performance sessuali. Quali sono le dimensioni e le tematizzazioni etico legali, etiche, e quindi politico giuridiche legate al potenziamento delle funzioni nervose, insomma. Certamente c’è un problema etico legato agli effetti collaterali di questi trattamenti: non si sa bene quali possono essere gli effetti collaterali, le conseguenze di una stimolazione costante dei processi mnestici. La memoria non è un fatto così, astratto, la memoria comporta delle modificazioni biochimiche ben precise, ci sono delle molecole, dei processi metabolici che www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ accompagnano l’acquisizione di tutta una serie di abilità comportamentali, eccetera, e interferire con i processi di, appunto, oblio, di omeostasi, che regolano questi tipi di situazioni, non si sa bene a che cosa possa portare. Quindi bisogna riflettere su un punto di vista etico, sulle conseguenze di queste potenzialità. Usare queste cose fa parte del desiderio individuale di ottenere risultati senza fatica. Se le persone riescono ad ottenere un qualche tipo di risultato senza fare molta fatica, e se hanno successo in una certa capacità, senza doversi addestrare costantemente, usando semplicemente un certo farmaco, è molto difficile che non lo facciano, nonostante tutte le critiche morali, o politiche che potranno venire. Per la società c’è sicuramente il discorso che questo tipo di trattamenti non sono equamente distribuiti, e quindi ci saranno quelli che se lo potranno permettere, altri che non se lo potranno permettere. Il diffuso potenziamento aumenterà gli standard di normalità, determinando una coercizione indiretta, quindi tutti quanti vorranno accedere a quel livello: anche se non volessero prenderlo, per rimanere competitivi lo dovranno fare. Insomma, il discorso molto più generale è che, forse, non ci sono grosse novità rispetto al passato, noi oggi sappiamo che anche i famosi, mitici, e sempre citati atleti di Olimpia, gli atleti insomma che facevano le gare, che si pensa che non praticassero il doping, praticavano quello che potevano, ma il doping c’è sempre stato. Quindi non ci sono novità, la novità, forse, è che esistono oggi farmaci, modalità, per intervenire in modo più selettivo e con meno effetti collaterali, invece di farsi delle bombe di carne al sangue, e di fare delle diete iperproteiche per mesi e mesi, per poter fare le corse, le maratone, o cose di questo genere. Oggi si usano altri sistemi, che non vuol dire che non siano pericolosi, forse sono anche più pericolosi, ma il problema è che la domanda esiste. Due parole, perché l’altro giorno su Repubblica è uscita la storia di leggere il cervello. In realtà Repubblica ha ripreso un articoletto dal Guardian, non c’è nessuna novità, ancora non si riesce a leggere la mente, però ci si sta attrezzando. Oggi, veramente, con lo scanning del cervello si possono davvero fare grosse cose, non si possono ancora avere delle indicazioni predittive ma, per alcuni aspetti, ci si avvicina molto, molto, molto. Uno dei problemi importanti è che questo tipo di studi portano ad entrare in quegli aspetti che sono considerati più privati, più personali, insomma: che cosa io penso, che cosa sto pensando, se mento o non mento. Oggi è possibile, la macchina della verità, quella che si vede nei film americani, è vicinissima, insomma, la macchina della verità ormai esiste, si tratta solo di decidere il momento in cui la si mette in uso, anche se alcuni laboratori la stanno attivando. Certamente, c’è la dimensione delle neuroscienze dell’etica, questa secondo me è la sfida, questa è la sfida non solo per la società ma è anche la sfida per l’etica, perché oggi noi siamo in grado di capire, analizzando il cervello, come si producono le scelte, come noi arriviamo a dire che una cosa è giusta o non è giusta, che è bene o che è male, che è morale o che non è morale. Ci sono gli elementi per dire come costruiamo la nostra identità, la nostra percezione del sè, come prendiamo le decisioni, come costruiamo giudizi morali, cosa sono i giudizi morali, l’autodeterminazione. In questo contesto, stanno uscendo libri con sempre maggior frequenza, nel mondo anglosassone, che mettono in discussione, o che analizzano in una chiave che da molto tempo non era così radicalmente negativa, tutta la problematica del libero arbitrio e dell’autodeterminazione. In fondo l’autodeterminazione è il concetto chiave della bioetica, e che cosa ne può derivare e quali implicazioni ci possono essere per lo status della morale, a livello sociale, come risultato della biologizzazione dell’etica. Io potrei dare anche delle risposte, quello che penso io, ma secondo me quello che è più interessante è che queste domande forse è venuto il momento di farsele. Grazie. www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Intervento dal pubblico Professor Barale, visto che questa mattina avevamo fatto una carrellata di situazioni in cui le scelte riproduttive della donna erano condizionate, di volta in volta, da situazioni religiose piuttosto che statali, piuttosto che culturali, ed ideologiche; sentendo la sua relazione, mi veniva in mente questo problema della predisposizione genetica alla trombofilia, che interpella noi ginecologi rispetto al rischio tromboembolico della contraccezione ormonale, quindi degli estroprogestinici. Esiste il rischio, credo, che il messaggio della identificazione di popolazioni a rischio, comporti poi una mutazione, un cambiamento di atteggiamento nella clinica, ma in questo caso nella clinica che ha che fare con la vita quotidiana, e di nuovo con la salute riproduttiva. Ci si comincia a interrogare se prima di prescrivere una pillola, per esempio nella fascia di età abbastanza giovane, bisogna fare tutti i testi della trombofilia, che sono anche dei test fattibilissimi, ma non necessariamente accessibili in qualunque posto, o a qualunque età e in qualunque laboratorio di analisi. Quindi, la mia domanda, adesso la faccio a lei come genetista, ma in realtà la faccio un po’ per mantenere la discussione: quanto ci può essere, nel messaggio di identificare appunto un profilo genetico della risposta al farmaco, il rischio di modificare nel concreto le scelte, che non sono solo terapeutiche ma sono anche inerenti a scelte riproduttive. Perché, bisogna ben pensare a una giovane donna cui si dice che non deve prendere la pillola dall’età di diciotto anni, o sedici anni, per tutto il periodo della sua vita fertile, è una cosa carica di significato e di conseguenze. Fermo restando che una gravidanza non desiderata comporta un rischio tromboembolico, che vada a finire sia in gravidanza a termine sia in interruzione di gravidanza. Quindi le questioni sono tante. Intervento 2 Al professor Corbellini: io vengo da studi filosofici, e vorrei sapere che cosa ne pensa lei proprio del libero arbitrio, perché, mentre parlava, mi veniva in mente l’uomo macchina, cioè l’uomo è una macchina complessa, retta da particolari leggi biologiche, e siamo nel 1748. Vorrei sapere adesso dove andiamo, ecco, faccio una domanda kantiana. Roberto Barale E’ già stato fatto per un farmaco che viene dato in terapia sostituiva ormonale in menopausa, è stato visto che le donne che avevano un tipo di rischio avevano un particolare genotipo. Questo che cosa comporta visto al contrario? Che tante donne, che non farebbero la terapia sostituiva per la menopausa, per paura del rischio, sapendo da un test genetico di non essere a rischio, potrebbero fare la terapia sostituiva, con tutti i vantaggi che essa comporta. Quelle che invece effettivamente sono a rischio, non la fanno, e quindi non hanno nessun rischio, possono fare www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ qualcos’altro, usare altri farmaci, o altre cose alternative. Questa è una cosa piuttosto comune, e le case farmaceutiche lo sanno molto bene, e sta diventando un problema enorme, con la globalizzazione del farmaco. Mi spiego: quelle differenze genetiche che noi abbiamo visto le troviamo non solo tra le persone ma tra le etnie, cioè nelle varie etnie cambiano le proporzioni di rispondenti e di non rispondenti. Allora, che cosa succede? Il farmaco, oltre ad effetti benefici, dà anche effetti collaterali, che a volte sono molto gravi; l’industria farmaceutica, quando sperimenta un farmaco, se vede che gli effetti di questo farmaco non coprono almeno il novanta percento, novantacinque percento dei possibili pazienti, ferma questo farmaco non lo immette sul mercato. Un esempio drammaticamente istruttivo è un farmaco antitumorale del polmone, si chiama Iressa, questo farmaco, provato sui topini, distruggeva completamente il tumore del polmone. Quando è stato provato sugli umani, è stato visto che pochi di questi pazienti rispondevano: il dieci percento; il novanta percento, acqua fresca. Il farmaco è stato bloccato perché non si può mettere sul mercato un farmaco estremamente costoso, di cui beneficiano solo il dieci percento e il novanta percento non ha niente, o addirittura degli effetti collaterali. Era un farmaco orfano, e così quel dieci percento di possibili pazienti non aveva il farmaco. Si è scoperto che una mutazione in un particolare gene rendeva questo dieci percento rispondente al farmaco. Allora, che cosa si fa adesso? Si fa le genotipizzazione dei pazienti col tumore polmonare: buon per loro, quel dieci percento ha un farmaco quasi miracoloso, per il novanta purtroppo no, bisognerà fare altre cose. Altrimenti, quel dieci percento lì non avrebbe avuto nessuna possibilità. Quindi, , secondo me, è vero che da un punto di vista generale, una persona potrebbe dire: “Ma se io sono…”, ma il problema non c’è, secondo me, perché uno ha la possibilità di verificare se lui è o non è portatore di quella caratteristica per la quale quel farmaco è o non è idoneo. Cioè, in altri termini, preferisco sapere come stanno le cose, poi faccio la mia decisione. Una volta che io so che sono predisposto, esamino quanto vale quel rischio, faccio una valutazione su un rischio reale, piccolo ma reale. Nell’altro caso, non c’è nemmeno, e allora lo elimino completamente. I test genetici costano pochissimo. Il problema è che devono essere svolti correttamente, e questo è un altro problema, perché ce n’è anche fin troppi di cialtroni, però i test costano pochissimo, allora facciamo uno studio rapporto costo – beneficio, non c’è nessun problema, però, ecco, quello che voglio dire, nella mia piccolissima esperienza, io non mi occupo di queste cose, però ogni tanto sì, è che ci sono tantissime condizioni di estremo disagio che potrebbero essere rimediate con pochissimo, alle quali generalmente non facciamo caso. Una cosa di cui mi sono occupato, la sindrome di Klinefelter, tutti sapete che cosa è, maschi che hanno due XX, XXY, la metà di questi maschi arriva al termine della vita senza sapere di essere Klinefelter, gli altri lo scoprono perché non sono fertili, allora vanno a fare gli esami e scoprono di essere Klinefelter perché sono apparentemente normali, un pochino più alti, eccetera. Se però si va a indagare sulla vita psicologica di questi soggetti, che non hanno mai saputo, che poi l’hanno saputo tardivamente, si scopre che hanno avuto grossissimi disagi nell’infanzia, grossissimi disagi di tipo psicologico, soprattutto legati alla sfera sessuale. Lo sapete da cosa deriva questa situazione? Bene, recentemente si è visto che il neonato, dal terzo mese al sesto mese, mi sembra, ha una montata enorme di testosterone nel sangue, e uno dice: cosa ci fa il testosterone in un bambino in culla? www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ perché uno pensa al testosterone attività della pubertà. Bene, sembra che questa montata enorme di testosterone modifichi le connessioni neuronali, a livello del cervello, e indirizzi la psiche del bambino verso l’indirizzo maschile. Ora, questi bambini Klinefelter mancano di questa montata di testosterone, e si pensa che questa deficienza, in questo periodo specifico della vita, poi condizioni in larga misura il loro sviluppo psicologico, e determini quei problemi che poi hanno. Guardate, i Klinefelter non identificati sono circa venticinque trentamila in Italia, non sono due, considerando la frequenza della sindrome. Basterebbe che alla nascita si facesse il test più banale genetico, il test della cromatina sessuale, quella che si faceva per gli atleti, perché basta uno striscio di sangue, che cosa può costare, due euro, per identificare i Klinefelter e potergli dare quella quantità di testosterone che gli serve in quella fase particolare dello sviluppo, per aiutarli a normalizzare quella situazione che poi potrebbe eliminare i problemi nella vita adulta. Voglio dire, l’analisi genetica ci permette di capire meglio come stanno le cose, e laddove esistono… ecco, il problema è che ci deve essere una soluzione, perché sapere che tu hai un problema, e poi non c’è la soluzione, era meglio se non me lo dicevi. Se però la soluzione c’è, allora sarebbe un delitto tapparci gli occhi e far finta di nulla. Gilberto Corbellini Volevo collegarmi a questo discorso che faceva Roberto Barale. Credo che la storia della commercializzazione, da parte della Miriad, anni fa, del test per il Brca1 e il Brca2 sia molto istruttiva. Insomma, a parte i costi esorbitanti che aveva quel test, la risposta delle donne negli Stati Uniti, di fronte al fatto che poi non c’era nessun tipo di possibilità di intervenire, in presenza delle mutazioni predisponenti per il cancro della mammella, ha prodotto in larga parte che le donne non lo compravano. Quindi, secondo me, la condizione migliore è sempre quella di offrire istruzione, educazione, massimo di disponibilità, e poi vedere anche da parte dello Stato come governare la domanda e l’offerta, incentivando, disincentivando, ma comunque io sono convinto che in linea di principio è sempre meglio conoscere, perché poi uno ha sempre il diritto, la possibilità, se non vuole, di ignorare l’informazione. Sul fatto di Kant, anche io ho studi filosofici, e ritengo che effettivamente abbia dato un grande contributo filosofico, che Kant sia imprescindibile, però imprescindibile per metterlo da parte perché, secondo me, con Kant è molto difficile che noi riusciamo a governare tutta una serie di sfide che, appunto, ci troviamo a dover gestire oggi, due secoli dopo Kant, e forse non è un caso che molti filosofi in questo momento, parlo di Paul Churchland, parlo di Patricia Churchland, parlo dei Dennet, bypassino completamente Kant. Comunque sia, io credo che … l’illusione del libero arbitrio sia una delle più straordinarie invenzioni dell’evoluzione umana e del cervello umano. Gianna Cioni www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ Noi abbiamo fatto anche una campagna contro il Ritalin, in Italia, non so se sul nostro sito di Proteo l’avete mai visto, ma Omer Bonezzi, ci ha dedicato pagine sul nostro sito, perché qualcuno lo usava anche in Italia, non solo negli Stati Uniti, e perché di bambini iperattivi, con le diagnosi funzionali sul sostegno, insomma, se ne sono diagnosticati fin troppi, e per iperattivi si intendono anche gli autistici, casi anche più gravi. Ormai è inflazionato, questo termine, che ha la sua scientificità, e che forse persone che non sono del mestiere hanno inflazionato. Scusate, ma questa cosa va chiarita soprattutto per chi di è scuola… Corbellini Però questo è un altro problema, dal dire che non esiste… Cioni Esiste, esiste eccome, purtroppo sì. Corbellini O che il Ritalin non lo tratta, perché invece il Ritalin lo tratta. Elena Mancini Bioeticista Fine vita: Categorie logiche e analisi etica L’aver introiettato l’idea del libero arbitrio fa sì che praticamente le persone abbiano acquisito un certo significato della loro vita e che, di conseguenza, si comportino in un certo modo. Pensarsi liberi o no cambia il modo di comportarsi, avere un’idea di sé in cui è possibile scegliere oppure no cambia il processo di scelta. Facevo questa osservazione perché un po’ si ricollega anche al discorso che dovrò fare adesso riguardo all’eutanasia, che è un problema appunto in gran parte legato a una scelta, e possibilmente a una scelta per sé, che però, purtroppo, le persone non possono attuare da sole. Perché, ovviamente, in un contesto di bioetica, parlare di fine vita significa quasi esclusivamente parlare di scelta. Prima di tutto, occorre fare un chiarimento: in genere si parla di eutanasia intesa come eutanasia attiva, cioè come un atto che è intenzionalmente, e questo “intenzionalmente” è molto importante, soprattutto dal punto di vista della morale cattolica, teso a procurare direttamente la morte; invece l’eutanasia cosiddetta www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ “passiva” significa semplicemente omettere un’azione, con la conseguenza che appunto si procura la morte di una persona. Dal punto di vista strettamente logico, osservano gli utilitaristi, non ci dovrebbe essere una differenza così importante tra eutanasia attiva e eutanasia passiva, cioè se la conseguenza è la stessa, sia che io agisca o che io non agisca, cioè comunque la morte di una persona, non si capisce perché dovrebbe fare tanta differenza il compiere un’azione o non compierla. L’intenzione è la stessa, le conseguenze sono le stesse, e si presume la volontà è la stessa, ovviamente da parte sia di chi agisce sia da parte di chi subisce l’azione, in genere il paziente, per cui non ci dovrebbe essere una differenza dal punto di vista morale. Ora, fermo restando le altre condizioni, portare alle estreme conseguenze un’osservazione di questo genere significa che allora anche tutti gli atti tesi a procurare la morte, se ci sono delle giustificazioni, praticamente sono equivalenti alle omissioni che procurano la morte. Questo, esteso nel contesto sociale, nella prassi sociale, ha delle conseguenze inaccettabili e può, in certi casi, osservano alcuni, addirittura avere l’effetto paradossale di legittimare l’omicidio. Dal punto di vista strettamente legato all’analisi metaetica, si può osservare che una morale che pretende di porre veramente sullo stesso piano azioni ed omissioni sarebbe inesigibile, cioè praticamente una morale che è inefficace, perché mentre una persona può essere responsabile dei propri atti, e quindi dei propri comportamenti, e consapevole, almeno si spera, delle proprie azioni, è molto difficile pretendere che abbia la stessa consapevolezza di ogni omissione, perché le omissioni sono, per una questione puramente pratica, considerevolmente maggiori di qualsiasi azione, e quindi praticamente è impossibile essere responsabili di tutte le proprie omissioni, ed è impossibile tenere in considerazione tutte le proprie omissioni. Fermo restando questo, però, effettivamente rimangono dei casi, che infatti vengono portati avanti, perché hanno una sorta di purezza logica, in cui sembra difficile giustificare una differenza tra eutanasia attiva e eutanasia passiva. Per esempio, alcuni osservano, tutti siamo abbastanza d’accordo sul fatto che quella di una persona in stato vegetativo permanente, come Luana, la ragazza di Lecco, è una condizione inaccettabile, almeno gran parte delle persone non vorrebbero vivere in quelle condizioni. Tuttavia, nel suo caso, per esempio, decidere di farla morire, significa toglierle l’alimentazione e l’idratazione, cioè toglierle praticamente il sostegno vitale, e questo porterà ad una morte non so in che misura sofferta, ma sicuramente non particolarmente desiderabile. Allora si può anche ritenere che questa, per esempio, che è di fatto una eutanasia passiva, cioè si lascia che la persona muoia, per esempio non si inietta una sostanza velenosa, è accettabile, mentre l’eutanasia attiva non lo sarebbe. Però, poi, la conseguenza è che si deve accettare che una persona praticamente muoia in quelle condizioni, quando si sarebbe invece potuto evitare questo, con la stessa conseguenza; cioè noi pur sempre, razionalmente, abbiamo scelto che questa persona muoia, solo che farlo con una omissione ha delle conseguenze più negative che farlo con un’azione. Questa è l’argomentazione di chi ritiene che non è in sé giustificato distinguere eutanasia attiva e eutanasia passiva, dal punto di vista strettamente logico. Poi, appunto, come dicevo prima, dal punto vista delle conseguenze sociali che questo ha, e dal punto di vista delle conseguenze anche argomentative che questo ha, effettivamente ci può essere una differenza fondamentale, ma in alcuni casi, che hanno una purezza, appunto, teorica particolare, è molto difficile fare questa distinzione. Tuttavia, ovviamente, la stragrande maggioranza delle persone è favorevole all’eutanasia cosiddetta passiva, e non all’eutanasia attiva. Sotto il termine di eutanasia passiva, in genere, ricade anche tutto ciò che riguarda l’accanimento terapeutico, la sospensione delle cure, e così via. Però anche qui va fatta una distinzione, cioè per eutanasia si intende, pur sempre, il procurare la morte, mentre tutte le giustificazioni e gli argomenti che sostengono, da parte cattolica, la liceità della sospensione del www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ trattamento, si basano sul presupposto che non sei tu che procuri la morte, ma la morte è già in atto, praticamente è già un processo avviato ed inevitabile, che tu sostanzialmente lasci proseguire, non interferisci con un processo naturale che porterà inevitabilmente alla morte, con un intervento tecnologico massiccio, con delle cure che vengono definite sproporzionate, inefficaci, che ovviamente, spesso, procurano dolore e disagio. Quindi c’è tutta una giustificazione basata sia sul beneficio del paziente, sia appunto sul fatto che sul piano di realtà tu non procuri la morte ma la morte è già in qualche modo in atto, che fa sì che possa essere giustificato il rifiuto del cosiddetto accanimento terapeutico. Mentre, l’eutanasia passiva, in sè per sè, non dice questo; dice anche questo, nella maggior parte dei casi, si parla di eutanasia passiva in queste situazioni, però, dal punto di vista teorico, si può parlare di eutanasia passiva anche nelle situazioni in cui non è in atto un processo di morte, non siamo di fronte a una situazione terminale; possiamo essere di fronte, per esempio, a persone che non vogliono semplicemente vivere in alcune condizioni che reputano non… degne di essere vissute (una brutta espressione, molto criticata e molto ambigua). Per esempio, ci sono dei casi abbastanza terribili di sindromi, sindromi che si chiamano “delle persone chiuse dentro”, bloccate dentro, praticamente delle paralisi totali che non consentono alle persone di eseguire nessun movimento, tranne, forse, quello degli occhi. Queste persone alcune volte, addirittura, possono essere scambiate con delle persone in stato vegetativo, invece, dal punto di vista mentale esistono, però non hanno nessuna possibilità di comunicazione con l’esterno. Potrebbero desiderare di morire, e allora, in questo caso, per esempio, non ci si trova di fronte necessariamente a una malattia che porterà alla morte, bisognerà attivamente decidere se è il caso di vivere in quelle condizioni oppure no, e quindi praticamente il piano della scelta si sposta perché non si tratta più, semplicemente, di non interferire, diciamo così, con il corso della natura, in questo caso con il corso della malattia, che comunque andrà a portare alla morte, ma si tratta di, appunto, scegliere in quali condizioni vivere. Per esempio, la tanto criticata legge olandese ammette anche il suicidio assistito. È vero che l’ammette se le condizioni sono gravi, se la persona è in condizioni di sofferenza, di dolore, eccetera, però in realtà, in questo caso, una persona potrebbe ritenere che psicologicamente la sua condizione non è accettabile, e quindi, in qualche maniera, avere diritto di morire. Voi sapete, la legge olandese è stata molto criticata. Tra l’altro ho visto anche che il Partito Radicale, o comunque l’Associazione Luca Coscioni, invita a fare un’indagine su quante sono le morti clandestine, le eutanasie clandestine con l’argomentazione polemica che la legge olandese non discrimina, nel senso che praticamente è consentita anche l’eutanasia su soggetti incapaci e su minorenni. Questo avrebbe fatto sì che, appunto, ci siano una serie di eutanasie che in termine tecnico vengono definite involontarie, cioè senza la volontà del soggetto, o addirittura contro la volontà del soggetto, che però, di fatto, equivalgono a un vero e proprio omicidio, nel senso che il presupposto dell’eutanasia è ovviamente la volontà della persona che vuole porre termine alla sua vita. Quindi, appunto, secondo alcuni c’è stato un incremento di queste eutanasie involontarie e, secondo altri, semplicemente sono venute alla luce una serie di situazioni, che possedere uno strumento giuridico permette di controllare. Nel senso che le eutanasie sarebbero praticate comunque spesso dai medici, anche in Italia, anche in posti in cui non è consentito, e invece uno strumento giuridico, non fosse altro perché, per esempio, il medico è tenuto a documentare, ovviamente, quello che ha fatto, permette di controllarle. La legge olandese, praticamente, non riconosce il diritto di uccidere, né in qualche modo, in senso proprio, il diritto di suicidarsi. Quello che fa è depenalizzare, cioè ritenere lecita l’azione del medico, se ricorrono alcune circostanze particolari, che sono previste www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ dalla legge, per cui il medico praticamente deve tenere la documentazione di quello che ha fatto, e poi è soggetto alla valutazione del Comitato Etico, e dell’autorità, che valuta se si sono effettivamente verificate le condizioni previste dalla legge, oppure no. Facevo questo esempio perché l’Olanda è uno dei pochissimi paesi che ha riconosciuto quella che noi abbiamo definito prima come eutanasia attiva, e ha riconosciuto anche il suicidio assistito, cioè praticamente una persona può decidere di uccidersi e il medico gli prescrive i farmaci necessari per farlo. È chiaro che la differenza è abbastanza rilevante, nel senso che comunque una persona è in grado di decidere per sé e il suicidio assistito, almeno in via ipotetica, desta minori riserve, diciamo, di una persona che appunto subisce una eutanasia, non fosse altro che perché quasi nessuno, oramai, non riconosce la legittimità del suicidio, tranne quei casi in cui sia dovuto a depressioni, a stati psicologici particolari, mentre l’eutanasia comporta tuttora una grossa discussione perché viene praticata da terzi su un’altra persona che non può in quel momento, autonomamente, farlo da sé. Una ulteriore questione, come dicevamo prima, riguarda invece il testamento biologico. Ho visto che la linea argomentativa di Marino in difesa di questo disegno di legge sul testamento biologico, si basa su due presupposti fondamentali, il primo è che questo disegno di legge, dal punto di vista logico dal punto di vista etico, discende dal consenso informato, cioè può essere inteso come un ampliamento coerente del principio del consenso informato. Ovvero, se una persona autonoma e libera, mentalmente e fisicamente, può decidere di rifiutare un trattamento perché semplicemente si alza dal suo letto in ospedale, firma e se ne va, così una persona che non può invece decidere per sé, dovrebbe avere la possibilità di usufruire dello stesso diritto. Cioè, non è possibile discriminare una persona perché in condizioni di impossibilità in quel momento di opporsi a quanto viene fatto al suo corpo, rispetto a un’altra persona che lo può fare semplicemente perché, fisicamente o psicologicamente, è abile a farlo. Per cui bisogna dare anche a chi si troverà in quelle condizioni uno strumento giuridico tale da tutelare i suoi diritti, e quindi il testamento biologico funziona in questo modo, per cui una persona, quando è in condizioni di intendere e di volere, se prevede la possibilità di ammalarsi in condizioni tali da non poter più decidere per sé, può usare le direttive anticipate, per indicare quali trattamenti intende che le vengano fatti, e quali no. La sostanza morale di questo disegno di legge si basa sul presupposto che, in questo caso, stiamo esclusivamente parlando di sospensione del trattamento, quindi ricade praticamente in quanto già previsto anche dal Codice Deontologico Medico, come rifiuto dell’accanimento terapeutico. Su questo argomento esiste un larghissimo consenso, per cui, dati questi due presupposti che sono oramai acquisiti, cioè la legittimità del consenso informato e la legittimità del rifiuto dell’accanimento terapeutico, una persona può disporre ora, per allora, che quei trattamenti vengano sospesi o non attivati. Tuttavia vorrei invitare a considerare un problema: lo stesso Marino dichiara di essersi trovato, alcune volte, sia pur rare, in situazioni in cui lui, personalmente, sarebbe andato avanti, avrebbe continuato la terapia, sia pure in quel momento vista senza speranza, impegnativa, costosa, e anche difficile da accettare per le famiglie, perché riteneva che ci fosse un margine di possibilità di guarigione, e invece i famigliari si sono opposti duramente e risolutamente, in ragione del fatto di voler applicare quanto previsto dal testamento biologico. Per cui lui, pure non d’accordo, praticamente è stato costretto a cedere le armi e quindi a non continuare il trattamento. Questa osservazione, però, secondo lui, non deve far sì che il testamento biologico venga messo in discussione, nel senso che non si può ritenere che, siccome possono darsi casi di questo genere, allora l’ultima parola debba spettare al medico. Perché se effettivamente, in ragione del fatto che ci possono essere delle situazioni incerte dal punto di vista clinico, o possono aprirsi delle cosiddette speranze, il testamento biologico dovesse essere in www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ ultimo valutato dal medico, e il medico dovesse decidere se applicarlo o no, questo inficierebbe di fatto tutto il senso del testamento biologico, che invece è basato sul principio di autodeterminazione del paziente. Per cui la cosa migliore è rimandare, in casi di contrasto tra la famiglia, il paziente e il medico, il giudizio al Comitato Etico, e soprattutto alla figura di un fiduciario che deve interpretare le volontà del paziente. Tuttavia, questi casi mi pongono un dubbio nel senso che, secondo me, effettivamente non ci può essere una sovrapposizione così automatica, dal punto di vista logico, tra il principio del consenso informato e quello del testamento biologico, o meglio, dal principio del consenso informato non può derivare una giustificazione così piena del testamento biologico, perché il consenso informato, ovviamente, legittima anche i casi in cui una persona semplicemente rifiuta un trattamento, anche quando da questo trattamento possono derivare dei sicuri benefici, ma non lo fa semplicemente in ragione del fatto che il trattamento, ovviamente, è inutile, può farlo in virtù semplicemente dell’applicazione della sua volontà. Se questo stesso presupposto si attua anche nel testamento biologico, ovviamente si può arrivare a delle conclusioni paradossali, dove ci possono essere delle terapie ancora utili che però, siccome non sono state previste nel testamento biologico, poi non possono essere attuate. Per cui la via di prudenza, in questo caso, sarebbe riferirsi solo alle terapie considerate e ritenute, almeno al momento, sicuramente inutili, e quindi effettivamente si ricade sotto la categoria del rifiuto dell’accanimento terapeutico. Dico questo perché non è scontato, nel senso che, effettivamente, per come è stato argomentato da altri autori, il testamento biologico può contenere molto di più. Cioè, possono esserci delle situazioni in cui, semplicemente, si decide che in alcune condizioni la persona non desidera vivere, anche se non si è in prossimità della morte, anche se, forse, ci sono delle terapie ancora da fare, in base al presupposto dell’autonomia o, meglio, di quel modello di autonomia come integrità, di cui parla Dworkin, in cui rientra anche un certo tipo di immagine di sé. Non semplicemente autonomia intesa come esercizio della volontà qui ed ora, ma un’autonomia intesa come difesa della propria identità, della propria immagine, del senso della propria vita, che porta a rifiutare alcune condizioni, anche indipendentemente dal fatto che si debba essere per forza di fronte a malattie dolorose e terminali. Nicola Colaianni Costituzionalista Il diritto e la persona Noi partiamo da questa illusione che ci sia una libertà della persona e, se c’è libertà, vuol dire che questa libertà sconta che non ci sia una fissità della natura. Laddove ci fosse una natura fissa, una nostra identità personale fissa, non avremmo una libertà. Stamattina si citava un passo biblico, quello del “partorirai con dolore”, a proposito appunto della nascita, e potremmo citare anche un altro passo biblico, per rappresentare il presupposto di molte delle nostre concezioni etiche e giuridiche in questo campo, laddove si dice che c’è un tempo per vivere e c’è un tempo per morire. Secondo la visione del Vecchio Testamento, tutto era fisso, ci sono altre espressioni che danno questa immagine in quel libro, i fiumi che precipitano nel mare e poi dal mare ritornano di nuovo www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ sulla terra e così via. E così c’è un tempo per nascere e un tempo per morire. In realtà noi abbiamo capito che questa visione non è esatta, non è corretta, un confine fra la vita e la morte non esiste, i buddisti pongono un limite di 72 ore, perché credono che la morte è la conclusione di una serie di stadi, quello che è l’ottavo stadio, e credono invece che la nostra concezione della medicina ufficiale della morte sia illusoria perché, in realtà lì il momento della morte arriva soltanto al quarto stadio, per dire come tra oriente, anche, tra filosofie orientali e filosofie occidentali, tra medicina ufficiale – non so come chiamarla – e la concezione della medicina e della filosofia orientale, esistono delle grandi differenze, anche per quanto riguarda il momento della morte. La vita biologica del resto continua, non c’è una vera e propria dicotomia; una volta appunto uno scienziato mi disse: “In fondo, dalla nascita il cronometro comincia ad andare sempre all’inverso”. Ci sono poi le dicotomie sociali, ci sono le difficoltà di nascere. Forse una delle cose più interessanti di questo seminario di oggi, è stata proprio quello di pensare ai problemi e alle difficoltà del nascere, non soltanto dal punto di vista della volontà della donna di interrompere eventualmente la gravidanza o, prima ancora, di disgiungere l’atto dell’amore, l’atto sessuale, dall’atto procreativo, ma c’è stata anche la considerazione della difficoltà sociale del nascere. Oggi è difficile nascere, ed è difficile perché quando, abbiamo sentito quelle cifre che sono state fatte stamattina, ben la metà, il cinquanta percento più uno dei bambini che nascono viene affidato alle nonne, ai parenti, perché non ci sono altri servizi, allora ci rendiamo conto che oggi nascere è molto più difficile di quanto non fosse ieri. Credo che questo sia un punto molto importante del seminario di oggi. Poi c’è stata l’irruzione della tecnica, l’artificio: si può nascere prima, si può procreare con assistenza, si può morire dopo, essere mantenuto in vita, c’è stata l’irruzione della tecnica in tutto questo, e tutto ciò pone difficoltà. Recentemente, per esempio, il Papa ha detto che la vita va tutelata dalla nascita fino al tramonto naturale. E qual è questo tramonto naturale? È il tramonto, per esempio, con le macchine, con l’aiuto delle macchine, è naturale questo tramonto? E perché, invece, non si può allora utilizzare l’artificio per la nascita, perché la nascita non può essere invece, secondo la stessa dottrina cattolica, aiutata artificialmente, appunto, con la procreazione assistita? Sembra, in questo, che giochi molto un’idea della sofferenza, del dolore, che si ritiene connaturata, in fondo, alla condizione umana. Quel riferimento che si faceva stamattina al “partorirai con dolore”, piuttosto che essere visto come il mito, come la migliore esegesi ormai dice - si tratta di un mito per spiegare la condizione umana - viene invece interpretata come una condizione strutturale della persona. Quindi bisogna davvero partorire con dolore, bisogna soffrire se non si è in grado di procreare naturalmente, non si può fare affidamento sui progressi della tecnica, però, al momento della morte, quando ci aspetteremmo che almeno si abbia la stessa concezione, no, lì bisogna utilizzare fino in fondo questi progressi, e quindi avere quella che potremmo chiamare una sofferenza di carattere tecnologico, una sofferenza assolutamente ignota fino a venti, trent’anni fa, e che invece adesso sembra far parte della condizione umana. Allora, riprendendo e tenendo conto anche di alcune posizioni ufficiali della teologia cattolica, anzi del magistero, del catechismo cattolico, del magistero pontificio, su questi temi, potremmo dire che sulla nascita e sulla morte, specialmente sulla morte, non ci sono delle idee molto chiare, molto ben definite. C’è normalmente un consenso di fondo, almeno in Italia, sul fatto che l’eutanasia sia da respingere. Normalmente si fa riferimento, quando si dice questo, all’eutanasia provocata attivamente, come giustamente veniva poco fa ricordato, e questa è anche la posizione, per esempio, del catechismo cattolico. Non è dappertutto così, in Europa, e si è ricordato il caso dell’Olanda, anche se pure per l’Olanda www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ bisogna riconoscere che non c’è un diritto all’eutanasia, un diritto al suicidio, o al suicidio assistito. È come per l’Italia, diciamo: un diritto di aborto non c’è, c’è una legge che regolamenta i casi in cui si possa interrompere la gravidanza, che è una cosa diversa dall’affermare senz’altro che esiste un diritto ad abortire o, come nel caso dell’ Olanda, di un diritto a suicidarsi. Anche in Italia ci sono posizioni più o meno simili a quella olandese, per esempio quella di Veronesi è un po’ in questi termini. Normalmente, però, la concezione più diffusa è quella, per esempio, che ancora recentemente esprimeva il Cardinale Martini in un articolo sul Sole 24 Ore, quando diceva che è moralmente inaccettabile questo gesto, l’eutanasia, perché è un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte. In generale, l’eutanasia, appunto, viene considerata come una forma di suicidio assistito, quindi suscita la stessa reazione che si ha nei confronti di un suicida, anche se non in condizioni di malattia, di prossimità alla morte, cioè viene considerato un atto riprovevole, come si dice, rivolgere la mano contro se stesso, tant’è che in questi casi il diritto considera un fatto positivo la controviolenza, la violenza di chiunque impedisce all’altra persona di suicidarsi. Anche se è una controviolenza che in realtà non costringe a continuare a vivere, perché c’è sempre un’autodeterminazione: del resto, se un suicida ha la persistente volontà di suicidarsi, poi troverà il modo, comunque, di farla finita. Allora, l’atteggiamento di chi interrompe questa condotta, si giustifica proprio perché non costringe il suicida a continuare a vivere, ma solo semplicemente lascia aperta la questione, gli permette di rimeditare di nuovo questa sua scelta. Ma il problema non è tanto nell’eutanasia attiva, quanto in quella passiva. Certamente, per esempio, sempre tenendo presente la posizione cattolica come una posizione etica abbastanza diffusa, al di là di chi crede, anzi ci sono gli “atei devoti” che ci credono ancora di più in queste posizioni, il problema è che l’eutanasia passiva viene assimilata a quella attiva, perché omettere una condotta che si ha il dovere morale di impedire, equivale a mettere in atto positivamente questa condotta. Un po’ è questo il principio giuridico. Però, con il progresso delle tecnologie, l’eutanasia passiva comincia sempre a meno a differenziarsi dall’accanimento terapeutico, contro il quale c’è un no corale, sia da parte cattolica, sia da parte laica, non credente, eccetera. Ancora, recentemente, nell’intervista che ha fatto Marino a Coleman, sull’ultimo numero dell’Espresso, c’è per esempio il problema della mancanza di alimentazione, della sospensione di alimentazione. Che cosa è questa? Probabilmente si potrebbe dire, da parte di alcuni: “è un suicidio assistito perché tu fai morire di fame la persona”. Però, se noi teniamo conto che l’alimentazione in quel momento è una terapia, allora c’è anche la possibilità di sospendere una terapia che risulti particolarmente accanita, e senza possibilità di evoluzione. Allora, vedete, nel primo caso naturalmente si tratta di una condotta riprovevole, nel secondo caso, invece, saremmo tutti quanti d’accordo nel dire che non si vuole, cito anche qui il catechismo cattolico, non si vuole così procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire, che è il principio per il quale il povero Cardinal Martini poi si è ritrovato un po’ messo all’indice, un paio di giorni dopo, da Monsignor Sgreggia, in un articolo sul Corriere della Sera. Certo, se noi partiamo dalla nozione di accanimento terapeutico, potremmo anche dire che è una nozione, anche questa, incerta ed evanescente, per utilizzare le parole di una recente ordinanza proprio sul caso Welby, del giudice di Roma; cioè ci si può chiedere effettivamente quale sia il confine tra accanimento e ragionevolezza. Tuttavia il diritto vive di queste nozioni molto aperte, di queste clausole aperte, e proprio Stefano Rodotà, recentemente, criticando quella decisione, ricordava per esempio alcune formule che si prestano, certamente, a letture diverse, ma che poi, con l’aiuto della giurisprudenza si sono andate sempre più definendo nel tempo, come il comune senso del pudore. Qual è? E’ una formula anche quella generica però, mano mano che sono passati gli anni, sono cambiate le www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ condizioni sociali, queste nozioni si sono ben definite. Nel Diritto Civile, c’è la clausola della buona fede, della tutela dell’affidamento, che secondo la Cassazione è proprio un principio di ordine pubblico, cioè un principio attorno al quale si realizza la coesione sociale di tutta quanta la comunità nazionale. Dunque è una nozione non più incerta di tante altre che esistono nel diritto. Poi bisogna dire che, anche se non c’è una legge che dia tutela specifica, processuale, questo non ha molto rilievo, quando di fronte c’è la Costituzione. In realtà, l’articolo 32 della Costituzione, che secondo me è una delle norme più avveniristiche, più chiare, più complete che il nostro costituente abbia potuto fare, insieme all’articolo 2, all’articolo 3, per esempio, ma io metterei l’articolo 32 davvero sullo stesso piano, quando dice che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizioni di legge, evidentemente dice che, in mancanza di una legge, è il trattamento a cui si vuole obbligare una persona che è illegittimo perché, appunto, soltanto per disposizione di legge si può obbligare al trattamento. Non lo è invece la richiesta di interrompere un trattamento, perché questo, appunto, appartiene senz’altro ai diritti indisponibili della persona. Da questo concetto di accanimento terapeutico, comunque, bisogna tenere sempre distinto il rifiuto delle cure: sono due concetti molto diversi. Nel caso di Welby, per esempio, il Comitato per la Bioetica ha ritenuto che non ci fosse accanimento terapeutico nel continuare quelle cure. Questo non significa nulla: anche se non c’è accanimento terapeutico, rimane l’articolo 32, con il diritto che esso riconosce a ciascuno di noi a non essere obbligato a determinati trattamenti sanitari se non, appunto, per disposizioni di legge. Quindi c’è tutto, insomma. Il rifiuto delle cure è legittimo, abbiamo avuto degli esempi: la donna che non si è fatta amputare la gamba perché non riteneva dignitoso vivere in quella maniera, e si sa che è morta; la donna che ha rifiutato la chemioterapia, pur essendo ammalata di tumore ed essendo incinta, però ha voluto proseguire la gravidanza, piuttosto che interromperla per effetto della chemioterapia. Quindi, il rifiuto delle cure è perfettamente legittimo e, d’altro canto, bisogna dire che questa norma, ripeto, straordinaria, secondo me, dell’articolo 32 della Costituzione non solo dice che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento se non per disposizioni di legge, ma aggiunge addirittura un altro controlimite alla legge stessa, perché dice che in ogni caso la legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Corbellini Ma allora, scusa, perché c’è stato il caso Welby? Colaianni Non lo so... perché abbiamo, secondo me, ideologizzato una storia che, (anche se c’è stata un’ordinanza del Tribunale di Roma, del giudice, però, che non ha acconsentito all’interruzione del trattamento terapeutico), dal punto di vista giuridico, costituzionale, perlomeno, a mio avviso, ma ad avviso di molti, qui c’è il professor Rodotà che potrà dirlo molto meglio di me, non ha www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ giustificazione. Poi, se costruiamo le gabbie ideologiche, cominciamo a dire: la vita e la morte… noi siamo per la vita… la vita è sacra… la vita è indisponibile Intervento dal Pubblico Cominciamo però a dire nomi e cognomi, cioè chi costruisce le gabbie ideologiche, cioè non è “costruiamo gabbie ideologiche”, io non è che riesco a capire bene questo ragionamento. Colaianni Io qua ho fatto riferimento in modo particolare al magistero pontificio, ma credo che non sia soltanto quello perché c’è la stampa, ci sono varie fette della società che si basano e strumentalizzano anche alcune affermazioni di questo magistero per mandare avanti determinate concezioni della società. Anche su questo fatto per cui la vita è indisponibile, è sacra, mi ha sempre colpito quello che disse un gesuita, Carlo Casalone, che è in pratica il vicedirettore di Aggiornamenti Sociali, una delle riviste dei padri gesuiti, il quale disse a un convegno che, dal punto di vista biblico, la vita non è affatto sacra, è sacra la vita dell’altro, ma non la propria vita, tant’è che è scritto, addirittura, che “chi perde la propria vita per causa mia, la guadagnerà”. Secondo tutta la teologia cattolica, Gesù nel momento stesso in cui decide di perdere la propria vita redime gli altri. Quindi, anche questi stereotipi “la vita è sacra”, “la vita è indisponibile”, “la vita non si può toccare”, evidentemente andrebbero in qualche misura riveduti. Certamente il rifiuto delle cure fonda, ma questo è un altro problema, il cosiddetto testamento biologico, che meglio sarebbe chiamare però, “direttive anticipate”, nel senso che non possono essere delle decisioni prese ora per allora, sono sempre delle direttive che poi potrebbero essere, al momento opportuno, a mio avviso, rivedute in qualche modo dalle persone più care, dagli amici, dai parenti, con l’aiuto naturalmente dei medici, perché se, per esempio, e questo è il caso fatto da Marino a cui si accennava prima, se la medicina ha fatto dei progressi tali per cui possiamo ritenere che ci siano delle speranze di soluzione della malattia, io credo che sia giusto, naturalmente, non impiccarsi alle direttive anticipate. Allora, in conclusione, io credo che il problema che ci dobbiamo porre, appunto libertà della persona, è sempre lo stesso, è quello: che cosa è la vita, è soltanto un dato biologico, è soltanto materia, significa essere tenuti in vita, oppure è qualcosa di diverso? In questo senso, il dibattito sulla morte si aggancia senz’altro al dibattito sulla nascita, alla procreazione, alla dignità dell’embrione, eccetera. Oggi sono venuti anche degli accenti particolari, che sono, direi, caratteristici della comunità scientifica, e che in particolare poi hanno colpito, diciamo uno per tutti, Habermas, e tutte le sue ultime posizioni sul diritto di autodeterminazione. Credo che fondamentalmente con quelle posizioni, certamente discutibili, Habermas ponesse con forza il principio di precauzione, davanti ai tanti progressi che fa la scienza. Di questo credo che la comunità scientifica debba esserne consapevole, e debba essere anche capace di confrontarsi con… verrebbe da dire la comunità giuridica, ma può sembrare una rivendicazione di potere della comunità alla quale io appartengo, quindi diciamo con la comunità politica più in generale. Il www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ problema della scienza oggi si pone nel senso che, come tanti filosofi hanno evidenziato, la scienza è in qualche modo afinalistica, non si pone dei fini, non se li deve porre; probabilmente, però non si pone spesso neanche il problema degli effetti collaterali. Mi ha stupito, mi ha fatto molto pensare questo fatto che la macchina della verità tra poco potrebbe essere messa a punto davvero in maniera definitiva. Ecco, questo è un problema, il problema degli effetti collaterali che naturalmente lo scienziato in linea di massima non si pone, perché vuole perfezionare al massimo il risultato di una ricerca, però poi ci sono questi problemi. Forse il primo filosofo che ha posto il problema della macchinizzazione del mondo, è stato Gunther Anders, e l’ha fatto sulla base del libretto di quasi cinquanta anni fa, “Noi figli di Eichmann”, e lui mise in evidenza proprio questo problema dell’uomo che ormai è ridotto a un ingrediente della macchina mondiale, quindi l’uomo che, poi dirà lui, è antiquato perché ormai fa parte di questa macchina, che non ha fini perché è diventata essa stessa il fine. Certamente, l’etica allora può sembrare patetica, come spesso dicono Severino, Galimberti, … e questo è il grande problema del quale noi, penso, ci dobbiamo far carico. La precauzione allora è riduzione del diritto in questo campo, perché il diritto è per sua natura presbite, cerca di guardare lontano, cerca di darsi dei fini, il diritto non decide, su certe questioni, non decide a maggioranza, il diritto non decide l’indecidibile, per esempio la libertà di autodeterminazione della persona, accetta di non decidere non soltanto la libertà di autodeterminazione delle persone di oggi, esistenti, ma anche quella delle generazioni future. E quando decide, è proprio del diritto il bilanciamento dei vari interessi in gioco. Per esempio, proprio sulla tutela del concepito, c’è una sentenza della Corte Costituzionale, di trenta anni fa, del ’75, con cui la Corte fece un bilanciamento tra chi è già persona, come la madre – riguardava l’aborto – la cui salute prevale sulla salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare. Ecco, vedete come questo sia il lavoro che il diritto fa. Perché, in fondo, la madre è già persona? Perché, “persona”, secondo il disegno costituzionale, è una relazione, è un’unità sociale, potremmo dire è un io… in un io/tu: non è un individuo. Su questo, fu nel 1946 trovato l’accordo tra le grandi componenti dell’Assemblea Costituente, la cattolico popolare, la socialista comunista e la corrente liberale, cioè proprio sul valore che bisognava dare alle persona, prima ancora che allo Stato. Fu un ordine del giorno che presentò Dossetti, il 9 settembre del ’46, che appunto sottolineò che è intorno a questo valore della persona, intesa non soltanto come individuo ma - disse Dossetti, con grande apertura mentale - anche nel pluralismo sociale che essa subisce naturalmente, che noi possiamo costruire il nuovo ordine costituzionale, non soltanto sull’ingegneria: repubblica presidenziale, parlamentare, regionalismo più o meno accentuato, cioè i problemi di cui si stava discutendo fino a allora, ma invece era su questo dato essenziale. Noi, questo concetto di persona umana, di unità sociale, di relazione, lo troviamo appunto in alcune norme della Costituzione, lo troviamo non a caso nell’articolo 32, qui si parla proprio di persona umana e, prima ancora dell’articolo 32, la troviamo nell’articolo 3, secondo comma, laddove si parla del pieno sviluppo della persona umana, ed è compito dello Stato, si dice lì, rimuovere gli ostacoli che di fatto si ergono contro il pieno sviluppo della persona umana. Allora, ecco, se la persona è un io/tu, è una relazione, si potrebbe dire che si diventa persona con l’annidamento dell’embrione nell’endometrio materno, prima di allora probabilmente non c’è una persona perché non c’è una relazione. Sotto questo profilo, potremmo recuperare alcune visioni presupposte dalla Costituzioni, e quindi si cessa di essere persona quando si sente di non avere più una relazione con la società, e quindi di non avere più un motivo per vivere dignitosamente - altro concetto che esiste nella nostra Costituzione – la propria vita. In una conferenza di una ventina di anni fa, Hans Jonas è stato forse il primo filosofo che ha affrontato questo tema, e allora forse molto provocatoriamente intitolò www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ quella relazione come “Il diritto di morire”. Hans Jonas sottolineava proprio questo: che è evidentemente altra cosa, rispetto al suicidio assistito, o altro, costringere un malato sofferente e senza speranza, a continuare una terapia di sopravvivenza che gli fa dono di una vita che egli non ritiene degna di essere vissuta. Ecco, io credo che questo sia un principio fondamentale, quando affrontiamo questo tipo di problemi, è una specie di bussola, che però ricaviamo non soltanto dalle parole quanto mai lapidarie, icastiche, direi, di un grande filosofo, ma io credo che ricaviamo appunto dalla nostra Costituzione. Perché nella Costituzione questo concetto di persona umana, che deve rimanere sempre relazione, è un concetto fondamentale, ed è un concetto che può anche guidarci nella ricerca scientifica - questa è sempre l’ambizione del diritto - per dirci quando quella relazione ancora esiste, e quando non esiste più, ma, appunto, l’autodeterminazione di una persona nel decidere una cosa del genere, è sempre fondamentale e non ci saranno comunità di medici, comitati etici o comunità del diritto che la potranno modificare. Potranno probabilmente indurre ad aspettare, a rimeditare la questione, però la decisione finale poi credo che debba essere sempre ricollegata e attribuita alla persona. Stefano Rodotà Ordinario di Diritto Civile, Università di Roma, La Sapienza Un momento fa, sentivo che giustamente Gilberto Corbellini diceva: “Ma allora perché è nato il caso Welby?”, se quell’itinerario così nitidamente tracciato da Nicola Colaianni è quello che corrisponde allo stato dell’arte, almeno sul terreno giuridico. Devo dire che la Procura di Roma, con un parere molto nitido, quell’itinerario l’aveva tracciato, ed è quello che si ricava da una riflessione; io non è che voglio fare l’apologia del diritto come pura tecnica, perché non ci crede Nicola, non ci credo io, abbiamo lavorato in questi anni sempre tenendo presente che, certo, è una tecnica, il diritto, ma è una tecnica di regolazione sociale, è una tecnica che risente di una serie di dati culturali, di dati ambientali, della situazione politica. Così quello che è un itinerario limpido, non è sembrato tale a una magistrata che non ha in quel momento ritenuto di avere la forza, dico intellettuale, di misurarsi con una situazione difficile. Per questo io sono critico rispetto a quella decisione. Io mi ricordo sempre quando Montesquieu parlava della funzione del giudice, diceva: “La fonction de juge est ainsi terribile par mille raisons” questa funzione di giudicare che è così terribile. Lui ha fatto il giudice e ne sa qualcosa, ma è vero, è una grande assunzione di responsabilità, e la responsabilità si deve esercitare. E’ un momento molto difficile perché la funzione di giudicare, ma in genere, non solo quella del giudice ma la responsabilità del giurista nel ricostruire il sistema, del politico di vedere quali sono i valori di riferimento, è in questo momento messa radicalmente in discussione da quello che non è solo un fondamentalismo ma un vero e proprio dogmatismo, che mette in difficoltà lo scienziato, il giurista, il politico, ed è una questione che poi preclude anche la possibilità di fare bene il proprio mestiere. Io sono stato molto colpito dai ripetuti interventi, nell’ordinanza della magistrata di Roma: non se l’è sentita, ha detto questa frase,… sull’accanimento terapeutico, ma quando poi me la sono ritrovata nella relazione di apertura dell’anno giudiziario, da parte del Presidente facente funzione, io sono rimasto sbalordito. Perché qui vuol dire che i giuristi non sanno più fare il loro mestiere, che da una parte c’è quell’itinerario che noi conosciamo, che è l’itinerario della libera determinazione, che, lo sappiamo www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ bene, ma io lo ricordo sempre in questo periodo, il consenso informato, la libertà di disporre di sé è stato il potente mezzo con il quale il mondo civilizzato occidentale reagì al nazismo dopo i processi ai medici nazisti; viene fuori nel ’46 il Codice di Norimberga, che mette al centro il consenso della persona. È un passaggio storicamente rilevantissimo, che noi dobbiamo tenere presente, dico noi giuristi, perché viene fuori, viene prima delle due Costituzioni che poi di quel tempo sono state le più consapevoli: la Costituzione Italiana del ’48, la legge fondamentale tedesca del ’49, che non a caso rompe uno schema costituzionale e mette al primo articolo la dignità della persona. Quella è la storia, quindi attenzione, coloro i quali mettono in discussione questo, riaprono la strada anche agli autoritarismi, e ai rischi molto gravi di sopraffazione della libertà. Dico questo perché quei principi sono ormai consolidati e, quando il magistrato, la magistrata dice: “Io non so poi che cosa è l’accanimento terapeutico”, dice una… voglio essere garbato perché sono stato piuttosto rude, pare, in un articolo che ho scritto su Repubblica, ma poi mi pare che fosse giusto, dice delle cose tecnicamente poco esatte, e fugge davanti alle sue responsabilità. Ha già ricordato Nicola Colaianni, che ci sono alcuni concetti che non possono essere definiti una volta per tutte dal legislatore, perché sono figli del clima, del contesto, dello stato delle conoscenze scientifiche: quello che oggi, o ieri, poteva essere ritenuto accanimento terapeutico, in un momento successivo può non esserlo perché invece è lo spiraglio verso un’opportunità e, viceversa, quando noi abbiamo accertato che certi interventi ritenuti terapeutici non funzionano assolutamente, li facciamo rientrare lì. Questo rientra nella soggettività assoluta del giudice? Per niente. Il giudice che oggi voglia interrogarsi sull’accanimento terapeutico, ha molte fonti a disposizione: il Codice di Deontologia Medica, le linee guida dei rianimatori, c’è molto materiale, che consente di dire: tu, magistrato, devi fare i conti con questa nozione senza bisogno di andare a chiedere al legislatore. Questo è un punto, a mio giudizio, fondamentale: fino a che punto, in queste materie, noi possiamo invocare l’intervento della legge, Gilberto Corbellini ...che cosa è accanimento terapeutico. Ma, se io leggo la Costituzione, e tu me l’hai insegnato, cioè, che cosa è accanimento terapeutico, se sono cosciente, lo so io; se sono incosciente… Stefano Rodotà Lo deve sapere il medico Gilberto Corbellino Esatto, sarà un’altra questione, e per questo servono le direttive anticipate, e non voglio nemmeno che qualcuno le vada a cambiare, se non è qualcuno indicato da me, perché non sarò io a valutare www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ l’avanzamento della scienza, vorrei comunque essere io presente. Secondo me, sull’accanimento terapeutico, stiamo cadendo in una trappola perché nessuno, se non io, posso definire che cosa è accanimento su di me. Stefano Rodotà Allora, su questo voglio essere ancora più radicale di te, e cioè da una parte non è invocato a proposito l’accanimento terapeutico, quando la persona è consapevole, in quel caso rientra nella disponibilità. Il discorso sulla indisponibilità della vita è o un’affermazione di pura dogmatica religiosa, oppure è qualcosa di insostenibile perché, Nicola Colaianni ce lo ricordava, l’indisponibilità della mia vita da parte degli altri, ma questa è una cosa molto diversa dal fatto che la vita mi appartiene, e non mi appartiene soltanto per una sorta di, come si dice, lassismo individualista o individualismo radicale. Perché, chi ha un certo tipo di convinzione religiosa, vedi i testimoni di Geova, dispone della vita nel momento in cui rifiuta le trasfusioni di sangue, quindi non è neanche vero che questo sia il portato dell’abbandono di qualsiasi riferimento religioso nella nostra società. Quindi lì non c’è alcun problema. In secondo luogo, vorrei aggiungere qualche cosa, nel senso che io posso anche aver individuato, attraverso le mie direttive anticipate, alcune mie volontà nel caso in cui divenga incapace in quel momento, ma può darsi che io le abbia definite in maniera tale per cui alcune forme che sarebbero accanimento terapeutico, io non le ho prese in considerazione. Tuttavia, anche se io non ho fatto questo riferimento, ma quello è tecnicamente configurabile come accanimento terapeutico, se io leggo il Codice di Deontologia Medica, e non solo, anche i discorsi di Pio XII nel ’57, io devo interrompere i trattamenti, altrimenti, attenzione, il medico sarebbe imputabile di violazione del Codice Deontologico, e quindi passibile di sanzione disciplinare. Io sono ancora più radicale in questo, perché l’accanimento terapeutico noi lo dobbiamo vedere come una situazione rispetto alla quale la valutazione ulteriore non c’è. Quando io dico “c’è accanimento terapeutico”, mi devo fermare e, aggiungo, non è affatto quella nozione incerta, evanescente, di cui si parla nell’ordinanza di Roma perché se io vado a guardare l’insieme degli strumenti tecnici che vengono messi a disposizione del magistrato, in questa materia come in infinite altre - non tutto sta nelle leggi, ci sono protocolli, ci sono standard, gli scienziati lo sanno benissimo - io li trovo: io leggo le linee guida dei rianimatori e trovo una serie di indicazioni molto precise. Quindi, su questo punto, io sono d’accordo che noi dobbiamo essere estremamente critici nei confronti di chi, in queste materie, invoca l’intervento del legislatore perché, o vuole sfuggire alle proprie responsabilità, oppure vuol fare apparire aperta una questione che già è stata in realtà risolta. Quindi o fa una mossa politica, oppure è abbastanza ignorante, e non fa il suo mestiere perché non si provvede di tutti gli strumenti che dovrebbero essere necessari. Poi perché c’è un limite obiettivo, soprattutto di fronte a quella che si chiama la rapidità dell’innovazione scientifica e tecnologica: non possiamo affidare tutto al legislatore, perché il legislatore non può vivere una sorta di continuo inseguimento di quelle che sono le innovazioni che gli vengono dal mondo della scienza e della tecnologia, deve fissare dei principi in base ai quali, poi, si potranno apprezzare le novità e ricondurle a quei www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ principi. Questo è un fatto del tutto ovvio, ormai, tant’è che anche quando si discute del Parlamento, se sopravvivrà o non sopravvivrà, si dice: ma il legislatore non deve fare ormai l’amministrazione, deve recuperare la capacità della grande legislazione di principi. Cioè, c’è questa consapevolezza che purtroppo in questo momento, in Italia, per una sorta di fuga dalla responsabilità, si vuole imputare tutto al Parlamento. Dobbiamo farlo, questo discorso, con molta chiarezza, perché i giudici fuggono dalle loro responsabilità. Fugge la Corte Costituzionale di fronte alla legge sulla procreazione assistita, adesso non voglio entrare nei dettagli ma quell’ordinanza che ha dichiarato inammissibile la questione posta dai giudici di Cagliari, che potevano pure loro risolverla, comunque, anche lì, la Corte Costituzionale: dichiara “inammissibile”, e fugge di fronte a tutto questo. Fugge il Primo Presidente facente funzione della Cassazione, dicendo: “Ah, l’accanimento terapeutico… ah, il legislatore mi deve spiegare le cose”, no, c’è una ripartizione di compiti, oggi, all’interno delle organizzazioni sociali che vede i giudici, per esempio, come dei soggetti che devono concretizzare dei principi che in queste materie sono sostanzialmente ormai consolidati, tenendo conto, questo è il passaggio essenziale, che ciascuno di noi è padrone della propria vita. Questo è un punto sul quale noi non possiamo assolutamente ritenere che si possano fare dei passi indietro. Io voglio rileggere quell’ultimo pezzetto dell’articolo 32, ha ragione Nicola Colaianni, che ci sono dei miracoli, anche quando si scrivono le leggi o le costituzioni, queste sono norme che furono scritte fra il ’46 e il ‘47, in un clima difficile ma con una tale sensibilità per il fatto che la libertà andasse difesa in tutte le sue sfaccettature, e con un tale spirito di comunanza di valori, che oggi ci colpisce, e i risultati sono importanti. “La legge non può in nessun caso sottolineo tre volte “in nessun caso” - violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, quindi c’è qualcosa che non è decidibile neanche dal legislatore. Questo è un punto chiave: quando siamo su questa frontiera: la persona umana, di cui ciascuno di noi stabilisce il destino. Non può entrare in quest’area il legislatore, ma non perché noi siamo lassisti, ma perché ce lo dice la Costituzione Italiana, perché il rispetto della persona umana è qualcosa di inviolabile, e dunque la persona umana ha questo pieno potere di autodeterminarsi, in queste situazioni. Cioè, c’è qualcosa di indecidibile da parte della legge; quando questa norma si vuole leggere dicendo che lo stesso interessato non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, si fa una lettura che a uno studente che dicesse questo a un esame di diritto costituzionale costerebbe, io sono un professore all’antica, la bocciatura, perché dico: a chi si riferisce questo “in nessun caso”? La legge non può “in nessun caso” violare, non è un altro soggetto, perché quel soggetto è lui che stabilisce qual è il grado di dignità che ritiene di dover affermare. Questo è un punto importante nella discussione. Se io volessi tirare un po’, ma non troppo, la corda, direi che questa è la versione dell’”habeas corpus”. L’habeas corpus che cosa era? Era la dichiarazione fatta nel 1215 dal Re di Inghilterra ai suoi cavalieri, dicendo: “Non metteremo la mano su di te”, questa è la dichiarazione di habeas corpus, cioè: il corpo non te lo toccherò. Allora era la violenza, la tortura, ahimè tutt’altro che scomparsa. Questa era la promessa. Nel sistema democratico non è il sovrano, ma il sovrano democratico è l’assemblea costituente che dice ai cittadini: non metteremo la mano sulla tua dignità. Questo dice l’articolo 32, questo bellissimo, straordinario… io sono d’accordo, questo articolo sta, nella costruzione del sistema delle libertà, a livello dell’articolo 2 e dell’articolo 3, non c’è nessun dubbio. Fatto questo discorso, io voglio dire due cose, una riguardo a questo continuo, insistente e crescente rinvio alla natura inviolabile. Qui c’è un passaggio anch’esso significativo: ciò di cui si parla come inviolabile nei testi laici - Ciampi chiamò la nostra Costituzione la Bibbia laica, ed è giusto che sia così - è la persona, la sua dignità. Questo trasferimento dell’inviolabilità dalla persona alla natura, fa sì che poi la persona non sia più in www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ grado di governare èe stessa perché, se io non posso toccare la natura, allora ho un limite perché io di questa natura faccio parte. Ha scritto un bel saggio qualche mese fa Gian Enrico Rusconi, che è uscito sul Mulino, proprio su questo punto dell’uso e abuso del riferimento alla natura, e ci ha ricordato le contraddizioni pratiche che incontra questo modo di ragionare da parte della stessa Chiesa, perché la “fine naturale” significherebbe nessun trattamento meccanico, nessuno, perché quello non è nella natura, quello è artificio, per usare l’espressione corrente, quella è tecnica, è artificio, è manipolazione, chiamatela come volete. E poi perché la natura non deve essere aiutata… deve essere aiutata lì e non deve essere aiutata nel momento della procreazione? Ma sappiamo che queste sono contraddizioni che sono il segno, però, di un intento politico, evidentemente. Allora permettetemi di dare una valutazione su quello che sta succedendo in questo momento, perché io sono molto colpito dalle dichiarazioni di oggi, non perché siano più intense di altre… il Papa ha detto che c’è un sovvertimento dell’ordine, e Ruini ha annunciato un indirizzo per i cattolici. Allora, è un intervento legittimo, è un’interferenza… non ne faccio questione di parole, io valuto la sostanza e le conseguenze politiche. Quello che è avvenuto stamattina è che il Pontefice ha aperto un conflitto con il governo italiano: un atto di governo, l’approvazione del disegno di legge sui Dico è stato giudicato un atto sovversivo. Questo è accaduto. Ora, questo noi non lo possiamo velare. Ha diritto di parlare, però abbiamo sul tavolo questo fatto. E’ indirizzato ai cattolici, ma è chiaro che questa volta i cattolici sono in primo luogo i parlamentari che “dichiarano di essere tali”, ma …permettetemi di dirlo, il conflitto di lealtà che ciascuno di noi si porta dietro, e che sente fortemente, si porta, ciascuno di noi. Questa volta si dice: il tuo conflitto di lealtà tra l’appartenenza religiosa e i doveri repubblicani – usiamo questa nobile espressione – cioè di membro del Parlamento della Repubblica, li devi sciogliere nel primo senso: l’appartenenza religiosa fa premio su tutto il resto. Questo è un altro passaggio importante, non voglio dire altro. L’altro punto è che non si può mai sovvertire un ordine di valori, che è indicato dalla Chiesa con il riferimento alla natura. Ora, anche qui il sovvertimento è fondamentale, cioè la bussola, il riferimento, la tavola di valori del Parlamento Italiano non è più la Costituzione della Repubblica, ma ciò che mi dice una entità esterna, anche se dotata del massimo di autorevolezza, che però con la democrazia ha, diciamolo, poco a che vedere. Ma non perché lo diciamo noi, ma perché la struttura della Chiesa non è una struttura democratica. Allora, questi fatti credo che aprano una fase molto impegnativa, anche perché, poi discuteremo a lungo, non so come si farà ad accettare su questo discutibilissimo disegno di legge l’indicazione della Chiesa, tenendo conto del fatto che le letture costituzionali non sostengono quel tipo di tesi. Io lo voglio dire per un momento - non per fare il mestiere un po’ pignolo del tecnico del diritto, ma poi il mio mestiere è questo - ma credo che serva. Primo, queste discussioni sulla famiglia intoccabile io me le ricordo benissimo quando, tra la fine degli sessanta e gli inizi degli anni settanta, si dovette riformare il diritto di famiglia. Anche allora addirittura si sosteneva che la natura della famiglia, società naturale, era quella di essere gerarchica, quindi neppure si poteva eliminare la norma che diceva: il marito è il capo della famiglia. Attenzione, si sosteneva che la parificazione dei figli nati fuori dal matrimonio con quelli in costanza di matrimonio, sia pure prevista dall’articolo 30 della Costituzione, non poteva essere tale da mettere in discussione i diritti della famiglia legittima… e via andando avanti. Questa interpretazione chiusa dell’idea di famiglia, allora fu battuta, fu battuta in parte perché ci fu una cultura meno chiusa, ma fu battuta anche perché nel ’74 ci fu il referendum sul divorzio, perché io ricordo benissimo, voi siete tutti molto più giovani di me, ma due dei promotori del referendum sul divorzio, che si chiamavano Gabrio Lombardi e Sergio Cotta, avevano già dichiarato pubblicamente che avrebbero fatto un referendum – udite! - contro la parificazione dei figli nati www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ fuori dal matrimonio con quelli nati in costanza del matrimonio. Con quale spirito di carità cristiana, io ve lo lascio dire. Be’, non siamo lontani da quel modo di vedere le cose, perché questa interpretazione chiusa è la chiusura totale al mondo, perché io non voglio usare l’argomento statistico, ma oggi, o ieri, l’Istat dice che hanno superato i 500 mila le unioni, diciamo, di fatto. I dati del Comune di Roma, nell’ultimo anno, segnalano una caduta intorno al quindici, venti percento sia dei matrimoni religiosi che dei matrimoni civili. Dobbiamo chiudere gli occhi di fronte a questa realtà? Io posso anche capire la risposta che ho sentito, di Monsignor Negri, che è stato interpellato in una delle tante trasmissioni televisive e gli è stato detto: “Ma perché fate questo in Italia, perché su queste cose?”, “Sa – semplifico – gli altri paesi sono perduti e in Italia ancora qualcosa c’è da fare”. Questa è stata una dimostrazione che siamo sul terreno di una partita dichiaratamente politica, dove la fede gioca in funzione di che cosa? Di quanto la Chiesa può guadagnare sul terreno della politica. Aggiungo su questo un dato istituzionale importante: uno, che ormai nessuno può negare quello che sta scritto nell’articolo 2 della Costituzione, laddove si dice che i diritti inviolabili sono tutelati non solo nell’ambito familiare ma in qualsiasi formazione sociale, e badate che questa idea delle formazioni sociali entra nella Costituzione per via democristiana, cioè c’erano molte perplessità di fronte a questa idea comunitaria, diciamo, tra i liberali e anche tra i socialisti e comunisti, e entra per la forza di persuasione di Dossetti, in particolare, e di La Pira, quindi, non è che dietro c’è questo spirito laicista pericoloso. Seconda considerazione: il Parlamento italiano. l’Italia ha firmato, e il Parlamento italiano ha votato la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. L’articolo 9 della Carta dice questo: “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Questa norma, che è già di per sé eloquente, lo diventa ancora di più se si considera che è stata scritta, e vi porto diretta testimonianza, perché ho fatto parte di questa cosiddetta convenzione che ha scritto questo testo, tenendo conto della norma analoga della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del ’50, laddove si diceva che quelli che qui sono indicati come due diritti, erano un unico diritto, e in più si faceva riferimento al fatto “persone di sesso diverso”. Nella versione della Carta, primo è caduto il riferimento alla diversità di sesso, conformemente a quello che è un principio contenuto nel trattato di Maastricht, dove è vietata ogni discriminazione in base agli orientamenti sessuali delle persone. In secondo luogo, al posto di un diritto, ce ne sono due, le parole sono chiare, il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono “garantiti”, mentre nella vecchia versione c’era il singolare, quindi ci sono due diritti, uno riprende la tradizionale struttura matrimoniale, e uno invece che apre a un mondo, che poi sarà disciplinato, e qui è ovvio perché l’idea di diversità culturale, religiosa, che è affermata anche nella Carta, può portare, all’interno dei singoli Stati, a delle discipline almeno parzialmente differenziate. Ma questi due diritti ci sono, e non c’è più una gerarchia, cioè un diritto di serie A, quello del matrimonio tradizionale, e un diritto di serie B che è quello, chiamiamolo, delle convivenze o unioni di fatto. Quindi, se noi vogliamo un po’ ragionare, senza essere solo prigionieri delle nostre ideologie, dobbiamo tener conto che la società è quella che conosciamo, e non possiamo chiudere gli occhi. Non è, credo, retorica, ricordare che la compagna - io ho sempre un po’ di pudore nel fare questi riferimenti - la compagna di uno dei morti di Nassiriya non poté entrare alla cerimonia funebre. “Eh, ma – si dice – quello è stato uno sbaglio”, uno sbaglio, sì, ma nasce da questo tipo di cultura perché il poliziotto che sta lì, dice: “Qual è il tuo titolo?” “Nessuno” , “Sei la moglie?”. “No”, “Sei la figlia?” , “No”, allora non entri perché solo i famigliari. Allora, questi sono dati di realtà, la legge non vale solo per quello che disciplina ma anche per il tipo di cultura che cerca di fare entrare in un ordinamento. Allora oggi siamo di fronte ad alcuni passaggi nei quali si vuole www.cgil.it Confederazione Generale Italiana del Lavoro _______________________________________________________________________________ legiferare laddove non ce ne sarebbe bisogno, per restringere le libertà, e si vuole impedire la legislazione laddove invece avrebbe una funzione di liberazione, perché, rispetto a questo riferimento forte, il rispetto della persona, del suo consenso, della sua dignità, ci sono due modi di legiferare, o per aumentare i vincoli, e credo che questo sia non solo antistorico ma anche contrastante con la Carta Costituzionale che ci siamo dati, oppure per ampliare gli spazi di libertà. Quando abbiamo avuto la stagione agli inizi degli anni settanta, la legge sul divorzio era una legge che aumentava gli spazi di libertà; la normativa sull’interruzione di gravidanza aumentava gli spazi di libertà. In questo momento siamo di fronte a un tentativo di richiudere la libertà individuale in una sorta di prigione che non ha più le garanzie costituzionali, si sta facendo una revisione costituzionale impropria e strisciante, le cose che leggo oggi confermano tutto questo. Il che vuol dire che, come dire, i tempi sono difficili, però nessuno si dovrebbe tirare indietro. Cioni Grazie. Saremo tutti in trincea a vivere la battaglia di questi nostri giorni. Tempi duri, siamo abituati… Comunque, grazie a voi tutti. Ci vediamo al prossimo seminario. www.cgil.it