Tempo pieno e modelli di stato sociale

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Confederazione Generale Italiana del Lavoro
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Tempo pieno e modelli di stato sociale
Siamo orgogliosi di aver realizzato questo appuntamento e di ciò siamo grati innanzitutto ai
compagni e alle compagne di Genova che l’hanno condiviso e perseguito con tenacia.
Abbiamo cercato insieme una giornata di riflessione da cui far partire un percorso di ricerca,
di studio, di elaborazione, capace di coinvolgere le diverse realtà territoriali, impegnandoci
tutti a una verifica tra un anno di questo percorso.
Ho particolarmente condiviso questa scelta, così lontana da ogni rischio celebrativo che
dilaga in questa campagna elettorale, perchè essa confida sull’affidamento reciproco che
andrà rispettato e perché scommette sul pensiero, sulla possibilità cioè oggi, anche in
questa fase così complessa e difficile, di riannodare qualche filo di un possibile progetto
comune.
La bella e per me interamente condivisa relazione di Fabrizio Da crema, pone le basi per
cercare di definire le linee di una politica per la formazione entro le quali collocare le nostre
rivendicazioni, a partire dalla necessità di ripristinare il tempo pieno abrogato dal decreto
Moratti sul ciclo primario.
Ma non c’è dubbio, riprendendo le sollecitazioni della relazione, che resterebbe
incomprensibile la crescita impetuosa e per certi versi contraddittoria del tempo pieno negli
anni 70-80 se si dovesse prescindere dal quadro più generale in cui prendeva forma nel
nostro Paese quel modello di stato sociale moderno che ha costituito una delle stagioni più
avanzate del movimento operaio e sindacale.
Un Paese desideroso allora di crescere, di superare gli squilibri sociali di una società ancora
in transizione verso la piena industrializzazione, di innalzare i redditi di tutti, di individuare
nelle grandi conquiste della sanità pubblica, della scuola pubblica e della previdenza
pubblica, i presidi di una sicurezza insieme sociale ed individuale che avrebbero migliorato le
condizioni di vita di milioni di persone.Tutto ciò avendo sullo sfondo un patto fiscale che
attraverso la fiscalità generale definiva un patto tra stato e cittadini, cioè le condizioni della
solidarietà possibile, come fondamento della sicurezza e della libertà delle persone.
E’ curioso ed anche preoccupante che tutto ciò rischi di essere dimenticato oggi a fronte
delle promesse di riduzione delle tasse ad opera del governo di centrodestra.Io non critico
Berlusconi per non aver mantenuto le promesse; io sono in dissenso sui contenuti di quelle
promesse. Bisognerebbe infatti invitare a riflettere non su quanto e se verranno ridotte le
tasse ma sul fatto che meno tasse vuol dire meno società.
Tornando a quel processo, va detto che esso fu tutt’altro che lineare; segnato anzi da
pesanti conflitti, lotte, ma nella sostanza quel compromesso sociale fu raggiunto
determinando un salto nella storia del nostro Paese.
Il tempo pieno è figlio di questa storia; ed anche la sua vivacità culturale, l’indiscutibile segno
riformatore delle sue pratiche e del suo contributo culturale, quel calarsi nella società e nei
suoi conflitti, esprimevano bene le radici storico-sociali di quella esperienza.
Anch’essa tutt’altro che lineare e priva di contraddizioni: basti ricordare il passaggio dalla
fase sperimentale al consolidamento dei posti: quante facili e improvvise conversioni al
tempo pieno, quanti nuovi e sorprendenti interessi politici attorno al tempo pieno !
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Ed è proprio in questo delicatissimo passaggio che il tempo pieno avverte il salto di fase:
l’estensione apre a confini inimmaginati, a potenzialità inedite, ma in quei territori così vasti
ed abitati c’erano tutte le insidie di un impoverimento, di gravi perdite, persino di
snaturamento delle proprie origini.
Mancarono allora soggetti politici o sindacali capaci di orientare e sostenere gli insegnanti
del tempo pieno durante quella difficile fase; dobbiamo riconoscerlo e questo rende ancora
più forte il nostro riconoscimento alla loro ostinazione a non mollare, a misurarsi con le
nuove contraddizioni, le nuove sfide educative.
Soltanto con la riforma dei programmi della scuola elementare e poi degli ordinamenti la
CGIL Scuola riannoda le fila di una relazione importante con il tempo pieno e i suoi docenti
per orientare l’attuazione di quella riforma verso una scuola migliore per tutti, una scuola che
potesse fare proprio il patrimonio elaborato dalle migliori esperienze di tempo pieno.
Sarebbe qui troppo lungo ripercorre i successi e gli insuccessi di quella stagione insieme
così vicina e così lontana.
Però è vero, mancò un ruolo di orientamento, di indirizzo della politica, ma i docenti non
rimasero soli. Ci segnò, in quegli anni, l’esperienza e il pensiero del prete di Barbiana.Un
pensiero scomodo e provocatorio per tutti: per l’istituzione ecclesiastica che volle relegarlo in
quella sperduta canonica, e provocatorio per noi: penso alla durezza dei suoi giudizi sulla
scuola pubblica, sugli insegnanti, penso soprattutto alla provocazione che egli in sé
rappresentava; lui, titolare di una scuola “privatissima” e di un pensiero di un integralismo
sconvolgente, capace di sconvolgere anche le coscienze laiche. Ma non ci fu solo Don
Dilani. Penso alla testimonianza e alla militanza del movimento che si ispirava a Freinet ;
penso all’impegno e all’opera di Bruno Ciari, quel suo scommettere sul cambiamento
possibile anche attraverso la tenace, paziente ed impegnata opera degli insegnanti che
fanno della loro competenza didattica, del saper lavorare insieme, della loro capacità di
guardare oltre la scuola e di uscire dalla scuola, gli strumenti per una scuola scuola capace
di produrre apprendimento e democrazia per tutti e non solo per i più deboli.
Da questa vera scuola di formazione proveniva anche la nostra Rita Assandri; una
formazione che l’ha accompagnata per tutta la sua vita di insegnante di tempo pieno e di
dirigente sindacale a tempo pieno.
Un dato è certo:le scuole a tempo pieno sono tra le poche scuole del Paese capaci di
produrre memoria, conoscenza: dai cartelloni nelle classi alle ricerche, dai materiali
alternativi ai libri di testo alle produzioni di diverso tipo. Una scuola che apprende e cresce
nella sua capacità di apprendere.
Non era forse già questo il cuore dell’autonomia che sarebbe stata poi conquistata negli anni
successivi? E non è forse proprio questa capacità di costruire significati, modelli
organizzativi, esperienze significative, l’autonomia di cui avremmo bisogno soprattutto oggi a
fronte della crisi della scuola?
Ma è proprio sul finire degli anni ’80 che inizia una nuova fase del ciclo economico e sociale
del nostro Paese. Con una tenace battaglia difensiva da parte nostra che in parte ha certo
limitato i danni ma insieme non è riuscita ad offrire sbocchi diversi. Il liberismo che si è
diffuso nel mondo e in Europa ha radicalmente rimesso in discussione quel compromesso
sociale di cui parlavo all’inizio. Non è un processo che nasce con Berlusconi ( che pure bene
rappresenta la sua variabile “locale”); è un processo che è già alle nostre spalle da alcuni
anni e che non abbiamo saputo intercettare nelle sue tendenze sociali più profonde.
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Il quadro generale che oggi il nostro Paese presenta è tuttavia molto chiaro: il livello di
crescita è oramai vicino allo zero. Questa stasi è stata aggravata per altro da un tasso di
inflazione quasi doppio rispetto ai Paesi europei, con effetti pesanti sui salari, pensioni e sui
consumi. E tutto ciò nel quadro di uno scontro sociale in cui è stato chiaro l’intento di colpire
la contrattazione nazionale e le politiche redistributive che hanno reso possibile nel tempo un
welfare solidaristico ed inclusivo.
I dati salienti di questa situazione sono oggi registrati da tutti gli organi di controllo
dell’economia:
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i ricchi hanno aumentato enormemente le loro ricchezze a riprova di un forte incremento
delle disuguaglianze
i profitti sono saliti come non si ricordava dagli anni ’50 grazie anche alla riduzione forte
della spesa per interessi determinata dall’avvento dell’euro
la logica del profitto ha assorbito la ricchezza senza trasformarla in qualità delle
infrastrutture pubbliche, del modello produttivo
i capitali sono fuggiti verso la ricchezza finanziaria anziché scommettere sull’innovazione
produttiva. Un danno per il Paese e persino un processo di modificazione della natura del
lavoro : esso infatti non vale più per la conoscenza che incorpora ma per la sua valutazione
in borsa; altro che economia della conoscenza !
è in atto infine una demonizzazione delle politiche fiscali ( che pure hanno le loro
contraddizioni ) che tende a legittimare persino sul piano etico condoni ed evasione mentre
la riduzione speculare delle risorse agli EE.LL erode i livelli di welfare conquistati in tanti
anni.
Tutto ciò fortunatamente non è più oggi sostenuto dalla sola CGIL che da tempo ha
denunciato il rischio del declino del Paese. Parole molto nette e molto consapevoli sono
state espresse dal nuovo Presidente di Confindustria, Montezemolo, e al di là di prematuri
auspici esse costituiscono un fatto di grande rilievo sullo scenario nazionale se diventeranno
la linea da verificare nei fatti di Confindustria.
In sintesi emergono oggi due dati di grande interesse per noi, anche per le nostre riflessioni
sul terreno della formazione:
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crescono le disuguaglianze e ciò non può risultare indifferente al sistema della formazione
tramonta l’enfasi sul ruolo taumaturgico del mercato come unico regolatore dei processi
economici e sociali. Ritorna pertanto, in forme certamente nuove rispetto al passato, una
voglia di politiche pubbliche ( nell’economia e nel sociale) che confligge con la vocazione
alla privatizzazione.
Anche il mondo della formazione più vicina al lavoro evidenzia queste contraddizioni. Su
ventuno milioni di lavoratori occupati, il 47% possiede la licenza media e quel che è più
inquietante, cresce da parte delle imprese la domanda di manodopera generica.
E’ la conferma della crisi del nostro sistema produttivo che ha rinunciato a scommettere
sull’innovazione, in particolare sull’innovazione di prodotto. Se non riparte questa spinta,
anche la leva formativa, malgrado nuovi strumenti disponibili ( penso ai fondi
interprofessionali per la formazione continua) rischia di rimanere al passo perché non si
riattiva la leva formativa se essa non è sospinta da una domanda forte di innovazione del
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lavoro. E invece, come purtroppo ha dimostrato da ultimo il caso Melfi, sopravvive nel nostro
Paese un taylorismo fuori tempo che ci colloca fuori dalla economia della conoscenza che
da Delors in poi ha segnato tappe importanti nello scenario europeo.
Queste considerazioni ci sono forse utili per approfondire alcune questioni sul versante
“formazione” che non sono sfuggite all’attenzione di questo Convegno.
Mi è successo molte volte di sentire che la legge Moratti è un ritorno al passato. Capisco che
talvolta anche noi siamo travolti dal bisogno di comunicare semplificando, ma non ci fa bene.
Dobbiamo esigere innanzitutto da noi stessi, molto rigore di analisi. Noi infatti non possiamo
cadere nel modello comunicativo del Cavaliere. Egli usa a piene mani i mezzi di
comunicazione che controlla ma non è obbligatorio frequentare i salotti televisivi per
rispondere. La politica deve ritrovare nel rapporto con le persone la ragione del suo
significato.
Se Berlusconi annuncia che un giorno modificherà la Costituzione sovietica, un altro la
magistratura troppo di sinistra, un altro ancora ridurrà le tasse, noi non possiamo rispondere
con l’elenco delle nostre abrogazioni future. E’ un senso di liberazione che dura un attimo e
poi lascia una sensazione di frustrazione. Soprattutto rischiamo in questo modo di non
cogliere che quella apparente antipolitica tende a porsi come politica capace di dividere,
frammentare, alimentare conflitti perché è in questi scenari che il modello plebiscitario può
trovare ragioni e consensi.
Noi abbiamo bisogno di una politica capace invece di ricomporre, di unificare, di ritrovare
ragioni profonde per il cambiamento possibile.Abbiamo bisogno di rilanciare la politica come
forma di partecipazione perché solo in questo modo la politica può tornare a vivere, più di
quanto lo sia oggi, tra i giovani e le persone di ogni età.
Non ci sono dunque ritorni al passato. E’ vero che alcuni elementi “estetici” di quella
proposta potrebbero indurre quella valutazione ( un anno in meno di obbligo scolastico, la
scelta precoce tra canale liceale e formativo). Ma è solo apparenza. Perché anche tornando
a quel passato, gli anni dell’avviamento professionale e della media, degli esami selettivi,
ecc il ruolo affidato alla scuola pubblica fu enorme. Pensate alla alfabetizzazione di milioni di
bambini raggiunti fin nei più sperduti Comuni. Questo ruolo non c’è più. La scuola pubblica
non ha più di fronte a sé quel ruolo nazionale. La diminuzione del tempo scuola, che è il
segno del nuovo ciclo primario, sta ad indicare una scuola minima per tutti, una riduzione
reale del ruolo della scuola pubblica nel Paese.
Per questo la vicenda del tempo pieno ha un carattere emblematico.
Tutto ciò verso una crescente privatizzazione della scuola? No, anche questa sarebbe una
debole semplificazione anche se non sfuggono a nessuno le reiterate cambiali elettorali che
questo governo paga alla gerarchie ecclesiastiche. Il processo di privatizzazione che avanza
è ben più insidioso della privatizzazione della scuola: è la privatizzazione delle scelte, il
ricondurre alla “libera scelta dell’individuo fatto famiglia”, il primato delle scelte educative.
Non importa che questa famiglia sia una costruzione ideologica che non risponde alla realtà:
importante è parlare all’individuo nella scuola come parlare all’individuo nel lavoro ( anche
qui in un rapporto sempre più individualizzato, senza intermediazione sociale, cioè senza
sindacato) , come parlare all’individuo nei servizi ( soldi al singolo anziché servizi alla
comunità).
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Sta in questo la perversa modernità della legge Moratti; una modernità che non abbiamo
saputo interpretare per tempo, vittime anche noi di una subalternità acritica all’ideologia del
mercato che avanzava, aggredendo i fondamenti sociali e culturali del welfare conquistato in
tanti anni di lotte.
E’ sotto gli occhi di tutti la deriva individualistica del nostro tempo, la competizione
forsennata che segna i rapporti tra le persone, l’annullamento progressivo dell’idea di diritto
come relazione di responsabilità verso l’altro.Sono mutamenti profondi che vanno oltre la
sfera dell’economia e delineano un mutamento antropologico in atto.Bisogna tenerne conto
perché ciò vuol dire che non basteranno misure solo economiche per mutare questo
scenario.
Ma quella sfida sul terreno della libertà (il diritto di scegliere del singolo “fatto famiglia”) va
assunta su quel terreno; noi non possiamo fuggire e cambiare argomento. Certo, in quelle
scelte, non è difficile individuare una riproposizione, in forme nuove, di una teoria del
condizionamento sociale. Se lasciamo il singolo solo di fronte alle sue scelte, esse non
saranno che il prodotto della sua storia, delle sue culture familiari. Una nuova riproduzione di
disuguaglianze funzionali al modello economico perseguito e descritto in precedenza.Un
modello fondato sulla competizione (altro valore mutuato dallo scenario economico),
sull’affermazione di chi può e meglio può.
Noi possiamo certo rispondere sul terreno della qualità dell’offerta formativa e su questo non
poco abbiamo prodotto e seminato, ma è sufficiente? Il tema del valore, del ruolo del
singolo, della persona che apprende, non chiede forse risposte nuove? Proprio nel tempo
pieno abbiamo raggiunto nelle esperienze migliori la sintesi tra l’apprendimento come fatto
sociale (lo stare insieme ad altri e diversi da noi) e l’individualizzazione dei percorsi (la
rottura del gruppo classe, la rottura della gerarchia dei saperi, l’attenzione al singolo e non
solo a chi più ne aveva bisogno). Ma questo processo non ha trovato né cittadinanza né
pratica nella “scuola di tutti “, prova ne sia i dati sull’abbandono, la selezione, il rapporto tra
scelte del ciclo secondario e titoli di studio dei genitori.
Insomma il tema dell’eguaglianza torna con forza a interrogarci per andare oltre quella
eguaglianza delle opportunità (cioè disponibilità di determinati mezzi) che pure abbiamo
perseguito non senza risultati importanti.
A.Sen, in un suo recente saggio, ci invita ad andare oltre quella definizione, riflettendo sulla
“eguaglianza delle capacità”, ovvero la libertà del singolo di vivere la propria vita in modi
diversi.
E’ un obiettivo praticabile solo con un immenso sforzo collettivo, alternativo alla
privatizzazione delle scelte. Uno sforzo di solidarietà intesa come responsabilità individuale
e collettiva ed anche come nuova produzione culturale.
Non sarà pertanto sufficiente, anche in un diverso quadro politico, un forte investimento nella
politica economica, nei servizi e nella formazione per costruire un welfare capace di tenere
insieme la valorizzazione del singolo, della persona e la dimensione sociale in cui essa può
realizzarsi.
Una scuola di qualità, in grado di produrre l’eguaglianza delle capacità, richiede un nuovo
impegno anche da parte di chi lavora nella scuola. Nessuno affiderà alla scuola un compito
così alto se gli insegnanti non rivendicheranno loro per primi una responsabilità sui risultati e
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, di conseguenza, una autonomia ancora più forte nell’organizzazione del proprio lavoro
individuale e collettivo, nella qualità e articolazione della propria professionalità.
Non dobbiamo quindi limitarci ad una pura operazione di contrasto che pure va sostenuta
ogni qualvolta sia necessario. Tra gli strumenti fondamentali per combattere l’idea di scuola
che avanza e per far vivere insieme una idea di scuola miglior per tutti, noi dobbiamo
sostenere la necessità di una seria battaglia anche culturale che nella scuola vuol dire
qualità della didattica, del fare scuola, di relazione significativa con chi apprende, di
confronto critico ma stringente con i genitori che chiedono o attendono, di apertura verso il
nuovo protagonismo delle Regioni e degli EE.LL.
Tutto ciò va fatto oggi, anche in presenza dei nuovi vincoli normativi che non condividiamo ,
lavorando per tenere aperti i processi ma anche per impedire dinamiche involutive. I collegi
docenti e le comunità scolastiche non sono aule parlamentari dove uno schieramento possa
insultare l’altro; non c’è un centro-destra e un centro-sinistra ma persone da impegnare in
riflessioni rigorose, aperte, propositive, aperte al confronto del pluralismo culturale, senza
negare i giudizi sulle politiche e i provvedimenti specifici.
L’autonomia che rivendichiamo non è strumentalmente solo un mezzo di legittima difesa ma
un laboratorio per cercare soluzioni condivise.
Insisto sul fatto che dobbiamo seminare oggi questa cultura perché nessun governo,
neppure di centrosinistra, sarà in grado di determinare ciò che riguarda i comportamenti
individuali e collettivi dei docenti . Per questo dobbiamo essere noi ad animare questa
battaglia culturale che va oltre i confini del nostro sindacato ed esige alleanze più vaste del
nostro sindacato ( con gli altri sindacati confederali certo ma anche con i movimenti della
società civile, i giovani, il volontariato, le istituzioni del territorio):
Non è affatto escluso che questo comporti qualche rigorosa critica anche alle nostre
politiche, ai nostri ritardi e contraddizioni. Del resto, negli anni ’70 il tempo pieno ci obbligò a
discussioni molto importanti sull’organizzazione del lavoro, sulla professionalità dei
docenti,ecc). Ma anche di questo abbiamo bisogno per crescere, per ridare senso a un
pensiero politico capace di affrontare la complessità del presente e ritessere, attraverso una
paziente opera collettiva, le linee di un progetto di società senza il quale la politica si fa
muta, allontana da sé le persone. O peggio prepara i tempi di un ricorrente trasformismo che
è la malattia infantile della politica italiana.
Non ha mai coltivato la pericolosa illusione chela scuola possa da sola cambiare la società.
Ma oggi per ricostruire la società, per fare società, occorrono nuove ragioni e la scuola può e
deve concorrere a riscriverle.
Del resto democrazia e conoscenza sono processi sociali che camminano sulle gambe delle
persone: questo è il futuro che dobbiamo da oggi costruire insieme.
Dario Missaglia
Coordinatore Dipartimento Formazione-Ricerca CGIL
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