History of Science and Physics Education

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Medical and Health Physics
The thermoluminescence peaks of quartz at intermediate temperatures…
Limits of thermoluminescence dosimetry
In thermoluminescence dosimetry, the accidental dose Dx can be assessed as the difference between the total accrued dose DTL and the dose due to the natural sources of radiation (alpha, beta, gamma and cosmic rays) absorbed by the sample during its age A:
Dx = DTL - A⋅(Nα + Nβ + Nγ + NC)
Accurate measurements of the terms contributing to Dx and of the uncertainties related to
each of them were performed using quartz extracted from one brick and two tiles (50-80
years range) collected from an urban settlement. Independent methods like alpha-counting,
beta dosimetry, gamma spectrometry and flame photometry were used for the annual dose
assessment. Two approaches were employed for the evaluation of the total accrued dose:
regenerative dose and additive dose [1]. The former enables to assess accidental doses as
low as approximately 12 mGy by using 10 year old samples, but it can be applied only
when sample sensitisation does not occur. The latter can be applied to any sample, however the related uncertainty is higher and minimum detectable anthropogenic dose in young
samples amounts to 20 mGy [6].
Table 1
The trap parameters of peak I and II
PEAK
ACTIVATION
ENERGY (eV)
FREQUENCY
FACTOR (S-1)
I
I
II
II
1.13±0.03
1.22±0.02
1.46±0.06
1.36±0.02
(3.35±2.99)·1012
(3.39±1.46)·1013
(7.79±10.91)·1014
(2.23±0.75)·1013
LIFETIME
(AT 15°C)
720±70 d
580±70 y
METHOD
OF ANALYSIS
PS
ID
PS
ID
202
History of Science and Physics Education
REFERENCES
6. Veronese I., Giussani A., Göksu, H.Y.,
Limits of thermoluminescence dosimetry
using quartz extracted from recent building
materials in urban settlements. J. Env. Rad.
84, 319-39, 2006
203
History of Science
and Physics Education
1 Dipartimento di Fisica, Università
degli Studi di Milano
Difficoltà pluridecennali
nei rapporti tra ricerca e politica
E. Bellone1
Non è trascorso molto tempo da quando Antonio Ruberti ricordava al paese, e non solo agli
scienziati, la tenacia con cui, per decenni, una parte cospicua della politica aveva frainteso il
valore della libera ricerca fondamentale. Ruberti aveva effettivamente vissuto nella cornice
delle difficoltà causate da quel fraintendimento, sia nella sua qualità di Rettore della
“Sapienza” di Roma, sia come ministro, sia nelle sue funzioni in incarichi europei. A suo
avviso, la difficoltà più robusta stava nella popolarità del punto di vista secondo cui la scienza non è cultura vera e propria, ma è una forma della tecnica da valutare in termini di utilità
o dannosità. Nella cultura diffusa nel paese questa svalutazione della scienza suscitava consensi, e molti responsabili in sede politica agivano appunto in tale sfera consensuale.
Ancora oggi è abbastanza popolare il punto di vista secondo cui la scienza non è cultura:
la ricerca di base sarebbe allora da intendere come una mera tecnica. Ma le forme della tecnica possono generare anche cose pericolose. La libertà di espressione, che in genere si concede ai prodotti della cultura, non deve invece essere concessa a pratiche tecniche che sono
potenzialmente dannose, e che debbono quindi essere soggette a controlli esterni alla comunità scientifica.
Questo atteggiamento non è alimentato da idee nuove o originali, ma da opinioni che
risalgono ad epoche lontane. Le troviamo, per esempio, nelle pagine del “Dialogo” di Galilei.
Ne è portavoce il filosofo Simplicio, il quale diffida delle dimostrazioni scientifiche ed esalta
invece il sapere dei saggi, i quali si occupano solo di ciò che è “universale”. Una persona veramente colta, quindi, lascia certe sottigliezze e certi “tritumi”, che sarebbero soltanto da classificare sotto la voce “curiosità”, ai matematici e ai vili meccanici.
Va tuttavia notato che il punto di vista di Simplicio è, nelle pagine galileiane, messo alla
berlina: oggi, invece, sembra essere maggioritario, soprattutto fra coloro – intellettuali e
politici – che riducono la scienza a mera techne. Se si accetta questa riduzione, allora si
ammette anche che la tecnica può produrre forme pratiche di benessere o forme pratiche di
danni.
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Se così stanno le cose, allora va fatto quel passo ulteriore di cui già ho fatto cenno: controllare, dall’esterno della comunità scientifica, gli sviluppi della ricerca, così da impedire
evoluzioni pericolose.
Essendo così impostato il problema, si tratta di trovarne qualche giustificazione. Un compito abbastanza facile, questo: basta pescare nelle acque delle ideologie. Se la scienza può
essere una serva delle multinazionali, allora la libertà di ricerca va soppesata, caso per caso,
in sede politica. Se la scienza può deturpare l’ambiente, allora la scienza libera è una utopia
da demolire in sede politica e giuridica. Se la scienza può costituire un attentato allo spirito o
alla dignità della persona, allora la libera ricerca deve sottostare a leggi che ne limitino la
crescita.
Nei regimi democratici, operazioni di tale natura hanno ovviamente bisogno del consenso popolare. E una via maestra per formare il consenso è ben nota e ben praticata. È sufficiente diffondere tra i cittadini la paura.
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Difficoltà pluridecennali nei rapporti tra ricerca e politica
Agli inizi degli anni Sessanta, in Italia, era in discussione la necessità di dotare il paese di
centrali elettronucleari, così da liberare la nostra economia dalla dipendenza dalle fonti fossili e, in particolare, dal petrolio. Una discussione anche aspra, soprattutto perché la questione
vera poggiava, ovviamente, su interessi economici enormi. Specifiche istituzioni politiche e
specifici mezzi di informazione di massa seppero costruire il consenso attorno all’idea di
bloccare la costruzione di impianti elettronucleari, presentandoli come dannosi per l’economia nazionale e pericolosi per la salute dei cittadini. E, nello stesso tempo, si ricorse a metodi decisamente spicci nei confronti di chi invece difendeva la necessità di innovare le nostre
capacità energetiche: Enrico Mattei fu assassinato sul finire del 1961, e contro Felice Ippolito
fu emessa, pochi mesi dopo, una sentenza di condanna a undici anni di galera.
Fatti da ricordare. Anche perché il rigetto delle centrali non fu il risultato di un referendum successivo al disastro di Chernobyl, ma l’esito di ciò che fu fatto accadere all’inizio degli
anni Sessanta.
Ci si potrebbe a questo punto chiedere come mai la negazione della libera scienza abbia,
nel nostro paese, un peso così rilevante nei rapporti tra politica e ricerca. La domanda è legittima: anche in Francia o in Inghilterra esistono resistenze alla modernizzazione e alla realizzazione di quella società della conoscenza che appunto si basa sulla forza della cultura scientifica, ma quelle resistenze non generano leggi contro le decine di impianti nucleari francesi
o contro l’esplorazione in biologia molecolare e ingegneria genetica.
Il caso italiano è effettivamente un caso, nel senso che la paura verso la scienza ha da noi
trovato un referente forte in molti intellettuali che hanno codificato la necessità di un rigetto
della scienza come cultura.
Basti allora citare, per sommi capi, alcune fasi della battaglia culturale che fu condotta da
un grande studioso come Benedetto Croce e che incise profondamente nelle opinioni maggiormente diffuse nella società civile. Nel 1911 Croce sconfisse, in un dibattito aspro, il tentativo che il matematico Federigo Enriquez stava elaborando per presentare la scienza come
intrisa di valori culturali. La tesi crociana fu assai semplice. Essa sosteneva che solo le menti
profonde o universali possono accedere alla cultura, essendo quest’ultima centrata su grandi
questioni di metafisica o storia. Ma l’umanità conteneva anche menti “minute”: a queste
ultime era allora concesso di interessarsi di botanica o aritmetica. L’ironia e il sarcasmo si
mescolavano così al disprezzo per quelle attività che già erano state bollate dal Simplicio di
galileiana memoria. La miscela, nel 1911, vinse.
Parole ancora più severe furono usate da Croce, nel 1939, per liquidare le ricerche biologiche che si rifacevano al modello elaborato da Charles Darwin. Quelle ricerche, a parere
del filosofo, suggerivano l’esistenza di “origini animalesche e meccaniche dell’umanità”, e
dovevano pertanto essere respinte poiché suscitavano solo “vergogna”. Esse, infatti, negavano
la presenza di una “favilla divina” nell’essere umano. Più tardi, in scritti che esercitarono una
spiccata influenza in molti altri studiosi di vario orientamento filosofico e politico, Croce liquidò l’intero scenario scientifico, negandogli totalmente una qualsiasi rilevanza nel mondo dei
valori e lasciandogli soltanto l’etichetta secondo cui una scienza è un elenco di ricette
pratiche.
Dall’interno della comunità scientifica furono poche le voci che si alzarono per contrastare questa critica radicale di Croce, che si traduceva in banalizzazioni popolari di ampio
successo sia nei mezzi di comunicazione di massa, sia nei programmi del sistema educativo
nazionale.
Chi decide, però, quali siano i rischi che sarebbero connessi alla ricerca libera, e quali
siano le leggi di controllo? Negli anni galileiani, per esempio, il rischio era stato individuato
nel modello copernicano, e le leggi di controllo avevano stabilito sia la falsità del modello
stesso, sia la necessità di impedire, anche con metodi spicci, le ricerche di un Giordano Bruno
o di un Galileo Galilei.
Una maggioranza di scienziati ritenne opportuno fingere di poter vivere in qualche torre
d’avorio. Una minoranza, invece, tentò di replicare, ma fu sconfitta con argomenti non diversi da quelli che già avevano bloccato il progetto di Enriquez. Non a caso spettò a un filosofo
come Banfi, che davvero tentava di capire l’evoluzione della scienza , il compito di esprimere
un giudizio decisamente negativo su quanto la filosofia italiana aveva fatto contro la cultura
scientifica. Attorno alla metà del Novecento, infatti, Banfi scrisse con amarezza che gli scienziati italiani furono messi a tacere con gli strumenti della “ciarlataneria filosofica”.
Dobbiamo allora chiederci, con la necessaria franchezza, se quei metodi sono stati definitivamente respinti. La mia risposta è negativa.
Un caso italiano, dunque, e solo italiano. Mentre il filosofo Banfi constatava il rigetto culturale della scienza in Italia, negli Stati Uniti il filosofo Schilpp curava un volume che nel
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Difficoltà pluridecennali nei rapporti tra ricerca e politica
1949 sarebbe stato stampato con il titolo “Albert Einstein: Philosopher-Scientist”. Il volume
era una raccolta di saggi, appositamente scritti da scienziati e da filosofi, che mettevano in
luce, sotto angolature diverse, il grandioso impatto culturale del pensiero einsteniano.
Che fare, allora? Personalmente ritengo che sia accettabile l’opinione di uno storico della
cultura come Paolo Rossi, secondo il quale una persona è colta se, oltre ad apprezzare
Shakespeare, sa anche cogliere il significato di una legge fisica.
C’è molto da fare, qualora si accetti davvero questa regola. E, soprattutto per i giovani, c’è
da rivendicare con orgoglio l’eredità di Galilei ed Einstein. Galilei pretendeva per sé il titolo
di filosofo, ed Einstein amava dire che la scienza senza filosofia è arida, e che la filosofia
senza scienza è vuota. La ricerca di base è cultura in quanto è guidata dalla curiosità, e la
curiosità per i fenomeni osservabili è la matrice non della tecnica, ma di quella che in età
galileiana si chiamava “filosofia naturale”, e che oggi può prosperare solo nella libertà.
Environmental Physics
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