SCIENZAeTECNICA La medicina medievale Un sistema per mettere a posto le articolazioni [Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze] In questo manoscritto del X-XI secolo, miniato da un ignoto artista bizantino, sono raffigurati i vari sistemi seguiti dalle scuole mediche altomedievali per mettere a posto le articolazioni. La peste del ’300 diede grande risalto alla figura del medico. La medicina era impotente di fronte a epidemie delle quali si ignorava la causa e per le quali non esistevano cure. Ciononostante, la gente ricorreva più che mai all’aiuto dei medici e questi ultimi non risparmiavano il loro impegno contro un nemico così micidiale e invisibile. Tuttavia, il termine «medico», se riferito alla società tardomedievale, è troppo generico e ambiguo, perché copre un ampio spettro di figure sociali e di competenze, dal ciarlatano al professore universitario. I poveri, vale a dire la maggior parte della popolazione, si rivolgevano a individui che, in buona o in cattiva fede, pretendevano di saper curare il prossimo: si trattava di praticoni che erano in grado, per esempio, di rimettere a posto un’articolazione lussata, di cavare un dente, di preparare unguenti contro gli ascessi e infusi per lenire il mal di stomaco, di applicare sanguisughe ed effettuare salassi. Particolarmente rinomati in queste attività erano i barbieri, mentre per i parti si ricorreva all’esperienza delle levatrici. Molti di questi individui esercitavano il loro mestiere in modo itinerante: giravano di paese in paese e offrivano i loro servizi in cambio di piccole somme, durante i mercati, le fiere, le feste. I malati poveri facevano anche ricorso alle vecchiette specialiste in infusi e tisane di ogni genere. Non di rado, il talento di queste guaritrici appariva quasi stregonesco: i confini tra medicina e magia erano alquanto confusi, e confezionare una tisana poteva risultare non molto diverso che preparare una pozione magica o un incantesimo. La maggior parte di questi rimedi non era né nociva né salutare, ma semplicemente inefficace. Essi, tuttavia, finivano talvolta per produrre un buon effetto perché suggestionavano i malati: in altre parole, i malati guarivano per autosuggestione, perché ritenevano di essere curati efficacemente. Hieronymus Bosch, «La cura della follia», 1475-1480 [Museo del Prado, Madrid] GIARDINA-SABBATUCCI-VIDOTTO • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI La medicina medievale SCIENZAeTECNICA Più in alto nella gerarchia delle arti mediche si collocavano i chirurghi: simili agli artigiani, con i loro inquietanti ferri del mestiere – coltelli, pinze, aghi, seghe, scalpelli – intervenivano nei casi in cui i farmaci erano palesemente impotenti. Non esistendo i disinfettanti, e tanto meno gli antibiotici, i chirurghi facevano largo uso del fuoco, soprattutto per cauterizzare le ferite e le piaghe: «quel che il farmaco non risana – si diceva – risana il ferro; quel che il ferro non risana, risana il fuoco; quel che il fuoco non risana, nulla può risanare». In un’epoca in cui la conoscenza del corpo umano era approssimativa a causa del divieto di dissezionare i cadaveri, le potenzialità della chirurgia erano inevitabilmente basse. La mortalità provocata dagli interventi chirurgici era altissima a causa delle infezioni, che non potevano essere né prevenute né efficacemente curate, e del dolore, che la mancanza di anestetici rendeva spesso intollerabile, provocando choc micidiali. Al vertice si collocava il gruppo ristretto dei «dottori», formatisi nelle università e abilitati all’esercizio della professione. Erano individui appartenenti ai ceti medio-alti, che avevano una clientela selezionata e che si trasmettevano spesso il mestiere di padre in figlio. Il livello scientifico della professione medica fu innalzato dalla migliore conoscenza dei capolavori della medicina antica, che furono riscoperti nelle biblioteche europee, o che furono trasmessi alla cultura occidentale grazie alle traduzioni arabe. Un ruolo importante nell’ascesa intellettuale dell’arte medica fu svolto dalla celebre scuola medica di Salerno. Secondo la morale dell’epoca, l’aspetto del compenso dovuto al medico poneva un problema delicato. Poiché la guarigione e la salute erano considerati un dono di Dio, a rigor di termini il medico non avrebbe dovuto farsi pagare. Egli era infatti ritenuto una sorta di sacerdote, in quanto intermediario tra Dio e gli uomini. Tuttavia, per svolgere bene questo delicato compito di intermediario, egli doveva studiare duramente per molti anni, approfondire ogni aspetto dell’arte medica, profondere fatica e impegno nell’assistenza ai malati. Per tutto questo – ma non per la guarigione, il cui merito, come si ripeteva, era unicamente divino – il medico era autorizzato a chiedere un compenso. In questo modo un po’ contorto la morale dell’epoca cercava di risolvere il difficile problema del rapporto tra il naturale e il soprannaturale, nella salute come nella malattia. Un medico tasta il polso al paziente ed esamina le urine [da una Raccolta di trattati di medicina, fine XIII secolo, Bibliothèque Municipale, Avignone] Operazione di trapianto di una gamba [Society of Antiquaries of London, Londra] I santi Cosma e Damiano, patroni dei medici, sono spesso raffigurati nelle vesti dei loro protetti: nella miniatura puliscono i loro strumenti dopo aver amputato una gamba ulcerata (visibile ai loro piedi) e averla sostituita con l’arto di un moro. Il paziente, con una gamba nera e una bianca, è nel letto, mentre gli spettatori osservano con stupore la scena. GIARDINA-SABBATUCCI-VIDOTTO • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI