ADAM SMYTH. Autobiography in Early Modern England. Cambridge

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ADAM SMYTH. Autobiography in Early Modern England. Cambridge, UK: Cambridge
University Press, 2010. x + 222 pp. + 7 illus.
L’interesse che si riserva alla scrittura autobiografica intesa come studio di una personalità è
sicuramente una pratica recente, frutto di un’ innovazione terminologica che emerge in Europa intorno
al XVIII secolo e che, secondo specifici schemi retorici, inscrive in un orizzonte letterario l’esperienza
intima del parlare di sé. La riflessività dell’atto di scrittura ha radici profonde nel tessuto culturale da cui
emerge in un’osmosi continua tra l’io di chi scrive e la norma sociale e culturale del proprio tempo,
ragione per la quale l’esperienza intima che si riversa sulla pagina scritta precede qualsiasi formulazione
teorica. È quanto dimostra Adam Smyth, docente universitario di Storia del Libro e Letteratura Inglese
della Faculty of English del Balliol College- tra i più antichi dell’Università di Oxford- nel suo recente
studio Autobiography in Early Modern England, pubblicato nel Settembre 2010 dalla Cambridge
University Press. Smyth si occupa di forme di autobiografia ante litteram dell’Inghilterra
Rinascimentale tra XVI e XVII secolo, portando avanti un’indagine sostenuta delle modalità di scrittura
privata che precedono l’avvento della tradizione diaristica e autobiografica in senso canonico, una pietra
miliare nell’istituzione di una cultura della scrittura di sé. Il contributo della ricerca di Smyth, i cui studi
hanno preceduto la pubblicazione di Autobiography in Early Modern England ha avuto un’importanza
considerevole nel dibattito teorico sulla letteratura inglese nell’età moderna. Particolarmente
significativo, a questo proposito, è l’articolo 'Almanacs, Annotators, and Life -Writing in Early Modern
England' pubblicato dall’autore sulla rivista English Literary Renaissance 38.2 (Primavera 2008), la cui
versione riadattata figura nel primo capitolo di questo volume. Con la stessa sistematicità dei metodi
esplorativi che si ascrivono all’analisi sociologica, Smyth conduce la sua indagine su manoscritti
catalogati e collocati nelle varie biblioteche della Gran Bretagna sotto la dicitura “diary” o
“autobiography”. Materiale di ricerca per la redazione di questo saggio critico è stato fornito dalla
British Academy, la Folger Shakespeare Library, the Leverhulme Trust, la British Library, la Bodleian
Library e l’Università di Reading. I manoscritti consultati da Smyth non presentano le caratteristiche
invalse del genere autobiografico ma rimandano perlopiù ad un’idea di self-accounting che attesta
consuetudini di vita privata: lettere, documenti di procedimenti giudiziari, ricettari, Bibbie annotate. La
complessità tassonomica di questa miscellanea di pratiche testuali ha incentivato la riflessione sulla
necessità di un’adeguata collocazione in ambito letterario del materiale in cui il senso autobiografico si
rende riconoscibile.
Sono quattro le tipologie testuali con le quali l’autore si è imbattuto con maggior frequenza, scritti
assunti in questo saggio come esempi paradigmatici di scrittura privata: almanacchi stampati e annotati
con glosse manoscritte, rendiconti finanziari, commonplace books e registri parrocchiali. Sebbene tali
fonti ordinarie siano sfuggite alla considerazione della critica, Smyth sviscera le connaturate potenzialità
di tali testimonianze che, pur essendo parte di un discorso privato che non ha alcuna pretesa letteraria,
assumono una centralità senza precedenti per lo studio esplorativo della sensibilità della scrittura privata
in età moderna. Smyth si insinua nella vita di chi scrive, valicando il confine tra intimo e privato e vita
pubblica. Il primo capitolo è dedicato ad annotatori e almanacchi, guide pratiche estremamente popolari
interfogliate con pagine vuote predisposte per il coinvolgimento diretto del lettore. L’intervento sul testo
avveniva attraverso l’inserimento di annotazioni personali, pressoché giornaliere, riguardanti la cronaca
della propria esperienza privata relativamente a circostanze di vita domestica riportate sulle pagine a
stampa dell’annuario. Gli almanacchi si prestavano agli scopi più disparati nell’interesse tipicamente
rinascimentale del compendiare la vastità in un formato concentrato. Smyth riporta un numero di esempi
significativi con testimonianze interessanti di personalità dell’epoca più o meno note. Sulla base di un
vasto campione di almanacchi, da quello di Antony Wood e John Evelyn, a Sarah Sale, Mattew Page, e
Lady Isabella Twysden, la riflessione dell’autore verte sulla presenza dell’ identità personale che affiora
dalle glosse nel tentativo più o meno deliberato di dar luogo a una forma depositaria di fatti biografici,
operazione che Nussbaum in Autobiographical Subject: Gender and Ideology in Eighteenth-Century
England definisce “the unmasking of what seems to need no explanation”.
Il secondo capitolo, apparentemente più tecnico, prende in esame i rendiconti finanziari. La ragione del
moderato interesse a cui questi testi sono stati sottoposti è piuttosto chiara: i registri sono stati tacciati di
oggettività e fattualità, caratteristiche che hanno precluso una risposta esegetica da parte degli studiosi
della storia della letteratura. Fondamentale in questo capitolo è l’approccio di Smyth a un genere che
egli considera in verità sapientemente strutturato sul piano retorico, in virtù di quell’effetto di
accuratezza cui auspicavano i compilatori. Un’organizzazione dei record delle proprie finanze con una
certa armonia d’insieme rimandava alla legittimità morale e alla diligenza dell’estensore, apportando
valore al suo credito sociale. Tra i casi di studio emblematici del rapporto tra record finanziari e scrittura
autobiografica, la centralità di Ann Clifford è meritevole di attenzione. Il corpus dei suoi scritti personali
su cui gli studiosi hanno convenzionalmente lavorato consta dei diari e un’autobiografia dal titolo
Summarie of the Records & a True Memoriall of the Life of Mee The Ladie Ann Clifford. A questo
corpus vanno aggiunti i registri contabili. La preminenza della Clifford negli studi letterari - figura
impegnata in una battaglia contro le pressioni sociali nella quale convergono il discorso del privilegio
aristocratico e la discriminazione di genere - si deve alla sua drammatica, lunga ed estenuante battaglia
legale per il riconoscimento della sua legittima eredità. La sua storia, dunque, presenta una forte
componente di natura economica legata a vicende di vita privata. Dai rendiconti finanziari si evince
curiosamente che il senso di identità è accentuato da una prospettiva più mondana e meno interiore. Con
le parole di Margreta de Grazia “what one is depends on what one owns”. La parola personalità, come
sottolinea Rebecca Elisabeth Connor, ha un nesso etimologico con personality, il cui riferimento al
patrimonio personale è semanticamente coerente.
Il terzo capitolo, cuore nevralgico della trattazione di Smyth, comincia dalla lettura dei commonplace
books, più comunemente noti come taccuini di pensieri personali che compendiavano raccolte di poesie
e citazioni estrapolate da altri testi secondo parametri altamente soggettivi. Ogni testo è potenzialmente
predisposto a catturare l’animo del lettore, pertanto il compilatore sviluppava la consuetudine di
riutilizzare quanto evocato dalle letture personali per produrre il proprio discorso persuasivo,
avvalendosi di un vero e proprio bacino di pieces of eloquence cui attingere. La relazione tra i
commonplace books e la scrittura autobiografica non sembra immediatamente intuibile. Si tratta di
citazioni che presentano una forte componente intertestuale che veicola pensieri e sentimenti del
compilatore, il quale però si cela dietro le quinte di una tipologia testuale non autenticamente
autobiografica. Quello che Smyth sottolinea è che il percorso esperienziale racchiuso nelle pagine del
taccuino è regolato da un processo mentale di selezione delle citazioni da inserire: un meccanismo di
filtro altamente individuale che guiderà il compilatore nella scrematura di massime e pensieri di grandi
uomini il cui vissuto è confacente al proprio modo di pensare e di vivere. È in questa sottile operazione
che emerge la sostanza intima e privata che Smyth osa includere nella varietà della “forma
autobiografica”, seppur consapevole del fatto che non si possa parlare di autobiografia tout court.
L’ esperienza di identificazione in cui la propria identità si snatura nei parallelismi con figure
emblematiche della storia della civiltà occidentale si configura come un modo di affermare la propria
personalità non sul piano dell’unicità, bensì della somiglianza. Leggere la propria vita come reiterazione
delle vite dei grandi, distintisi per aver superato le avversità con successo assume un intento
consolatorio. In questo senso i commonplace books sono vere e proprie autobiografie spirituali, l’eredità
che un padre lascia in consegna ai posteri riponendo nella saggezza aforistica la speranza di guidare e
plasmare la vita di inesperti e giovani lettori.
Smyth conclude la sua trattazione con i registri parrocchiali, una forma di racconto di età rinascimentale
atta a dimostrare che ogni vita può essere registrata in forma scritta. I registri parrocchiali furono
introdotti da Thomas Cromwell nel 1538 per monitorare la celebrazione di matrimoni, battesimi e
funerali. Smyth si è occupato in particolar modo dell’evoluzione nella prassi della compilazione dei
registri passando da notifiche laconiche nelle quali figuravano unicamente nome e data a comunicazioni
più articolate sulla falsariga dei necrologi. Agli individui ai margini della società erano riservati
resoconti più particolareggiati che si delineavano come vere e proprie mini biografie, comprensivi di
riflessioni moralizzanti sulla condotta del gregge. I demografi e gli storici sociali si sono avvalsi di
queste importanti risorse per ricostruire la storia delle comunità locali e l’impatto della Riforma
Protestante. Caratteristica determinante dei registri è il loro carattere composito: la registrazione degli
eventi di interesse parrocchiale prescindeva infatti dal rango, dal sesso, dalla professione, dall’età e dal
luogo di nascita degli individui censiti.
Il progetto di Smyth è il prodotto di un lavoro di ricerca che ha riportato all’attenzione forme di lifewriting alternative ai generi più tradizionali e consolidati del diario e dell’autobiografia, alimentando
così
il dibattito teorico e incoraggiando gli studiosi di settore a considerare i testi come forme
malleabili. Il comun denominatore delle forme di life-writing affrontate in Autobiography in Early
Modern England
è dato dall’accumulo di record che ricorda il flusso spontaneo del momento
compositivo. Altri generi si sono appropriati del modello di veridicità e attendibilità dei testi
autobiografici nel perseguimento del realismo. Si pensi al ruolo delle epistole in Pamela di Richardson o
The Expedition of Humphrey Clinker di Smollett. Molti romanzi devono molto alle pratiche dei
rendiconti finanziari come in Moll Flanders di Defoe o nell’Ulysses di Joyce. Questa aspirazione alla
plausibilità ritornerà con Philippe Lejeune nella definizione canonica di autobiografia in termini di
racconto retrospettivo che l’autore concede al suo lettore il quale, solo sottoscrivendo un “patto
autobiografico”, confiderà nell’autenticità di ciò che legge. Ciò che emerge in ultima analisi dal testo di
Smyth è che in ogni scrittura autobiografica vi è una fitta rete di implicazioni e motivazioni esistenziali
che riflette quella pressione tipicamente rinascimentale dell’ “ansia della dimenticanza” rispetto alla
quale diventa una necessità imprescindibile incidere la memoria di sé e lasciare l’impronta della propria
vita. Il prezioso contributo critico di Autobiography in Early Modern Age si affianca ad autorevoli studi
letterari sull’autobiografia nell’Inghilterra del XVI secolo di Sharon Cadman Seelig, Estelle C. Jelinek,
Meredith Anne Skura e Arthur Marotti. Se nella cultura dell’età moderna le attestazioni di vita intima
sono sempre un’incidenza in altre forme letterarie, Smyth pone l’accento sull’importanza di rispettare i
generi e le forme dove l’io di chi scrive si disvela nel rapporto tra il soggetto e le pratiche triviali della
quotidianità.
de Ruvo Annalisa
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