di - La Voce del Popolo

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Anno 3 • n. 17
martedì, 30 maggio 2017
RADOJKAŠVERKO
CINQUANT’ANNI DI GRANDE CARRIERA
IL PERSONAGGIO
ANNIVERSARI
CRITICA
Un ritratto dell’immortale Mata Hari,
personaggio che ispirò numerosi film
Mezzo secolo fa uscì il film
«Indovina chi viene a cena?»
Il film «Perfetti sconosciuti»,
di Paolo Genovese
Raggiunse la fama come danzatrice esotica
che fece impazzire mezza Europa, ma finì
fucilata come spia tedesca
Una carrellata nei film che trattano il tema
dei diritti degli afroamericani e criticano
il razzismo nella società americana
Una pellicola nella quale il regista utilizza
i meccanismi del cosiddetto “kammerspiel”
per parlare del male contemporaneo
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martedì, 30 maggio 2017
N
on ama definirsi una diva. Anzi,
non le piace proprio quando
la chiamano così. Ma da certi
epiteti è difficile scappare, perché artiste
come lei ce ne sono ormai poche in
circolazione. Una donna d’altri tempi
che ha combattuto tanto per poter
diventare allo stesso tempo sia un’ottima
professionista che una madre e moglie
premurosa. I frutti (e che frutti!) li sta
raccogliendo ora, e gode di ogni attimo.
Radojka Šverko, istriana di nascita, e
poi fiumana e zagabrese di adozione,
festeggia quest’anno cinquant’anni di
splendida carriera, in cui è sempre e
comunque rimasta fedele a sé stessa,
integra nelle sue scelte professionali,
e restia a scendere a compromessi.
Un’artista, ma soprattutto una donna
tutta d’un pezzo, che abbiamo avuto il
piacere di conoscere per farle una lunga
intervista in occasione di questo, per lei,
importantissimo traguardo.
Il 6 maggio scorso ha festeggiato nella
sala Vatroslav Lisinski di Zagabria,
con uno splendido concerto, il 50º
anniversario di carriera. Ha cantato
accompagnata dalla Filarmonica di
Zagabria e dal Coro accademico “Ivan
Goran Kovačić” diretti dal Maestro
Alan Bjelinski, ed è stato un grande
successo. Ci può descrivere cosa ha
provato in quegli attimi? È soddisfatta
di com’è andata?
“Ora che le emozioni si sono placate, devo
ammettere di essere molto contenta. E
vista la quantità di chiamate ed e-mail che
ho ricevuto, sembra che anche il pubblico
che ha assistito al concerto sia tornato a
casa soddisfatto”.
Cosa si prova a festeggiare 50 anni di
carriera? Un percorso lunghissimo e
molto intenso. Come lo descriverebbe?
È possibile dividerlo in fasi o è stato
un… racconto unico?
“Cinquant’anni sono molti, soprattutto per
un artista. La vita è piena di alti e bassi,
di bora e calma piatta, di tempeste e bel
tempo. Un po’ ci sei e un po’ no. Un po’ le
gratificazioni, anche finanziarie, arrivano
e qualche volta un po’ meno”.
C’è un periodo della carriera in cui si
è sentita particolarmente bene? Quale
di questi è stato il più importante e
significativo per lei? Quale l’ha segnata
maggiormente?
“A questa domanda non mi è facile
rispondere, ma stando a quanto scritto
e riportato dai media negli anni, tutti si
sono concentrati di più sulla mia carriera
internazionale, soprattutto i giornalisti
più giovani che non sono mai riusciti a
capire il motivo per cui, dopo i periodi
all’estero, sono sempre tornata in Croazia
rinunciando a stabilirmi in qualche
angolo del mondo. La mia presenza sulla
scena musicale croata è stata gratificata
da un sacco di riconoscimenti e premi,
attribuiti anche dalle giurie di esperti,
dallo Stato e, in fin dei conti, dalla
fedeltà del pubblico. E questo non ha
prezzo”.
Quanto è stato difficile per lei
raggiungere il successo?
“Bisogna mantenere la continuità, in
qualsiasi tipo di professione, e a volte
ciò risulta difficile. Per una donna, poi,
è una vera missione, soprattutto se
vuole essere anche moglie e madre. Per
fare un esempio, ti si offre la possibilità
di guadagnare dei soldi, che in fin dei
conti ti servono per vivere, e ti vedi
costretta ad abbandonare la famiglia, i
figli, il cuore ti si riempie di tristezza, ma
bisogna che tu vada, semplicemente devi
andartene”.
Facendo un resoconto di tutto, come si
sente oggi e come invece agli inizi del
suo percorso artistico?
“È impossibile fare un confronto. Quello
che non mi è mai mancato è la sicurezza e
la fiducia in me stessa, soprattutto quando
sto in scena, sul palco”.
Quando è scattato in lei questo grande
amore verso il canto?
“Canto da tutta una vita, da quand’ero
piccolissima. Cantavo già alle scuole
elementari a Pinguente dove sono
cresciuta, anche se sono nata a Pisino.
Suonavo la chitarra, il pianoforte,
cantavo nel coro scolastico, recitavo negli
spettacoli per bambini, mi cimentavo nella
mandolinistica, e non in roba qualsiasi
bensì in musica classica…”.
spettacoli
Quando ha capito che il canto sarebbe
diventato la sua professione, la sua vita?
“Il desiderio di occuparmi di musica è
presente in me da quando sono nata, ma
col passare del tempo, esso è cresciuto in
me in maniera esponenziale tracciandomi
e indicandomi il percorso che sto calcando
tuttora”.
Ci può descrivere brevemente la sua
infanzia e giovinezza? Un qualcosa di quei
tempi che le è rimasto particolarmente
impresso?
“Mi ricordo spesso di un episodio triste
avvenuto a Pisino. Avevo attorno ai quattro
anni. Mia mamma quel giorno stava
impastando il pane e aveva acceso la stufa
a legna. A un certo punto, io avevo preso di
nascosto una mela cotogna, e con la mano
sinistra avevo aperto l’uscio del forno per
poterla cuocere, cosa che avevo visto fare
spesso a mio padre. A un certo punto, la
mano destra mi è rimasta imprigionata nel
forno. Porto tuttora i segni delle ustioni
subite. Con il trasferimento a Pinguente, per
me è iniziato un nuovo capitolo di vita, ho
fatto nuove amicizie, nuove esperienze, come
ad esempio giocare a pallamano, ho avuto
le mie prime simpatie e ovviamente c’era la
musica”.
Com’era Radojka da bambina? Da
ragazza?
“Birichina, e si può capirlo dalle mie risposte
precedenti. Mi piaceva arrampicarmi sugli
alberi. In effetti, li ho… conquistati tutti,
credo sia rimasto soltanto uno sul quale non
sono mai salita. Certo, non sono mancati
tonfi, fratture di braccia e gambe, ma ciò
non mi ha mica fermata. Il dolore passa, e tu
continui a farlo”.
Come viveva all’epoca e quando ha
iniziato a occuparsi seriamente di musica?
“Ero una bambina serena e ho avuto
un’infanzia felice. Eravamo quattro figli.
Si viveva in maniera modesta, ma i nostri
genitori non ci hanno mai fatto mancare
l’amore e il calore. Quando mi capita di
guardare le vecchie foto di famiglia, mi
rendo conto che in tutte siamo sempre
composti, puliti e ordinati, ma soprattutto
sorridenti. Nella mia famiglia si è sempre
cantato molto. Ascoltavamo la radio e
imitavamo tutto ciò che sentivamo, a
prescindere si trattasse di lirica o musica
leggera. Tutti eravamo molto musicali e tutti
in qualche modo ci occupavamo di musica.
Mia sorella maggiore Mladenka ha lavorato
per tutta la vita come insegnante di musica,
la più giovane ha ottenuto diversi trofei a
competizioni amatoriali di canto, e il mio
defunto fratello era musicista pure lui”.
Che tipo di musica ascoltava da ragazza?
Ci racconti qualche aneddoto di quand’era
giovane, le sue prime uscite, le amicizie…
“Per i vostri lettori più giovani,
bisognerebbe forse sottolineare che
all’epoca della mia giovinezza non c’erano
ancora televisori. Erano un lusso che noi
non potevamo permetterci. Mi esibii per
la prima volta in TV nel 1964 a Zagabria,
a soli 16 anni. Non avendo un televisore
in casa, i miei guardarono la trasmissione
su quello dei vicini. Per quanto riguarda
le uscite con gli amici, quelli erano tempi
diversi e difficilmente paragonabili a
quelli di oggi. Gli innamoramenti non
mancavano, ma mi permetterei di dire
che la morale dei giovani di allora era un
po’ diversa, a un altro livello. Ma la colpa
non è certo dei ragazzi. Questa è un’altra
epoca…”.
Le è stato difficile abbandonare l’Istria?
Cosa rappresenta la sua terra per lei? Ci
torna spesso?
“Amo l’Istria. Qui sono nata. Mia nonna
Lucija, mio nonno Jakov, mio padre e i miei
zii provengono da Prapoće, un villaggio
in Ciceria. Pisino, Pinguente, Pola, le
sento profondamente mie. A Pinguente
vive la mia sorella minore, e a Rozzo
quella maggiore con la sua famiglia. Mia
mamma è di Imotski, ma si è trasferita in
Istria per amore. È stata lei a inculcarci
maggiormente il legame con questa terra
magica, ma anche con la Dalmazia e con lo
Zagorje, a insegnarci ad amare la gente”.
Ha vissuto anche a Fiume. Che significato
ha per lei questa città?
“A Fiume ho trascorso buona parte della
mia gioventù. Qui mi sono sposata per la
prima volta, sono diventata madre, fatto
i primi passi seri nel mondo della musica.
Amo Fiume e so che Fiume ama me. Lo
percepisco”.
la Voce
del popolo
L’INTERVISTA
RADOJKAŠV
SEMPRE FEDELE A S
A COLLOQUIO CON LA
RINOMATA CANTANTE
ISTRIANA CHE HA
CELEBRATO DI RECENTE
I CINQUANT’ANNI DI
SPLENDIDA CARRIERA,
NEL CORSO DELLA QUALE
HA SEMPRE LAVORATO
CON PASSIONE
E CONTINUA
A FARLO ANCOR’OGGI
Com’è stato invece vivere all’estero?
“In qualsiasi città del mondo vivessi – vuoi
per tournée o per condurre trasmissioni
televisive – non mi sono mai legata
emotivamente a nessuna di esse. Los Angeles,
Porto Rico, Tokio, Palma de Mallorca,
Barcellona, Madrid, New York, Atene,
Dublino, Stoccolma. Finché affronterò questo
argomento, ripeterò sempre che le bellezze
della Croazia non hanno prezzo e non ne
esistono di uguali al mondo. Provare e
vedere per credere”.
Dopo avere viaggiato per il mondo,
è sempre tornata in Croazia. Perché?
Ha mai sentito il desiderio di stabilirsi
all’estero?
“Mi sentivo sempre bene, da qualsiasi
parte andassi, ma in tutti questi viaggi mi
mancava sempre qualcosa, mi mancava
casa. Sentivo sempre questo forte desiderio
di tornare. Il mio sapere, le mie esperienze,
la conoscenza delle lingue – inglese,
italiano, spagnolo e russo – erano per me
un vantaggio enorme e un valore aggiunto,
ma la vera felicità riesco a sentirla soltanto
a casa mia, nel mio Paese. Certo, al giorno
d’oggi quando i giovani vanno all’estero
pensando di trovarvi chissà che fortuna,
queste mie dichiarazioni sembreranno
forse incredibili, un cliché, ma per nulla al
mondo potrei rinunciare al nostro mare,
ai nostri fiumi, ai nostri laghi, a questi
meravigliosi paesaggi e profumi”.
In che fase della sua vita ha goduto di più?
“Il mio privato non è stato rose e fiori,
ma devo ammettere di essere stata
maggiormente felice nell’abbraccio delle mie
figlie, e poi in quello di mia nipote. Non c’è
gioia e orgoglio che regga il confronto”.
È soddisfatta di quanto raggiunto o manca
ancora qualcosa?
“In occasione del mio concerto celebrativo,
ho avuto modo di parlare con i vari mass
media. Non me ne voglia nessuno per ciò
che dirò, ma se ci fosse stato un appoggio
più concreto e forte delle strutture nazionali,
avrei potuto dare molto di più nel corso della
mia carriera. Ma forse è meglio così. Ho
l’impressione che molti appena adesso stiano
scoprendo la mia musica, ai miei concerti
solistici”.
La sua carriera è costellata da premi e
riconoscimenti. Quanto significano per lei?
“In cinquant’anni ne ho raccolti tanti;
qualcuno è addirittura andato perso nei
miei innumerevoli traslochi, ma tutti hanno
mantenuto il bagliore del giorno in cui mi
sono stati consegnati. Sono però soltanto
dei trofei, un ricordo di quanto realizzato,
dei successi raggiunti, dei momenti di gloria,
della luce dei riflettori, dei contatti con
personaggi celebri, e devono rimanere tali.
Non possono assolutamente sostituire le
persone”.
Che rapporto ha con il suo pubblico?
“Direi che è sempre più bello e forte. Ai miei
concerti vedo finalmente anche gli uomini
piangere. Piangano pure, io nella mia vita ho
pianto anche troppo per loro. Ora è giunto il
loro turno (risata)!”.
Dove le è piaciuto di più cantare? E con
chi?
“È difficile dirlo, ma devo ammettere di avere
sempre preferito esibirmi dinanzi a dei grandi
auditori: trenta-quaranta mila persone,
la Voce
del popolo
di Ivana Precetti
VERKO
SÉ STESSA
spettacoli
classici, che in quelli religiosi, sia nei brani
di musica leggera, pop, che in quelli da film
o in arie di opere rock. L’unica cosa che non
ho mai imparato a dire ai miei concerti è:
‘Dai, su, fatemi vedere le mani’”.
C’è una sua canzone che preferisce alle
altre?
“Non posso risponderle perché non esiste.
Non riesco a fare distinzioni”.
Come si diventa una vera diva? È
possibile esserlo mantenendo allo stesso
tempo il ruolo di madre e moglie?
Quanto è difficile per le donne costruirsi
una carriera?
“Tutte noi siamo ugualmente dive, qualche
volta di più, qualche volta di meno. In
effetti, quest’aggettivo viene usato
troppo spesso per poterlo
considerare qualcosa di
straordinario. Io, molto
spesso, mi ci ribello”.
martedì, 30 maggio 2017
Ci sono stati momenti in cui non riusciva
a trovare la forza?
“Nella vita degli artisti, stati d’animo come
questo sono una cosa piuttosto normale. Il
fatto è che molti non sanno come affrontare
i dolori della vita, e spesso allora si aiutano
con qualcosa. Anch’io, nel mio percorso di
vita, ho avuto problemi, malattie, morti,
ma grazie ai geni ereditati dai miei genitori
sono sempre riuscita a rialzarmi e a rimanere
saldamente con i piedi per terra”.
Cambiamo tema. Ha avuto modo di
collaborare con Sergio Endrigo. Lo
conosceva bene?
“Ho conosciuto Sergio Endrigo al Festival di
Spalato, in cui cantavamo in alternanza un
brano di Esad Arnautalić su testo di Arsen
Dedić che s’intitolava ‘Kud plovi ovaj brod’.
All’epoca non immaginavo che lo avrei poi
rivisto in Italia e che avremmo avuto altre
esibizioni insieme. Degli
artisti italiani, ho cantato
con Iva Zanicchi, Gianni
Morandi, Nicola Di Bari,
Pino Donaggio, con
Mal dei The Primitives,
Milva e Lara Saint Paul,
ma era tanti anni fa.
Elio Gigante era un
manager e produttore
italiano molto conosciuto
che avrebbe voluto
proseguire e
approfondire queste
collaborazioni, ma
io non vedevo l’ora di
tornare a casa, dai
miei figli e dalla
mia famiglia. Il
denaro non è
tutto”.
con grandi orchestre sinfoniche, grandi
filarmoniche. Sono esperienze che m’ispirano
particolarmente, e per me è qualcosa di
molto speciale”.
Ci sono esibizioni che ama
particolarmente?
“Io semplicemente amo esibirmi. Ogni
esibizione risveglia in me il senso di
responsabilità oltre che un’immensa gioia. Se
sono attorniata, poi, da veri musicisti, la mia
felicità non ha fine”.
Il suo bagaglio musicale è veramente ricco
e variegato e non si concentra su un solo
genere. Come lo spiegherebbe? In quale
stile si trova più… a casa?
“Per me non esistono barriere di genere.
Mi trovo ugualmente bene sia nei repertori
Ho letto in alcune sue interviste che per
lei nella vita non è stato sempre facile.
Come è riuscita a superare i momenti
dolorosi? Da dove ha carpito la forza per
andare avanti?
“Le risponderò con un testo scritto per me
dal mio amico Mišo Doležal e che fa: ‘È
rimasto così poco, di tutto ciò che volevo.
Ora sono nuovamente all’inizio, di nuovo lì,
dov’ero. Fantasticavo da piccola, costruendo
castelli in aria, camminando verso la luce,
ma in realtà precipitavo nel vuoto. Rialzarsi,
è sempre un rialzarsi, un nuovo inizio,
tutto daccapo, finché c’è il sole, finché c’è
la pioggia, sempre avanti, sempre di più.
C’è ancora un qualcosa che mi spinge a
proseguire, in questo percorso senza fine, e
poi cado e mi rialzo, ancora una volta, tutto
daccapo’”.
Le piace
la scena
musicale
italiana?
“Purtroppo
è cambiata
negli anni,
come anche
nel resto
del mondo.
Nonostante,
però, il nuovo
approccio verso
la musica, la
Radiotelevisione
Italiana accoglie
nei suoi show
sia artisti
giovani che
vecchie glorie,
rispettando
il volere dei
telespettatori.
Anche in altre
trasmissioni
straniere si
percepisce
questo rispetto
verso le
generazioni
di una volta.
Forse sta
succedendo
lo stesso
anche sulla
tv croata. Un
buon segno
in questo
senso è
l’ottima
3
trasmissione ‘A strana’, andata in onda di
recente sulla Radiotelevisione croata (HRT)”.
Cosa pensa in generale della scena
musicale di oggi?
“La buona poesia e i musicisti preparati
troveranno sempre degli ascoltatori e chi
acquisterà i loro dischi, perché l’essere
umano ha bisogno della musica. Per
molti essa è una vera cura dell’anima, ha
effetti terapeutici, il che è anche provato
scientificamente. La musica aggressiva,
elettronica, è in grado di uccidere gli aspetti
più validi del carattere di un uomo, e io non
riesco veramente a capacitarmi del fatto che
questo genere esista ancora e che spesso
sia accompagnato dal consumo di sostanze
stupefacenti”.
Cosa consiglierebbe alle nuove
generazioni di musicisti?
“Abbiamo tanti giovani cantanti di talento,
e abbiamo modo di vederli e ascoltarli
nelle varie trasmissioni tv, nei talent show.
Personalmente adoro sentirli, ammirare i loro
talenti, ma allo stesso tempo mi chiedo dove
e in che modo questi giovani riusciranno a
lavorare, a costruirsi una carriera, a crescere.
Mi chiedo se gli alberghi cambieranno le
loro offerte regalando ai propri ospiti dei
contenuti musicali che contribuiranno a
rendere più dolce l’atmosfera serale, o la
loro offerta continuerà a basarsi soltanto
su musica violenta. L’estate scorsa certi
miei amici stranieri hanno interrotto le
loro vacanze in Croazia proprio perché non
riuscivano a trovare un po’ di pace. Uno che
lavora tutto l’anno ha bisogno di tranquillità
e se decide di venire qui a spendere i propri
soldi, esaudiamogli questo desiderio. È il
minimo che possiamo fare”.
Tornando all’argomento Dive, ovvero al
trio formato da Radojka Šverko, Gabi
Novak e Tereza Kesovija, canteranno
nuovamente insieme?
“Non abbiamo in piano esibizioni comuni,
il che non vuole dire che non ce ne saranno
in futuro. Momentaneamente curiamo le
rispettive carriere soliste. In fin dei conti,
tutte e tre siamo cantanti soliste”.
Ha lavorato anche in teatro e in tv. Ci può
descrivere questo suo capitolo artistico?
“Ho adorato lavorare sulle tavole del
palcoscenico teatrale, nei ruoli di Jana, Nera,
Fantina, Mara. Nella mia vita ho ricevuto
anche tante proposte cinematografiche, a
Parigi e Madrid, ma ne ho accettata soltanto
una, per curiosità, ovvero quella di Rajko
Grlić nel suo film ‘Bravo Maestro’.
Questa pellicola ha vinto il Festival del
cinema a Pola e ha rappresentato la Croazia
al Festival cinematografico di Cannes”.
Un’ultima domanda. Come trascorre il
tempo libero? Cosa fa per sé stessa, per la
sua anima?
“Devo dire che finora non ho mai pensato
di farmi aiutare da una domestica. In
casa faccio tutto da sola e godo di questi
momenti. Ci sono giorni in cui non sono
così brava, ma generalmente mi piace
prendermi cura della mia casa.
E poi leggo tanto, scrivo, ascolto la musica,
seguo lo sport, la politica. Tutto ciò che
faccio, lo faccio con entusiasmo.
A volte non faccio assolutamente niente,
e in quei momenti mi ricarico per i nuovi
incontri con il mio amato pubblico”.
(le fotografie di Radojka Šverko sono di
Goran Matijašec e dall’archivio personale)
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Voce
del popolo
del popolo
martedì, 30 maggio 2017
|| Mata Hari durante il suo spettacolo
DAUNSEC
CONSIMP
S
|| Mata Hari nel 1910
ono passati cent’anni dalla morte
dell’anonima olandese Margaretha
Geertruida Zelle (Leeuwarden, 7 agosto
1876 – 15 ottobre 1917). Un secolo – a
ottobre – dalla fucilazione di Mata Hari, lo
pseudonimo che Margaretha si scelse, anzi
le venne dato, quando decise di proporsi al
mondo o quantomeno a Parigi, come danzatrice
indonesiana.
Ogni vita, ogni esistenza di per sé può divenire
romanzo. Più o meno bello, più o meno noioso.
Quella della Zelle, di romanzi ne ispirerebbe
tre. Chissà, forse qualcuno ci avrebbe anche
provato a scriverli, se Benjamin Glazer – uno
dei fondatori dell’Academy of Motion Picture
Arts and Sciences, ossia la “mamma” del Premio
Oscar – non avesse pensato di scrivere la
sceneggiatura di Mata Hari, per Greta Garbo, il
regista George Fitzmaurice e la MGM, in cui i
“nostri” tre romanzi vengono fusi in un filmone
che al tempo stesso ha eternato la sfortunata
Margaretha e lanciato definitivamente colei
che dall’uscita del film in poi sarà definita “La
Divina”...
Tre romanzi, dicevamo. E di tre generi diversi.
Il primo, su una ragazza che nasce in una
famiglia agiata, ma finisce per andare incontro
a disgrazie a go-go; il secondo, su una delle più
grandi “star” d’anteguerra, insieme a Isadora
Duncan, la Bella Otero, Cléo de Mérode e
Mistinguette, mentre Emilienne D’Alençon si
stava ritirando proprio quando lei mieteva i
primissimi successi a Parigi. Il terzo romanzo,
infine, ambientato nel losco mondo dello
spionaggio nel bel mezzo della prima macelleria
intercontinentale, che vede al centro della
vicenda una bella e famosa e corteggiatissima
“femme fatale”, la quale - chissà perché - si
mette (si sarebbe messa?) al servizio del
Kaiser (e vabbeh...), contro quella Francia,
quella Parigi che le avevano dato notorietà,
ricchezza, serenità. Ma procediamo con ordine,
ovviamente, “sintetizzando” e unificando i tre...
romanzi.
Vive agiata e coccolata fino agli anni della
pubertà, la figlia del commerciante e possidente
Adam Zelle e della signora Antje van der
Meulen. I primi guai iniziano quando le attività
imprenditoriali del padre falliscono provocando
lo sfascio della famiglia. Di lì a poco,
quattordicenne, Margaretha perde la mamma.
Gli anni giovanili li passa, in parte col padrino,
in parte con uno zio. Non devono essere stati
chissacché felici se poco meno che ventenne,
letta su un giornale un’offerta di matrimonio, si
presenta al cospetto dell’inserzionista e, avuto il
consenso paterno, data la minore età, convola
a nozze.
Il marito è un ufficiale dell’esercito olandese,
Rudolph MacLeod, di vent’anni più grande, in
convalescenza ad Amsterdam, ma di stanza
in Asia. È il 1896. L’anno dopo nasce Norman
la Voce
spettacoli
del popolo
martedì, 30 maggio 2017
John. È ancora in fasce quando MacLeod deve
tornare a Giava. Al momento, pare che la
coppia viva un’esistenza felice, tant’è che passa
poco più di un anno che Margaretha mette
al mondo una seconda creatura, Jean Louise,
chiamata Non, cioé “piccola”, nella lingua del
posto.
La vita di “caserma in famiglia” non fa per
Margaretha. Certo, dispone di personale di
servizio, non fa una vita da serva, tuttavia
siamo sempre in un mondo diverso, senza vere
amicizie e le distrazioni che offrono le città.
Inoltre, il marito si rivela geloso, aggressivo, e
beve.
La tragedia
Sono vicini alla rottura definitiva, quando
un’enorme tragedia, al contrario, li unisce:
la morte per avvelenamento da farmaci del
piccolo Norman.
Affranto, ma anche stanco della vita militare,
pur se neppure quarantenne, il capitano
Rudolph MacLeod abbandona l’esercito e dopo
poco, convinto dalla moglie, si torna in Olanda.
Dove, in men che non si dica, i rapporti tra i
due deteriorano. La separazione è dolorosa,
IL PERSONAGGIO
Fuller, che alle Folies Bergère fa sognare
gli uomini (e ne manda in bestia le mogli),
mentre dall’America arrivano notizie su Ruth
Saint Denise, alla corte del famoso impresarioregista-attore-commediografo David Belasco,
l’uomo che ha ispirato per ben due volte il
compositore di melodrammi più famoso e
amato degli inizi del secolo, Giacomo Puccini;
lo ha ispirato con i propri drammi “Madame
Butterfly” e “La fanciulla del West”.
La sensuale «stangona»
Piace subito, questa sensualissima “stangona”,
giunta – vox populi – dall’Oriente. Piace
al punto che non pochi amici del Molier
desiderano che si esibisca pure a casa loro.
Ad “accappararsela” per prima sarà Madame
Kiréevsky, titolare del salotto più chic e fru-fru
di Parigi. Lady MacLeod si presenta al meglio
delle possibilità, inventando costumi, passi e
danza. Gli astanti vanno in brodo di giuggiole.
Tra loro, il giornalista Francis Keyzer, del
magazine londinese “The King”, che scrive
più o meno: macché balletto classico, macché
Isadora Duncan, “Lady MacLeod is Venus”.
Tra i presenti in Casa Kiréevsky, colui che
gli strumenti adatti per capire a fondo le cose
del mondo e gli uomini. Non sapeva, per
esempio, che a seconda della situazione in
cui ci si ritrova ad agire, muta la percezione
che si ha di sé e degli altri e gli altri di noi. In
piena guerra, con stenti e drammi personali
e collettivi in primo piano, la “femme fatale”
è semplicemente una donna sola, “viziata”
e piena di vizi, moralmente dubbia. Se poi
si tratta di un’artista, sempre in movimento
dall’una all’altra parte dei fronti... come si fa a
non sospettarla di “intelligenza col nemico”?
Sempre che di questo si tratti, e non di
depistaggio e/o di capro espiatorio utile per
coprire altre magagne, altri personaggi.
Tantissimi interrogativi dopo la guerra
I sospetti che Mata Hari fosse stata usata, sia
dai tedeschi che dai francesi, non nacquero
all’indomani della sua esecuzione; si era
ancora in guerra. Ma quando nacquero, gli
interrogativi erano tantissimi. In primo luogo,
dov’erano le prove della sua colpevolezza?
Dove le testimonianze del suo coinvolgimento
antifrancese? E poi, perché tutta questa fretta
nel chiudere la faccenda? In febbraio viene
di Sandro Damiani
5
Hari. C’è stato, è vero, un tentativo trentatré
anni dopo: Mata Hari, agente segreto H21,
produzione franco-italiana. La sceneggiatura
è di Francoise Truffaut, la regia di Jean-Louis
Richard. Protagonista, Jeanne Moreau, già
nota e amata, e strapremiata: al Festival di
Cannes nel 1960 per Moderato cantabile,
mentre l’anno dopo è coprotagonista de La
Notte di Michelangelo Antonioni, accanto a
Marcello Mastroianni e Monica Vitti, e nel
1962 è la magnifica protagonista di Jules et Jim
del Truffaut.
Mata Hari, agente segreto H21 è un film molto
elegante, bravissima lei e altrettanto lui, Jean
Louis Trintignant. Piacciono i dialoghi, la
fotografia e la colonna sonora. Insomma, non
manca nulla. Semplicemente, incombono il
volto e le mille impercettibili espressioni di
Greta Garbo.
Ultimo omaggio Margaretha-Mata sul/dal
grande schermo è la lussuriosa versione di
Sylvia Kristel, già eroica macchina del sesso in
Emmanuelle. La pellicola è al limite del porno,
con discrete sequenze di sesso “mostrato”. In
breve, una scusa per dare un nome diverso a
un prodotto harcore.
CENT’ANNI FA MORIVA MARGARETHA
GEERTRUIDA ZELLE, L’IMMORTALE MATA
HARI LA CUI VITA AVVENTUROSA ISPIRÒ
DIVERSE OPERE CINEMATOGRAFICHE
ECOLOLASIRICORDA
MPATIA,AFFETTOECOMPASSIONE
specie per Margaretha a cui il tribunale toglie
la bambina. Una decisione in sé non ingiusta,
visto che lei è nullatenente e non gode neppure
delle alimentazioni. Casomai, l’ingiustizia
è data dal fatto che il MacLeod ha le giuste
aderenze per far risultare la (ex) moglie
responsabile unica della fine del matrimonio.
Rimasta sola a ventisei anni, Margaretha non
ha né arte né parte né soldi, ma è decisa a non
vivacchiare nella miseria e nell’anonimato.
Intelligente, dotata di un qual fascino, più
che di bellezza (carnagione scura, altissima
per il tempo – 1,77; movenze feline affatto
singolari in una città europea), in Indonesia
in più occasioni aveva assistito ad alcune
manifestazioni di danza locale, religiose e
non. Aveva altresì fatto propri certi ritmi e
modi di muoversi. Insomma, era un “tipo”
originalissimo. Ma come farsi notare? E
poi... all’Aja? Cioé una delle tante periferie
dell’Occidente? Decide di recarsi nella capitale
mondiale di... tutto: Parigi.
I primi tentativi a Parigi
Ci “sbarca” una prima volta nel 1903, ma non
ha fortuna. Qualche seduta da modella per un
pittore, tentativi di agganciare qualche “ricco
scemo”... quanto ai sognati ingaggi teatrali da
danzatrice esotica, nemmeno l’ombra.
Delusa, se ne torna in Olanda. Ma esattamente
dodici mesi dopo torna alla carica. Stavolta,
con le idee molto più chiare. Non ha una
lira in tasca, eppure si piazza al Grand
Hotel. Abbindola un nobilazzo di cui diviene
l’amante, quindi – avendo qualche conoscenza
di cavalli e soprattutto sapendo cavalcare, si fa
ingaggiare dal proprietario di un circo e di una
scuderia, quale “amazzone”. Siamo in anni in
cui vedere una donna a cavallo non è all’ordine
del giorno. E la cosa per l’impresario circense
si rivela un buon affare. Ma a Margaretha
il rapporto con monsieur Molier – il nome
del proprietario di cavalli – interessa per un
altro motivo; per il mondo che frequenta,
per le serate mondane in casa che organizza,
con tanta “bella gente”, ricconi, ma anche –
diremmo oggi – gente dello spettacolo. Sicché
Lady MacLeod – così si fa chiamare – convince
l’anziano amico a organizzarle una serata
particolare, nel corso della quale intratterrà gli
ospiti in maniera particolare.
Figuriamoci cosa ne sapevano di danze
indonesiane, culti indù, musiche orientali e via
elencando, gli amici di monsieur Molier. Sicché
la nostra Lady si presenta coperta di veli, che
lascerà cadere uno ad uno (non è escluso
che abbia letto “Salomé” di Oscar Wilde),
declamando versi, tra fumi e incensi, e musiche
“strane”. E, la cosa più importante, facendo
passi di danza inusitati, lontanissimi finanche
da quelli più arditi dei primi contestatori del
“balletto bianco”, tra cui la Duncan e Loïe
ne sarà il primo pigmalione, il ricchissimo
collezionista Émile Étienne Guimet, titolare
dell’omonimo museo.
Sarà infatti lui, pochi giorni dopo, a
organizzare, nel proprio museo, la prima uscita
pubblica di … Mata Hari (“Occhio dell’Alba”,
in malese), lo pseudonimo che sceglie per
Margaretha. La quale danza e declama. C’è
tutto e il contrario di tutto, pseudo riti indù,
buddismo, cineserie... E coglie nel segno. Ciò
avviene nel mese di marzo, l’anno è il 1905. In
agosto, è già all’Olympia e l’anno successivo in
tournée in Spagna e altrove. Ma è soprattutto
in Francia che l’adorano e prendono per oro
colato quanto dice e ciò che fa. Un pastrocchio
inenarrabile che fa digrignare i denti alle
artiste di talento, alle danzatrici-etoile con
tanto di scuola... Ci cascano pure musicisti di
fama, il primo fra tutti, Jules Massenet, che la
vuole ballerina-protagonista all’interno del suo
“Le roi de Lahore”. Tra quanti stravedono per
lei, c’è pure il più donnaiolo dei compositori, il
Puccini. Ma a lui interessa la donna in quanto
tale, non la sua “merce”.
Un successo che dura un decennio
Per quasi un decennio, Mata Hari furoreggia
nei più importanti teatri del Continente.
Addirittura alla Scala, con il direttore
d’orchestra Tullio Serafin in estasi. Ma mica
tutti si sono bevuti il cervello. Giordano,
Mascagni e – per lei la nota più dolente
– Djaghilev non ne vogliono sapere di
collaborarci.
E arriviamo allo scoppio della Prima guerra
mondiale. Lei negli ultimi tempi è di
frequente fuori Parigi; a Berlino, in Spagna,
Svizzera, Olanda. È richiestissima. Ovunque,
ha o si procura uno o più amanti, non
necessariamente ricchi banchieri, sono graditi
anche giovani ufficiali...
È il 1915. A questo punto il vero, il falso, il
semivero si incrociano e intersecano, tanto da
non far capire (e credere) nulla. Stando alle
ricostruzioni fatte dagli inquirenti francesi
che la metteranno sotto processo, Margaretha
Zelle avrebbe fatto la scuola di spionaggio
tedesca, sotto gli ordini di tale Fräulein Doktor,
ma allo stesso tempo intrattiene rapporti con
Georges Ladoux, capo di una sezione del
controspionaggio francese, Deuxième Bureau.
Doppiogiochista? Mah... Ѐ più probabile
che fece un po’ di pasticci. Al massimo avrà
smistato qualche lettera, sia per i tedeschi che
per i francesi, senza rendersi fino in fondo
conto della situazione, dei rischi, convinta (di
sicuro) di essere al riparo da eventuali accuse,
per il nome, la notorietà, l’amicizia con persone
influenti di qua e di là dal confine francotedesco. Ma non aveva fatto bene i conti.
Intelligente, scaltra e con una qual esperienza
delle cose del mondo, non possedeva però
arrestata, a fine luglio inizia il processo, a
fine settembre arriva la condanna a morte
definitiva. In ottobre, quando la fine della
guerra ancora non si intravede, la fucilazione.
Come non sospettare che la si volesse
eliminare prima della fine delle ostilità quando
– vedi mai... - magari qualche intellettuale,
sulla scia di Émile Zola e dell’“Affare Dreyfus”,
non avrebbe potuto pubblicamente prenderne
le difese e rigettare nel marasma l’esercito
francese, ancora provato moralmente per il
montato processo al capitano Alfred Dreyfus di
vent’anni prima.
Forse veramente non solo Margaretha
Zelle non c’entrava un tubo con l’accusa,
forse la o le vere spie erano proprio in seno
all’esercito francese. O forse, senza fare troppe
dietrologie, qualche magistrato o alto ufficiale,
frequentatore di salotti teatri e bordelli prima e
durante la guerra si è voluto vendicare, perchè
– per dirlo con eleganza – non gliela voleva
dare...
Tre storie, tre biografie in una. Belle, corpose.
Vi si trova di tutto, come abbiamo visto:
dramma familiare da Carolina Invernizio,
erotismo lascivo alla D’Annunzio, mistero
misto a giallo...
Il primo film su Mata Hari è danese
Non per niente il cinema ci si è gettato a corpo
morto sin dal 1920.
Il primo film su Mata Hari è danese –
emblematico il titolo, Mata Hari – Die
Spionin - protagonista, la “Diva silenziosa”,
Asta Nielsen, di cui la Garbo, conoscendola
e avendoci lavorato, ne La via senza gioia
diretto da George Wilhelm Pabst nel 1925,
disse in una occasione: “Non ho mai capito il
mio grande successo visto che ero niente se
confrontata ad Asta Nielsen”.
Ovviamente, la pellicola fu accolta
trionfalmente. Tanto che l’anno appresso
Asta si potè permettere di prodursi un
Amleto cinematografico, con lei nei panni del
principe... connazionale.
Passano sette anni e Friedrich Feher, un regista
che il cinema mondiale dell’epoca ricorda nel
ruolo del giovane studente, protagonista de
Il Gabinetto del dottor Caligari, capolavoro
dell’espressionismo cinematografico, diretto
da Robert Wiene nel 1920; il Feher, dicevamo,
dirige la sua compagna di vita e partner in
arte, Magda Sonja (pseudonimo di Venceslava
Vesely), in Mata Hari, die rote Tänzerin.
Pure in questo caso, il film ottiene consensi
generalizzati e la Sonja si afferma come
maggiore attrice austriaca.
Greta Garbo è l’Unica Mata Hari
Il “botto”, però, avviene nel 1931 – lo abbiamo
già accennato – con Greta Garbo. Che resterà,
quantomeno fino ad oggi, L’Unica Mata
|| Greta Garbo come Mata Hari
Un inno a questo straordinario personaggio
Hanno, tuttavia, qualcosa in comune, queste
cinque pellicole. Cosa? Sono anima e corpo dalla
parte della signora Margaretha Zelle-Mata Hari.
O non credono che si sia trattato di una spia o,
laddove si sospetta che ci credano, prevale la
filosofia della minimizzazione dell’atto.
Dalla sua parte è pure il dramma in due atti
di Maria Letizia Compatangelo, edito, ma mai
rappresentato fin’ora. Si direbbe che viga la paura
di fare figuracce o comunque la consapevolezza
che in ultima analisi la “sfida” non sarebbe con
lei, la “spia”, la “danzatrice venuta dall’Oriente”,
ma con chi nell’immaginario collettivo la
impersona: Greta Garbo.
Sono tutte un “inno” a Mata Hari le belle
struggenti canzoni che Fabio Borgazzi Fabor
ha composto per il suddetto dramma musicale
(testi della Compatangelo e di Marylù
Borgazzi), di cui circola un CD, registrato in
presa diretta al Parco della Musica di Roma
una decina di anni fa, nel corso di un concerto
dedicato al Fabor, con la Roma Orchestra
Sinfonietta (fondata da Ennio Morricone),
diretta da Francesco Lanzillotta, che aveva
accompagnato l’attrice e cantante spalatina
Ksenija Prohaska.
Morta alle soglie dei quarant’anni, avendo avuto
una esistenza non felicissima, da un secolo la si
ricorda con simpatia, affetto, compassione.
6
spettacoli
martedì, 30 maggio 2017
DAL CAPOLAVORO
DI STANLEY
KRAMER «INDOVINA
CHI VIENE A CENA?»
A OGGI:
IL FILONE
HOLLYWOODIANO
SUI DIRITTI DEGLI
AFROAMERICANI
ANNIVERSARI
Gli altri
12 anni schiavo
Film del 2013 firmato da Steve McQueen ha vinto il Premio Oscar
come miglior film nel 2014. Gli interpreti principali sono Chiwetel
Ejiofor nel ruolo del protagonista, Michael Fassbender, Benedict
Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, quest’ultimo
anche produttore della pellicola, e Lupita Nyong’o, vincitrice dell’Oscar alla miglior attrice non protagonista. Nel 1841, prima della
guerra di secessione, Solomon Northup, talentuoso violinista di colore, vive libero nella cittadina di Saratoga Springs. Il movie racconta
la sua storia tribolata durante la quale cambiò per tre volte padrone
lavorando principalmente nella piantagione di cotone del perfido
schiavista Edwin Epps.
|| Idovina chi viene a cena?: Sidney Poitier e Spencer Tracy, in mezzo Katharine Houghton
di Fabio Sfiligoi
CINQUANT’ANNI
DI LOTTA CONTRO
IL RAZZISMO
C
inquant’anni fa affrontare
negli States un tema delicato
come quello razziale è stata
una sfida storica per l’industria
di Hollywood, soprattutto per il
contesto storico in cui Stanley
Kramer decise di proporre qualcosa
di impensabile fino ad allora:
l’amore fra una donna bianca e
un uomo di colore. Oggi, dopo
decenni di lotta per i diritti degli
afroamericani, quello del razzismo
negli Usa è uno dei temi preferiti
dall’ industria del cinema, si può
dire che rappresenti un filone con
risultati più che accettabili sia
come riscontro di critica, pubblico
e cassetta. Inserito dall’American
Film Institute al 99º posto della
classifica dei migliori cento film
americani di tutti i tempi, Indovina
chi viene a cena? (Guess Who’s
Coming to Dinner), film del 1967,
si può considerare l’apripista di
una serie di movie che segnerà la
produzione americana e porterà a
casa tanti premi, fino alla polemica
di un paio d’anni fa in cui attori di
colore, durante la cerimonia degli
Academy Awards, accusarono
gli organizzatori di razzismo e di
una sempre più marcata scarsa
presenza di attori afroamericani in
film che contano. Tutto smentito
dall’edizione di quest’anno con
due film di grande spessore e di
denuncia tra le nomination, come
Barriere e Moonlight.
Indovina chi viene a cena? racconta
i problemi razziali dll’America
degli Anni Sessanta attraverso il
filtro dell’amore fra una ragazza
la Voce
del popolo
||
12 anni schiavo
bianca, Katharine Houghton (alias
Joanna Drayton), e uno statuario
adone di colore, Sidney Poitier,
90 anni lo scorso febbraio (alias
John Prentice). Kramer si era già
affidato a Poitier ne La parete di
fango del 1958. Il lavoro ottenne
un grande successo e ricevette una
nomination all’Oscar come miglior
film dell’anno. Il film è la storia di
due evasi, uno bianco (Tony Curtis)
e razzista, che odia il suo compagno
nero (Sidney Poitier). Durante la
fuga, incatenati l’uno all’altro, i
due imparano a rispettarsi e alla
fine fanno amicizia. Il film segnò
l’ascesa di Poitier come primo divo
di colore.
L’amore è la cosa più importante
Joanna e John nel film Indovina
chi... si conoscono dieci giorni
prima alle Hawaii. Decidono di
sposarsi e si recano a San Francisco,
dove Joey intende presentare il
fidanzato ai propri genitori, il
padre Matt (Spencer Tracy) e
la madre Christina (Katharine
|| Denzel Washington in Barriere
Hepburn), prima che questi riparta
la sera stessa per New York, e poi
per Ginevra, dove lo attende un
impegno di lavoro e dove hanno
previsto di convolare a nozze.
Joey vorrebbe seguire subito il suo
adorato John, ma lui esige prima
l’incondizionata approvazione dei
genitori di lei alla loro unione.
Christina, la madre, commossa
dalla sincerità dell’unione, aderisce
all’entusiasmo della figlia, ma
Matt, un gigantesco Spencer Tracy,
troppo preoccupato per le difficoltà
cui la coppia andrebbe incontro,
non è propenso a dare la propria
approvazione. La situazione diventa
ancora più intricata allorché,
invitati da Joey, i genitori di John
- i quali ignorano che la ragazza
è bianca - vengono a cena dai
Drayton per conoscere lei e la sua
famiglia. Alla fine Matt Drayton,
Tracy, richiamerà tutti in salotto per
rivelare che anche per lui l’amore è
una cosa ben più importante della
diversa pigmentazione della pelle,
concludendo che Joanna “Joey”
e John sono “due esseri speciali”.
Come per esempio nella vita reale
erano Tracy e la Hepburn. Proprio
per questo nella famosa scena
del monologo di Spencer Tracy,
Katharine Hepburn si commosse
fino alle lacrime: l’attrice dichiarò
che la commozione era reale e non
recitata, pensando che le parole
dell’attore ben si potessero adattare
anche alla storia d’amore che li
legava nella vita reale. Soprattutto
perché si tratta dell’ultima scena
girata da Tracy: morì poco più
di due setttimane dopo. Motivo
per il quale la Hepburn non vide
mai il film per intero. Il ricordo
di Tracy era troppo doloroso e
dovette utilizzare il suo cachet per
finire di girare il film in quanto la
produzione riteneva che Spencer
Tracy, così malato, non avrebbe
terminato le riprese (recitò nel
movie senza copertura assicurativa).
Il film ebbe uno splendido successo
di critica e di pubblico e si aggiudicò
due statuette nel 1968: migliore
attrice (la Hepburn) e migliore
sceneggiatura originale.
Nel 2005, con parti invertite
fidanzata nera e fidanzato bianco,
si tentò un remake che passò
inosservato sia come critiche sia
come guadagni.
Il colore viola
The Color Purple del 1985, diretto da Spielberg e protagonista
Whoopi Goldberg. Del cast fanno parte altri attori di colore: Danny
Glover, Margaret Avery e Oprah Winfrey. Il film è incentrato su
personaggi femminili e tratta soprattutto di argomenti come abusi
sessuali, violenza domestica, razzismo e coraggio delle donne violentate. Tratto dall’omonimo romanzo di Alice Walker. Sud degli
Stati Uniti, primi del Novecento: Celie è una ragazzina di 14 anni
che a seguito delle violenze subite da parte del padre dà alla luce
due bambini, un maschio e una femmina, che le vengono brutalmente strappati...
The Jackie Robinson Story
Narra le vicende reali di Jackie Robinson, primo giocatore afroamericano a giocare nella Major League Baseball in epoca moderna,
dalla sua giovinezza fino all’esordio nel 1947 e la sua successiva
affermazione come sportivo nonostante le numerose difficoltà legate
alla segregazione razziale. La vicenda si conclude con la narrazione
della testimonianza, realmente avvenuta, del giocatore di fronte alla
Commissione per le attività antiamericane...
Mississippi Burning
Film del 1988, diretto da Alan Parker e interpretato da Gene Hackman
e Willem Dafoe, ispirato all’assassinio degli attivisti per i diritti civili
del Mississippi, avvenuto nella contea di Neshoba, Mississippi, nella
notte tra il 21 e 22 giugno 1964. Nel giugno del 1964 tre giovani
attivisti per i diritti civili degli afroamericani (African-American Civil
Rights Movement) non fanno ritorno dopo essersi recati nella contea
di Jessup, Mississippi, per istruire gli appartenenti alla comunità nera
all’iscrizione nei registri elettorali; l’FBI, all’epoca diretto da J. Edgar
Hoover, invia sul posto i due agenti Rupert Anderson e Alan Ward, per
indagare sulla loro scomparsa. I due agenti sono agli antipodi in tutto,
per formazione, età e provenienza e la strada che devono intraprendere, spesso in contrasto tra loro, è molto pericolosa, confrontandosi
dapprima con l’omertà delle autorità e degli abitanti di fronte alle
molteplici brutalità perpetrate contro la popolazione nera, e successivamente con gli uomini del Ku Klux Klan, presenti in ogni ganglio
della piccola contea, compresi lo sceriffo e il suo vice...
Malcolm X
È un film del 1992 diretto da Spike Lee, basato sull’autobiografia del leader afroamericano con la collaborazione di Alex Haley.
Quest’ultimo non vide il film ultimato, poiché morì il 10 febbraio
1992. Per assistere alla prima del film Spike Lee invitò tutti gli
afroamericani a scioperare e a marinare la scuola, dichiarando “Vi
insegnerò una parte di storia americana che finora è stata tenuta
nascosta”...
Il momento di uccidere
A Time to Kill, del 1996, diretto da Joel Schumacher, vede protagonisti Sandra Bullock, Matthew McConaughey, Samuel L. Jackson e
Kevin Spacey ed è tratto dall’omonimo romanzo di John Grisham.
Mississippi. Due bianchi razzisti, Billy Ray Cobb e James Louis ‘Pete’
Willard, sequestrano e stuprano Tonia, una delle figlie di Carl Lee, un
operaio afro-americano di bassa estrazione sociale, quindi, convinti
di averla uccisa, la gettano da un ponte. La bambina però sopravvive, e i due vengono arrestati, ma nel corso di un colloquio con il
suo amico Jake Brigance, avvocato difensore alle prime armi favorevole alla pena di morte, Carl viene a sapere che quasi sicuramente
i due se la caveranno. Carl decide quindi di fare giustizia da solo.
Selma - La strada per la libertà
Film del 2014, di Ava DuVernay, rappresenta una rievocazione delle
marce da Selma a Montgomery che dal 1965 segnarono l’inizio della
rivolta per i diritti civili negli Stati Uniti.
Barriere
Fences è un film del 2016 diretto e interpretato da Denzel
Washington. La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’opera
teatrale del 1983, vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia. Troy Maxson è un’ex promessa del baseball che lavora come
netturbino a Pittsburgh e vive una vita modesta, ma felice, insieme
alla sua famiglia. Dopo il lavoro torna sempre a casa per insegnare
ai suoi figli cosa è necessario fare per costruirsi un futuro, ma lo fa
con toni spesso troppo accesi e rigidi...
Moonlight
Del 2016, scritto e diretto da Barry Jenkins, è basato sull’opera teatrale “In Moonlight Black Boys Look Blue” di Tarell Alvin McCraney.
Il movie si è aggiudicato tre premi Oscar, per il miglior film, miglior
attore non protagonista e per la migliore sceneggiatura non originale. Chiron, un bambino afroamericano originario di Liberty City
chiamato da tutti “Piccolo”. La madre, Paula, invece di prendersi
cura del figlio ama drogarsi e vivere nella lussuria. I due vivono
insieme in un quartiere di Miami segnato da droga e violenza. Dopo
l’ennesima fuga dal gruppo di bambini che lo deridono e lo spaventano, si rifugia in una baracca abbandonata e lì, per caso, incontra
lo spacciatore Juan, un uomo che si prenderà cura di lui e che gli
insegnerà quello che sa della vita... Ve ne sarebbero ancora di film
del filone interazziale prodotti a Hollywood; questi forse lo rappresentano meglio, i gusti e la sensibilità di come uno crede nella lotta
per i diritti civili tra i popoli sono altro.
la Voce
del popolo
spettacoli
T
hriller o horror, horror o thriller?
In attesa di una risposta che di
solito sta nel mezzo, la risposta
più inequibocabile arriva dai dati del
box office che per Get Out! (Scappa!)
rivela vagonate di dollari di guadagno
a fronte di una spesa lievemente
inferiore ai 5 milioni di dollari. Jordan
Peele entra nella storia del Box Office
Usa. Acclamato dalla critica, è riuscito
ad incassare 153 milioni, che è il più
alto incasso di sempre per un regista
esordiente con una sceneggiatura
originale.
In questo, cosa che maggiormente
interessa ai produttori, il regista Jordan
Peele ha vinto. Parlare dell’”opera
prima” scritta e diretta dall’attore
comico (!?) Jordan Peele è molto
difficile, giacché la pellicola nelle sue
caratteristiche formali è molto legata
allo svolgimento della trama. La
maggior parte dei critici hanno definito
il lungometraggio più un thriller, che
un horror, dato che vive ed evolve più
in una progressiva tensione psicologica
che in senso orrifico, sfiorato
leggermente solo nel finale. Peele
riesce a catturare lo spettatore grazie
al crescendo perfettamente calibrato di
un’atmosfera angosciosa e angosciante
e insieme perfettamente plausibile.
L’inferno in cui si viene a trovare
suo malgrado il protagonista Chris
(prova magistrale del giovane Daniel
Kaluuya) è fatto di tranquille strade di
campagna, di lussuose villette isolate,
di famiglie benestanti le cui vedute
liberal sono anche più inquietanti delle
opinioni conservatrici dei loro opposti
ideologici. La superficie fragile della
normalità in Get Out non s’incrina per
lasciar trasparire il male, è essa stessa il
male. I ribaltamenti di prospettiva che
svelano la vera identità dei personaggi
in scena sono soltanto funzionali al
genere cinematografico, perché fin dal
principio il pubblico può “sentire” la
tensione/orrore pulsante di un tessuto
sociale – ma prima ancora mentale –
marcio.
La genialità di Peele è che riesce a
fondere tre fattori le cui note sfumate
conferiscono al film la sua più completa
originalità. Da una parte l’attenuazione
della dimensione orrifica, giacché
poche volte si rimane sorpresi, sbigottiti
o impauriti da sequenze critiche
studiate ad hoc, a volte anche un po’
ingenue: la tensione è lieve, ovattata,
spesso prevedibile, eppure efficace e
“divertente” nel suo montare verso
l’acuto finale. A spezzare ulteriormente
l’atmosfera cupa c’è una specie di ironia
dark che a volte si maschera dietro la
stranezza di situazioni imbarazzanti
che lasciano perplessità al protagonista
Chris (e che daranno vita e faranno
montare le sue paranoie), a volte
s’impersonifica nelle telefonate “black”
tra Chris stesso e il suo amico Rod.
martedì, 30 maggio 2017
NOVITà
|| La presentazione di Chris alla famiglia
GET OUT!
Un caPeeleavoro
|| Chris, il protagonista: l’ottimo Daniel Kaluuya
DUE FILM AL PREZZO DI UNO: JORDAN PEELE FA
CENTRO AL SUO DEBUTTO. IL BOX OFFICE GLI DÀ RAGIONE,
STRACCIATO OGNI RECORD PER UN DEBUTTANTE
Un pizzico di satira politica
Le critiche in America sullo sfondo
vedono un pizzico di satira politica.
Infatti Scappa - Get Out è una denucia
thriller-ironica contro l’ipocrisia del
moderno liberalismo made in Usa. Si
parla di razzismo, tangibilmente ancora
presente nella società americana,
attraverso la caricatura eccessiva degli
stereotipi sia da una parte (la “bianca”
famiglia Armitage ha votato Obama,
anche se poi si rivela essere fatta di
tutt’altra pasta), sia dall’altra (la razza
nera di Chris ha più potenza fisica e
7
|| Jordan Peele, durante le riprese del film
|| L’inquietante cameriera Georgina
sessuale nelle conversazioni sullo sport).
Quando si affronta il tema del
razzismo nella società Usa quasi
sempre l’approccio scelto è quello
più rassicurante del racconto al
passato, dei momenti più salienti della
lotta per i diritti civili, con l’intento
di mostrarlo presente, ma in un
“altro” tempo. Get Out a conti fatti
ha il coraggio di mettere in scena,
tra le maglie del nostro presente,
sviscerandolo, il perbenismo ipocrita
di un modo di vedere “bianco” che
sconfina nel paternalismo odioso,
avvalorato dal politically correct. Peele,
autore anche della sceneggiatura,
sbugiarda questo velo di menzogna
con un film agghiacciante, lucidissimo
nell’esposizione delle psicologie,
provocatorio quando costringe
lo spettatore a sorridere anche
dell’ottusità dell’opposto punto di
vista, quello afroamericano che forse
si è ormai adagiato all’idea di essere
semplicemente “accettato”.
Il risultato è un film piacevole, per
niente stressante (nulla da spartire
con gli horror più classici, quelli che
ti fanno sobbalzare dalla sedia), la cui
dimensione impegnata assorbe tutte le
originali peculiarità che potevano essere
sviluppate, alla scenografia, sobria,
oscura, ma non troppo, fino ai momenti
ansiogeni, sempre contenuti e come se
avessero u silenziatore, smorzati.
Molto azzeccata l’interpretazione e
la profondità psicologica di Daniel
Kaluuya, la voce e il volto di Chris,
e del restante diabolico cast di cui
va citato lo sguardo della cameriera
Giorgina, dal caratterista Stephen
Root, il “compratore”, a Catherine
Keener, la suocera che nessuno
vorrebbe avere. Complessivamente
guardando Get Out è un film da vedere
senza troppe aspettative perché si
tratta di un’interessante opera prima
originale, impegnata, acerba che lascia
intravedere un talento registico con le
carte in regola per farsi sentire ancora.
Aspettiamo la riprova magari in qualche
altro campo della società americana.
Non in un tema molto, troppo, caro a
Hollywood.
8
spettacoli
martedì, 30 maggio 2017
CRITICA
la Voce
del popolo
di Dragan Rubeša
LOSMARTPHONE
COME OSTACOLO
ALL’INTERAZIONEUMANA
NEL FILM «PERFETTI
SCONOSCIUTI»,
IL REGISTA PAOLO
GENOVESE UTILIZZA
I MECCANISMI
DEL COSIDDETTO
«KAMMERSPIEL»
lo spettatore, che ascolta i dialoghi
delle coppie più o meno in crisi,
cioè disfunzionali - una parola così
cara al cinema Amerindie (American
Independent Cinema). Quante famiglie
disfunzionali abbiamo già visto in tutte
le versioni possibili nella genesi della
produzione “indipendente“ made in
USA che, effettivamente, non conosce
una vera e propria indipendenza, bensì
meramente accetta diversi gradi di
dipendenza.
Simile a una pièce teatrale
Il film di Genovese si configura fin
dall’inizio come una pièce teatrale.
I primi problemi appariranno in una
discussione legata a un adulterio. La sua
ombra cadrà pure sui protagonisti nel
momento in cui decideranno di giocare
una versione di Truth od Dare (Obbligo
o Verità). Infatti, il filo rosso del film
è l’idea secondo la quale trascorriamo
sempre meno tempo in interazione
diretta con le persone care, mentre
nello spazio virtuale comunichiamo con
persone che forse non incontreremo
mai. D’altro canto, le app e i cellulari
spesso celano il nostro “io” segreto. Per
questo motivo, il titolo del film è ironico,
in quanto spesso accade che individui
risultino estranei alle persone che sono
loro più vicine. Le regole del gioco sono
semplici: nel corso della serata tutti
devono tenere i cellulari sul tavolo e
leggere pubblicamente ogni messaggio
ricevuto. Per confermare di non avere
segreti tra di loro, gli ospiti accettano
di partecipare al gioco, anche se la loro
comunicazione è ambivalente poiché i
messaggi e le conversazioni sono spesso
fuori contesto e offuscate da opinioni
soggettive e da sospetti degli altri, il
che può portare a interpretazioni e
conclusioni sbagliate. Per questo motivo,
le tensioni sono inevitabili e Genovese le
costruisce in maniera dinamica. La notte
dell’eclissi di luna nella quale si svolge
la loro sessione ha un effetto simbolico,
in quanto indica l’ombra/l’occultamento,
in completa antitesi con il loro
palesamento.
Comunicazione attraverso lo smartphone
I
l pioniere del cinema indipendente
americano, John Sayles, aveva
scoperto già agli sgoccioli degli anni
Settanta del secolo scorso la formula
magica per girare un film a basso costo,
molto tempo prima che diventasse un
fatto di prestigio essere ammessi nel
programma del Sundance Film Festival.
Una delle regole è quella di stipare i
protagonisti in una stanza isolata e farli
parlare dei loro problemi e insicurezze.
I pretesti per il loro raduno sono vari:
dall’anniversario dell’esame di maturità
alla festa in occasione di Thanksgiving
la Voce
del popolo
Anno 3 / n.17 / martedì, 30 maggio 2017
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
SPETTACOLI
Edizione
Caporedattore responsabile f.f.
Roberto Palisca
Redattore esecutivo
Helena Labus Bačić
Impaginazione
Vanja Dubravčić
Collaboratori
Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Fabio Sfiligoi
Foto
Creative Commons
(Giorno del Ringraziamento) che riunisce
i membri della famiglia disseminati
un po’ ovunque. Sayles utilizzò questa
strategia già nel 1979 nel suo film Return
of the Secaucus 7, molto influente, anche
se questa è attuale anche oggigiorno nei
film “da camera” (kammerspiel) come
Carnage, di Roman Polanski, The Party,
diretto da Sally Potter, oppure Juste la fin
du monde (È solo la fine del mondo), di
Xavier Dolan.
Da Polanski si riuniscono due coppie
di coniugi. Il figlio della prima coppia
ha maltrattato quello della seconda.
Da Potter, il motivo del raduno è una
festa organizzata dalla protagonista
per i suoi amici per celebrare il suo
nuovo incarico di ministro nell’ombra
nel Parlamento britannico. Da Dolan,
invece, un figlio molto malato ritorna
a casa dopo 12 anni per annunciare a
sua madre e ai suoi familiari la propria
morte. Qui il volto passivo del figlio
diventa un calmo contrappunto alla loro
logorrea in cui l’empatia viene sabotata
automaticamente dalla loro incapacità
di ascoltare, in quanto, come dice sua
madre in preda all’isteria, “La prossima
volta ci prepareremo molto meglio”.
Naturalmente, l’opus di Dolan rimane
ancora insaziabile nella licenziosa
fusione di energia e vertigine, flussi di
parole, euforia ed elegia, mentre l’autore
ironizza con malizia sulle disfunzionalità
familiari.
Sette vecchi amici a cena
Meccanismi simili a quelli del
kammerspiel vengono utilizzati anche
da Paolo Genovese nel film Perfetti
sconosciuti, anche se il pranzo nel
giardino della casa di famiglia è
sostituito con una cena di sette vecchi
amici ossessionati da crisi grandi e
piccole, riuniti nel gioco di cellulari e
selfie, durante la quale vengono a galla
segreti, bugie, tradimenti, ipocrisie,
frustrazioni e ire.
Durante tutto il film, i sette amici quasi
non si alzano da tavola. Metti una sera
insieme a cena il tassista Cosimo, la sua
giovane consorte Bianca, il chirurgo
Rocco sposato con la psicologa Eva,
il consulente legale Lele, sua moglie
Carlotta e, per finire, Peppe, l’insegnante
di educazione fisica, disocuppato e un
po’ sfigato che, con grande disappunto
di tutti, si presenta senza la sua nuova
fiamma. Una tavola apparecchiata
per otto dove l’ottavo componente è
Rimane ambiguo anche il finale del
film, come lo è pure quello dell’ultima,
geniale, pellicola di Olivier Assayas,
Personal Shopper. Anche quest’ultima
parla di comunicazione attraverso lo
smartphone. E mentre la protagonista
di Assayas è perseguitata da un’entità
misteriosa - per cui il regista vede la
comunicazione tramite smarphone come
una semplice sessione spiritistica, che è
un’ossessione uditiva e psicologica, ma
anche erotica - i personaggi di Genovese
utilizzano i telefonini in maniera più
diretta e, a prima vista, senza celare
segreti. Ciò che collega i protagonisti di
Assayas e Genovese è l’impossibilità di
instaurare qualsiasi altro contatto che
non sia quello in cui il cellulare prende
il ruolo di media. Però, a differenza di
Assayas, il rapporto tra i protagonisti
di Genovese si troveranno infine nel
vicolo cieco dell’insegnamento morale
sui rapporti tra amici e familiari, quando
le mura di casa sembrano rinchiudersi
sempre di più attorno ai personaggi,
dando la claustrofobica sensazione in un
simulacro di realtà costruite su misura.
Della commedia non rimane un elemento
di disturbo, ma l’idea del film come un
meccanismo perfetto, come un cerchio
in cui tutto si chiude. Tutto ciò viene
mascherato dalla bravura e dall’impegno
degli autori, soprattutto dai bravissimi
Alba Rohrwacher, Valerio Mastandrea
e Giuseppe Battiston, come pure dai
dialoghi ben strutturati e un ritmo
equilibrato nell’andamento della storia.
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