la Voce del popolo la Voce del popolo spettacoli www.edit.hr/lavoce Anno 3 • n. 17 martedì, 30 maggio 2017 RADOJKAŠVERKO CINQUANT’ANNI DI GRANDE CARRIERA IL PERSONAGGIO ANNIVERSARI CRITICA Un ritratto dell’immortale Mata Hari, personaggio che ispirò numerosi film Mezzo secolo fa uscì il film «Indovina chi viene a cena?» Il film «Perfetti sconosciuti», di Paolo Genovese Raggiunse la fama come danzatrice esotica che fece impazzire mezza Europa, ma finì fucilata come spia tedesca Una carrellata nei film che trattano il tema dei diritti degli afroamericani e criticano il razzismo nella società americana Una pellicola nella quale il regista utilizza i meccanismi del cosiddetto “kammerspiel” per parlare del male contemporaneo 4|5 6|7 8 2 martedì, 30 maggio 2017 N on ama definirsi una diva. Anzi, non le piace proprio quando la chiamano così. Ma da certi epiteti è difficile scappare, perché artiste come lei ce ne sono ormai poche in circolazione. Una donna d’altri tempi che ha combattuto tanto per poter diventare allo stesso tempo sia un’ottima professionista che una madre e moglie premurosa. I frutti (e che frutti!) li sta raccogliendo ora, e gode di ogni attimo. Radojka Šverko, istriana di nascita, e poi fiumana e zagabrese di adozione, festeggia quest’anno cinquant’anni di splendida carriera, in cui è sempre e comunque rimasta fedele a sé stessa, integra nelle sue scelte professionali, e restia a scendere a compromessi. Un’artista, ma soprattutto una donna tutta d’un pezzo, che abbiamo avuto il piacere di conoscere per farle una lunga intervista in occasione di questo, per lei, importantissimo traguardo. Il 6 maggio scorso ha festeggiato nella sala Vatroslav Lisinski di Zagabria, con uno splendido concerto, il 50º anniversario di carriera. Ha cantato accompagnata dalla Filarmonica di Zagabria e dal Coro accademico “Ivan Goran Kovačić” diretti dal Maestro Alan Bjelinski, ed è stato un grande successo. Ci può descrivere cosa ha provato in quegli attimi? È soddisfatta di com’è andata? “Ora che le emozioni si sono placate, devo ammettere di essere molto contenta. E vista la quantità di chiamate ed e-mail che ho ricevuto, sembra che anche il pubblico che ha assistito al concerto sia tornato a casa soddisfatto”. Cosa si prova a festeggiare 50 anni di carriera? Un percorso lunghissimo e molto intenso. Come lo descriverebbe? È possibile dividerlo in fasi o è stato un… racconto unico? “Cinquant’anni sono molti, soprattutto per un artista. La vita è piena di alti e bassi, di bora e calma piatta, di tempeste e bel tempo. Un po’ ci sei e un po’ no. Un po’ le gratificazioni, anche finanziarie, arrivano e qualche volta un po’ meno”. C’è un periodo della carriera in cui si è sentita particolarmente bene? Quale di questi è stato il più importante e significativo per lei? Quale l’ha segnata maggiormente? “A questa domanda non mi è facile rispondere, ma stando a quanto scritto e riportato dai media negli anni, tutti si sono concentrati di più sulla mia carriera internazionale, soprattutto i giornalisti più giovani che non sono mai riusciti a capire il motivo per cui, dopo i periodi all’estero, sono sempre tornata in Croazia rinunciando a stabilirmi in qualche angolo del mondo. La mia presenza sulla scena musicale croata è stata gratificata da un sacco di riconoscimenti e premi, attribuiti anche dalle giurie di esperti, dallo Stato e, in fin dei conti, dalla fedeltà del pubblico. E questo non ha prezzo”. Quanto è stato difficile per lei raggiungere il successo? “Bisogna mantenere la continuità, in qualsiasi tipo di professione, e a volte ciò risulta difficile. Per una donna, poi, è una vera missione, soprattutto se vuole essere anche moglie e madre. Per fare un esempio, ti si offre la possibilità di guadagnare dei soldi, che in fin dei conti ti servono per vivere, e ti vedi costretta ad abbandonare la famiglia, i figli, il cuore ti si riempie di tristezza, ma bisogna che tu vada, semplicemente devi andartene”. Facendo un resoconto di tutto, come si sente oggi e come invece agli inizi del suo percorso artistico? “È impossibile fare un confronto. Quello che non mi è mai mancato è la sicurezza e la fiducia in me stessa, soprattutto quando sto in scena, sul palco”. Quando è scattato in lei questo grande amore verso il canto? “Canto da tutta una vita, da quand’ero piccolissima. Cantavo già alle scuole elementari a Pinguente dove sono cresciuta, anche se sono nata a Pisino. Suonavo la chitarra, il pianoforte, cantavo nel coro scolastico, recitavo negli spettacoli per bambini, mi cimentavo nella mandolinistica, e non in roba qualsiasi bensì in musica classica…”. spettacoli Quando ha capito che il canto sarebbe diventato la sua professione, la sua vita? “Il desiderio di occuparmi di musica è presente in me da quando sono nata, ma col passare del tempo, esso è cresciuto in me in maniera esponenziale tracciandomi e indicandomi il percorso che sto calcando tuttora”. Ci può descrivere brevemente la sua infanzia e giovinezza? Un qualcosa di quei tempi che le è rimasto particolarmente impresso? “Mi ricordo spesso di un episodio triste avvenuto a Pisino. Avevo attorno ai quattro anni. Mia mamma quel giorno stava impastando il pane e aveva acceso la stufa a legna. A un certo punto, io avevo preso di nascosto una mela cotogna, e con la mano sinistra avevo aperto l’uscio del forno per poterla cuocere, cosa che avevo visto fare spesso a mio padre. A un certo punto, la mano destra mi è rimasta imprigionata nel forno. Porto tuttora i segni delle ustioni subite. Con il trasferimento a Pinguente, per me è iniziato un nuovo capitolo di vita, ho fatto nuove amicizie, nuove esperienze, come ad esempio giocare a pallamano, ho avuto le mie prime simpatie e ovviamente c’era la musica”. Com’era Radojka da bambina? Da ragazza? “Birichina, e si può capirlo dalle mie risposte precedenti. Mi piaceva arrampicarmi sugli alberi. In effetti, li ho… conquistati tutti, credo sia rimasto soltanto uno sul quale non sono mai salita. Certo, non sono mancati tonfi, fratture di braccia e gambe, ma ciò non mi ha mica fermata. Il dolore passa, e tu continui a farlo”. Come viveva all’epoca e quando ha iniziato a occuparsi seriamente di musica? “Ero una bambina serena e ho avuto un’infanzia felice. Eravamo quattro figli. Si viveva in maniera modesta, ma i nostri genitori non ci hanno mai fatto mancare l’amore e il calore. Quando mi capita di guardare le vecchie foto di famiglia, mi rendo conto che in tutte siamo sempre composti, puliti e ordinati, ma soprattutto sorridenti. Nella mia famiglia si è sempre cantato molto. Ascoltavamo la radio e imitavamo tutto ciò che sentivamo, a prescindere si trattasse di lirica o musica leggera. Tutti eravamo molto musicali e tutti in qualche modo ci occupavamo di musica. Mia sorella maggiore Mladenka ha lavorato per tutta la vita come insegnante di musica, la più giovane ha ottenuto diversi trofei a competizioni amatoriali di canto, e il mio defunto fratello era musicista pure lui”. Che tipo di musica ascoltava da ragazza? Ci racconti qualche aneddoto di quand’era giovane, le sue prime uscite, le amicizie… “Per i vostri lettori più giovani, bisognerebbe forse sottolineare che all’epoca della mia giovinezza non c’erano ancora televisori. Erano un lusso che noi non potevamo permetterci. Mi esibii per la prima volta in TV nel 1964 a Zagabria, a soli 16 anni. Non avendo un televisore in casa, i miei guardarono la trasmissione su quello dei vicini. Per quanto riguarda le uscite con gli amici, quelli erano tempi diversi e difficilmente paragonabili a quelli di oggi. Gli innamoramenti non mancavano, ma mi permetterei di dire che la morale dei giovani di allora era un po’ diversa, a un altro livello. Ma la colpa non è certo dei ragazzi. Questa è un’altra epoca…”. Le è stato difficile abbandonare l’Istria? Cosa rappresenta la sua terra per lei? Ci torna spesso? “Amo l’Istria. Qui sono nata. Mia nonna Lucija, mio nonno Jakov, mio padre e i miei zii provengono da Prapoće, un villaggio in Ciceria. Pisino, Pinguente, Pola, le sento profondamente mie. A Pinguente vive la mia sorella minore, e a Rozzo quella maggiore con la sua famiglia. Mia mamma è di Imotski, ma si è trasferita in Istria per amore. È stata lei a inculcarci maggiormente il legame con questa terra magica, ma anche con la Dalmazia e con lo Zagorje, a insegnarci ad amare la gente”. Ha vissuto anche a Fiume. Che significato ha per lei questa città? “A Fiume ho trascorso buona parte della mia gioventù. Qui mi sono sposata per la prima volta, sono diventata madre, fatto i primi passi seri nel mondo della musica. Amo Fiume e so che Fiume ama me. Lo percepisco”. la Voce del popolo L’INTERVISTA RADOJKAŠV SEMPRE FEDELE A S A COLLOQUIO CON LA RINOMATA CANTANTE ISTRIANA CHE HA CELEBRATO DI RECENTE I CINQUANT’ANNI DI SPLENDIDA CARRIERA, NEL CORSO DELLA QUALE HA SEMPRE LAVORATO CON PASSIONE E CONTINUA A FARLO ANCOR’OGGI Com’è stato invece vivere all’estero? “In qualsiasi città del mondo vivessi – vuoi per tournée o per condurre trasmissioni televisive – non mi sono mai legata emotivamente a nessuna di esse. Los Angeles, Porto Rico, Tokio, Palma de Mallorca, Barcellona, Madrid, New York, Atene, Dublino, Stoccolma. Finché affronterò questo argomento, ripeterò sempre che le bellezze della Croazia non hanno prezzo e non ne esistono di uguali al mondo. Provare e vedere per credere”. Dopo avere viaggiato per il mondo, è sempre tornata in Croazia. Perché? Ha mai sentito il desiderio di stabilirsi all’estero? “Mi sentivo sempre bene, da qualsiasi parte andassi, ma in tutti questi viaggi mi mancava sempre qualcosa, mi mancava casa. Sentivo sempre questo forte desiderio di tornare. Il mio sapere, le mie esperienze, la conoscenza delle lingue – inglese, italiano, spagnolo e russo – erano per me un vantaggio enorme e un valore aggiunto, ma la vera felicità riesco a sentirla soltanto a casa mia, nel mio Paese. Certo, al giorno d’oggi quando i giovani vanno all’estero pensando di trovarvi chissà che fortuna, queste mie dichiarazioni sembreranno forse incredibili, un cliché, ma per nulla al mondo potrei rinunciare al nostro mare, ai nostri fiumi, ai nostri laghi, a questi meravigliosi paesaggi e profumi”. In che fase della sua vita ha goduto di più? “Il mio privato non è stato rose e fiori, ma devo ammettere di essere stata maggiormente felice nell’abbraccio delle mie figlie, e poi in quello di mia nipote. Non c’è gioia e orgoglio che regga il confronto”. È soddisfatta di quanto raggiunto o manca ancora qualcosa? “In occasione del mio concerto celebrativo, ho avuto modo di parlare con i vari mass media. Non me ne voglia nessuno per ciò che dirò, ma se ci fosse stato un appoggio più concreto e forte delle strutture nazionali, avrei potuto dare molto di più nel corso della mia carriera. Ma forse è meglio così. Ho l’impressione che molti appena adesso stiano scoprendo la mia musica, ai miei concerti solistici”. La sua carriera è costellata da premi e riconoscimenti. Quanto significano per lei? “In cinquant’anni ne ho raccolti tanti; qualcuno è addirittura andato perso nei miei innumerevoli traslochi, ma tutti hanno mantenuto il bagliore del giorno in cui mi sono stati consegnati. Sono però soltanto dei trofei, un ricordo di quanto realizzato, dei successi raggiunti, dei momenti di gloria, della luce dei riflettori, dei contatti con personaggi celebri, e devono rimanere tali. Non possono assolutamente sostituire le persone”. Che rapporto ha con il suo pubblico? “Direi che è sempre più bello e forte. Ai miei concerti vedo finalmente anche gli uomini piangere. Piangano pure, io nella mia vita ho pianto anche troppo per loro. Ora è giunto il loro turno (risata)!”. Dove le è piaciuto di più cantare? E con chi? “È difficile dirlo, ma devo ammettere di avere sempre preferito esibirmi dinanzi a dei grandi auditori: trenta-quaranta mila persone, la Voce del popolo di Ivana Precetti VERKO SÉ STESSA spettacoli classici, che in quelli religiosi, sia nei brani di musica leggera, pop, che in quelli da film o in arie di opere rock. L’unica cosa che non ho mai imparato a dire ai miei concerti è: ‘Dai, su, fatemi vedere le mani’”. C’è una sua canzone che preferisce alle altre? “Non posso risponderle perché non esiste. Non riesco a fare distinzioni”. Come si diventa una vera diva? È possibile esserlo mantenendo allo stesso tempo il ruolo di madre e moglie? Quanto è difficile per le donne costruirsi una carriera? “Tutte noi siamo ugualmente dive, qualche volta di più, qualche volta di meno. In effetti, quest’aggettivo viene usato troppo spesso per poterlo considerare qualcosa di straordinario. Io, molto spesso, mi ci ribello”. martedì, 30 maggio 2017 Ci sono stati momenti in cui non riusciva a trovare la forza? “Nella vita degli artisti, stati d’animo come questo sono una cosa piuttosto normale. Il fatto è che molti non sanno come affrontare i dolori della vita, e spesso allora si aiutano con qualcosa. Anch’io, nel mio percorso di vita, ho avuto problemi, malattie, morti, ma grazie ai geni ereditati dai miei genitori sono sempre riuscita a rialzarmi e a rimanere saldamente con i piedi per terra”. Cambiamo tema. Ha avuto modo di collaborare con Sergio Endrigo. Lo conosceva bene? “Ho conosciuto Sergio Endrigo al Festival di Spalato, in cui cantavamo in alternanza un brano di Esad Arnautalić su testo di Arsen Dedić che s’intitolava ‘Kud plovi ovaj brod’. All’epoca non immaginavo che lo avrei poi rivisto in Italia e che avremmo avuto altre esibizioni insieme. Degli artisti italiani, ho cantato con Iva Zanicchi, Gianni Morandi, Nicola Di Bari, Pino Donaggio, con Mal dei The Primitives, Milva e Lara Saint Paul, ma era tanti anni fa. Elio Gigante era un manager e produttore italiano molto conosciuto che avrebbe voluto proseguire e approfondire queste collaborazioni, ma io non vedevo l’ora di tornare a casa, dai miei figli e dalla mia famiglia. Il denaro non è tutto”. con grandi orchestre sinfoniche, grandi filarmoniche. Sono esperienze che m’ispirano particolarmente, e per me è qualcosa di molto speciale”. Ci sono esibizioni che ama particolarmente? “Io semplicemente amo esibirmi. Ogni esibizione risveglia in me il senso di responsabilità oltre che un’immensa gioia. Se sono attorniata, poi, da veri musicisti, la mia felicità non ha fine”. Il suo bagaglio musicale è veramente ricco e variegato e non si concentra su un solo genere. Come lo spiegherebbe? In quale stile si trova più… a casa? “Per me non esistono barriere di genere. Mi trovo ugualmente bene sia nei repertori Ho letto in alcune sue interviste che per lei nella vita non è stato sempre facile. Come è riuscita a superare i momenti dolorosi? Da dove ha carpito la forza per andare avanti? “Le risponderò con un testo scritto per me dal mio amico Mišo Doležal e che fa: ‘È rimasto così poco, di tutto ciò che volevo. Ora sono nuovamente all’inizio, di nuovo lì, dov’ero. Fantasticavo da piccola, costruendo castelli in aria, camminando verso la luce, ma in realtà precipitavo nel vuoto. Rialzarsi, è sempre un rialzarsi, un nuovo inizio, tutto daccapo, finché c’è il sole, finché c’è la pioggia, sempre avanti, sempre di più. C’è ancora un qualcosa che mi spinge a proseguire, in questo percorso senza fine, e poi cado e mi rialzo, ancora una volta, tutto daccapo’”. Le piace la scena musicale italiana? “Purtroppo è cambiata negli anni, come anche nel resto del mondo. Nonostante, però, il nuovo approccio verso la musica, la Radiotelevisione Italiana accoglie nei suoi show sia artisti giovani che vecchie glorie, rispettando il volere dei telespettatori. Anche in altre trasmissioni straniere si percepisce questo rispetto verso le generazioni di una volta. Forse sta succedendo lo stesso anche sulla tv croata. Un buon segno in questo senso è l’ottima 3 trasmissione ‘A strana’, andata in onda di recente sulla Radiotelevisione croata (HRT)”. Cosa pensa in generale della scena musicale di oggi? “La buona poesia e i musicisti preparati troveranno sempre degli ascoltatori e chi acquisterà i loro dischi, perché l’essere umano ha bisogno della musica. Per molti essa è una vera cura dell’anima, ha effetti terapeutici, il che è anche provato scientificamente. La musica aggressiva, elettronica, è in grado di uccidere gli aspetti più validi del carattere di un uomo, e io non riesco veramente a capacitarmi del fatto che questo genere esista ancora e che spesso sia accompagnato dal consumo di sostanze stupefacenti”. Cosa consiglierebbe alle nuove generazioni di musicisti? “Abbiamo tanti giovani cantanti di talento, e abbiamo modo di vederli e ascoltarli nelle varie trasmissioni tv, nei talent show. Personalmente adoro sentirli, ammirare i loro talenti, ma allo stesso tempo mi chiedo dove e in che modo questi giovani riusciranno a lavorare, a costruirsi una carriera, a crescere. Mi chiedo se gli alberghi cambieranno le loro offerte regalando ai propri ospiti dei contenuti musicali che contribuiranno a rendere più dolce l’atmosfera serale, o la loro offerta continuerà a basarsi soltanto su musica violenta. L’estate scorsa certi miei amici stranieri hanno interrotto le loro vacanze in Croazia proprio perché non riuscivano a trovare un po’ di pace. Uno che lavora tutto l’anno ha bisogno di tranquillità e se decide di venire qui a spendere i propri soldi, esaudiamogli questo desiderio. È il minimo che possiamo fare”. Tornando all’argomento Dive, ovvero al trio formato da Radojka Šverko, Gabi Novak e Tereza Kesovija, canteranno nuovamente insieme? “Non abbiamo in piano esibizioni comuni, il che non vuole dire che non ce ne saranno in futuro. Momentaneamente curiamo le rispettive carriere soliste. In fin dei conti, tutte e tre siamo cantanti soliste”. Ha lavorato anche in teatro e in tv. Ci può descrivere questo suo capitolo artistico? “Ho adorato lavorare sulle tavole del palcoscenico teatrale, nei ruoli di Jana, Nera, Fantina, Mara. Nella mia vita ho ricevuto anche tante proposte cinematografiche, a Parigi e Madrid, ma ne ho accettata soltanto una, per curiosità, ovvero quella di Rajko Grlić nel suo film ‘Bravo Maestro’. Questa pellicola ha vinto il Festival del cinema a Pola e ha rappresentato la Croazia al Festival cinematografico di Cannes”. Un’ultima domanda. Come trascorre il tempo libero? Cosa fa per sé stessa, per la sua anima? “Devo dire che finora non ho mai pensato di farmi aiutare da una domestica. In casa faccio tutto da sola e godo di questi momenti. Ci sono giorni in cui non sono così brava, ma generalmente mi piace prendermi cura della mia casa. E poi leggo tanto, scrivo, ascolto la musica, seguo lo sport, la politica. Tutto ciò che faccio, lo faccio con entusiasmo. A volte non faccio assolutamente niente, e in quei momenti mi ricarico per i nuovi incontri con il mio amato pubblico”. (le fotografie di Radojka Šverko sono di Goran Matijašec e dall’archivio personale) 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 30 maggio 2017 || Mata Hari durante il suo spettacolo DAUNSEC CONSIMP S || Mata Hari nel 1910 ono passati cent’anni dalla morte dell’anonima olandese Margaretha Geertruida Zelle (Leeuwarden, 7 agosto 1876 – 15 ottobre 1917). Un secolo – a ottobre – dalla fucilazione di Mata Hari, lo pseudonimo che Margaretha si scelse, anzi le venne dato, quando decise di proporsi al mondo o quantomeno a Parigi, come danzatrice indonesiana. Ogni vita, ogni esistenza di per sé può divenire romanzo. Più o meno bello, più o meno noioso. Quella della Zelle, di romanzi ne ispirerebbe tre. Chissà, forse qualcuno ci avrebbe anche provato a scriverli, se Benjamin Glazer – uno dei fondatori dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ossia la “mamma” del Premio Oscar – non avesse pensato di scrivere la sceneggiatura di Mata Hari, per Greta Garbo, il regista George Fitzmaurice e la MGM, in cui i “nostri” tre romanzi vengono fusi in un filmone che al tempo stesso ha eternato la sfortunata Margaretha e lanciato definitivamente colei che dall’uscita del film in poi sarà definita “La Divina”... Tre romanzi, dicevamo. E di tre generi diversi. Il primo, su una ragazza che nasce in una famiglia agiata, ma finisce per andare incontro a disgrazie a go-go; il secondo, su una delle più grandi “star” d’anteguerra, insieme a Isadora Duncan, la Bella Otero, Cléo de Mérode e Mistinguette, mentre Emilienne D’Alençon si stava ritirando proprio quando lei mieteva i primissimi successi a Parigi. Il terzo romanzo, infine, ambientato nel losco mondo dello spionaggio nel bel mezzo della prima macelleria intercontinentale, che vede al centro della vicenda una bella e famosa e corteggiatissima “femme fatale”, la quale - chissà perché - si mette (si sarebbe messa?) al servizio del Kaiser (e vabbeh...), contro quella Francia, quella Parigi che le avevano dato notorietà, ricchezza, serenità. Ma procediamo con ordine, ovviamente, “sintetizzando” e unificando i tre... romanzi. Vive agiata e coccolata fino agli anni della pubertà, la figlia del commerciante e possidente Adam Zelle e della signora Antje van der Meulen. I primi guai iniziano quando le attività imprenditoriali del padre falliscono provocando lo sfascio della famiglia. Di lì a poco, quattordicenne, Margaretha perde la mamma. Gli anni giovanili li passa, in parte col padrino, in parte con uno zio. Non devono essere stati chissacché felici se poco meno che ventenne, letta su un giornale un’offerta di matrimonio, si presenta al cospetto dell’inserzionista e, avuto il consenso paterno, data la minore età, convola a nozze. Il marito è un ufficiale dell’esercito olandese, Rudolph MacLeod, di vent’anni più grande, in convalescenza ad Amsterdam, ma di stanza in Asia. È il 1896. L’anno dopo nasce Norman la Voce spettacoli del popolo martedì, 30 maggio 2017 John. È ancora in fasce quando MacLeod deve tornare a Giava. Al momento, pare che la coppia viva un’esistenza felice, tant’è che passa poco più di un anno che Margaretha mette al mondo una seconda creatura, Jean Louise, chiamata Non, cioé “piccola”, nella lingua del posto. La vita di “caserma in famiglia” non fa per Margaretha. Certo, dispone di personale di servizio, non fa una vita da serva, tuttavia siamo sempre in un mondo diverso, senza vere amicizie e le distrazioni che offrono le città. Inoltre, il marito si rivela geloso, aggressivo, e beve. La tragedia Sono vicini alla rottura definitiva, quando un’enorme tragedia, al contrario, li unisce: la morte per avvelenamento da farmaci del piccolo Norman. Affranto, ma anche stanco della vita militare, pur se neppure quarantenne, il capitano Rudolph MacLeod abbandona l’esercito e dopo poco, convinto dalla moglie, si torna in Olanda. Dove, in men che non si dica, i rapporti tra i due deteriorano. La separazione è dolorosa, IL PERSONAGGIO Fuller, che alle Folies Bergère fa sognare gli uomini (e ne manda in bestia le mogli), mentre dall’America arrivano notizie su Ruth Saint Denise, alla corte del famoso impresarioregista-attore-commediografo David Belasco, l’uomo che ha ispirato per ben due volte il compositore di melodrammi più famoso e amato degli inizi del secolo, Giacomo Puccini; lo ha ispirato con i propri drammi “Madame Butterfly” e “La fanciulla del West”. La sensuale «stangona» Piace subito, questa sensualissima “stangona”, giunta – vox populi – dall’Oriente. Piace al punto che non pochi amici del Molier desiderano che si esibisca pure a casa loro. Ad “accappararsela” per prima sarà Madame Kiréevsky, titolare del salotto più chic e fru-fru di Parigi. Lady MacLeod si presenta al meglio delle possibilità, inventando costumi, passi e danza. Gli astanti vanno in brodo di giuggiole. Tra loro, il giornalista Francis Keyzer, del magazine londinese “The King”, che scrive più o meno: macché balletto classico, macché Isadora Duncan, “Lady MacLeod is Venus”. Tra i presenti in Casa Kiréevsky, colui che gli strumenti adatti per capire a fondo le cose del mondo e gli uomini. Non sapeva, per esempio, che a seconda della situazione in cui ci si ritrova ad agire, muta la percezione che si ha di sé e degli altri e gli altri di noi. In piena guerra, con stenti e drammi personali e collettivi in primo piano, la “femme fatale” è semplicemente una donna sola, “viziata” e piena di vizi, moralmente dubbia. Se poi si tratta di un’artista, sempre in movimento dall’una all’altra parte dei fronti... come si fa a non sospettarla di “intelligenza col nemico”? Sempre che di questo si tratti, e non di depistaggio e/o di capro espiatorio utile per coprire altre magagne, altri personaggi. Tantissimi interrogativi dopo la guerra I sospetti che Mata Hari fosse stata usata, sia dai tedeschi che dai francesi, non nacquero all’indomani della sua esecuzione; si era ancora in guerra. Ma quando nacquero, gli interrogativi erano tantissimi. In primo luogo, dov’erano le prove della sua colpevolezza? Dove le testimonianze del suo coinvolgimento antifrancese? E poi, perché tutta questa fretta nel chiudere la faccenda? In febbraio viene di Sandro Damiani 5 Hari. C’è stato, è vero, un tentativo trentatré anni dopo: Mata Hari, agente segreto H21, produzione franco-italiana. La sceneggiatura è di Francoise Truffaut, la regia di Jean-Louis Richard. Protagonista, Jeanne Moreau, già nota e amata, e strapremiata: al Festival di Cannes nel 1960 per Moderato cantabile, mentre l’anno dopo è coprotagonista de La Notte di Michelangelo Antonioni, accanto a Marcello Mastroianni e Monica Vitti, e nel 1962 è la magnifica protagonista di Jules et Jim del Truffaut. Mata Hari, agente segreto H21 è un film molto elegante, bravissima lei e altrettanto lui, Jean Louis Trintignant. Piacciono i dialoghi, la fotografia e la colonna sonora. Insomma, non manca nulla. Semplicemente, incombono il volto e le mille impercettibili espressioni di Greta Garbo. Ultimo omaggio Margaretha-Mata sul/dal grande schermo è la lussuriosa versione di Sylvia Kristel, già eroica macchina del sesso in Emmanuelle. La pellicola è al limite del porno, con discrete sequenze di sesso “mostrato”. In breve, una scusa per dare un nome diverso a un prodotto harcore. CENT’ANNI FA MORIVA MARGARETHA GEERTRUIDA ZELLE, L’IMMORTALE MATA HARI LA CUI VITA AVVENTUROSA ISPIRÒ DIVERSE OPERE CINEMATOGRAFICHE ECOLOLASIRICORDA MPATIA,AFFETTOECOMPASSIONE specie per Margaretha a cui il tribunale toglie la bambina. Una decisione in sé non ingiusta, visto che lei è nullatenente e non gode neppure delle alimentazioni. Casomai, l’ingiustizia è data dal fatto che il MacLeod ha le giuste aderenze per far risultare la (ex) moglie responsabile unica della fine del matrimonio. Rimasta sola a ventisei anni, Margaretha non ha né arte né parte né soldi, ma è decisa a non vivacchiare nella miseria e nell’anonimato. Intelligente, dotata di un qual fascino, più che di bellezza (carnagione scura, altissima per il tempo – 1,77; movenze feline affatto singolari in una città europea), in Indonesia in più occasioni aveva assistito ad alcune manifestazioni di danza locale, religiose e non. Aveva altresì fatto propri certi ritmi e modi di muoversi. Insomma, era un “tipo” originalissimo. Ma come farsi notare? E poi... all’Aja? Cioé una delle tante periferie dell’Occidente? Decide di recarsi nella capitale mondiale di... tutto: Parigi. I primi tentativi a Parigi Ci “sbarca” una prima volta nel 1903, ma non ha fortuna. Qualche seduta da modella per un pittore, tentativi di agganciare qualche “ricco scemo”... quanto ai sognati ingaggi teatrali da danzatrice esotica, nemmeno l’ombra. Delusa, se ne torna in Olanda. Ma esattamente dodici mesi dopo torna alla carica. Stavolta, con le idee molto più chiare. Non ha una lira in tasca, eppure si piazza al Grand Hotel. Abbindola un nobilazzo di cui diviene l’amante, quindi – avendo qualche conoscenza di cavalli e soprattutto sapendo cavalcare, si fa ingaggiare dal proprietario di un circo e di una scuderia, quale “amazzone”. Siamo in anni in cui vedere una donna a cavallo non è all’ordine del giorno. E la cosa per l’impresario circense si rivela un buon affare. Ma a Margaretha il rapporto con monsieur Molier – il nome del proprietario di cavalli – interessa per un altro motivo; per il mondo che frequenta, per le serate mondane in casa che organizza, con tanta “bella gente”, ricconi, ma anche – diremmo oggi – gente dello spettacolo. Sicché Lady MacLeod – così si fa chiamare – convince l’anziano amico a organizzarle una serata particolare, nel corso della quale intratterrà gli ospiti in maniera particolare. Figuriamoci cosa ne sapevano di danze indonesiane, culti indù, musiche orientali e via elencando, gli amici di monsieur Molier. Sicché la nostra Lady si presenta coperta di veli, che lascerà cadere uno ad uno (non è escluso che abbia letto “Salomé” di Oscar Wilde), declamando versi, tra fumi e incensi, e musiche “strane”. E, la cosa più importante, facendo passi di danza inusitati, lontanissimi finanche da quelli più arditi dei primi contestatori del “balletto bianco”, tra cui la Duncan e Loïe ne sarà il primo pigmalione, il ricchissimo collezionista Émile Étienne Guimet, titolare dell’omonimo museo. Sarà infatti lui, pochi giorni dopo, a organizzare, nel proprio museo, la prima uscita pubblica di … Mata Hari (“Occhio dell’Alba”, in malese), lo pseudonimo che sceglie per Margaretha. La quale danza e declama. C’è tutto e il contrario di tutto, pseudo riti indù, buddismo, cineserie... E coglie nel segno. Ciò avviene nel mese di marzo, l’anno è il 1905. In agosto, è già all’Olympia e l’anno successivo in tournée in Spagna e altrove. Ma è soprattutto in Francia che l’adorano e prendono per oro colato quanto dice e ciò che fa. Un pastrocchio inenarrabile che fa digrignare i denti alle artiste di talento, alle danzatrici-etoile con tanto di scuola... Ci cascano pure musicisti di fama, il primo fra tutti, Jules Massenet, che la vuole ballerina-protagonista all’interno del suo “Le roi de Lahore”. Tra quanti stravedono per lei, c’è pure il più donnaiolo dei compositori, il Puccini. Ma a lui interessa la donna in quanto tale, non la sua “merce”. Un successo che dura un decennio Per quasi un decennio, Mata Hari furoreggia nei più importanti teatri del Continente. Addirittura alla Scala, con il direttore d’orchestra Tullio Serafin in estasi. Ma mica tutti si sono bevuti il cervello. Giordano, Mascagni e – per lei la nota più dolente – Djaghilev non ne vogliono sapere di collaborarci. E arriviamo allo scoppio della Prima guerra mondiale. Lei negli ultimi tempi è di frequente fuori Parigi; a Berlino, in Spagna, Svizzera, Olanda. È richiestissima. Ovunque, ha o si procura uno o più amanti, non necessariamente ricchi banchieri, sono graditi anche giovani ufficiali... È il 1915. A questo punto il vero, il falso, il semivero si incrociano e intersecano, tanto da non far capire (e credere) nulla. Stando alle ricostruzioni fatte dagli inquirenti francesi che la metteranno sotto processo, Margaretha Zelle avrebbe fatto la scuola di spionaggio tedesca, sotto gli ordini di tale Fräulein Doktor, ma allo stesso tempo intrattiene rapporti con Georges Ladoux, capo di una sezione del controspionaggio francese, Deuxième Bureau. Doppiogiochista? Mah... Ѐ più probabile che fece un po’ di pasticci. Al massimo avrà smistato qualche lettera, sia per i tedeschi che per i francesi, senza rendersi fino in fondo conto della situazione, dei rischi, convinta (di sicuro) di essere al riparo da eventuali accuse, per il nome, la notorietà, l’amicizia con persone influenti di qua e di là dal confine francotedesco. Ma non aveva fatto bene i conti. Intelligente, scaltra e con una qual esperienza delle cose del mondo, non possedeva però arrestata, a fine luglio inizia il processo, a fine settembre arriva la condanna a morte definitiva. In ottobre, quando la fine della guerra ancora non si intravede, la fucilazione. Come non sospettare che la si volesse eliminare prima della fine delle ostilità quando – vedi mai... - magari qualche intellettuale, sulla scia di Émile Zola e dell’“Affare Dreyfus”, non avrebbe potuto pubblicamente prenderne le difese e rigettare nel marasma l’esercito francese, ancora provato moralmente per il montato processo al capitano Alfred Dreyfus di vent’anni prima. Forse veramente non solo Margaretha Zelle non c’entrava un tubo con l’accusa, forse la o le vere spie erano proprio in seno all’esercito francese. O forse, senza fare troppe dietrologie, qualche magistrato o alto ufficiale, frequentatore di salotti teatri e bordelli prima e durante la guerra si è voluto vendicare, perchè – per dirlo con eleganza – non gliela voleva dare... Tre storie, tre biografie in una. Belle, corpose. Vi si trova di tutto, come abbiamo visto: dramma familiare da Carolina Invernizio, erotismo lascivo alla D’Annunzio, mistero misto a giallo... Il primo film su Mata Hari è danese Non per niente il cinema ci si è gettato a corpo morto sin dal 1920. Il primo film su Mata Hari è danese – emblematico il titolo, Mata Hari – Die Spionin - protagonista, la “Diva silenziosa”, Asta Nielsen, di cui la Garbo, conoscendola e avendoci lavorato, ne La via senza gioia diretto da George Wilhelm Pabst nel 1925, disse in una occasione: “Non ho mai capito il mio grande successo visto che ero niente se confrontata ad Asta Nielsen”. Ovviamente, la pellicola fu accolta trionfalmente. Tanto che l’anno appresso Asta si potè permettere di prodursi un Amleto cinematografico, con lei nei panni del principe... connazionale. Passano sette anni e Friedrich Feher, un regista che il cinema mondiale dell’epoca ricorda nel ruolo del giovane studente, protagonista de Il Gabinetto del dottor Caligari, capolavoro dell’espressionismo cinematografico, diretto da Robert Wiene nel 1920; il Feher, dicevamo, dirige la sua compagna di vita e partner in arte, Magda Sonja (pseudonimo di Venceslava Vesely), in Mata Hari, die rote Tänzerin. Pure in questo caso, il film ottiene consensi generalizzati e la Sonja si afferma come maggiore attrice austriaca. Greta Garbo è l’Unica Mata Hari Il “botto”, però, avviene nel 1931 – lo abbiamo già accennato – con Greta Garbo. Che resterà, quantomeno fino ad oggi, L’Unica Mata || Greta Garbo come Mata Hari Un inno a questo straordinario personaggio Hanno, tuttavia, qualcosa in comune, queste cinque pellicole. Cosa? Sono anima e corpo dalla parte della signora Margaretha Zelle-Mata Hari. O non credono che si sia trattato di una spia o, laddove si sospetta che ci credano, prevale la filosofia della minimizzazione dell’atto. Dalla sua parte è pure il dramma in due atti di Maria Letizia Compatangelo, edito, ma mai rappresentato fin’ora. Si direbbe che viga la paura di fare figuracce o comunque la consapevolezza che in ultima analisi la “sfida” non sarebbe con lei, la “spia”, la “danzatrice venuta dall’Oriente”, ma con chi nell’immaginario collettivo la impersona: Greta Garbo. Sono tutte un “inno” a Mata Hari le belle struggenti canzoni che Fabio Borgazzi Fabor ha composto per il suddetto dramma musicale (testi della Compatangelo e di Marylù Borgazzi), di cui circola un CD, registrato in presa diretta al Parco della Musica di Roma una decina di anni fa, nel corso di un concerto dedicato al Fabor, con la Roma Orchestra Sinfonietta (fondata da Ennio Morricone), diretta da Francesco Lanzillotta, che aveva accompagnato l’attrice e cantante spalatina Ksenija Prohaska. Morta alle soglie dei quarant’anni, avendo avuto una esistenza non felicissima, da un secolo la si ricorda con simpatia, affetto, compassione. 6 spettacoli martedì, 30 maggio 2017 DAL CAPOLAVORO DI STANLEY KRAMER «INDOVINA CHI VIENE A CENA?» A OGGI: IL FILONE HOLLYWOODIANO SUI DIRITTI DEGLI AFROAMERICANI ANNIVERSARI Gli altri 12 anni schiavo Film del 2013 firmato da Steve McQueen ha vinto il Premio Oscar come miglior film nel 2014. Gli interpreti principali sono Chiwetel Ejiofor nel ruolo del protagonista, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, quest’ultimo anche produttore della pellicola, e Lupita Nyong’o, vincitrice dell’Oscar alla miglior attrice non protagonista. Nel 1841, prima della guerra di secessione, Solomon Northup, talentuoso violinista di colore, vive libero nella cittadina di Saratoga Springs. Il movie racconta la sua storia tribolata durante la quale cambiò per tre volte padrone lavorando principalmente nella piantagione di cotone del perfido schiavista Edwin Epps. || Idovina chi viene a cena?: Sidney Poitier e Spencer Tracy, in mezzo Katharine Houghton di Fabio Sfiligoi CINQUANT’ANNI DI LOTTA CONTRO IL RAZZISMO C inquant’anni fa affrontare negli States un tema delicato come quello razziale è stata una sfida storica per l’industria di Hollywood, soprattutto per il contesto storico in cui Stanley Kramer decise di proporre qualcosa di impensabile fino ad allora: l’amore fra una donna bianca e un uomo di colore. Oggi, dopo decenni di lotta per i diritti degli afroamericani, quello del razzismo negli Usa è uno dei temi preferiti dall’ industria del cinema, si può dire che rappresenti un filone con risultati più che accettabili sia come riscontro di critica, pubblico e cassetta. Inserito dall’American Film Institute al 99º posto della classifica dei migliori cento film americani di tutti i tempi, Indovina chi viene a cena? (Guess Who’s Coming to Dinner), film del 1967, si può considerare l’apripista di una serie di movie che segnerà la produzione americana e porterà a casa tanti premi, fino alla polemica di un paio d’anni fa in cui attori di colore, durante la cerimonia degli Academy Awards, accusarono gli organizzatori di razzismo e di una sempre più marcata scarsa presenza di attori afroamericani in film che contano. Tutto smentito dall’edizione di quest’anno con due film di grande spessore e di denuncia tra le nomination, come Barriere e Moonlight. Indovina chi viene a cena? racconta i problemi razziali dll’America degli Anni Sessanta attraverso il filtro dell’amore fra una ragazza la Voce del popolo || 12 anni schiavo bianca, Katharine Houghton (alias Joanna Drayton), e uno statuario adone di colore, Sidney Poitier, 90 anni lo scorso febbraio (alias John Prentice). Kramer si era già affidato a Poitier ne La parete di fango del 1958. Il lavoro ottenne un grande successo e ricevette una nomination all’Oscar come miglior film dell’anno. Il film è la storia di due evasi, uno bianco (Tony Curtis) e razzista, che odia il suo compagno nero (Sidney Poitier). Durante la fuga, incatenati l’uno all’altro, i due imparano a rispettarsi e alla fine fanno amicizia. Il film segnò l’ascesa di Poitier come primo divo di colore. L’amore è la cosa più importante Joanna e John nel film Indovina chi... si conoscono dieci giorni prima alle Hawaii. Decidono di sposarsi e si recano a San Francisco, dove Joey intende presentare il fidanzato ai propri genitori, il padre Matt (Spencer Tracy) e la madre Christina (Katharine || Denzel Washington in Barriere Hepburn), prima che questi riparta la sera stessa per New York, e poi per Ginevra, dove lo attende un impegno di lavoro e dove hanno previsto di convolare a nozze. Joey vorrebbe seguire subito il suo adorato John, ma lui esige prima l’incondizionata approvazione dei genitori di lei alla loro unione. Christina, la madre, commossa dalla sincerità dell’unione, aderisce all’entusiasmo della figlia, ma Matt, un gigantesco Spencer Tracy, troppo preoccupato per le difficoltà cui la coppia andrebbe incontro, non è propenso a dare la propria approvazione. La situazione diventa ancora più intricata allorché, invitati da Joey, i genitori di John - i quali ignorano che la ragazza è bianca - vengono a cena dai Drayton per conoscere lei e la sua famiglia. Alla fine Matt Drayton, Tracy, richiamerà tutti in salotto per rivelare che anche per lui l’amore è una cosa ben più importante della diversa pigmentazione della pelle, concludendo che Joanna “Joey” e John sono “due esseri speciali”. Come per esempio nella vita reale erano Tracy e la Hepburn. Proprio per questo nella famosa scena del monologo di Spencer Tracy, Katharine Hepburn si commosse fino alle lacrime: l’attrice dichiarò che la commozione era reale e non recitata, pensando che le parole dell’attore ben si potessero adattare anche alla storia d’amore che li legava nella vita reale. Soprattutto perché si tratta dell’ultima scena girata da Tracy: morì poco più di due setttimane dopo. Motivo per il quale la Hepburn non vide mai il film per intero. Il ricordo di Tracy era troppo doloroso e dovette utilizzare il suo cachet per finire di girare il film in quanto la produzione riteneva che Spencer Tracy, così malato, non avrebbe terminato le riprese (recitò nel movie senza copertura assicurativa). Il film ebbe uno splendido successo di critica e di pubblico e si aggiudicò due statuette nel 1968: migliore attrice (la Hepburn) e migliore sceneggiatura originale. Nel 2005, con parti invertite fidanzata nera e fidanzato bianco, si tentò un remake che passò inosservato sia come critiche sia come guadagni. Il colore viola The Color Purple del 1985, diretto da Spielberg e protagonista Whoopi Goldberg. Del cast fanno parte altri attori di colore: Danny Glover, Margaret Avery e Oprah Winfrey. Il film è incentrato su personaggi femminili e tratta soprattutto di argomenti come abusi sessuali, violenza domestica, razzismo e coraggio delle donne violentate. Tratto dall’omonimo romanzo di Alice Walker. Sud degli Stati Uniti, primi del Novecento: Celie è una ragazzina di 14 anni che a seguito delle violenze subite da parte del padre dà alla luce due bambini, un maschio e una femmina, che le vengono brutalmente strappati... The Jackie Robinson Story Narra le vicende reali di Jackie Robinson, primo giocatore afroamericano a giocare nella Major League Baseball in epoca moderna, dalla sua giovinezza fino all’esordio nel 1947 e la sua successiva affermazione come sportivo nonostante le numerose difficoltà legate alla segregazione razziale. La vicenda si conclude con la narrazione della testimonianza, realmente avvenuta, del giocatore di fronte alla Commissione per le attività antiamericane... Mississippi Burning Film del 1988, diretto da Alan Parker e interpretato da Gene Hackman e Willem Dafoe, ispirato all’assassinio degli attivisti per i diritti civili del Mississippi, avvenuto nella contea di Neshoba, Mississippi, nella notte tra il 21 e 22 giugno 1964. Nel giugno del 1964 tre giovani attivisti per i diritti civili degli afroamericani (African-American Civil Rights Movement) non fanno ritorno dopo essersi recati nella contea di Jessup, Mississippi, per istruire gli appartenenti alla comunità nera all’iscrizione nei registri elettorali; l’FBI, all’epoca diretto da J. Edgar Hoover, invia sul posto i due agenti Rupert Anderson e Alan Ward, per indagare sulla loro scomparsa. I due agenti sono agli antipodi in tutto, per formazione, età e provenienza e la strada che devono intraprendere, spesso in contrasto tra loro, è molto pericolosa, confrontandosi dapprima con l’omertà delle autorità e degli abitanti di fronte alle molteplici brutalità perpetrate contro la popolazione nera, e successivamente con gli uomini del Ku Klux Klan, presenti in ogni ganglio della piccola contea, compresi lo sceriffo e il suo vice... Malcolm X È un film del 1992 diretto da Spike Lee, basato sull’autobiografia del leader afroamericano con la collaborazione di Alex Haley. Quest’ultimo non vide il film ultimato, poiché morì il 10 febbraio 1992. Per assistere alla prima del film Spike Lee invitò tutti gli afroamericani a scioperare e a marinare la scuola, dichiarando “Vi insegnerò una parte di storia americana che finora è stata tenuta nascosta”... Il momento di uccidere A Time to Kill, del 1996, diretto da Joel Schumacher, vede protagonisti Sandra Bullock, Matthew McConaughey, Samuel L. Jackson e Kevin Spacey ed è tratto dall’omonimo romanzo di John Grisham. Mississippi. Due bianchi razzisti, Billy Ray Cobb e James Louis ‘Pete’ Willard, sequestrano e stuprano Tonia, una delle figlie di Carl Lee, un operaio afro-americano di bassa estrazione sociale, quindi, convinti di averla uccisa, la gettano da un ponte. La bambina però sopravvive, e i due vengono arrestati, ma nel corso di un colloquio con il suo amico Jake Brigance, avvocato difensore alle prime armi favorevole alla pena di morte, Carl viene a sapere che quasi sicuramente i due se la caveranno. Carl decide quindi di fare giustizia da solo. Selma - La strada per la libertà Film del 2014, di Ava DuVernay, rappresenta una rievocazione delle marce da Selma a Montgomery che dal 1965 segnarono l’inizio della rivolta per i diritti civili negli Stati Uniti. Barriere Fences è un film del 2016 diretto e interpretato da Denzel Washington. La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’opera teatrale del 1983, vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia. Troy Maxson è un’ex promessa del baseball che lavora come netturbino a Pittsburgh e vive una vita modesta, ma felice, insieme alla sua famiglia. Dopo il lavoro torna sempre a casa per insegnare ai suoi figli cosa è necessario fare per costruirsi un futuro, ma lo fa con toni spesso troppo accesi e rigidi... Moonlight Del 2016, scritto e diretto da Barry Jenkins, è basato sull’opera teatrale “In Moonlight Black Boys Look Blue” di Tarell Alvin McCraney. Il movie si è aggiudicato tre premi Oscar, per il miglior film, miglior attore non protagonista e per la migliore sceneggiatura non originale. Chiron, un bambino afroamericano originario di Liberty City chiamato da tutti “Piccolo”. La madre, Paula, invece di prendersi cura del figlio ama drogarsi e vivere nella lussuria. I due vivono insieme in un quartiere di Miami segnato da droga e violenza. Dopo l’ennesima fuga dal gruppo di bambini che lo deridono e lo spaventano, si rifugia in una baracca abbandonata e lì, per caso, incontra lo spacciatore Juan, un uomo che si prenderà cura di lui e che gli insegnerà quello che sa della vita... Ve ne sarebbero ancora di film del filone interazziale prodotti a Hollywood; questi forse lo rappresentano meglio, i gusti e la sensibilità di come uno crede nella lotta per i diritti civili tra i popoli sono altro. la Voce del popolo spettacoli T hriller o horror, horror o thriller? In attesa di una risposta che di solito sta nel mezzo, la risposta più inequibocabile arriva dai dati del box office che per Get Out! (Scappa!) rivela vagonate di dollari di guadagno a fronte di una spesa lievemente inferiore ai 5 milioni di dollari. Jordan Peele entra nella storia del Box Office Usa. Acclamato dalla critica, è riuscito ad incassare 153 milioni, che è il più alto incasso di sempre per un regista esordiente con una sceneggiatura originale. In questo, cosa che maggiormente interessa ai produttori, il regista Jordan Peele ha vinto. Parlare dell’”opera prima” scritta e diretta dall’attore comico (!?) Jordan Peele è molto difficile, giacché la pellicola nelle sue caratteristiche formali è molto legata allo svolgimento della trama. La maggior parte dei critici hanno definito il lungometraggio più un thriller, che un horror, dato che vive ed evolve più in una progressiva tensione psicologica che in senso orrifico, sfiorato leggermente solo nel finale. Peele riesce a catturare lo spettatore grazie al crescendo perfettamente calibrato di un’atmosfera angosciosa e angosciante e insieme perfettamente plausibile. L’inferno in cui si viene a trovare suo malgrado il protagonista Chris (prova magistrale del giovane Daniel Kaluuya) è fatto di tranquille strade di campagna, di lussuose villette isolate, di famiglie benestanti le cui vedute liberal sono anche più inquietanti delle opinioni conservatrici dei loro opposti ideologici. La superficie fragile della normalità in Get Out non s’incrina per lasciar trasparire il male, è essa stessa il male. I ribaltamenti di prospettiva che svelano la vera identità dei personaggi in scena sono soltanto funzionali al genere cinematografico, perché fin dal principio il pubblico può “sentire” la tensione/orrore pulsante di un tessuto sociale – ma prima ancora mentale – marcio. La genialità di Peele è che riesce a fondere tre fattori le cui note sfumate conferiscono al film la sua più completa originalità. Da una parte l’attenuazione della dimensione orrifica, giacché poche volte si rimane sorpresi, sbigottiti o impauriti da sequenze critiche studiate ad hoc, a volte anche un po’ ingenue: la tensione è lieve, ovattata, spesso prevedibile, eppure efficace e “divertente” nel suo montare verso l’acuto finale. A spezzare ulteriormente l’atmosfera cupa c’è una specie di ironia dark che a volte si maschera dietro la stranezza di situazioni imbarazzanti che lasciano perplessità al protagonista Chris (e che daranno vita e faranno montare le sue paranoie), a volte s’impersonifica nelle telefonate “black” tra Chris stesso e il suo amico Rod. martedì, 30 maggio 2017 NOVITà || La presentazione di Chris alla famiglia GET OUT! Un caPeeleavoro || Chris, il protagonista: l’ottimo Daniel Kaluuya DUE FILM AL PREZZO DI UNO: JORDAN PEELE FA CENTRO AL SUO DEBUTTO. IL BOX OFFICE GLI DÀ RAGIONE, STRACCIATO OGNI RECORD PER UN DEBUTTANTE Un pizzico di satira politica Le critiche in America sullo sfondo vedono un pizzico di satira politica. Infatti Scappa - Get Out è una denucia thriller-ironica contro l’ipocrisia del moderno liberalismo made in Usa. Si parla di razzismo, tangibilmente ancora presente nella società americana, attraverso la caricatura eccessiva degli stereotipi sia da una parte (la “bianca” famiglia Armitage ha votato Obama, anche se poi si rivela essere fatta di tutt’altra pasta), sia dall’altra (la razza nera di Chris ha più potenza fisica e 7 || Jordan Peele, durante le riprese del film || L’inquietante cameriera Georgina sessuale nelle conversazioni sullo sport). Quando si affronta il tema del razzismo nella società Usa quasi sempre l’approccio scelto è quello più rassicurante del racconto al passato, dei momenti più salienti della lotta per i diritti civili, con l’intento di mostrarlo presente, ma in un “altro” tempo. Get Out a conti fatti ha il coraggio di mettere in scena, tra le maglie del nostro presente, sviscerandolo, il perbenismo ipocrita di un modo di vedere “bianco” che sconfina nel paternalismo odioso, avvalorato dal politically correct. Peele, autore anche della sceneggiatura, sbugiarda questo velo di menzogna con un film agghiacciante, lucidissimo nell’esposizione delle psicologie, provocatorio quando costringe lo spettatore a sorridere anche dell’ottusità dell’opposto punto di vista, quello afroamericano che forse si è ormai adagiato all’idea di essere semplicemente “accettato”. Il risultato è un film piacevole, per niente stressante (nulla da spartire con gli horror più classici, quelli che ti fanno sobbalzare dalla sedia), la cui dimensione impegnata assorbe tutte le originali peculiarità che potevano essere sviluppate, alla scenografia, sobria, oscura, ma non troppo, fino ai momenti ansiogeni, sempre contenuti e come se avessero u silenziatore, smorzati. Molto azzeccata l’interpretazione e la profondità psicologica di Daniel Kaluuya, la voce e il volto di Chris, e del restante diabolico cast di cui va citato lo sguardo della cameriera Giorgina, dal caratterista Stephen Root, il “compratore”, a Catherine Keener, la suocera che nessuno vorrebbe avere. Complessivamente guardando Get Out è un film da vedere senza troppe aspettative perché si tratta di un’interessante opera prima originale, impegnata, acerba che lascia intravedere un talento registico con le carte in regola per farsi sentire ancora. Aspettiamo la riprova magari in qualche altro campo della società americana. Non in un tema molto, troppo, caro a Hollywood. 8 spettacoli martedì, 30 maggio 2017 CRITICA la Voce del popolo di Dragan Rubeša LOSMARTPHONE COME OSTACOLO ALL’INTERAZIONEUMANA NEL FILM «PERFETTI SCONOSCIUTI», IL REGISTA PAOLO GENOVESE UTILIZZA I MECCANISMI DEL COSIDDETTO «KAMMERSPIEL» lo spettatore, che ascolta i dialoghi delle coppie più o meno in crisi, cioè disfunzionali - una parola così cara al cinema Amerindie (American Independent Cinema). Quante famiglie disfunzionali abbiamo già visto in tutte le versioni possibili nella genesi della produzione “indipendente“ made in USA che, effettivamente, non conosce una vera e propria indipendenza, bensì meramente accetta diversi gradi di dipendenza. Simile a una pièce teatrale Il film di Genovese si configura fin dall’inizio come una pièce teatrale. I primi problemi appariranno in una discussione legata a un adulterio. La sua ombra cadrà pure sui protagonisti nel momento in cui decideranno di giocare una versione di Truth od Dare (Obbligo o Verità). Infatti, il filo rosso del film è l’idea secondo la quale trascorriamo sempre meno tempo in interazione diretta con le persone care, mentre nello spazio virtuale comunichiamo con persone che forse non incontreremo mai. D’altro canto, le app e i cellulari spesso celano il nostro “io” segreto. Per questo motivo, il titolo del film è ironico, in quanto spesso accade che individui risultino estranei alle persone che sono loro più vicine. Le regole del gioco sono semplici: nel corso della serata tutti devono tenere i cellulari sul tavolo e leggere pubblicamente ogni messaggio ricevuto. Per confermare di non avere segreti tra di loro, gli ospiti accettano di partecipare al gioco, anche se la loro comunicazione è ambivalente poiché i messaggi e le conversazioni sono spesso fuori contesto e offuscate da opinioni soggettive e da sospetti degli altri, il che può portare a interpretazioni e conclusioni sbagliate. Per questo motivo, le tensioni sono inevitabili e Genovese le costruisce in maniera dinamica. La notte dell’eclissi di luna nella quale si svolge la loro sessione ha un effetto simbolico, in quanto indica l’ombra/l’occultamento, in completa antitesi con il loro palesamento. Comunicazione attraverso lo smartphone I l pioniere del cinema indipendente americano, John Sayles, aveva scoperto già agli sgoccioli degli anni Settanta del secolo scorso la formula magica per girare un film a basso costo, molto tempo prima che diventasse un fatto di prestigio essere ammessi nel programma del Sundance Film Festival. Una delle regole è quella di stipare i protagonisti in una stanza isolata e farli parlare dei loro problemi e insicurezze. I pretesti per il loro raduno sono vari: dall’anniversario dell’esame di maturità alla festa in occasione di Thanksgiving la Voce del popolo Anno 3 / n.17 / martedì, 30 maggio 2017 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] SPETTACOLI Edizione Caporedattore responsabile f.f. Roberto Palisca Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Vanja Dubravčić Collaboratori Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Fabio Sfiligoi Foto Creative Commons (Giorno del Ringraziamento) che riunisce i membri della famiglia disseminati un po’ ovunque. Sayles utilizzò questa strategia già nel 1979 nel suo film Return of the Secaucus 7, molto influente, anche se questa è attuale anche oggigiorno nei film “da camera” (kammerspiel) come Carnage, di Roman Polanski, The Party, diretto da Sally Potter, oppure Juste la fin du monde (È solo la fine del mondo), di Xavier Dolan. Da Polanski si riuniscono due coppie di coniugi. Il figlio della prima coppia ha maltrattato quello della seconda. Da Potter, il motivo del raduno è una festa organizzata dalla protagonista per i suoi amici per celebrare il suo nuovo incarico di ministro nell’ombra nel Parlamento britannico. Da Dolan, invece, un figlio molto malato ritorna a casa dopo 12 anni per annunciare a sua madre e ai suoi familiari la propria morte. Qui il volto passivo del figlio diventa un calmo contrappunto alla loro logorrea in cui l’empatia viene sabotata automaticamente dalla loro incapacità di ascoltare, in quanto, come dice sua madre in preda all’isteria, “La prossima volta ci prepareremo molto meglio”. Naturalmente, l’opus di Dolan rimane ancora insaziabile nella licenziosa fusione di energia e vertigine, flussi di parole, euforia ed elegia, mentre l’autore ironizza con malizia sulle disfunzionalità familiari. Sette vecchi amici a cena Meccanismi simili a quelli del kammerspiel vengono utilizzati anche da Paolo Genovese nel film Perfetti sconosciuti, anche se il pranzo nel giardino della casa di famiglia è sostituito con una cena di sette vecchi amici ossessionati da crisi grandi e piccole, riuniti nel gioco di cellulari e selfie, durante la quale vengono a galla segreti, bugie, tradimenti, ipocrisie, frustrazioni e ire. Durante tutto il film, i sette amici quasi non si alzano da tavola. Metti una sera insieme a cena il tassista Cosimo, la sua giovane consorte Bianca, il chirurgo Rocco sposato con la psicologa Eva, il consulente legale Lele, sua moglie Carlotta e, per finire, Peppe, l’insegnante di educazione fisica, disocuppato e un po’ sfigato che, con grande disappunto di tutti, si presenta senza la sua nuova fiamma. Una tavola apparecchiata per otto dove l’ottavo componente è Rimane ambiguo anche il finale del film, come lo è pure quello dell’ultima, geniale, pellicola di Olivier Assayas, Personal Shopper. Anche quest’ultima parla di comunicazione attraverso lo smartphone. E mentre la protagonista di Assayas è perseguitata da un’entità misteriosa - per cui il regista vede la comunicazione tramite smarphone come una semplice sessione spiritistica, che è un’ossessione uditiva e psicologica, ma anche erotica - i personaggi di Genovese utilizzano i telefonini in maniera più diretta e, a prima vista, senza celare segreti. Ciò che collega i protagonisti di Assayas e Genovese è l’impossibilità di instaurare qualsiasi altro contatto che non sia quello in cui il cellulare prende il ruolo di media. Però, a differenza di Assayas, il rapporto tra i protagonisti di Genovese si troveranno infine nel vicolo cieco dell’insegnamento morale sui rapporti tra amici e familiari, quando le mura di casa sembrano rinchiudersi sempre di più attorno ai personaggi, dando la claustrofobica sensazione in un simulacro di realtà costruite su misura. Della commedia non rimane un elemento di disturbo, ma l’idea del film come un meccanismo perfetto, come un cerchio in cui tutto si chiude. Tutto ciò viene mascherato dalla bravura e dall’impegno degli autori, soprattutto dai bravissimi Alba Rohrwacher, Valerio Mastandrea e Giuseppe Battiston, come pure dai dialoghi ben strutturati e un ritmo equilibrato nell’andamento della storia.