La vita è uno schifo di Léo Malet Fazi Editore Tascabili L’opera è il capostipite del noir francese, con una sua originalità troppo spesso non adeguatamente riconosciuta, rispetto al giallo e al poliziesco. L’autore è il Maigret francese, che talora lo supera nell’acutezza e nella complessità psicologica, anche se molto meno noto al grande pubblico. La vita è uno schifo è stata scritta alla fine degli Anni Quaranta del Novecento e poi riunita nella Trilogie Noire andata in stampa alla fine del 1969 dall’editore Eric Losfeld. La sovra copertina era del pittore Magritte e oggi quella pubblicazione appare come un evento letterario per varie ragioni, a cominciare dalla casa editrice La Terrain Vague (terra di nessuno) che pubblicava e riscopriva autori maledetti come Boris Vian. Una testimonianza dell’autore evidenzia quando Léo Malet tenesse a questo romanzo e mette in evidenza alcuni messaggi: il protagonista, Jean Fraiger, è tanto sanguinario quanto tenero, un personaggio che finisce in scacco; smascherato dall’analisi dello psicanalista del quale lo scrittore confessa aver provato il fascino. La dimensione onirica, delirante serpeggia nell’opera, attingendo alla cultura surrealista che ha contaminato l’opera di Malet e che l’autore ha frequentato da vicino, come testimoniano delle lettere critiche di René Magritte su questo testo. La storia è semplice e se vogliamo banale: un gruppo di anarco-comunisti sostiene con furti e rapine il proprio credo: l’illegalità come strumento per ristabilire la giustizia, la propria giustizia e quella del gruppo di appartenenza. Per ammissione dello stesso Léo l’ideologia si rovescia presto in azioni di criminalità comune, con una banalizzazione del male. L’assunzione che la vita sia uno schifo e la frase, pronunciata dal protagonista, torna come un refrain nel corso delle pagine, rende naturale compiere il male come se non si potesse fare diversamente. L’ascendenza della filosofia di De Sade si sente ma mentre il Marchese tranquillizzava le proprie amiche dicendo che “il lupo non mangia la carne del lupo”, qui il gruppo sfuma come valore di solidarietà, di amicizia, di complicità ma si disegna solo come insieme di ingranaggi funzionali alla macchina e ad un piacere immediato, come una bevuta insieme, che può disgregarsi da un momento all’altro. Una spirale di violenza non aliena da qualche goffaggine. Alla violenza spietata che stimola altra violenza – le stesse cronache di quei giorni parlano di un crescendo perché probabilmente il fatto che tanti crimini restino impuniti dà coraggio a criminali in potenza – c’è la vita intima del protagonista. Un uomo debole e perfino tenero in certi momenti, di un’ingenuità senza romanticismo ma più vicina al delirio: l’amore per una donna bellissima e sfuggente, rimembranza dell’amour fou surrealista, che è autodistruttivo. Un epilogo tragico quanto malinconico che si conclude con le parole del protagonista <<mi sarebbe tanto piaciuto vivere>>. Perché forse quell’orgia di erotismo e di violenza è un frastuono che lascia poi nel silenzio della solitudine. In certi momenti ricorda l’esistenzialismo di Albert Camus nell’Etranger dove però l’estraneità ha lasciato il posto alla rabbia e ad un’aggressività senza confronti e senza lucidità. E’ uno spietato ritratto del Novecento per alcuni aspetti tristemente premonitore di Atti casuali di violenza insensata, per dirla con il titolo di un’opera di Womack. Nello stesso tempo però c’è anche la misura e la ricercatezza di un francese che usa molto l’Argot e che evidenzia anche con la lingua la distanza del protagonista dalla donna amata, il suo senso di marginalizzazione e di inferiorità, compiendo così sottilmente un’analisi, senza pedanteria, sociale e psicologica, che poi in modo spicciolo e immediato lo psicanalista porta alla luce alla fine del romanzo.