le condizioni antropologiche del potere politico: simpatia e pietà in

LE CONDIZIONI ANTROPOLOGICHE DEL POTERE POLITICO:
SIMPATIA E PIETÀ IN HUME E ROUSSEAU
Quando si riflette sullo statuto dei sentimenti morali e sociali nel Secolo dei Lumi si pensa
piuttosto allo svelarsi della natura emotiva o sensibile dell’essere umano che a un secolo buio e crudele,
segnato dagli aspetti più tragici e sregolati del cittadino “illuminato” – a meno di riferirsi al pensiero di
Sade. Il legame fra sentimenti sociali e morali nella seconda metà del Settecento è stato definito e
studiato secondo prospettive diverse. Resta invece relativamente inesplorato l’ambito dei rapporti tra i
sentimenti sociali e la sacralizzazione del potere sociale, per poi analizzare le condizioni antropologiche
del potere politico o i suoi residui irriducibilmente teologico-politici all’interno del celebre processo di
secolarizzazione del politico nell’Illuminismo. Il nostro scopo è quello di concentrarci su un episodio
circoscritto di questo vasto ambito teorico. A partire da un confronto tra la nozione di simpatia in
Hume e la nozione di pietà in Rousseau, ci si può interrogare sul fatto che il paragone fra gli individui
nella vita sociale dà luogo a fenomeni d’identificazione e d’imitazione, cioè a forme di consenso politico
che annullano la portata conflittuale del confronto tra condizioni sociali di ineguaglianza senza
annullare l’origine problematica della diverse forme di civiltà. E’ la complessità dei rapporti storici tra
civiltà e violenza, la minaccia dell’irruzione imprevista di una violenza rimossa all’interno delle forme di
civiltà meglio costituite che sarà oggetto delle considerazioni che seguono.
Queste riflessioni possono anche aprire il cammino a uno studio del ruolo che una morale
secolare e una politica senza fondamento trascendente devono riservare alla potenza, all’autorità e alla
ricchezza, e di conseguenza alle passioni che ne derivano, come la vanità, l’ambizione, l’amor proprio o
l’orgoglio. Nonostante la loro appartenenza a universi teorici e a tradizioni filosofiche distanti fra di
loro, Hume e Rousseau hanno condiviso lo sforzo di sviluppare una scienza della natura umana.
Entrambi devono perciò postulare l’universalità della natura umana prendendo le distanze, ciascuno
con modalità diverse, dalla tradizione giuridica del diritto naturale; entrambi abbandonano il
razionalismo puro e conferiscono un posto cruciale ai sentimenti nella costituzione della socialità. Infine
si può ritrovare in entrambi i filosofi l’esigenza di una reciprocità tra i partner di ogni relazione affettiva,
senza che intervenga un’asimmetria costitutiva di tipo antropologico o sociale nello svolgimento della
vita emotiva. Questa ricerca comune dell’universalità della natura umana impone, almeno in teoria, la
necessità di eliminare ogni differenziazione e discriminazione fondata sul sesso, la “classe sociale”, la
razza o la natura – basti pensare al dibattito teorico sulla schiavitù.
Più precisamente nel campo dell’affettività l’individuo “simpatico” o “degno di pietà” si
definisce in termini estetici, come in uno spettacolo: può essere sia attore che spettatore, sia agire che
essere guardato come individuo che agisce o che subisce. Si tratta di un requisito formale che ci
consente di rendere più comprensibile il fenomeno della sensibilità comune. Nella nostra riflessione, a
metà strada fra morale e politica, dobbiamo di conseguenza far posto a delle considerazioni richiamate
dal paradigma dello spettacolo il cui carattere estetico non è del tutto privo di ambiguità. Ci dovremo
porre proprio sul terreno di questa ambiguità e sviluppare la tesi secondo la quale entrambi i filosofi
illuministi analizzano all’alba della società industriale e da precursori il carattere feticista per non dire
decisamente religioso dell’”estetizzazione della distanza sociale”, fenomeno che sarà affrontato solo in
seguito dall’antropologia e dalla sociologia del sacro.
La tesi appena descritta della reciprocità e della reversibilità dei partner di una relazione affettiva
– vero e proprio ideale di emancipazione radicato nell’inconscio collettivo – perde la propria unità
perché per Hume sono i ricchi e i potenti che ne costituiscono l’unità di riferimento affettiva, mentre
per Rousseau sono gli individui che soffrono e non hanno potere, degni di pietà. Sono due momenti
teorici importanti per entrambi i dispositivi concettuali. Le due tesi sollevano, ognuna a suo modo, il
problema della non reciprocità all’interno di un meccanismo che dovrebbe preservare la reciprocità
nella vita affettiva. Questo perché accanto al senso naturale orientato verso l’interesse personale
dell’individuo, la pietà e la simpatia dovrebbero poter istituire un’affettività senza norma, o almeno
senza norma totalizzante e trascendente.
1
In un tale contesto teorico che cosa c’è di singolare, di sorprendente, nel caso di Hume? Prima
di tutto alcuni luoghi in cui viene teorizzato il concetto di simpatia. Nel Trattato sulla natura umana i due
luoghi principali in cui si trova analizzato questo meccanismo-chiave si trovano nel libro II, dedicato
alle passioni, più precisamente nelle due sezioni intitolate rispettivamente L’amore della fama e La nostra
stima per i ricchi e i potenti. Colpisce il fatto che la simpatia sembra intervenire laddove la probabilità del
conflitto dovrebbe essere massima nel quadro della vita della passioni, perché sappiamo che da
Aristotele a Machiavelli i rapporti fra ricchi e poveri sono il fulcro di ogni conflitto sociale.
La simpatia sembra quindi capace di disinnescare la violenza passionale nel cuore stesso del suo
esercizio, nel campo delle passioni che tradizionalmente rimettevano in causa il buon funzionamento
della socialità, come la vanità, l’odio o l’invidia. In primo luogo dobbiamo precisare che per simpatia
non si devono intendere né benevolenza né altruismo né amicizia, sentimenti che Hume è attento a non
confondere e di cui tiene a precisare le rispettive carature concettuali. Per simpatia Hume intende la
comunicazione affettiva che riveste spesso la forma d’imitazione o anche di contagio dei sentimenti, e
che conduce a fenomeni d’influenza e in certi casi di identificazione1. Può assumere dei connotati
positivi, costruttivi del legame sociale, quanto dei connotati negativi il cui esempio sarebbero il contagio
passionale o il fanatismo, diremmo con la terminologia dell’epoca l’”entusiasmo”, che è stato del resto
oggetto di un saggio di Hume, Della superstizione e dell’entusiasmo. Si tratta di uno studio di come
l’influenza, o le opinioni, le emozioni e tutte le passioni sono condivise spontaneamente dagli individui,
con una forza che è proporzionale all’adesione personale di ciascuno ai propri sentimenti e alle proprie
passioni. E’ in questo modo che Hume definisce l’amor proprio, spiegando che “il piacere che
riceviamo dalle lodi proviene da una comunicazione di sentimenti”2. La nostra attenzione si deve
soffermare sul carattere spontaneo e disinteressato di questa qualità, di questa disposizione la cui
spontaneità esclude l’esistenza di una mediazione intellettuale, cioè di una rappresentazione che
potrebbe solo alterare il carattere immediato della risposta simpatica.
La simpatia non è dunque un sentimento o una passione fra altri, è la qualità sociale di tutte le
passioni, è coestensiva a tutto il campo della passioni che, secondo Hume, sono per natura entità in
movimento perpetuo, la cui circolazione, la modificazione e la trasformazione permanenti rendono la
vita affettiva spesso disordinata e anarchica, quindi difficile da regolare. Hume è proprio in cerca di
regolarità e di regolazione, di forme diverse di relazioni possibili fra le passioni, in modo che il
passaggio da una figura passionale all’altra non si effettua grazie alla casualità degli incontri, ma si
cristallizza in forme più o meno stabili. Il formalismo morale assoluto, infatti, è assente in Hume. Vi è
piuttosto la tendenza che hanno gli individui ad adottare le intensità affettive provate da altri esseri
umani, solo perché ne sono testimoni da vicino o da lontano:
“nessuna qualità è più degna di nota nella natura umana (…) della nostra propensione a
simpatizzare con gli altri e a ricevere per comunicazione le loro inclinazioni e i loro sentimenti, anche
quelli diversi dai nostri o contrari ai nostri. Questa qualità non è solo lampante nei bambini che
accolgono senza riflettere ogni opinione che viene proposta loro, ma anche negli uomini altamente
giudiziosi e di grande intelligenza, che ritengono difficile seguire la propria ragione o inclinazione,
quando essa contraddice quella dei loro amici o dei loro conoscenti abituali”3.
Questa tendenza vale in realtà per ogni essere dotato della facoltà di sentire. Hume non esclude
neppure la possibilità di una simpatia “antropomorfa” nel caso degli animali, poiché il fenomeno della
simpatia regge anche le leggi della loro sensibilità. Per questo motivo si può affermare che
l’investimento affettivo del legame sociale è teorizzato in partenza “al di là del bene e del male “, nel
senso che il conflitto stesso4 assume una forma socializzante, e non è mai semplicemente fonte di
distruzione dei rapporti sociali.
1
2
P. Macherey, voce Sympathie in Dictionnaire de philosophie politique, PUF, 1996, p. 657.
D. Hume, A treatise of human nature, Libro II, a cura di L.A. Selby-Bigg, P.H. Nidditch, Clarendon Press, Oxford 1978.
David Hume, A treatise of human nature , cit ..
Jean-.Pierre Clero, Hume, une philosophie des contradictions, 1998, p. 190, «On aurait grand tort de supposer que la sympathie
est nécessairement douce et tendre; elle est aussi certainement condition d'incomfort (II, 162), de haine (II, 300), de jalousie,
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L’attenzione è posta quindi sui giudizi di fatto e non sui giudizi di valore, sul fatto che il nostro
mondo morale e sociale è composto d’armonia e di conflitti, conflitti che gli individui passionali
affrontano effettivamente e superano con maggiore o minore successo, ogni volta che un rapporto
passionale stabile ha la meglio per qualche tempo e si traduce in abitudine o anche in istituzione. La
negatività del conflitto passa in secondo piano a vantaggio di un’analisi della sua funzione costruttiva e
non solo distruttiva dei rapporti sociali. La consuetudine e la credenza, grandi guide della vita umana
secondo Hume, permettono proprio di affrontare l’instabilità della vita affettiva. Bisogna ugualmente
sottolineare il carattere universale e naturale di questa “qualità” i cui principi assomigliano molto alle
leggi naturali che reggono l’insieme del mondo vivente. A partire da quest’osservazione siamo in grado
d’introdurre l’ipotesi che la simpatia humiana sia in grado di riallacciarsi al suo lungo passato di
principio cosmologico e biologico.
La simpatia costituisce quindi una vera forza, un principio d’intersoggettività, dal momento che
la formazione di un’identità pratica, le figure dell’Io e dell’Altro ne dipendono. Essa può anche essere
qualificata come infra-individuale, poiché attraversa il campo delle passioni rendendole sociali, senza
costituire una proprietà personale dell’individuo, basata su un rapporto immutabile di forze psichiche.
Come abbiamo appena visto la simpatia non ha un significato immediatamente morale, l’idea di una
linea di demarcazione netta fra i sentimenti buoni e quelli cattivi, nel senso di moralmente approvati o
disapprovati non ne fa parte. Invece ha un significato politico e soprattutto economico, che traspare
nelle riflessioni che Hume dedica a un argomento comune all’epoca: il problema della distinzione dei
ranghi nella società, al quale J. Millar ha dedicato un saggio5. Adam Smith ha sfruttato la via aperta da
Hume sull’importanza politica della simpatia per fare accettare le distinzioni sociali e rendere visibili i
gruppi sociali che ne risultano.
Nella sezione del Trattato sulla natura umana dedicata alla stima e all’amore, e anche al fascino che
gli individui subiscono davanti alle persone di condizione sociale superiore alla loro, Hume ne cerca le
cause e le classifica in tre categorie. Si tratta o della soddisfazione provata davanti agli oggetti di valore o
agli oggetti piacevoli che costituiscono l’essenza della ricchezza e del potere o dell’interesse, del profitto
che si trae dalla benevolenza dei ricchi e dei potenti, o infine della simpatia che ci comunicano i
sentimenti e gli affetti dei proprietari e dei detentori di forza e prestigio sociale.
Hume esclude le due prime possibilità perché non esauriscono in alcun modo il campo del reale.
E’ bene ricordare con insistenza che Hume non si situa in una prospettiva di legittimazione o di
giustificazione. Cerca solo di fornire la ragione delle regolarità, degli schemi efficaci o delle forme
vivibili degli agglomerati sociali che l’abitudine ha sancito. L’idea di un oggetto di valore rimanda
direttamente, a causa della connessione con l’idea di proprietario, all’idea di quest’ultimo, e quindi alla
partecipazione simpatica alla sua soddisfazione. Quanto all’ipotesi di un piacere interessato, per quanto
possibile, non è sostenibile, perché nella maggior parte dei casi non c’è nessun legame di amicizia o di
parentela che ci consenta di sperare in un beneficio da parte degli individui al vertice della gerarchia
sociale e economica. Hume inizia a mettere in dubbio la validità teorica dell’argomentazione, comune a
La Rochefoucauld e a Hobbes, secondo la quale tutti i fenomeni di benevolenza e più in generale tutte
le virtù sociali sono sintomi di un amor proprio più o meno velato. Gli resta solo l’ipotesi di una
simpatia con i sentimenti e le passioni del grande proprietario o dell’alto dignitario.
Ciò che la simpatia comunica è il piacere e il potere che il beneficiario trae dalle cose che gli
appartengono o dall’importanza delle sue funzioni. Hume lascia intendere che ci si può perfino
identificare con quegli individui la cui esistenza non comporta nessun tipo valore o di eccellenza
morale. L’attrazione irresistibile che costoro esercitano, così come la repulsione analogamente
spontanea che provocano le persone di origine modesta, definiscono e ordinano – normalizzano – il
campo sociale e ne costituiscono l’unità di misura delle passioni. E’ davvero impressionante vedere
come le leggi del funzionamento della simpatia su questo punto preciso, con l’attrazione e la repulsione
che ne reggono lo svolgimento, assomiglino stranamente alle leggi fisiche o agli schemi cosmologici
de la joie cruelle ou lâche de sentir qu'on est soi-même épargné d'un malheur qui frappe autrui (II, 224-5, 231 ; III, 218). La
joie d'un autre me fait souvent autant souffrir que sa tristesse me réjouit».
5 J. Millar, The Origin of the Distinction of Ranks, Liberty Fund, di prossima pubblicazione.
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antichi, pensiamo alla philia e al neikos di Empedocle, ma anche alle più vicine nel tempo leggi chimiche
delle “affinità elettive” di Goethe, che all’epoca la fanno da padrone in tutta l’Europa.
Tramite la simpatia Hume spiega la formazione di un carattere nazionale comune, l’esistenza di
usanze comuni, piuttosto che a partire da cause fisiche (clima, suolo), provvidenziali o giuridico- morali.
I gruppi sociali, differenziati soprattutto da fattori economici, sono rinsaldati da legami passionali di
natura simpatica che sorgono fra individui di statuto sociale diverso senza sfociare tuttavia sulla fusione
affettiva delle personalità distinte in una psiche collettiva, tesi centrale della sua antropologia delle
passioni economiche. Questa concezione liberale della solidarietà sociale – che ricorda stranamente la
solidarietà differenziale della sociologia durkheimiana di un secolo e mezzo posteriore – comporta
allora come abbiamo appena constatato una dimensione di culto, quasi religiosa o sovrumana, che
riguarda il prestigio sociale; si tratta di une vero momento d’anomalia teorica all’interno del liberalismo
humiano, poiché dopo la critica di ogni istanza trascendente a garanzia dell’ordine sociale, i sentimenti
sociali sono di nuovo legati ai sentimenti religiosi.
E Rousseau? La pietà roussoviana è una nozione vicina a quella della simpatia a causa del suo
carattere ugualmente spontaneo e irriflesso. Anch’essa fa a meno della rappresentazione razionale come
motivo dell’identificazione o dell’adesione ai sentimenti altrui. Anche Rousseau è alla ricerca di una
normalizzazione affettiva dei rapporti sociali, con la differenza che dato il dualismo dello stato di natura
e dello stato sociale, il linguaggio simbolico dei sentimenti, o in altri termini le forme d’ordine che
reggono spontaneamente lo svolgimento della vita affettiva, è garantito dal loro carattere naturale.
Perciò le passioni veramente “naturali” possono servire da criterio per riattivare quella parte dell’ordine
naturale che è cancellata nell’ordine artificiale dello stato sociale.
Nella prefazione al Secondo discorso Rousseau descrive i due principi affettivi anteriori al tempo
stesso alla ragione e alla socialità:
“Meditando sulle operazioni originarie e più semplici dell’animo umano, credo di percepire due
principi anteriori alla ragione, uno dei quali riguarda fortemente il nostro benessere e la nostra
conservazione, e l’altro ci ispira una ripugnanza naturale a vedere soffrire ogni essere sensibile e
principalmente i nostri simili. Il concorso e la combinazione che il nostro spirito è in grado di fare di
quei due principi, senza che sia necessario farvi entrare quello della socialità, che mi sembrano
discendere tutte le regole del diritto naturale, regole che la ragione è in seguito costretta a ristabilire su
altri fondamenti quando con i suoi sviluppi successivi è giunta a soffocare la natura”6.
Secondo le analisi di V. Goldschmidt7 si può affermare che Rousseau vede in ciò un istinto
vitale, un principio quasi biologico per cui l’uomo si identifica ai suoi simili in quanto essere vivente,
prima di giungere a formarsi l’idea dell’Io e dell’Altro e a rappresentarsi degli individui distinti, in altri
termini prima di poter utilizzare pienamente la ragione.
Rousseau non fa dello stato di natura una prefigurazione dello stato sociale, ma dà uno statuto
distinto all’uomo naturale in quanto essere vivente la cui conservazione è limitata dalla tendenza a
rispettare istintivamente la conservazione della propria specie e, più in generale, da una solidarietà
affettiva nei confronti di tutti gli esseri viventi. Resta aperta la questione dei rapporti di Rousseau con la
“biologia” dell’epoca, in altri termini la storia naturale. I rapporti stretti che Rousseau intrattiene con
l’opera teorica di Buffon non sono sufficienti a rispondere all’insieme dei problemi posti dalla sua teoria
del vivente. La sua originalità consiste, fra l’altro, in una concezione della pietà che rimette in causa le
frontiere ammesse fra specie biologica e specie morale, tra sensibilità e sentimento.
Nella terminologia stessa di Rousseau, nello stato di natura “la pietà sta al posto della legge, dei
costumi e della virtù, con il vantaggio che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce”8. Merita
sottolineare che questo impostazione rifiuta nettamente la nozione di un socialità che prefigura la
società nella natura, perché non lascia alcun posto a un intervento della ragione. Non è più la ricchezza
J. J. Rousseau, Discours sur l'origine et le fondement de l'inégalité parmi les hommes, 1964, pp. 125-6.
V. Goldschmidt, Anthropologie et politique, les principes du systéme de Rousseau, «le principe de pitié», Paris, Vrin, 1983, pp. 331356.
8 J.J. Rousseau, Discours sur l'origine et le fondement de l'inégalité parmi les hommes, op.cit., p. 156.
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o la proprietà come in Hume, è la debolezza della nostra natura in quanto esseri viventi e perciò
vulnerabili che rinsalda i legami fra gli uomini. Si tratta di una versione del tutto naturale della pietà.
Nell’Emile, il testo in cui Rousseau sviluppa la propria antropologia situandosi nello spazio
intermedio tra la pedagogia individuale e l’evoluzione delle istituzioni sulla scala del genere umano, il
processo di umanizzazione e di socializzazione si svolgono senza soluzione di continuità. La nostra
analisi conforta così la tesi del carattere sociale della pietà per cui la si può qualificare senza esitazione
come “sentimento sociale”, in cui si confondono l’ordine naturale e l’ordine artificiale. Da ciò deriva la
sua importanza per la costruzione di un’antropologia politica. Nondimeno la pietà è un sentimento
tragico o un sentimento del tragico nel senso forte del termine. Grazie a essa il concetto di uguaglianza
deve potere essere analizzato sul piano affettivo; in questa prospettiva ci si può chiedere che ne sarebbe
mai di una passione dell’uguaglianza o per l’uguaglianza dotata così di una dimensione tragica. In questa
configurazione teorica, non sarebbe privo di interesse procedere a un’analisi della nozione di sacrificio
all’opera nello spazio teorico occupato dalle figure dell’uomo e del cittadino.
“Perché il re è senza pietà per i propri sudditi? Perché conta sul fatto che non sarà mai uomo”9.
La disposizione egalitaria, democratica che esclude l’asimmetria gerarchica e l’ineguaglianza delle
condizioni per permettere il sorgere della pietà fa tutt’uno con l’esigenza di una stretta reciprocità degli
individui impegnati così nel processo di umanizzazione. Sono dei soggetti intercambiabili
indipendentemente dalle considerazioni di classe o di rango sociale, senza tener conto di alcun
privilegio, lanciati in un processo in cui la pietà attribuisce un contenuto all’umanità dell’uomo e ne
rende ragione dal punto di vista affettivo. Basandoci sullo stesso ragionamento possiamo raggruppare in
due tipi di passioni le reazioni emotive prodotte dall’asimmetria gerarchica delle condizioni che
separano gli uomini gli uni dagli altri, rivelando così le vere dimensioni del gioco di specchi inevitabile
tra superiorità e inferiorità, così come la sua inumanità evidente:
“Il piacere di vedere delle persone buone felici non si lascia turbare dall’invidia (…) poiché ci si
sente padroni di giungere fino a questo stato, (…) ne consegue che per portare un giovane all’umanità,
invece di fargli ammirare l’esistenza brillante degli altri, bisogna mostrargliela nei suoi aspetti tristi,
bisogna indurgli timore”10.
Bisogna evitare l’invidia da un lato e il disprezzo dall’altro. Due passioni che determinano i limiti
antropologici all’interno dei quali la pietà opera pienamente. La felicità dei grandi, dei ricchi, dei re, dei
filosofi che si credono al di sopra del popolo è una felicità solitaria, una felicità inumana in qualche
modo, perché impossibile da condividere con il resto degli uomini. Al limite è proprio il divenireinvisibile delle figure diverse della sotto-umanità, che secondo Rousseau impedisce la manifestazione
della pietà fra i ricchi ed i principi, così come è la paura condivisa, in modo egalitario in qualche modo,
ad attivare al massimo la manifestazione della pietà ragionata o riflessa.
Non è un caso che Rousseau, nelle pagine in cui sviluppa le sue tre massime sulla pietà, si
riferisca alla condizione animale paragonandola alla condizione umana. Di fatto l’uomo decaduto
dall’umanità è in una situazione peggiore dell’animalità perché reso inferiore dai propri simili che
vedono in lui qualcos’altro che un uomo, meno di un uomo. Senza la pietà gli uomini si classificano
immediatamente in due categorie, superuomini e sotto-uomini, e non ci sono più esseri umani davanti a
altri esseri umani.
Del resto, vediamo che si rafforza l’ipotesi di un parallelo fra la pietà di Rousseau e la simpatia
di Hume nei confronti dei ricchi e dei potenti. Rousseau invoca come secondo criterio il fatto che ci
sono sofferenze meritate e immeritate. Quelle dei ricchi sono in qualche modo il frutto del loro
orgoglio. Sono di conseguenza dovute al loro distacco rispetto alla condizione umana. Le sofferenza dei
ricchi sono il frutto del loro disprezzo : potremmo dire che in questa logica i potenti peccano sempre
per orgoglio, e che le loro sofferenze, di cui sono interamente responsabili, sono di fatto contro natura.
Vediamo così profilarsi una riflessione indissociabilmente antropologica e politica che lascia affiorare la
necessità di un principio non-giuridico capace di preservare l’eguaglianza naturale contro il veleno delle
passioni che esprimono l’avidità di potere, perché quest’ultima portando con sé delle sofferenze per i
9
Ibid., p. 90.
Ibid.
10
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ricchi diventa una sorta di hybris, un fenomeno contro natura. Possiamo allora constatare che la
dimensione tragica del sentimento di petà si traduce in un culto della povertà, cosa che è in qualche
modo il rovescio religioso della medaglia di ogni passione “cittadina” per l’uguaglianza iscritta in questa
tradizione roussoviana.
Per concludere, sono necessarie alcune osservazioni di sintesi. In primo luogo e nonostante i
piani differenti sui quali si situano i due autori, ci permettono tuttavia di passare, ognuno a suo modo,
da una psicologia sociale a un’antropologia politica centrata sulle passioni. La concezione humiana della
simpatia e la concezione roussoviana della pietà mostrano insieme a che punto le nozioni di simpatia e
di pietà presuppongano un passato. La teoria humiana della simpatia presuppone un regime di
commercio generalizzato, nel duplice senso del termine, di scambio e comunicazione, e un regime
d’opinione pubblica. Ma se il suo liberalismo consiste nella negazione dell’esistenza di ogni norma
prestabilita naturale o sovrannaturale, provvidenziale che ne possa predire o garantire il corso, il suo
trattamento della simpatia provata per il prestigio sociale dei ricchi e dei potenti evoca una
sacralizzazione della gerarchia sociale che si incontra specialmente nella scuola retrograda e
ultraconservatrice, il cui tradizionalismo circonda di un’aura di santità le funzioni sociali importanti.
Hume a disposizione di Joseph de Maistre.
Dall’altra parte non si può far a meno di constatare che Rousseau, mettendo l’accento sul
pericolo che minaccia ogni essere umano di ritrovarsi ridotto al livello della sotto-umanità, espone il lato
oscuro del pensiero illuminista. Secondo la sua prospettiva, senza lo sviluppo della pietà gli uomini si
dividerebbero presto in due categorie, superuomini sanguinari e sotto-uomini schiavi. Rousseau da
parte sua affermando che “i nostri bisogni comuni ci uniscono per interesse, le nostre miserie comuni ci
uniscono per affetto11” sembra far parte di quei pensatori che, fino a Marx e oltre, considerano i
rapporti di mercato distruttori dei rapporti sociali, almeno nella loro forma autentica. Ci costringe così a
soffermarci ancor più sulla questione delle origini del concetto di civiltà nel XVIII secolo, sui suoi
rapporti con il processo di secolarizzazione del politico e sui suoi legami con la pietà, prendendo le
distanze da un ottimismo naif. Nella prospettiva aperta da Rousseau lo spazio pubblico democratico
non può essere costruito senza il tragico né senza un certo feticismo della sofferenza e della miseria
umane, in altri termini senza un culto dei poveri i cui legami con il pensiero religioso cristiano diventano
sempre più attuali rivestendo forme di volta in volta inedite12.
Spiros Tegos
Docente Università di Patrasso, Grecia
(Tradotto dal francese da Adolfo Marino)
BIBLIOGRAFIA
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Rousseau Jean-Jacques, Discours sur l'origine et le fondement de l'inégalité parmi les hommes, Paris, nrf, 1964, [éd.
J.Starobinski].
11
12
Emile, ibid., p. 287.
Ibid., p. 286.
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