la responsabilità della pubblica amministrazione dal danno civile al

LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DAL
DANNO CIVILE AL DANNO ERARIALE.
L’ELEMENTO SOGGETTIVO DELLA RESPONSABILITÀ∗
di
Maria Alessandra Sandulli
(Professore ordinario di giustizia amministrativa, nell’Università di Roma Tre)
1° dicembre 2005
Uno tra i profili più delicati della responsabilità della pubblica amministrazione è
sicuramente rappresentato dall’elemento soggettivo. Esso risente infatti della difficoltà di
conciliare l’esigenza di garantire la diligenza dei dipendenti pubblici con quella di non
gravarne oltre misura i compiti, in modo che, come sottolineato dalla Corte Costituzionale, la
responsabilità diventi uno stimolo e non un incentivo (sent. 371 del 1998).
E’ significativo a tale riguardo che, proprio nel momento in cui infrangeva il dogma
della irrisarcibilità della lesione di interessi legittimi, la Corte di Cassazione si preoccupava di
affermare il superamento della regola della culpa in re ipsa, mentre appena tre anni prima il
legislatore, non pago del potere riduttivo spettante alla Corte dei conti, aveva circoscritto la
responsabilità amministrativa alle ipotesi di dolo o colpa grave.
Da un lato, quindi, la responsabilità verso i terzi era astrattamente estesa a tutti i
comportamenti illegittimi, a prescindere dalla situazione soggettiva lesa, ma dall’altro si
ponevano dei paletti ad evitare una generale ed indiscriminata possibilità di agire in via
risarcitoria anche nei casi in cui l’illegittimità fosse frutto di errore scusabile e, intervenendo
sulla responsabilità amministrativa, si cercava di ripartire il rischio tra l’amministrazione
∗
Relazione tenutasi mercoledì, 28 settembre 2005, presso la Corte dei Conti, Aula Magna del Seminario.
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imputabile di inefficienze organizzative ed i suoi dipendenti, imputabili soltanto a titolo di
dolo o colpa grave.
Il tema acquista attualità ancora maggiore in relazione alla prospettiva (purtroppo
sempre più spesso appoggiata) di ammettere la tutela risarcitoria a prescindere
dall’annullamento dell’atto amministrativo, abbandonando la c.d. pregiudizialità dell’azione
impugnatoria rispetto a quella risarcitoria. In altre occasioni1 ho manifestato le mie gravi
perplessità nei confronti di tale soluzione (che pure il legislatore del 2005 sembrava a mio
avviso avere accolto, anche se il Consiglio di Stato l’ha per ora opportunamente esclusa: per
tutte, Ad. Plen. n. 1 del 2004) per il fatto che essa contrasta con l’interesse generale,
esponendo la collettività al doppio pregiudizio, sostanziale (la l. n. 15 del 2005, limitando la
possibilità di annullamento giurisdizionale per i vizi formali, implica che gli atti suscettibili
di arrecare danno siano essenzialmente quelli affetti da vizi sostanziali) ed economico. Nella
denegata ipotesi in cui la tesi contraria alla pregiudizialità dovesse tuttavia prevalere,
l’attenzione per l’elemento soggettivo della responsabilità dovrebbe essere sicuramente
maggiore, in quanto un eccessiva prudenza nella condanna al risarcimento rischierebbe di
trasformarsi in una impunità dell’amministrazione che abbia agito contra jus.
Anche senza questa ulteriore complicazione, la materia è comunque densa di
incertezze, che non ho certo l’ambizione di dissolvere. Cercherò quindi soltanto di ricostruire,
per quanto possibile, il c.d. stato dell’arte sulla responsabilità amministrativa e civile,
evidenziandone le possibili interferenze.
Come è noto, per la responsabilità amministrativa, l’art. 3, comma 1, lett. a) della l. n.
639 del 1996, recependo alcuni indirizzi giurisprudenziali, e soprattutto il graduale passaggio
dalla concezione psicologica della colpa a quella c.d. normativa, meglio aderente al giudizio
di rimprovero sotteso a tale forma di responsabilità (che quindi necessariamente presuppone
una valutazione della conoscibilità ed evitabilità dell’evento)2, ha introdotto il limite della
“colpa grave”. In forza della richiamata novella legislativa, i soggetti legati da un rapporto di
servizio con la p. A. (intesa peraltro nelle più recenti accezioni in senso molto lato, fino a
1
Mi si consenta richiamare per tutti Brevi riflessioni sull’incertezza del diritto, in Rass. dir. parlam., n.1 del
2003
2
M. SCIASCIA, La nozione di colpa grave tra principi di diritto comune e configurazione autonoma,
relazione tenuta al Convegno Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio
dalle riforme), Varenna, 15-17 settembre 2005; P. MADDALENA, Responsabilità civile ed
amministrativa:diversità e punti di convergenza dopo le leggi nn. 19 e 20 del 14 gennaio 1994, in Cons.
Stato 1994 fasc.9; S. CIMINI, , La responsabilità amministrativa e contabile, Milano, Giuffrè, 2003, 80.
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2
comprendere le s p a pubbliche) sono quindi tenuti a risarcire il danno erariale causato alla
stessa o ad altre amministrazioni (c.d. danno obliquo o trasversale) soltanto quando il fatto
(atto o mero comportamento3) antigiuridico sia loro imputabile a titolo di dolo o colpa grave,
identificata, come noto, dall’art. 43 c.p. nella negligenza, imprudenza, imperizia o
inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Veniva così meno il rigoroso rapporto tra colpa e ordinaria diligenza: per accertare la
gravità della colpa, la diligenza deve essere infatti valutata in concreto, in riferimento al caso
di specie (condotta nettamente antigiuridica, variabile in relazione alla maggiore o minore
elasticità delle norme) e alle concrete capacità e possibilità dell’agente (in relazione alle quali
deve essere valutato il mancato esercizio del controllo richiesto dalla norma ad evitare le
conseguenze dannose). Il dolo , a sua volta, acquistava autonomo rilievo, costituendo
eccezione alla nuova regola di esclusione della solidarietà passiva, con i correlati effetti specie
in tema di atti interruttivi della prescrizione.
Nell’ultimo decennio, il quadro normativo (e giurisprudenziale) di riferimento ha
profondamente modificato l’assetto della responsabilità amministrativa: l’accento posto sulla
personalità, la limitazione della responsabilità alla colpa grave, la ricordata regola di
esclusione della solidarietà, la prescrizione quinquennale, l’intrasmissibilità agli eredi, salvo il
caso di illecito arricchimento, che si aggiungono, sul piano processuale, all’azione
obbligatoria pubblica e al potere riduttivo dell’addebito, valgono a connotare la suddetta
responsabilità in termini affatto peculiari, che la contraddistinguono rispetto al modello
civilistico , segnando contestualmente il superamento della relativa configurazione in termini
esclusivamente patrimonialistici e contrattuali (per tutte Corte dei Conti, sent. 91 del 1987 e
Corte Cost. n. 24 del 19934), con tutto ciò che ne consegue anche sotto il profilo della
giurisdizione della Corte dei Conti (estesa anche al c.d. danno all’immagine) e al carattere
alternativo, aggiuntivo o sostitutivo che essa assume rispetto a quella ordinaria.
3
Cass. SS.UU., 6 giugno 2002 n. 8229
4
Si legge testualmente nella sentenza che “la responsabilità amministrativa patrimoniale dei dipendenti
pubblici ha natura contrattuale, presupponendo l'esistenza di un rapporto di servizio tra l'autore del
danno e l'ente danneggiato, nonché la violazione di doveri inerenti a detto rapporto. Tale responsabilità,
a sua volta, costituisce presupposto della giurisdizione della Corte dei conti, che è esclusa, in via di
principio, secondo consolidata giurisprudenza, ove manchi l'anzidetto rapporto che è base della
responsabilità amministrativa. È parimenti ius receptum che i pubblici dipendenti, per i danni cagionati
nell'esercizio delle loro attribuzioni a terzi - siano questi soggetti privati, ovvero enti pubblici diversi da
quelli ai quali siano legati dal rapporto di servizio - rispondono a titolo di responsabilità
extracontrattuale e la giurisdizione al riguardo spetta al giudice ordinario.”[3]
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3
Di tale mutamento è autorevole testimone la Suprema Corte regolatrice, che, con
l’ordinanza SS. UU. 19667 del 22 dicembre del 2003, afferma la giurisdizione contabile
anche sull’illecito extracontrattuale e sul danno non patrimoniale, riconoscendo la
responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti pubblici economici per ogni
comportamento dannoso.
Tornando al tema specifico della mia relazione, l’accento si sposta sull’attenzione
posta dalla riforma all’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, e alla portata
e alle conseguenze di questa scelta.
La colpa grave, di cui è stata sottolineata l’affinità sostanziale col dolo5, è stata
generalmente identificata dal giudice contabile con la “intensa negligenza”, nella “sprezzante
trascuratezza dei propri doveri”, nell’ “atteggiamento di grave disinteresse nell’espletamento
delle proprie funzioni”, nella “macroscopica violazione delle norme”, nel “comportamento
che denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”, nonché nel concorso della
ravvisabilità ex ante del nocumento, riconoscibile, sempre ex ante, per dovere professionale di
ufficio e della assenza di oggettive ed eccezionali difficoltà nello svolgimento dei propri
compiti6.
Più in particolare, la giurisprudenza della Corte dei Conti ha individuato come indici
di riconoscimento della colpa grave l’inosservanza del minimo di diligenza, la prevedibilità
dell’evento dannoso, la sconsiderata ed arbitraria cura degli interessi pubblici, l’apprezzabile
superamento dei limiti di comportamento del bonus pater familias, il notevole superamento
dei limiti di comportamento da parte dell’agente che svolga un tipo di attività tecnico
professionale, il cui esercizio richieda particolari cognizioni tecniche o scientifiche, la
violazione di norme al cui mancato rispetto il legislatore collega sanzioni gravi7. Utili criteri
orientativi sono stati infatti rinvenuti nell’art.2, comma 3, l. n. 117 del 1988, che con riguardo
alla responsabilità dei magistrati identifica la colpa grave nella “grave violazione di legge
determinata da negligenza inescusabile”, nonché nell'art. 5, comma 3, d.lg. n. 472 del 1997
che, in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie prevede che "la
colpa è grave quando l'imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non
5
M. SCIASCIA, cit.
C. Conti, SS.RR., 10 giugno 1997 n.56/A.
7
Cfr. S. Cimini, La responsabilità amministrativa e contabile, cit.,, 88.
6
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4
è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di
conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di obblighi elementari”8.
La suddetta limitazione dell’ambito della responsabilità è stata giustificata con il
rilievo che, essendo assai pesante lo sforzo di diligenza richiesto al pubblico dipendente e
note le disfunzioni dell’apparato amministrativo, al primo possono essere addebitate soltanto
le mancanze più gravi (C. dei conti, SS RR 23 settembre 1997 n.66/A9, che ha di conseguenza
escluso il dubbio di legittimità costituzionale della novella sulla colpa). Come sottolineato
anche in dottrina,10 dev’essere infatti la stessa Amministrazione ad assumersi il rischio di
scelte complesse, previsioni difficili ed attività pericolose, nonché la responsabilità per le
insufficienze sistemiche che non siano imputabili ai singoli. A ciò si aggiunge la necessaria
distinzione tra politica e amministrazione, che vede la responsabilità dei politici ridotta alla
sola attività indirizzo. In applicazione di questi principi, la I Sez centrale di appello della
Corte dei conti, annullando la decisione della Sez Reg Lazio (n. 117 del 2003), ha
recentemente escluso che possa essere ritenuta improntata a colpa grave la condotta del
presidente di un ente pubblico che, impartite agli uffici operativi le opportune istruzioni per la
riscossione di un credito vantato dall’ente e riconosciuto da una sentenza esecutiva, non si era
preoccupato si seguire l’iter e l’esito della procedura di recupero ( sent n. 105/A del 2005):
pur potendo muovere al Presidente dell’ente in questione “ un addebito negligenziale per non
aver più pedissequamente seguito, nell'esercizio del suo potere di vigilanza sull'attività degli
Uffici operativi, le ulteriori fasi della procedura di recupero, è altrettanto vero che l'invio del
S. CIMINI, La responsabilità, cit., 87; M. MIRABELLA, La responsabilità nella pubblica amministrazione e la
giurisdizione contabile, Milano, 2003, 73. In giurisprudenza cfr. Corte conti, Sez. I, 16 marzo 2000, n. 83/A,
dove si legge che “Poiché per l'imputazione del danno ai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei
conti non è sufficiente una qualsivoglia condotta antidoverosa ma occorre che essa sia connotata da "intensa
negligenza", un criterio orientativo utile ai fini della graduazione della colpa è reperibile nell'art. 2 l. n. 117 del
1988 sulla responsabilità dei magistrati che definisce colpa grave "la grave violazione di legge determinata da
negligenza inescusabile" e nell'art. 5 comma 3 d.lg. n. 472 del 1997 che, in materia di sanzioni amministrative
per le violazioni di norme tributarie più dettagliatamente prevede che "la colpa è grave quando l'imperizia o la
negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e
della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di obblighi
elementari"; così anche Corte conti, Sez. giur. Reg. Molise, n. 89/2001; Corte conti, Sez. giur. Reg. Molise, 28
aprile 1997, n. 226.
9
La citata sentenza della Corte rileva, infatti, che “La limitazione delle responsabilità amministrative alle
ipotesi di dolo o colpa grave non significa che l'ordinamento consenta un comportamento lassista dei pubblici
dipendenti ed assoggetti pertanto alla sanzione risarcitoria solo quei comportamenti che costituiscono
macroscopiche inosservanze dei doveri di ufficio in quanto la limitazione della responsabilità si fonda sulla
considerazione che, essendo molto elevato lo sforzo di diligenza richiesto al pubblico dipendente e note le
disfunzioni dell'apparato amministrativo, sono addebitabili solo le mancanze più gravi, risultando quindi
manifestamente infondato ogni dubbio circa la legittimità costituzionale di tale limitazione”.
10
W. CORTESE, La responsabilità per danno all’immagine della pubblica amministrazione, CEDAM, Padova,
2004, 47.
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5
primo invito ad adempiere” costituiva “atto di impulso idoneo perché gli Uffici operativi si
attivassero per il necessario seguito della procedura, tenendone informato l'Ufficio di
Presidenza”. La particolare complessità delle incombenze a carico di un presidente di un ente
pubblico di notevoli dimensioni, ha pertanto indotto ad escludere l’addebitabilità allo stesso di
una “vistosa ed avventata negligenza, tale da contrastare, in relazione alle mansioni, agli
obblighi ed ai doveri di servizio, inerenti la carica di istituto, con quel senso minimo di
diligenza richiesto ai pubblici operatori e, necessario, ai sensi della vigente legislazione
contabile, per l'affermazione di responsabilità”.
Una questione notevolmente complessa è costituita dall’individuazione dell’ambito di
operatività del limite della colpa grave, con specifico riferimento ai soggetti che operano
all’interno di organizzazioni regionali e locali. A questi fini rivestono la massima rilevanza
tanto la natura della responsabilità, quanto le finalità che detto limite mira a perseguire. Se
infatti, come parrebbe prima facie più coerente con la disciplina positiva, si aderisse alla tesi
che vede prevalere i profili sanzionatori della misura pecuniaria su quelli risarcitori (in tal
senso militano l’intrasmissibilità agli eredi, la rilevanza stessa data all’elemento soggettivo,
l’esclusione della solidarietà passiva, il potere riduttivo riconosciuto alla Corte dei Conti in
relazione alla situazione del trasgressore)11, sorgerebbe il problema dei limiti posti alla
competenza statale dal nuovo titolo V della Costituzione, problema che evidentemente non si
pone ove si inquadri invece la responsabilità amministrativo-contabile nel genus della
responsabilità civile. Mentre la disciplina della responsabilità civile (o assimilata),
riportandosi all’ “ordinamento civile”, rientra invero nella competenza esclusiva dello Stato ai
sensi della lett. l) dell’art. 117, comma 2, Cost.12, la disciplina sanzionatoria degli illeciti
commessi dai dipendenti delle regioni, ricade a prima lettura in quella spettante a tali enti per
il proprio “ordinamento” e la propria “organizzazione amministrativa” (la materia
“ordinamento e organizzazione amministrativa” è infatti riservata alla legislazione statale
esclusiva solo con riguardo agli enti pubblici e alle amministrazioni nazionali ex art. 117,
11
Cfr. Cass., SS.UU., 21 marzo 2001, n. 123, dove espressamente si nega la riconducibilità della
responsabilità amministrativo-contabile allo schema della responsabilità risarcitoria-restitutoria civile alla
luce delle diversità normative che disciplinano la prima, “diversità che se in parte preesistevano (come ad
es. il cd. potere di riduzione dell’addebito ex art. 52, comma 2, R.D. 12.7.1934 n. 1214 e art. 83, comma
1, R.D. 18.11.1923 n. 2440) sono state introdotte e ulteriormente specificate dalle riforme del 1994 e del
1996 (fra cui il principio di personalità quale limitazione dei casi di trasmissibilità dell’obbligo
risarcitorio; la soglia minima di intensità dell’elemento psicologico, dolo o colpa grave; limitazione della
solidarietà passiva; necessità di tener conto dei vantaggio conseguiti dall’amministrazione o dalla
comunità; nuove regole per i membri di organi collegiali; esimente o scriminante per gli organi politici;
parziarietà dell’obbligazione risarcitoria”.
12
In tale senso S. CIMINI, La responsabilità amministrativa e contabile, cit., 2003, 187.
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6
comma 2, lett. g.). A ciò si aggiunge l’autonomia statutaria delle Regioni ex art. 123 Cost., le
quali con tale primaria fonte dettano “i principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento” dell’ente, col solo limite della “armonia con la Costituzione”, degli enti locali
in base alla l. n. 131 del 2003, nonché la potestà regolamentare riconosciuta agli enti locali
dall’art. 117, comma 6, cost. relativamente “alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite” e dall’art. 89 co. 2 lett. a T.U.EE.LL., che
testualmente include tra le materie affidate alla potestà regolamentare degli enti locali, quella
delle “responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento delle
procedure amministrative”.
Ne consegue che, se il limite minimo posto dalla legge statale deve essere comunque
considerato invalicabile in quanto attuazione degli artt. 97 e 28 della Costituzione (al riguardo
C. cost., 24 ottobre 2001, n. 34013), le regioni e forse gli stessi enti locali potrebbero
prevederne comunque uno inferiore, estendendo la responsabilità dei propri funzionari e
amministratori anche alla colpa lieve. Tuttavia se, come sostenuto da alcuni AA.14 e
confermato dalla Corte costituzionale (sent 371 del 1998), la riduzione della responsabilità
alle ipotesi di dolo o colpa grave ha lo scopo primario di semplificare l’azione amministrativa,
rendendola più agile e affrancandola da ritardi ed eccessive cautele degli amministratori e dei
dipendenti pubblici nell’assunzione delle proprie scelte per il timore di valutazioni troppo
severe da parte della magistratura contabile il principio di unitarietà dell’ordinamento
potrebbe giustificarne la forza cogente anche nei confronti delle regioni e degli enti locali.
Al riguardo giova infatti ricordare che, proprio tenendo conto del principio
dell’efficienza, la Corte costituzionale, nella citata sentenza del 1998, nel riconoscere alla
discrezionalità del legislatore il potere di fissare il limite minimo della colpa grave, ha
ravvisato la ragionevolezza della scelta compiuta nell’art. 3, comma 1, lett. a) della l. n. 639
del 1996 rilevando come tale norma si collochi nel quadro di nuova conformazione della
responsabilità amministrativa e contabile cui “fa riscontro la revisione dell'ordinamento del
pubblico impiego, attuata, in epoca di poco precedente, dal decreto legislativo n. 29 del 1993
… attraverso la c.d. "privatizzazione", in una prospettiva di maggiore valorizzazione anche
dei risultati dell'azione amministrativa, alla luce di obiettivi di efficienza e di rigore di
13 La citata sentenza della Corte attribuisce alla colpa grave espressamente la valenza di “limite
minimo” della imputazione della responsabilità.
14
Tra i tanti M. MIRABELLA, Le responsabilità nella pubblica amministrazione e la giurisdizione
contabile, Giuffrè, Milano, 2003, 72; M. SCIASCIA, La nozione di colpa grave tra principi di diritto
comune e configurazione autonoma, cit.; M. ORICCHIO, La giustizia contabile, Napoli 2001, 158 ss..
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7
gestione”: la disposizione risponde, quindi, alla finalità di determinare quanto del rischio
dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca
di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la
prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo con conseguenti
rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa (la finalizzazione della
responsabilità amministrativa alla garanzia di comportamenti degli agenti pubblici al
contempo diligenti ed efficienti è stata poi riaffermata dal giudice delle leggi nella sentenza n.
453 del 199815).
Personalmente, ho sempre criticato la tendenza (ora per fortuna recessiva tra gli
studiosi del diritto amministrativo) ad invocare l’efficienza dell’amministrazione anche a
danno della legalità. Pur riconoscendo la difficoltà in cui spesso versano gli operatori pubblici
per le disfunzioni organizzative degli uffici e l’incertezza delle regole scritte, ritengo che se si
accogliesse la tesi della natura sanzionatoria della misura in oggetto, le medesime ragioni che
hanno indotto la Corte costituzionale a riconoscere al legislatore statale la discrezionalità di
fissare il limite della colpa grave, dovrebbero legittimare, negli stessi limiti di ragionevolezza
e di non arbitrarietà che il giudice delle leggi ha richiamato per il legislatore statale, una
posizione eventualmente più rigida di alcune o di tutte le regioni (maggiori problemi per gli
enti locali).
Proprio in un momento in cui i cittadini hanno bisogno di garanzie e di certezze anche
contro un legislatore che allarga sempre più la maglia dei condoni e addirittura dichiara
l’irrilevanza del mancato rispetto delle regole procedimentali, la responsabilità amministrativa
costituisce un importante deterrente di cui le regioni dovrebbero avere il pieno diritto di
disporre a tutela degli amministrati ancora più che delle proprie finanze. Spesso infatti una
seria sanzione pecuniaria può essere ben più efficace di una sanzione disciplinare16.
Come si può notare, ho usato però finora sempre il modo condizionale. Se infatti per
un verso il regime della responsabilità amministrativa costruito dalla riforma del 1996 spinge
15
C. cost., 30 dicembre 1998, n. 453, che nel giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma
1 quinquies l. n. 20 del 1994 nella parte in cui limita, nell'ipotesi di danno erariale causato da più persone,
la responsabilità solidale ai soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano
agito con dolo, ribadisce che tale disposizione, al pari di quella su cui la Corte si è pronunciata con la
coeva sentenza n. 371, “si colloca nell’ambito di una nuova conformazione dell'istituto della
responsabilità amministrativa e contabile, secondo linee volte, tra l'altro, ad accentuarne i profili
sanzionatori rispetto a quelli risarcitori”.
16
Contra M. SCIASCIA, cit.
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8
ad una sua lettura in chiave sanzionatoria – con tutte le conseguenze sopra evidenziate – per
altro verso l’imprescindibile rapporto in cui il legislatore pone l’applicazione della misura
pecuniaria con il danno subito dall’amministrazione, tale per cui, in assenza di questo, la
condotta illegittima resta priva di conseguenze, e dunque l’ordinamento non la reputa ex se
meritevole di sanzione, induce a ritenere più plausibile l’opposto orientamento (del resto più
che autorevolmente sostenuto dai massimi studiosi del diritto amministrativo: mi riferisco in
particolare alla relazione di Fabio Merusi e all’intervento di Giuseppe Abbamonte al
convegno tenutosi 15 giorni fa a Varenna su questo tema) che riconduce tale illegittimità al
genus della responsabilità civile, sia pure con una disciplina con lineamenti simili a quella
sanzionatoria.
Non è solo un’esigenza salomonica, ma la disciplina della responsabilità
amministrativa sembrerebbe più coerentemente inquadrabile in modo autonomo rispetto sia a
quella risarcitoria che a quella sanzionatoria, come un tertium genus che, per un verso, mira a
ristorare l’amministrazione del danno subito per effetto dell’illecito comportamento di
soggetti comunque inquadrati, direttamente o indirettamente, nell’organizzazione pubblica, e
per l’altro, proprio per il legame che unisce danneggiante e danneggiato, vuole che il primo
risponda soltanto per i fatti ad esso effettivamente imputabili (da cui la personalità e
l’intrasmissibilità agli eredi) e soltanto in caso di propria effettiva e grave negligenza, ma, al
contempo, cura che l’illecito non resti impunito (da cui l’obbligatorietà dell’azione da parte
del P.M.). La sottolineata attenzione ad evitare un’eccessiva prudenza dei dipendenti pubblici
ed a ripartirne il rischio con la stessa p.A. dovrebbe in ogni caso escludere la sua cumulabilità
(ma anche l’alternatività) con una responsabilità civile ex 2043 c.c. nei confronti di
quest’ultima. L’incertezza sulla natura della responsabilità amministrativa, testimoniata
dall’autorevolezza dei sostenitori delle surrichiamate opposte chiavi di lettura, e la
giurisprudenza che è venuta affermando il carattere alternativo dell’azione contabile rispetto a
quella civile (tale per cui le due giurisdizioni potrebbero coesistere fino a quando attraverso
una di esse sia stato integralmente conseguito il bene della vita richiesto: Corte dei Conti, Sez.
I, di appello, n 16 del 2002), renderebbe peraltro opportuno un esplicito intervento legislativo
in tal senso.
Nell’attesa, l’atipicità della sua disciplina, e, soprattutto, il carattere condizionante che
assume ai fini dell’azione contabile l’esistenza di un danno (patrimoniale o meno) alla p.A.,
consente peraltro di escludere che il pagamento inflitto al responsabile di quest’ultimo sia
integralmente riconducibile al genus delle sanzioni. Nell’attuale quadro normativo, la
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9
soluzione appena accolta è del resto avvalorata dalla sua migliore compatibilità costituzionale,
non soltanto sotto il menzionato profilo delle competenze, ma anche sotto quello, acutamente
sottolineato da Fabio Merusi a Varenna, del rispetto della riserva di legge in ordine alla
quantificazione della pena, inconciliabile con la sua commisurazione al danno subito. Essa ha
inoltre il merito di escludere sin da ora il c.d. doppio binario, che vanificherebbe la scelta
legislativa di limitare la responsabilità di cui trattasi alla sua imputabilità a titolo di dolo o di
colpa grave (il profilo è stato opportunamente sottolineato da Eugenio Schlitzer, nella
relazione tenuta nel succitato convegno di Varenna del 14-16 settembre17).
La regola che, tra due o più soluzioni interpretative possibili, impone di preferire
quella più coerente con il sistema configurato dal legislatore (costituzionale ed ordinario)
spinge perciò incontestabilmente verso l’inquadramento della responsabilità amministrativa in
termini assimilabili a quelli civilistici, costruendola di conseguenza come speciale e
sostitutiva di quella generalmente prevista dall’art.2043 c.c..
E’ quest’ultimo, in realtà, il problema più delicato posto a mio avviso dalla vexata
quaestio sulla natura della misura pecuniaria inflitta a titolo di responsabilità amministrativa,
e che ne influenza in ultima analisi la soluzione. Non è infatti ammissibile, pena la violazione
dello stesso principio di uguaglianza, che i dipendenti pubblici subiscano l’uno o l’altro
processo, a seconda di chi instauri l’azione, né tanto meno è ammissibile che la responsabilità
amministrativa si aggiunga a quella penale, disciplinare e anche a quella civile. Mentre è
coerente e, soprattutto, perfettamente rispondente al disegno della riforma del 1996, che la
responsabilità del funzionario sia ridotta rispetto a quella dell’apparato. In tal senso, del resto,
operava il potere riduttivo rimesso al giudice contabile.
Ferma quindi l’esigenza di rafforzare il ruolo dei giudici contabili a garanzia della
piena riparazione dei danni causati all’amministrazione dalla negligenza dei dipendenti o
funzionari pubblici, è giusto che l’ordinamento preveda ed assicuri una diversa graduazione di
tale responsabilità rispetto a quella nei confronti dei terzi, cui è chiamata in solido la pubblica
amministrazione nel suo complesso.
17
L’A. ha tra l’altro evidenziato che “non va sottovalutata la duplice previsione della legge n. 97 del
2001 di trasmissione, al procuratore generale presso la Corte dei conti, delle pronunce di condanna per
delitti contro la Pubblica amministrazione al fine di accertamenti patrimoniali a carico del condannato e
di quelle definitive, per l’inizio “entro trenta giorni” dell’eventuale procedimento di responsabilità per
danno erariale nei confronti del condannato. Sembra questa un’indiretta risposta al problema, volta, con
ogni evidenza, da un lato a valorizzare il raccordo tra azione penale ed azione contabile e dall’altro a
scoraggiare la costituzione di parte civile nel processo penale, anticipandone in qualche modo le
finalità.”
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10
Anche in ordine a quest’ultima, come si è anticipato, la giurisprudenza ha peraltro
recentemente ristretto i limiti della colpa rilevante. Il timore delle conseguenze che,
riconoscendone la natura sanzionatoria, potrebbe avere il venir meno del carattere cogente
della colpa grave nei confronti dei dipendenti di amministrazioni diverse dallo Stato,
onerando i funzionari pubblici di un peso eccessivo, appare quindi anche in questa luce
facilmente superabile. Il rischio di uno sproporzionato rigore, già sensibilmente circoscritto
dal potere riduttivo tradizionalmente riconosciuto al giudice contabile, appare invero
sostanzialmente eliminato attraverso una corretta applicazione dell’istituto dell’errore
scusabile, siccome del resto dimostrato dalla giurisprudenza formatasi sulla responsabilità
civile della pubblica amministrazione, che, seppure non limitata dalla colpa grave, si è rivelata
particolarmente attenta a tener conto dei rischi connessi all’esercizio della funzione18. Può
essere a tal fine invocato, sia pure in direzione inversa a quella da essa sostenta, la posizione condivisa del resto da autorevole dottrina19- di quella giurisprudenza che giudica la
limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave “poco più che una metafora” dal
momento che “non può non significare che l’imputabilità per colpa dei soggetti alla
giurisdizione della Corte dei Conti deve essere rigorosamente provata”.
Il profilo più delicato è costituito in questa luce dall’onere della prova. La vera
differenza tra responsabilità civile della p.A. e responsabilità amministrativa dei dipendenti
pubblici, più che nella gravità della colpa, sta proprio in tale onere, che nella prima non
dovrebbe spettare al ricorrente.
L’indagine sulla rilevanza dell’elemento soggettivo della colpa nella responsabilità
civile della pubblica Amministrazione non può prescindere dalla posizione assunta al riguardo
dal diritto comunitario.
E’ significativo a tal fine che l’ordinamento comunitario, pur condannando quei
modelli (tedesco e portoghese) che richiedono la prova dell’abuso volontario del potere o la
colpa soggettiva del titolare dell’organo, fonda la responsabilità per l’adozione di atti
18
Sul punto M. CARRÀ, L’esercizio illecito della funzione pubblica, Giappichelli, Torino, 132 osserva
peraltro che tali rischi “non mettono in discussione il fondamento generale ordinario della responsabilità
dell’amministrazione: salve restando le eventuali cause di giustificazione, la responsabilità dovrà essere
affermata in tutte le ipotesi in cui la concretizzazione dei rischi, anche specifici, della funzione costituisca
un’evenienza prevedibile, che avrebbe potuto essere evitata ove fossero state osservate le regole di
ordinaria diligenza o normativamente specificate, che entrano in gioco nelle singole concrete circostanze
di danneggiamento”.
19
P. MADDALENA, La colpa nella responsabilità amministrativa, in Riv. Corte conti, 1997, 2, 285.
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amministrativi in contrasto con le proprie norme sull’esistenza di una “violazione grave e
manifesta” delle stesse.
La dottrina è tuttavia giustificatamene divisa sull’interpretazione delle pronunce del
giudice comunitario in subiecta materia. Taluni AA. (A. SAGGIO, M. PROTTO) attribuiscono
prevalente rilievo ai passaggi secondo i quali, in caso di potestà vincolata o a basso tasso di
discrezionalità, la colpa dell’amministrazione sarebbe sempre presunta juris et de jure in caso
di illegittimità del comportamento, limitando l’ammissibilità dell’errore scusabile agli atti
connotati da un più alto tasso di discrezionalità. Altra tesi (S. TARULLO), nega invece
rilevanza alla distinzione attività vincolata /attività discrezionale, riconoscendo in ogni caso
l’ammissibilità dell’errore scusabile. Una posizione più recente (A. BARTOLINI) individua
invece il vero discrimen assunto dal giudice comunitario alla base delle proprie pronunce
nella presenza o meno di propri precedenti. Così se l’atto illegittimo è in contrasto con un
consolidato orientamento giurisprudenziale della stessa Corte di giustizia, la colpa è
considerata ex se grave e manifesta. Diversamente, in assenza di precedenti, non si esclude
l’ammissibilità dell’errore scusabile: in tal senso si ricorda il caso Haim (4 luglio 2000, in C424/97), nel quale la Corte ha affermato che, in mancanza di una previa interpretazione
giurisprudenziale, la violazione di una norma può, ove ne ricorrano i presupposti, essere
considerata frutto di un errore scusabile, spettando peraltro al giudice nazionale la valutazione
di “tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato”.
In realtà la riduzione della responsabilità alla colpa “grave e manifesta”, come si è già
visto per la responsabilità amministrativa, apre in via generale la strada all’errore scusabile. Il
carattere vincolato del potere, implicando, con una minore autonomia decisionale, una minore
difficoltà di azione, rende peraltro obiettivamente più difficile (anche se non impossibile: cfr.
Corte giust., 4 luglio 2000, C-424/97, Haim, pt. 38 e 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas)
invocare tale causa di giustificazione, a meno che la norma violata non sia di incerta
interpretazione. E’ a questo punto che soccorre la presenza di eventuali precedenti
giurisprudenziali, che, ove indici di un univoco (od unico) orientamento, non consentono di
invocare l’incertezza normativa. Ciò che peraltro non esclude, come ricordato dalla stessa
dottrina che individua nella giurisprudenza il discrimen della colpa, di individuare altri motivi
di errore scusabile. La giurisprudenza comunitaria non offre tuttavia sempre elementi univoci:
così, nonostante l’apparenza, che aveva ingannato a prima lettura anche chi scrive, non
sembra imporre una nozione rigorosamente oggettiva di colpa, connessa sempre e
necessariamente alla mera illegittimità dell’atto, neppure la recentissima Corte di Giustizia,
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14 ottobre 2004, in C-275/03, contro la Repubblica Portoghese, che si limita in realtà ad
affermare il contrasto con il diritto comunitario delle norme nazionali che subordinano il
risarcimento del danno derivante da un atto o comportamento illegittimo della p. A. alla
prova, da parte del ricorrente, del dolo o della colpa degli agenti. Più che l’affermazione di un
obbligo di assumere una concezione di colpa meramente oggettiva della p.A., che escluda di
conseguenza ogni possibilità di ricorso all’errore scusabile, la decisione sembra invero aver
posto l’accento sull’onere della prova sulla colpa (anche non grave) dell’Amministrazione,
che non può farsi a suo avviso ricadere sul ricorrente in quanto “estremamente difficile,
addirittura impossibile”.
Analogamente, nella sentenza Brasserie du Pecheur SA e Rep. Fed. di Germania (5
marzo 1996, in cause riunite C-46/93 e C-48/93), mentre sembra condannare il riferimento
all’elemento soggettivo del dolo o della colpa, il giudice lussemburghese indica tra gli
elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in considerazione “il
carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa” punti 56 e 78, richiamato
anche dalla sentenza 8 ottobre 1996, Erich Dillenkofer e a. c. Rep. Fed. di Germania (nella
cause riunite C- 178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94, C-190/94; così anche nella sentenza
28 giugno 2001, Gervais Larsy e INASTI, C-118/00).
In quest’ottica, non appare incoerente con l’intera logica del sistema la giurisprudenza
nazionale, che, anche probabilmente in ragione della consapevolezza delle molte incertezze
del nostro ordinamento, tende ad escludere il risarcimento quando l’illegittimità sia
giustificabile alla stregua di una evidente incertezza normativa o giurisprudenziale.
E’ ben noto il tormentato percorso evolutivo dei nostri giudici nell’individuazione dei
caratteri della colpa dell’apparato pubblico. Superata la concezione tradizionale della culpa in
re ipsa20 - che induceva a considerare idonea ad integrare l’elemento soggettivo della
responsabilità, come definito dall’art. 43 c.p., la semplice adozione ed esecuzione di un
provvedimento illegittimo da parte di un soggetto dotato di capacità istituzionale e di
competenza funzionale nel settore di intervento –, il dibattito si è spostato sulla esatta
interpretazione della nozione di “colpa d’apparato” e di “violazione delle regole di
imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione
amministrativa deve ispirarsi” introdotte dalla Cass. n. 500 del 1999. E’ stato rilevato infatti
20
Cass., SS.UU, 22 luglio 1999, n. 500.
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da più parti21 come tale ultimo criterio rischiasse di tradursi nella tautologica affermazione
della coincidenza tra illegittimità dell’atto e colpa, essendo evidente a tutti l’analogia tra i
criteri enunciati dalla Corte di Cassazione ed i tradizionali vizi dell’atto amministrativo22.
Come rilevato anche dal giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 478 del 2005)
la scarna descrizione degli elementi essenziali della colpa rinvenibile nel passaggio della
motivazione della sentenza 500 dedicato alla questione si rivela carente e inidonea a fornire
agli operatori paradigmi valutativi certi e al sistema una catalogazione concettuale definita. La
Cassazione ha chiarito che l’indagine deve riferirsi alla c.d. colpa d’apparato e non a quella
delle persone fisiche: essa quindi dovrebbe prescindere dall’elemento psicologico,
ricollegandosi piuttosto a carenze organizzative della p.A., tali da ripercuotersi sulla
legittimità dei suoi atti. Per non identificarsi con la responsabilità oggettiva, essa deve però
escludersi quando il quadro di fatto e di diritto (per la complessità dell’uno o l’incertezza
dell’altro) sia tale da non consentire l’addebitabilità degli stessi a negligenza o imperizia
dell’organo che li abbia assunti.
L’evidente incertezza in ordine ai criteri da seguire nelle due diverse valutazioni che
interessano l’esercizio della funzione amministrativa, l’una a fini risarcitori, l’altra ai fini
dell’accertamento dell’illegittimità, ha condotto talune pronunce a proporre un ritorno ad una
nozione oggettiva di colpa, altre pronunce ad agevolare la posizione del ricorrente attraverso
una lettura della responsabilità conseguente all’illegittimo svolgimento dell’azione
amministrativa idonea a determinare un’inversione dell’onere della prova in ordine alla colpa
della p.A. Sintomatica della prima tendenza è la ben nota decisione della Sezione IV n.
3169/200123 che, recependo principi asseritamente formulati (ma come si è visto in realtà non
così pacifici e chiari) dalla giurisprudenza comunitaria proponeva di accedere direttamente
“ad una nozione oggettiva di colpa, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento e,
in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione
commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali
rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e
dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento”. Si veniva in tale modo a
circoscrivere la responsabilità della p.A. ai soli danni cagionati da una condotta gravemente
colposa e ad attribuire alla stessa – come rilevato criticamente da altre pronunce (cito ad
21
Tra i tanti G. Vacirca, Appunti sul risarcimento del danno nella giurisdizione amministrativa di
legittimità, in Giust. civ., 2001, II, 357.
22
Cons. Stato, Sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239.
23
Cons. Stato, Sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169.
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esempio la n. 4239/2001) – natura prevalentemente sanzionatoria, piuttosto che riparatoria
dell’interesse leso.
Proprio per tali ultime considerazioni, ha avuto maggior seguito quell’orientamento
che attraverso l’assimilazione, se non addirittura l’identificazione (cfr. Cass. 10 gennaio 2003,
n. 157; Cons. Stato V, 4239 del 2001, VI, 20 gennaio 2003, n. 204 e 15 aprile 2003, n. 1945;
Cons. Stato, Sez. V, 2 settembre 2005, n. 4461), della responsabilità della p.A. (in particolare
per lesione degli interessi pretensivi) alla responsabilità contrattuale secondo la nota
elaborazione
concettuale
del
“contatto
amministrativo
qualificato”,
ha
proposto
l’applicazione del criterio di imputazione del danno definito dall’art. 1218 c.c., ammettendo il
privato alla mera allegazione del danno subito, del collegamento causale ad un provvedimento
viziato, ed imponendo all’Amministrazione l’onere di allegare elementi di fatto o di diritto
idonei a dimostrare l’errore scusabile e, quindi, la mancanza di colpa (il debitore, infatti, non
risponde dell'inadempimento se dovuto a causa a lui non imputabile).
E’ noto che l’orientamento giurisprudenziale in questione ritiene che il contatto che si
stabilisce fra il privato titolare di un interesse legittimo di natura pretensiva e
l'Amministrazione dia vita ad una relazione giuridica di tipo relativo, nel cui ambito, il diritto
al risarcimento del danno ingiusto, derivante dall'adozione di provvedimenti illegittimi
presenta una fisionomia sui generis, non riducibile al modello aquiliano , ma caratterizzata da
alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e di quella per inadempimento delle
obbligazioni. E’ altrettanto noto come l’orientamento in questione sostenga, nel nuovo
modello di azione amministrativa introdotto dalla legge n. 241/1990, la rilevanza autonoma
rispetto all'interesse legittimo al bene della vita di posizioni soggettive di natura strumentale
che mirano a disciplinare il procedimento amministrativo secondo criteri di correttezza, idonei
a ingenerare, con l'affidamento del privato, "un'aspettativa qualificata" al rispetto di queste
regole (Cass. n. 157 del 2003, citata, e, da ultimo, incidenter, l’ordinanza n. 875 del 2005, in
tema di danno da ritardo24).
Il quadro è reso ulteriormente complesso da un più recente orientamento del Consiglio
di Stato che, tornando nuovamente sulla natura aquiliana o contrattuale della responsabilità
della p.A. per attività provvedimentale, torna a considerare la prima maggiormente coerente,
24
Cons. Stato, Sez. IV, 7 marzo 2005, n. 875, con la quale era stato sottoposto all’Adunanza Plenaria il
dubbio, risolto in senso negativo dalla sentenza n. 7 del 15 settembre 2005 (in Rivista Giuridica
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15
nella sua struttura e nelle sue regole di accertamento, con i caratteri oggettivi della lesione di
interessi legittimi25 . La difficoltà della prova dell’elemento soggettivo, di cui viene
nuovamente ad essere onerato il soggetto leso, viene ovviata attraverso l’utilizzo di
presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., quali la gravità della violazione
(valorizzata, tuttavia, quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione
assoluto idoneo a circoscrivere la responsabilità della p.A. alle sole ipotesi di colpa grave26), il
carattere vincolato dell’azione amministrativa sub judice, il grado di chiarezza della
normativa di riferimento. A fronte degli elementi indiziari addotti dal privato, è per converso
onere dell’Amministrazione dedurre circostanze utili a dimostrare che la situazione allegata
integra gli estremi dell’errore scusabile, quale, ad esempio, come già ricordato, la confusione
e la mancanza di chiarezza del quadro normativo di riferimento, o la particolare complessità
delle questioni implicate dallo specifico episodio dell’attività amministrativa sub judice, in
applicazione del medesimo criterio di imputazione soggettiva previsto all’art. 2236 c.c. in
tema di responsabilità del professionista.
In applicazione di tali principi, si possono citare,in particolare, da ultime, Cons. Stato,
Sez. V, 15 aprile 2004 n. 2151, che, richiamando i limiti posti alla responsabilità da lesione di
interessi legittimi dalla sentenza Cass. 500/9927, ha rilevato che, in presenza di una oggettiva
difficoltà della norma, si deve escludere che l’atto illegittimo sia stato adottato in violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, vale a dire per colpa
della p.A.. La necessità del dolo o della colpa per la responsabilità aquiliana della p.A. e la
sua conseguente inconfigurabilità in presenza di un errore scusabile è affermata anche da
Cass., Sez. III, 9 febbraio 2004 n. 2424. Analogamente, hanno escluso la sussistenza della
dell’Edilizia, fasc. 5/2005), della possibilità di risarcire anche il danno da mero ritardo, a prescindere dalla
fondatezza della pretesa
25
Cons. Stato, Sez. IV, 15 febbraio 2005, n. 478; Cons. Stato, Sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012.
26 Cons. Stato, Sez. IV, 15 febbraio 2005, n. 478; id., 6 luglio 2004, n. 5012; id., 10 agosto 2004, n.
5500; TAR Sardegna 14 marzo 2005 n.328.
27
La sentenza è stata come era prevedibile oggetto di moltissimi commenti: tra essi si vedano
soprattutto, in Foro it., 1999, I, 2487 ss., quelli di A. PALMIERI e A. PARDOLESI; in Giust. civ., 1999,
I, 2261, la nota di M.R. MORELLI, Le fortune di un obiter: crolla il muro virtuale della irrisarcibilità
degli interessi legittimi; in Il corriere giuridico, 1999, 1367, la nota di A. DI MAJO, Il risarcimento degli
interessi « non più solo legittimi; in Guida al diritto, 1999, f. 31, 36 ss., la nota di S. MEZZACAPO, I
rapporti tra giudizio amministrativo e civile devono trovare un punto di equilibrio; A. ROMANO, Sono
risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi?, in Foro it., 1999, I, 3222; E. SCODITTI,
L’interesse legittimo e il costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia
risarcitoria, in Foro it., 1999, I, 3226; R. CARANTA, La pubblica amministrazione nell’era della
responsabilità (500/99), in Foro it. 1999, I, 1372; L. GILI, L’illecito per c.d. lesione di interesse legittimo
delineato da Cass. 500/SU/99 alla (ulteriore) prova di applicazione concreta, in Foro it., 2000, I, 1212;
A. TRAVI, La giurisprudenza della Cassazione sul risarcimento dei danni per lesione da interesse
legittimo dopo la sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999 n. 500, in Foro it., 2004, I, 794.
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colpa di fronte ad una interpretazione giurisprudenziale non univoca, quando la p.A. abbia
seguito quella dominante, Cons. Stato, Sez. VI, 20 maggio 2004 n. 3261 e Cons. Stato, Sez.
IV, 21 febbraio 2005, n. 551; così come ha escluso la ricorrenza di una colpa grave, intesa
come mancanza della minima diligenza, Cons. Stato, Sez. VI, 5 settembre 2005, n. 4152, con
riguardo ad una fattispecie in cui il provvedimento lesivo era stato adottato in esito ad una
serie di pareri nell’ambito di un articolato procedimento ed era stato confermato in primo
grado, nonostante l’opposto orientamento generale della giurisprudenza; o ancora Cons. Stato,
Sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2891, in caso di “valutazioni di particolare complessità, in
relazione alla necessità di verifiche spesso estremamente difficoltose della realtà fattuale”,
laddove non si ravvisino profili di “inescusabile negligenza”.
Una posizione più rigida sembra invece assunta dalla Sez. V, che ha recentemente
affermato che “l'attività dell'amministrazione pubblica non può essere ricondotta ad un
atteggiamento psicologico dell’agente, suscettibile di produrre un danno nei limiti in cui esso
si traduca una condotta riprovevole, ma è il frutto di procedimenti impersonali che la
rendono oggettiva, di modo che l'imputazione a colpa della condotta dell'amministrazione va
considerata in termini di raffronto tra il comportamento effettivamente tenuto e quello
richiesto dall'ordinamento per evitare la lesione dell’interesse dei singoli cittadini” (Cons.
Stato, Sez. V, 2 settembre 2005, n. 4461, che riconosce quindi nell’illegittimità un “indice
presuntivo della colpa della p.A., alla quale incombe l’onere di provare la sussistenza di un
errore scusabile”; negli stessi sensi, VI, 4153 del 2005 e 4239 del 2001).
Sarebbe questa, quanto meno, la linea indispensabile in caso di prevalenza della tesi
contraria alla pregiudizialità dell’azione caducatoria.
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