La continuità assistenziale

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Mariella Crocellà
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Alessandro Bussotti
Francesco Carnevale
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Laura D’Addio
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Alberto Zanobini
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Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina
e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze
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degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi
Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi
e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze
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per la Formazione Sanitaria - FORMAS
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Comunicazione e Promozione della salute,
Regione Toscana
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Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 aprile 2010
179 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
Anno XXXI - Marzo-Aprile 2010
Sommario
70
A. Panti
La responsabilità nelle attività mediche
Monografia
La continuità assistenziale
77
C.R. Tomassini
Un nuovo modello culturale, professionale
ed organizzativo
80
F. Di Stanislao, M. Visca,
G. Caracci, F. Moirano
Sistemi integrati e continuità nella cura
90
A. Bussotti
La riorganizzazione delle cure primarie
93
R. Maricchio, M. Pellizzari,
A. Silvestro
L’assistenza infermieristica
97
L. Livatino, L. Roti
L’integrazione dei profili professionali
99
F. Di Stanislao, G. Caracci,
F. Moirano
I sistemi di indicatori
110
C. Cislaghi
Modelli di remunerazione delle prestazioni
115
G. Amunni
Il malato oncologico
119
V. Boscherini
Lo scompenso cardiaco
124
D. Inzitari
Il paziente con ictus cerebrale
128
G. Del Giudice
L’assistenza psichiatrica
Abbonamenti 2010
Italia
€ 41,32
Estero € 46,48
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Antonio Panti
Presidente dell’Ordine
dei medici di Firenze
P
remetto due considerazioni. La prima: il problema degli “errori medici”, della cosiddetta malpractice, sta turbando i medici, protagonisti della nuova
condizione di essere oggetto
di richieste di risarcimento o
di contenzioso giudiziario. I
medici sentono minacciata la
loro autonomia professionale,
quale posizione di garanzia
per il paziente, e percepiscono quasi una diminuzione del
prestigio di cui hanno sempre
goduto a causa dell’aiuto offerto nella sofferenza. Nasce
così la medicina difensiva,
che preoccupa gli amministratori che ne avvertono la
dannosità per l’assistenza e
per le scarse risorse disponibili nella sanità. Il sottosegretario Fazio ha prudenzialmente stimato in circa il 15%
della spesa sanitaria (oltre 15
miliardi di euro, rispetto ai
106 miliardi di spesa sanitaria pubblica nel 2007) gli
oneri derivanti da accertamenti richiesti in vista di
eventuali contenziosi.
Nel processo decisionale medico sono presenti sia variabili cognitive che contestuali
inerenti la disponibilità di
strumenti o la peculiarità del
paziente. A queste si aggiungono variabili economiche
derivanti dai costi delle decisioni e altre inerenti il rischio
di subire richieste risarcitorie. È questa la medicina difensiva che si definisce “posi-
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La responsabilità
nelle attività mediche
tiva”, quando si aumenta la
richiesta di prestazioni in
ciascun singolo caso, oppure
“negativa”, quando si allontanano i casi a maggior rischio di errore. In Italia non
esistono ricerche approfondite, escluso una recentissima
dell’Ordine di Roma che dimostra come il medico abbia
una percezione del rischio
giudiziario assai maggiore
della realtà, certamente per il
peso di una pressione mediatica che ne influenza il comportamento. Secondo questa
ricerca una percentuale variabile tra il 70 e il 90% dei
medici (in particolare in chirurgia, ostetricia, Pronto soccorso e medicina generale) ha
talora richiesto prestazioni
per cautelarsi rispetto a possibili guai assicurativi, temendo, ove fosse stato omesso quell’accertamento, di essere più esposti al contenzioso. In Italia, rispetto agli
USA, sembra assai minore il
fenomeno del patient screaming, cioè l’evitamento del
caso difficile.
La medicina difensiva rappresenta una inaspettata anomalia della pratica medica
che oggi sempre più ricerca la
“appropriatezza”, cioè un’elevata attenzione qualitativa
alla prestazione mediante la
cosiddetta “medicina basata
sulle evidenze”, e quindi fonda le decisioni su prove di efficacia. Talora la causa di richieste di accertamenti risie-
Come affrontare e gestire il concetto
di “colpa medica”
de nel timore di un rischio
per il medico, il contrario della cosiddetta “gestione del rischio clinico”, volta invece a
garantire la miglior sicurezza
del paziente rispetto ai possibili incidenti insiti nella
estrema complessità della
medicina moderna.
Prima di entrare nel merito si
impone una seconda considerazione. Oggi i medici sono
quasi tutti dipendenti o convenzionati, incardinati nel
servizio pubblico. L’indipendenza che i medici riaffermano è libertà di giudizio a letto
del paziente, nel suo esclusivo interesse. La medicina è
atto individuale nella relazione tra medico e paziente, fondamento e cardine della prassi medica, ma l’esercizio professionale si svolge sempre all’interno di percorsi assistenziali complessi, ove cooperano molteplici professionalità
e discipline. Il medico ne è il
leader, ma l’organizzazione
ne condiziona i risultati, la
dotazione e la funzionalità
degli strumenti è essenziale,
il lavoro in gruppo prassi ineludibile; la responsabilità del
singolo è nei fatti difficilmente definibile. Inoltre l’organizzazione del servizio (la filiera decisionale dal direttore
sanitario a quello di unità
operativa semplice) ha responsabilità nella causazione
di eventi avversi anche attraverso il meccanismo dell’assegnazione, all’interno di ciascuna procedura, di compiti
ai singoli operatori. Il concetto di responsabilità medica è
molto vasto perché testimonia ancora, all’interno del
rapporto di cura, il senso
profondo di un’autentica relazione tra medico e paziente,
piuttosto che l’emergere di
aspetti contrattuali. Tuttavia
la responsabilità oggettiva si
sposta, nei moderni complessi sistemi di cura, verso l’organizzazione, dal momento
che il percorso di cura è affidato a équipe multiprofessionali e pluridisciplinari, secondo protocolli e linee guida
in cui ogni professionista,
medico e non medico, opera
sempre secondo modalità
coordinate e correlate.
Un’ulteriore premessa: purtroppo sui cosiddetti “errori
medici” si sono costruite
campagne di stampa cervellotiche. “Una strage di pazienti
per gli errori dei medici” titolava a quattro colonne un
servizio sull’argomento uno
dei maggiori quotidiani italiani. Sono estrapolazioni
ipotetiche, lontanissime dalla
realtà che, tuttavia, gettano
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discredito sui medici, generano burn out, cioè disamore
per la professione, e favoriscono la medicina difensiva.
I dati certi in nostro possesso, purtroppo solo la Toscana
e la Lombardia dispongono di
flussi informativi affidabili,
non sono molti. Farò riferimento ai dati del Servizio sanitario toscano, raccolti dal
Centro regionale per la gestione del rischio clinico e per
la sicurezza del paziente
(CGRC), unico in Italia. Le richieste di risarcimento sono
circa 1500 ogni anno, circa 14
ogni 10.000 ricoveri. Qualche
discrasia dipende dalla lieve
differenza tra sinistri denunciati e quelli accaduti nello
stesso anno. Vi sono certamente eventi avversi che non
sono stati oggetto di richiesta
risarcitoria ma il trend sociale
fa pensare che il loro numero
non modifichi sostanzialmente il quadro. La distribuzione
degli importi liquidati per
gravità mostra che il 57,2%
(Fig. 1) dei danni si colloca al
di sotto di 5000 €e quelli di
importo inferiore a 50.000 €
rappresentano il 93% dei casi.
I rarissimi fatti gravi tuttavia
finiscono sulla stampa e in
lunghissimi procedimenti penali; nessuno darà notizia
dell’eventuale assoluzione del
medico.
È interessante confrontare le
stime del ministero della Salute con i dati toscani. Risalta
l’enormità della spesa assicurativa pubblica, cui deve aggiungersi la quota versata dai
medici per assicurare la colpa
grave. Risalta la ingente entità delle riserve e, più che altro, la differenza tra la somma
dei premi versati e quella degli
importi liquidati più le riser-
ve. Nel 2004 risultano erogati
dal Servizio sanitario nazionale quasi 540 milioni di euro in
premi assicurativi (Fig. 2). Nel
periodo 2003/07 l’onere per
premi assicurativi delle ASL
toscane si situa intorno ai 45
milioni di euro per anno. La
somma delle liquidazioni e
delle riserve non ha ma superato i 18 milioni di euro. Come
si giustifica questa differenza? Infine non è irrilevante
per i cittadini che anche i casi
risolti in sede assicurativa si
trascinano per più anni. Un
danno ulteriore rispetto a
quello già subìto. In 5 anni il
numero dei sinistri non conclusi entro l’anno dalla denuncia è quasi raddoppiato.
Infine meno del 20% dei sinistri finiscono dal magistrato,
il 15% in civile, il 4% in penale. Circa 300 casi ogni anno
in Toscana; non pochi e con
tendenza in aumento. Le specialità più esposte a richieste
risarcitorie sono l’ortopedia,
la chirurgia, la ostetricia, la
medicina d’urgenza; ovviamente le compagnie assicurative richiedono agli specialisti premi più onerosi che,
nella professione privata, si
traducono in aumento degli
onorari. La distribuzione dei
sinistri pone al primo posto
l’errato intervento e, subito
dopo, le cadute, poi l’errore
diagnostico e terapeutico.
Qualche ulteriore considerazione si impone: due fenomeni caratterizzano i sistemi sanitari moderni, la numerosità
delle prestazioni e la complessità delle attività. La possibilità di un evento aumenta
con la grandezza della popolazione di riferimento. La Toscana ha 3.600.000 abitanti;
ogni anno si registrano circa
700.000 ricoveri ospedalieri,
circa 1.500.000 accessi al
Pronto soccorso, circa
400.000 interventi di emergenza territoriale, circa venti
milioni di prestazioni specialistiche e quasi altrettanti di
medicina generale. La spesa
sanitaria pubblica supera i 7
miliardi di euro. Ancor più rilevante è l’estrema complessità di qualsivoglia percorso
assistenziale necessario anche nella casistica più semplice. In un piccolo ospedale si
eseguono decine di migliaia
di procedure diverse. Nessuna
impresa industriale ricorre a
tante “catene di montaggio”
per ottenere il prodotto finale, nel nostro caso la diagnosi
e la terapia che produca i migliori risultati per il paziente.
Insistiamo su questi aspetti
perché i vertici dell’azienda
sanitaria sono corresponsabili, con le loro scelte sulla dotazione e turnazione del personale, sulla assegnazione
delle risorse e sull’organizzazione ambientale, della riuscita di tutte le singole prestazioni che nell’insieme vano
a comporre il percorso assistenziale di ciascun paziente.
Una breve digressione. Negli
anni sessanta la mortalità per
parto (entro cinque giorni
per cause legate al parto) era
di 150 donne ogni 100.000
parti (dati Istat); da oltre 10
anni l’Italia è allineata con i
migliori servizi sanitari del
mondo e la mortalità per parto è di 3 donne ogni 100.000
parti. Standardizzando i dati
su 600.000 parti, negli anni
sessanta si perdevano ogni
anno 900 donne, oggi 18; una
diminuzione di cinquanta
Fig. 1. Distribuzione degli importi liquidati per gravità.
Gravità = fascia economica
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volte, un risparmio incredibile di vite in così pochi decenni. Un vero miracolo della
scienza medica. Al di sotto di
questi risultati la medicina
per ora non è in grado di
scendere perché non può prevedere e curare alcune complicazioni, con nessun mezzo
disponibile. Tuttavia allora la
morte per parto era considerata una fatalità accettata
dalla società e dalla magistratura; nei casolari sperduti si
partoriva con la sola levatrice
che nessuno chiamava in giudizio. Oggi quasi tutti i ginecologi coinvolti in simili tragici eventi ricevono almeno
un avviso di garanzia.
Tuttavia gli incidenti accadono; talora sono realmente
delle “fatalità”, talora sono
attribuibili a errori del medico. Secondo il ministero della
Salute e la moderna ergonomia gli “eventi inattesi durante un processo assistenziale che provocano danni e
sono prevenibili” possono derivare da errori individuali del
medico, cognitivi o per violazioni di regole, ma nella mas-
sima parte dei casi (l’85% secondo i dati della ASL fiorentina) sono errori organizzativi, cioè possono essere scoperti e non reiterati attraverso procedure di risk management, cioè di gestione del rischio connesso con qualsiasi
procedura clinica. Occuparsene, scoprirli e evitarne la ripetizione è garanzia per la sicurezza del paziente. L’articolo 14 del Codice di deontologia medica, approvato nel dicembre 2006, si intitola “sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico”.
È ben chiara ai medici una
sorta di regola cautelare, propria anche del diritto. Il rischio connesso a ogni atto
medico (pensiamo alla rarissima ma grave e imprevedibile
allergia al paracetamolo) deve
essere inferiore al rischio
connesso colla patologia. Talora il bilanciamento non è
semplice, ecco l’importanza
dell’informazione completa e
del consenso. Tuttavia molti
rischi possono essere evitati
con precise misure precauzionali, quando non siano legati
a difficoltà intrinseche al caso ma alla inadeguatezza organizzativa o alla violazione
di norme. Tuttavia, che fare
quando si sta per perdere il
malato in attesa che tutto sia
in regola? A differenza del diritto che si fonda sulla ponderata riflessione, l’agire del
medico spesso costringe a decisioni probabilistiche in
tempi ristrettissimi.
Il Codice deontologico è fonte
normativa minore, tuttavia
citato nelle sentenze della
Cassazione. Quindi ne puntualizziamo alcuni concetti.
Scopo precipuo del medico è
il miglioramento della qualità
delle cure: a tal fine deve rilevare, segnalare e valutare gli
errori. Dal momento che dalle
sue segnalazioni possono
emergere fatti che potrebbero
portarlo in tribunale, prevarrà l’interesse del medico o
quello del paziente? Il medico,comunque, deve utilizzare
ogni strumento conoscitivo
disponibile e mettere in atto i
comportamenti utili ad evitare la ripetizione di errori, sia
che questi abbiamo causato
eventi avversi, sia che non
abbiano provocato alcun danno, col fine di impedire che
un comportamento errato ma
prevenibile possa infine provocare il danno finora scongiurato. Il Codice sottolinea
come questi strumenti di indagine debbano essere riservati, alla stregua di quanto
accade in moltissimi paesi dove esistono leggi “ad hoc”
(dalla Danimarca agli USA a
molti altri). In un sistema
giuridico come il nostro, portare a superficie i rischi è aiutare i pazienti o autolesionismo? La giusta punizione dei
colpevoli può trovare bilanciamento con la prevenzione
dei rischi insiti nei processi
assistenziali complessi della
medicina moderna?
Indubbiamente nell’agire medico sono insiti molteplici rischi, alcuni connessi alla peculiarità di ciascun paziente
e ai possibili eventi avversi
legati alla terapia; altri connessi con la continua innovazione tecnologica e scientifica che offre soluzioni sempre
più tecnicamente ardue; altri, infine, frutto di errori cognitivi o latenti (organizzativi). La loro valutazione è imperativo morale per i medici
che debbono interessarsi degli eventi gravi ma ancor più
delle azioni insicure, dei near
misses, la cui correzione può
evitare danni futuri che, invece, grazie a questo impegno, non si verificheranno.
Tutte le indagini svolte nel
mondo danno lo stesso risultato: per ogni mille azioni insicure, risolte sul momento
dal personale impegnato,
cento provocano lievi incidenti, dieci danni gravi, una
sola è mortale. L’errore,
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secondo James Reason, forse
il maggior esperto in ergonomia medica, “mostra il fallimento di un’azione pianificata per raggiungere uno scopo
desiderato”, in questo caso la
migliore cura per il paziente.
L’errore medico ha interesse
assicurativo quando provoca
un danno che il medico
avrebbe potuto evitare. Su
questo tripode, danno, causa,
negligenza, si fonda la responsabilità del singolo. Ma,
come abbiamo già detto, l’azione fallisce per lo più per
problemi organizzativi, di alterazioni, sconnessioni, inadeguatezze, incoerenze, nelle
procedure assistenziali. Allora colpa e responsabilità perdono molto della loro pretesa
intersezione.
Un’altra digressione è inevitabile. Anche in recentissime
sentenze l’infermiere è definito come “ausiliario”, capace
solo di atti delegati, la cui responsabilità in vigilando resta tutta del medico. Non
spetta a me ricordare la legislazione vigente sulle professioni sanitarie, non più ausiliarie né soggette a mansionari, bensì composte da laureati che, nel caso delle
scienze infermieristiche,
“svolgono con autonomia
professionale attività dirette
alla prevenzione, alla cura e
alla salvaguardia della salute
individuale e collettiva” come recita la l. 251/00. Si discute ormai di specializzazioni universitarie infermieristiche e moltissime prestazioni
sono svolte da infermieri,
ostetriche o altri laureati, in
autonomia gestionale, sia pur
sulla base di idonei percorsi
formativi e di protocolli condivisi. Ricordo l’infermiere di
triage nel Pronto soccorso, le
ambulanze infermieristiche
del 118, il parto fisiologico, i
compiti degli infermieri nel
territorio o in terapia intensiva e molte altre situazioni di
cura. Mantenere la responsabilità unica del medico in servizi di Pronto soccorso cui accedono oltre duecento pazienti al giorno (oltre sessantamila all’anno) è impensabile anche perché si sottrarrebbe il medico a prestazioni importanti per impegnarlo nel
togliere un tappo di cerume.
L’adeguamento della giurisprudenza alla realtà sanitaria è ineludibile.
Ma un punto nodale in tema
di rischio clinico è rappresentato dagli “eventi sentinella”
che, secondo la definizione
del ministero della Salute, è
“un evento avverso di particolare gravità, potenzialmente indicativo di un serio malfunzionamento del sistema”.
Il ministero, in linea con le
indicazioni dell’OMS, impone,
al verificarsi di una di queste
evenienze, un’indagine immediata cui far seguire l’adozione e il rafforzamento di
misure preventive. In Italia vi
è un settore del ministero
della Salute dedicato al rischio clinico, mentre in molti
paesi esistono strutture indipendenti come l’inglese NICE
(National Institut for Clinical
Excellence) o l’american JHCO
(Joint Health Commission for
Clinical Organization). In pratica tutti gli “eventi sentinella”, secondo la classificazione
ministeriale, ripresa da quella
dell’OMS, dal suicidio del paziente, al materiale lasciato
all’interno del sito chirurgico,
alla morte imprevista a seguito di intervento, possono es-
sere potenziali reati procedibili d’ufficio.
Questi organismi dedicati alla
sicurezza del paziente agiscono sul piano formativo, organizzativo, tecnologico e di
controllo per ridurre il rischio
clinico: ridurre, perché l’eliminazione ne è tecnicamente
impossibile. Non a caso la più
importante pubblicazione del
Governo USA sull’argomento
si intitola To err is human. E
in realtà la sanità, come ogni
sistema procedurale, ha molte difese ma anche smagliature o buchi; gli incidenti sono molto rari rispetto ai rischi (1 su 1000, secondo gli
studi più aggiornati) perché
le reazioni del personale e del
sistema fanno sì che non sia
molto probabile che, per errori attivi o – meglio – per l’emergere dei fattori latenti, le
smagliature si allineino in
modo da consentire il passaggio di un vettore negativo. Le
organizzazioni internazionali
della sanità considerano la
prevenzione dei rischi, cioè il
clinical risk management quale componente essenziale di
quello che viene chiamato
“governo clinico”.
In passato il ruolo dei medici
e degli amministratori nelle
organizzazioni sanitarie era
ben distinto. Oggi sia gli uni
che gli altri sanno che è possibile conseguire finalità comuni (le migliori cure per il paziente) solo se si concerta tra
tutti gli attori l’organizzazione del servizio e si concorda
all’interno di una cornice comune (le risorse disponibili)
l’assegnazione delle strutture,
delle tecnologie, del personale, garantendo innovazione e,
più che altro, uguaglianza di
trattamento per ogni pazien-
te. Secondo il ministero della
Sanità inglese il governo clinico è uno strumento per favorire il continuo miglioramento della qualità del servizio, creando un clima in cui
possa fiorire l’eccellenza delle
cure. Ebbene una funzione integrale del governo clinico è
la gestione del rischio cioè la
capacità di diminuire la probabilità di incorrere in un errore umano. Uno dei principali strumenti di governo clinico
è l’audit. Questo, secondo la
definizione del NICE, è “un
processo di miglioramento
della qualità finalizzato a migliorare i servizi sanitari tramite la revisione sistematica
dell’assistenza rispetto a criteri espliciti e l’implementazione del cambiamento”.
L’audit si svolge secondo procedure codificate dall’ergonomia, all’interno del gruppo di
lavoro interessato all’esame
della criticità, sotto la guida
di un esperto esterno e deve
essere attuato ogni volta che
si debba prevenire oppure si
sia concretizzato un evento
avverso, tanto più se si tratta
di evento sentinella, in modo
da capirne la genesi e di adottare le opportune azioni di
cambiamento. Sono evidenti
le differenze tra audit, inchiesta interna dell’azienda e inchiesta giudiziaria, che tutte
possono conseguire a un
evento avverso (Fig. 3). Nell’audit non si debbono stabilire responsabilità ma solo individuare criticità per correggerle. Le finalità della medicina e del diritto, per quanto
siano diverse, debbano convivere perché si propongono
scopi ugualmente importanti
per la tutela dei cittadini e
della società. Finora il proble-
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Fig. 3. Audit, inchiesta interna amministrativa, inchiesta giudiziaria a confronto.
ma ha avuto scarsa risonanza
perché l’Italia, rispetto agli altri paesi occidentali, è in ritardo nelle procedure per la
gestione del rischio clinico. A
parte qualche iniziativa in alcune ASL emiliane o lombarde, solo in Toscana esiste un
centro regionale con una pratica consolidata nella gestione degli audit clinici. Tuttavia
in Toscana si sono già create
incomprensioni con i magistrati inquirenti che è necessario dissipare.
A questo punto è possibile
formulare qualche proposta.
La medicina ha raggiunto traguardi impensabili ma, nello
stesso tempo, ha creato illusioni e delusioni che i media
hanno enfatizzato. Così i medici vivono una professione
in cui si ripongono speranze
estreme e dalla quale si hanno risposte formidabili ma
che può condurre anche sul
banco degli imputati. E i medici, in caso di sospetto errore, si trovano davanti non solo i problemi assicurativi ma,
talora, quelli del giudizio civile e penale, accompagnati
sempre da procedimenti disciplinari aziendali e ordinistici. Cinque tipi di giudizio
da affrontare; il burn out ne è
conseguenza inevitabile. Il
costo in denaro e in perdita
di fiducia per la sanità che
deriva dal vigente sistema di
risarcimento del danno è pesantissimo e poco utile sia ai
pazienti che ai medici. Occorre individuare soluzioni che
restituiscano serenità al me-
dico mentre svolge la sua delicata missione.
Infine occorre avere ben presente che un sistema di gestione del rischio che fondi il
suo approccio col paziente e
con i familiari sulla trasparenza, sulle doverose scuse e
sulla garanzia che il sistema
sta imparando dagli errori, limita molto il contenzioso.
I medici esperti sanno che i
pazienti per lo più si appagano col “sapere quel che realmente è successo” e con la
offerta di scuse nonché con la
garanzia che il sistema potrà
cambiare. Un confronto chiaro e sereno blocca sul nascere
gran pare della litigiosità.
Non tutta però, e quindi occorre affrontare alcuni nodi,
raccordandone la soluzione ai
moderni sistemi di tutela della sicurezza del paziente.
A parere degli Ordini dei medici è indispensabile ripensare il concetto di colpa medica, favorire soluzioni extragiudiziarie del contenzioso,
riflettere sulla qualificazione
dei periti e chiarire le differenze tra inchiesta giudiziaria e audit clinico. Nessuno
vuol diminuire il livello di tutela giuridica del cittadino;
però si dovrebbero individuare nuovi assetti, capaci di rispondere all’organizzazione
della medicina moderna, limitando il ricorso dei medici
alla medicina difensiva e tentando di contenere i costi assicurativi della sanità. Riflettiamo sul fatto che la carenza
di fondi limita l’offerta di
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cure innovative.
Il sistema risarcitorio sembra
dominato da una sorta di aggressività poco produttiva. I
danni esistono e così le responsabilità del sistema e, in
minor misura, del singolo.
È constatazione inconfutabile, tuttavia, che pochissime
persone sono risarcite e in
tempi biblici. Altresì il sistema sanitario funziona bene
ma mai del tutto bene. Grazie
agli enormi successi della medicina le persone, quando il
successo manca, non possono
non chiedersi se qualcosa
non ha funzionato e perché.
Tuttavia il processo non è
una soluzione soddisfacente,
se non altro per i suoi costi e
per la sua incredibile lunghezza. Insomma solo pochissimi danneggiati ottengono un risarcimento mentre
moltissimi altri, che non ne
avrebbero diritto, impegnano
tribunali e denaro pubblico.
Per questo la soluzione è difficile, perché ogni facilitazione al risarcimento potrebbe
subissare il servizio sanitario
di cause aumentando enor-
memente la spesa.
Secondo la Federazione degli
Ordini dei medici occorre obbligare le aziende sanitarie
pubbliche e private alla copertura assicurativa dei rischi
derivanti dall’attività medica,
affermando la responsabilità
diretta della struttura sanitaria per fatto illecito commesso da qualsiasi professionista
di cui essa si avvalga anche
occasionalmente. Ciò non
avrebbe effetto deflattivo sul
contenzioso; tuttavia si
avrebbe una più elevata tutela del danneggiato, una riduzione dei costi da medicina
difensiva e una elevazione
degli standard di sicurezza
assistenziale. Un sistema tipo
no fault in cui l’onere della
prova da parte del danneggiato sarebbe alleggerito; forse occorrerebbe definire condizioni di idoneità della richiesta risarcitoria senza distinguere tra casi sfortunati e
vittime di negligenze, a parte
la colpa grave. Insomma risarcimenti forfettari in tempi
prestabiliti.
Ancora una volta il Parlamen-
to sembra intenzionato a promulgare una legge sulla responsabilità professionale.
Una legge siffatta dovrebbe
rendere obbligatoria la conciliazione o l’arbitrato, la cui
conclusione positiva dovrebbe inibire ogni successivo ricorso al giudice; i dati economici danno conto dell’opportunità di creare un fondo di
garanzia gestito direttamente
dalle ASL. Infine vi è l’esigenza di istituire un albo dei periti che affianchino il medico
legale. La troppo difforme
qualità delle perizie rende
opportuna una norma sulla
selezione dei tecnici e sull’ordinaria collegialità dell’incarico peritale. Siamo di fronte
all’incontro di due scienze
probabilistiche, la medicina e
il diritto, che si confrontano
nelle situazioni cliniche in
cui, come è stato scritto “i
fatti sono incerti, i valori in
conflitto, i rischi elevati e le
decisioni urgenti”. Ultima
questione è quella degli audit
in caso di eventi procedibili
d’ufficio o quando vi sia stata
querela. In molti paesi la leg-
ge secreta gli audit, vietandone l’uso in giudizio. Senza
preordinare soluzioni, tuttavia il problema non può essere eluso e meriterebbe un
qualche chiarimento interno
alla magistratura che evitasse
incresciosi equivoci.
In alcuni Ordini dei medici si
stanno sperimentando forme
di conciliazione senza, ad oggi, risultati significativi. La
Regione Toscana, d’intesa con
la Federazione regionale degli
Ordini, e con il supporto della
Facoltà di giurisprudenza fiorentina, ha avviato un tentativo di conciliazione nell’Azienda di Careggi con franchigia fino a 100.000 euro.
Un importante sperimento da
cui ci attendiamo esiti positivi. In conclusione è importante ridurre nei medici la
percezione di rischiare, nel
delicato momento della decisione clinica, tranquillità,
prestigio e ruolo. È necessario
modificare la normativa vigente per riuscire a risarcire i
danni senza attendere anni e,
nello stesso tempo, a migliorare la sicurezza delle cure.
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La costruzione di un modello sociosanitario
che preveda e organizzi l’intero percorso di cura del paziente
superando le attuali separatezze
LA CONTINUITÀ
ASSISTENZIALE
Il contributo fondamentale delle reti
e dei processi assistenziali
La comunicazione e l’interazione
delle strutture ospedaliere e territoriali
Gli ambiti specialistici in cui si determinano
le più significative mancanze di collegamento
e di collaborazione fra i servizi
a cui si rivolge il malato
Esperienze “sul campo”
Monografia a cura di Claudio Galanti
[email protected]
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La continuità assistenziale
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N. 179 - 2010
Carlo R. Tomassini
Direttore generale
Azienda ospedalierouniversitaria pisana
R
icordo ancora perfettamente come in occasione della analisi di un
evento sentinella in un ospedale (era circa il 2000, si
muovevano allora i primi passi dell’interesse verso i nuovi
metodi di analisi e della gestione del rischio clinico) raccogliemmo, con i miei colleghi, la percezione del vissuto
dell’esperienza del ricovero di
una paziente attraverso un
primo tentativo di narrative
medicine (altro tipo di nuovo
strumento di valutazione).
Un lungo racconto che, come
una sceneggiatura di un film,
ripercorreva la stessa esperienza di quel ricovero in modo per certi versi drammatico, in ogni caso completamente diverso dalla prospettiva tecnica ma sostanzialmente algida della scheda
FMEA che avevamo utilizzato
noi.
Si trattava del caso di una paziente alla quale nel giro di
qualche giorno erano state
cambiate terapie dai diversi
membri della équipe medica
della struttura, senza che vi
fosse una apparente motivazione: su questo avevano inciso anche diverse e contrastanti scelte diagnostiche, alcune delle quali invasive.
Il decorso, apparentemente
tranquillo, si complicò e la
degenza della paziente si tra-
Un nuovo modello
culturale, professionale
ed organizzativo
sformò in un lungo periodo di
sofferenza. Dalla scheda
FMEA si capiva che qualcosa
non aveva funzionato nelle
relazioni fra i medici del reparto ma mai così chiaramente come dalla lettura dell’esperienza raccontata dalla signora. La percezione chiara
che i vari operatori che si
succedevano al suo letto non
erano minimamente a conoscenza del ragionamento clinico del collega che li aveva
preceduti, la tranquillità con
cui ognuno dei medici formulava quindi alla signora la
propria presunta diagnosi e
gli accertamenti conseguenti,
la sicumera e la autoreferenzialità con la quale la propria
diagnosi veniva affermata.
Terapie iniziate e poi cessate.
Infine l’incapacità di capire
chi si sarebbe preso in carico
il suo problema i giorni successivi. Una sensazione di
fortissimo abbandono e solitudine, con tanta ansia e
paura, dentro il luogo più
tecnologico, professionale e
teoricamente sicuro, come un
ospedale.
Questo insieme di cose potrebbe essere utile per derivarne una prima descrizione
del termine continuità delle
cure, cosa di cui spesso parliamo invece dalla prospettiva per noi più facile, quella di
conoscitori, anche molto
Dalla erogazione di prestazioni
alla presa in carico del paziente
esperti, del nostro servizio.
Da questa prospettiva spesso
operiamo profonde riflessioni
ed analisi del fenomeno, descriviamo e classifichiamo le
varie tipologie di continuità
(quella informativa, quella
gestionale, quella relazionale
e volendo anche altre), ed infine sviluppiamo e proponiamo delle raccomandazioni
che, pur utilissime, mancano
spesso di ciò che più ci serve:
una teoria sistemica corredata di strumenti operativi per
realizzarla.
Questo argomento ci porta direttamente al tasto forse più
dolente dei nostri sistemi sanitari e che ritengo utile richiamare nel nostro caso. Se
guardiamo indietro al secolo
scorso (già pochi anni fa) e
volessimo sintetizzare ciò che
è accaduto negli ultimi decenni nel nostro mondo non
credo avremmo dubbi a segnalarne la fortissima caratterizzazione tecnologica. La
facilità con cui siamo capaci
di assorbire tutte le innovazioni che vengono offerte dal
mondo della chimica (farmaci
ed altro), della bioingegneria
(protesi ed altro), della genetica (terapie geniche), della
elettronica (sistemi robotici),
dell’informatica (algoritmi
diagnostici e terapeutici),
della fisica (grandi macchine
oncologiche) ecc. è assolutamente straordinaria. Su questa offerta spesso si è formata
e specializzata la nostra forza
professionale. Solo da un
mondo non siamo stati capaci
di assorbire altrettanto velocemente conoscenze e formazione, quello della scienza dei
sistemi. Un mondo conosciuto da tutto il resto delle
aziende ed industrie, non sanitarie, non solo di prodotto
ma anche di servizio. Un
mondo che potrebbe aiutarci
a gestire meglio il complesso
sistema che oggi siamo, e far
funzionare bene insieme,
coordinandole, sincronizzandole, integrandole, le tantissime sue componenti. Componenti non solo professionali
(medici, infermieri, tecnici e
così via) ma anche disciplinari (medicina, pediatria, chirurgia etc) e organizzative
(aziende ospedaliere e aziende territoriali ad esempio).
All’interno di questo mondo
vi sono modelli, teorie ed anche molti strumenti operativi
in grado di aiutarci a lavorare
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Territorio
La continuità assistenziale
con maggiore attenzione al
cosiddetto mondo delle operazioni che permette sostanzialmente di creare un ambiente di lavoro “a prova di
professionisti” piuttosto che
“basato sui professionisti”,
con il risultato di creare ambienti robusti ed affidabili,
con alti gradi di sicurezza intrinseca, rispetto ai risultati
che devono essere garantiti ai
nostri utenti. In questo nuovo ambiente anche le competenze e le professionalità del
singolo professionista hanno
maggiori capacità di espressione e valorizzazione.
Il tema che oggi vogliamo affrontare è quello della continuità delle cure. Credo che
come linea guida potremmo
cercare di capire prima di tutto cosa significhi continuità
per il paziente, come nel nostro esempio, all’interno di
un ospedale; oppure nel momento di passaggio fra livelli
di cura diversi come tipicamente si realizza nel momento delle dimissioni verso il
domicilio; o ancora fra professionisti all’interno della
rete di richiesta di consulenze e prese in carico.
Su queste basi (dando per
scontato che il lettore sia già
ampiamente a conoscenza
dell’argomento e abbia già
avuto modo di confrontarsi
su questo tema nella pratica
clinica e/o gestionale) forse
risulta più facile capire quali
sono i nodi critici su cui conviene lavorare di più per assicurare risultati migliori di
quelli che oggi otteniamo
(indipendentemente quindi
dal loro valore assoluto, ottimo o meno). Suggerirei solo
tre argomenti, abbastanza
puntuali, su cui ritengo che
lavorare con conoscenze e
strumenti diversi possa portare a risultati decisamente
interessanti.
Il primo oggetto di discussione è relativo ai dati, alle
informazioni che si generano
ad ogni incontro tra un paziente ed un professionista
sanitario: oggetto che poi si
trasforma, nelle raccomandazioni sulla continuità delle
cure, e si classifica sotto la
voce comunicazione. Il paradigma prevalente in questo
processo è che i dati sono di
proprietà di chi li esegue e
non del paziente. I segnali
che validano il paradigma sono molti: quando il paziente
esce da un ospedale o da un
ambulatorio esce con una
sintesi di ciò che è accaduto,
sintesi più o meno esaustiva,
più o meno corredata (spesso
meno) da immagini diagnostiche o da descrizioni dell’iter diagnostico seguito. Per
avere accesso alla completezza dei dati il paziente deve
farne richiesta, deve attendere i tempi necessari e non di
rado deve anche pagare per il
servizio. Frequentemente, nei
casi ad esempio di malattie
croniche, la sintesi è ancor
più sintetica perché serve
maggiormente al curante che
al paziente, col risultato che
questi pazienti, che tipicamente richiedono una collettività di specialisti (pensiamo
ad un paziente diabetico
piuttosto che un paziente
reumatico), spesso arrivano
allo specialista di turno con
un corredo informativo non
esaustivo e anche di cattiva
qualità. Tutte le raccomandazioni in tema di comunicazione, che lavorano stressando il
paradigma prevalente, cerca-
N. 179 - 2010
no conseguentemente di innalzare la compliance dei medici nella adesione alla chiarezza e completezza delle
informazioni. Il sistema cerca
quindi, attraverso i suoi operatori (sistema basato sui professionisti) di spingere i dati
e le informazioni verso la
tappa successiva insieme al
paziente. Questo sforzo, per
esperienza credo di tutti, ottiene risultati, anche quando
apprezzabili, di relativa breve
durata.
Cambiando paradigma gli
sforzi possono essere indirizzati invece verso soluzioni diverse e di lunga durata. Se il
nuovo paradigma fosse “i dati
sono del paziente: sono sua
proprietà e quindi lo accompagnano sempre”, come faremmo a realizzare questo
obiettivo? Molto probabilmente troveremmo delle soluzioni diverse che non si affidano alla, seppur lodevole,
adesione all’obiettivo da parte degli operatori, ma soluzioni intrinsecamente, nativamente capaci di realizzare
l’obiettivo, indipendentemente dalle caratteristiche
del professionista: ciò che si
diceva, un sistema a prova di
professionista. Forse, se il paradigma fosse stato questo
dall’inizio, non ci troveremmo oggi a confrontarci con i
mille problemi, tipici di tutte
le nostre aziende, della informatizzazione dei reparti, delle cartelle cliniche, dei numerosissimi programmi che sono
nati e cresciuti e diffusi all’interno dei nostri sistemi,
senza ordine e senza coerenza e che di fatto ci rendono
assolutamente immobili rispetto alle decisioni da prendere. È peraltro da ricordare
che il driver della ricerca di
informatizzazione dell’informazione, anche oggi, non è
tanto legato a questo nuovo
standard quanto ancora a necessità prioritariamente dell’azienda (controllo dei costi,
controllo dei volumi delle
prestazioni, controllo dei parametri di ribaltamento costi
in funzione della ricerca del
controllo del budget), il che
non è proprio consolante.
Ecco quindi che un grande
sforzo verso la gestione sicura delle informazioni può diventare una soluzione importante. La carta sanitaria su
cui la Regione Toscana, ma
non solo, si sta avviando lavora proprio in questa direzione. Ogni incontro del paziente con il SSR viene registrato e tracciato e lo accompagnerà sempre dovunque
vada. In questa direzione si
possono muovere anche tutte
quelle iniziative che, sfruttando le tecnologie oggi disponibili, riescono a realizzare con maggiore facilità il
contatto fra i vari professionisti che lavorano sul paziente, quindi ecco che i sistemi
RisPacs non sono solo sistemi
per realizzare delle economie
legate al filmless ma anche e
soprattutto oggetti che rendono facilmente disponibili le
informazioni più critiche fra
gli operatori. La possibilità
legata alla rete internet o intranet permette un rapido
scambio, anche in tempo reale, fra professionisti con il
paziente in ambulatorio evitando di ripercorrere la logica
delle richieste di consulenza
con la discontinuità temporale sottesa.
Il secondo oggetto è il lavoro
fra professionisti diversi o
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La continuità assistenziale
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gruppi diversi. Questo è ormai un dato consolidato. Se
oggi parliamo di continuità di
cure è solo perché la medicina è cambiata, e la diffusa e
strabiliante crescita delle conoscenze e delle competenze
ha determinato anche una
corrispondente frammentazione sul versante professionale. Da qui la necessità di
assicurare che i vari e spesso
numerosi elementi di conoscenza che vengono generati
intorno al paziente trovino
sempre il modo di associarsi
allo stesso. Tutti gli esperti
della gestione qualità conoscono l’affermazione secondo
la quale “la qualità cade ai
confini delle professioni, delle discipline e delle strutture”
e di conseguenza la necessità
di mantenere grande attenzione proprio su queste “terre di nessuno” attraverso cui
passa solo il paziente. Già la
considerazione espressa in
precedenza potrebbe in parte
risolvere l’argomento ma questo punto suggerisce anche
aree di intervento diverse. Se
è reale il pericolo di una caduta di tensione ai confini
che abbiamo detto, forse risulterebbe allora conveniente
creare delle aree di overlapping fra professioni, discipline e strutture in grado di attenuare il rischio del passaggio. È in questa direzione che
credo vada letto l’orientamento verso il teamworking
con il superamento della più
tradizionale forma di organizzazione delle strutture
monoprofessionali e/o monospecialistiche. Il tutto può
essere reso poi più robusto
cercando di realizzare un sistema organizzato ed esplicito di relazioni attese fra le
varie figure coinvolte e necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di cura: è il
settore classico delle clinical
paths. Il valore aggiunto di
tali strumenti è rappresentato dalla esplicitazione del
ruolo di ciascuno nella realizzazione dell’obiettivo, dalla
immediata evidenza che nessuno, senza il contributo degli altri, riesce ad ottenere il
risultato atteso e che il proprio intervento risulta, al pari degli altri, indispensabile,
infine dal fatto che esiste anche una relazione temporale
da rispettare nello svolgimento del percorso di cure e
quindi la necessità di acquisire capacità di relazione fra i
membri dell’équipe.
Un aspetto particolare, in
questo contesto, e molto importante sia per la numerosità che per la criticità, è rappresentato dal momento della
dimissione ospedaliera. La
particolarità è legata spesso
sia ad un passaggio fra due livelli di cura estremamente
diversi, l’ospedale e il proprio
domicilio, sia al fatto che il
passaggio avviene fra due
mondi professionali culturalmente e organizzativamente
diversi, nei tempi di intervento e nella concentrazione
multi professionale che caratterizza l’ospedale rispetto al
territorio. L’atteggiamento da
vincere e superare riposa sul
fatto che questo momento, la
dimissione, è ampiamente conosciuto, previsto e prevedibile sin dall’entrata del paziente nell’ospedale. Straordinariamente, ancora oggi,
nella maggior parte dei casi il
momento della dimissione è il
momento più critico perché
solo il giorno stesso spesso ci
si accorge delle difficoltà che
il paziente incontrerà nel suo
rientro al domicilio, dalla necessità di presidi, di farmaci,
di istruzioni mediche, di assistenza anche sociale. Di nuovo il paziente registrerà tutta
una serie di piccole difficoltà
che, insieme, potrebbero vanificare il grande e sofisticato
sistema di diagnosi e cura
realizzato poco prima, con il
risultato di outcome imperfetti o di reingressi ospedalieri. Ecco che in questa direzione si potrebbero muovere
dei sistemi organizzati, come
in tante realtà sta avvenendo, di agenzie ospedaliereterritoriali che, sin dai primi
giorni del ricovero, inizino a
realizzare un triage del paziente per capire se la sua dimissione sarà possibile senza
ostacoli e senza difficoltà,
preparando i familiari in tempo, attivando la rete dei servizi sociali e realizzando una
continuità stretta con il medico di medicina generale e
del servizio infermieristico
territoriale. I lavori, anche
italiani, che hanno sperimentato modelli integrati, fra
ospedale e territorio, della
gestione della dimissione e
del follow-up in pazienti anziani, riescono a dimostrare
una riduzione dei tassi di
mortalità.
Il terzo oggetto è la continuità delle cure nella dimensione tempo. Questo aspetto
è spesso trascurato oppure
letto solo nella monodimensionalità del tempo della lista
di attesa. Questo è peraltro il
campo in cui maggiore è la
responsabilità e visibilità di
intervento della organizzazione sanitaria, là dove il
mondo della scienza dei siste-
mi può portare i suoi maggiori contributi e aiutarci a risolvere uno dei problemi che
maggiormente affliggono i
nostri sistemi.
Se è vero, come abbiamo detto, che il percorso del paziente è spesso il risultato di tantissimi interventi che idealmente si connettono fra loro
come tanti pezzi di un
puzzle, quindi con un ordine
e una posizione precisi, per
dare tutti insieme la vera e
perfetta immagine che stiamo cercando, non possiamo
accontentarci di questo. Abbiamo bisogno anche di considerare la continuità temporale con cui questi pezzi del
sistema si correlano fra loro.
L’ideale è rappresentato da
un succedersi, senza soluzione di continuità, di tutte le
attività necessarie.
Il fattore tempo è sicuramente, in generale, una caratteristica di un servizio che apprezziamo tutti moltissimo
nei termini di tempestività.
Nel caso di un servizio sanitario la tempestività assume
sempre più valore diagnostico
e terapeutico, e con questa
nuova dimensione dobbiamo
confrontarci.
A livello dei nostri servizi già
abbiamo problemi di apparente sproporzione fra domanda e offerta con la prima
che supera di gran lunga la
seconda, se chiediamo di aggiungerci anche il rispetto,
per ogni singolo paziente, di
una continuità temporale
senza soluzioni, allora rischiamo realmente di stressare il sistema al punto da creare danni enormi.
(segue a pag. 89)
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F. Di Stanislao1,2
M. Visca1, G. Caracci1
F. Moirano1
1
Agenzia nazionale per i Servizi
sanitari regionali
2 Università Politecnica
delle Marche
La conoscenza è una navigazione
in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze.
E. Morin
Q
uesto contributo si pone l’obiettivo di condividere con i lettori alcuni approdi (gli “arcipelaghi
di certezze”) sul tema integrazione/continuità maturati
nel corso del nostro percorso
formativo e nelle nostre esperienze professionali di programmazione e organizzazione sanitaria. Tali approdi sono stati alimentati dall’esperienza sul campo e dalla fertilizzazione crociata con altri
saperi (la sociologia, l’epistemologia, le scienze organizzative, la pedagogia, ecc.)
che hanno rappresentato un
faticoso processo di continua
destrutturazione del sapere,
ma nel contempo un percorso
euristico di ricerca, di scoperta, di apprendimento che ha
influenzato profondamente il
nostro modo di leggere la
realtà organizzativa e di
orientare/condizionare scelte
e decisioni operative.
Navigare nell’incertezza
In sanità tutto è in continua
trasformazione, instabile, incerto. Di seguito si riporta una
sintetica riflessione su tre termini di riferimento del nostro
navigare nel paradigma reticolare dei servizi sanitari.
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Sistemi integrati
e continuità nella cura
Le conoscenze
L’espansione e l’accelerazione
delle conoscenze in campo
biomedico, manifestatesi tumultuosamente nel corso degli ultimi decenni, si trascinano come conseguenza necessità e rischi (Morin, 1985).
– necessità è quella di sviluppare discipline sempre
più specifiche per delimitare un dominio di competenza, senza il quale la conoscenza diventerebbe
inafferrabile. La segmentazione disciplinare estrae,
svela o costruisce un oggetto non banale per lo
studio scientifico;
– rischi sono quelli della
compartimentalizzazione,
frazionamento, riduzionismo del sapere cui consegue una inevitabile iperspecializzazione che si trascina di conseguenza:
• l’unidimensionalizzazione del multidimensionale,
• la disgiunzione dei problemi, separando ciò
che è tessuto insieme
(complexus),
• la generazione di una
sorta di autosufficienza
della disciplina, una
“cosificazione” dell’oggetto studiato e processi di inarrestabile e progressiva autoreferenzialità, nonché conseguen-
Implementazione delle reti
e dei processi assistenziali
ti distorsioni interpretative e perdita della visione dell’insieme.
Questa situazione, si scarica
drammaticamente sui professionisti della sanità chiamati
da una parte ad un continuo
rimodellamento delle conoscenze specialistiche/particolari (si stima che nell’arco di
un quinquennio metà del patrimonio cognitivo deve essere aggiornato) e delle operatività che ne derivano, dall’altro
a dare vita a nuove forme assistenziali ed assetti organizzativi per assicurare ai pazienti
interventi “olistici” sempre
più globali e completi in termini tecnici, relazionali e sociali. Una tensione su poli opposti (iperspecializzazione/
pensiero sistemico) che non è
presente in altre organizzazioni di servizi alla persona e che
è vissuta quotidianamente dagli operatori e spesso misconosciuta dai manager/politici
che governano il sistema.
L’organizzazione
Viviamo tutti l’incessante rimodellizzazione del SSN negli
aspetti normativi e negli assetti organizzativi (Fiorino,
2008; Goldstein, 2008). Assi-
stiamo ai continui mutamenti
del numero e della varietà
delle strutture interne alle
aziende sanitarie, agli ospedali, ai distretti per rispondere più compiutamente ai bisogni dei cittadini. Dipartimenti, unità operative complesse
e semplici, di valenza differenziata, incarichi professionali di alta specializzazione
hanno occupato il posto dell’organizzazione precedente,
molto più semplice, basata su
divisione, servizio e sezione.
Nelle organizzazioni sanitarie, vi è un continuo reciproco processo di adattamento di
un’unità alle altre e dell’intera organizzazione all’ambiente esterno. Ogni reparto è libero di agire, capace di azione semiautonoma, è collegato agli altri reparti da legami
non rigidi, non sempre e non
tutti codificabili. Ognuno di
essi è formalmente autonomo
e ha risorse, confini, obiettivi
specifici ma non può funzionare senza gli altri. Ogni “reparto” è indispensabile agli
altri e a sua volta ha bisogno
degli altri.
Il funzionamento di un’organizzazione sanitaria non dipende solo dal comportamento
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delle sue unità organizzative,
ma anche da quello dei singoli
professionisti che vi operano.
Essi sono agenti individuali e
rappresentano l’unità elementare della complessità delle organizzazioni sanitarie.
Ai medici, e ai professionisti
sanitari, si richiede capacità
di prendere decisioni e di agire in modo indipendente e, se
la situazione lo richiede, la capacità di coordinare la propria
attività con quella di altri. I
professionisti della sanità
operano con una considerevole autonomia decisionale e sono di conseguenza restii ad
assumere una posizione subalterna o a perseguire obiettivi
organizzativi che siano non
direttamente collegati ai loro
scopi professionali. Essi attribuiscono maggiore valore al
riconoscimento professionale
che a quello ottenuto dall’organizzazione. Accettano il
controllo quando è esercitato
“tra pari”, e non da un’autorità gestionale o sulla base di
norme organizzative.
La possibilità terapeutica è
affidata al coordinarsi di molti operatori di molti servizi.
Di qui nasce la particolare
difficoltà del coordinamento
e del controllo delle organizzazioni sanitarie.
I pazienti
Sono sempre più complesse,
articolate e consapevoli le domande rivolte alla medicina:
non più solo cura ma salute,
benessere, prevenzione, assistenza, riabilitazione, promozione della salute, educazione
alla salute. Quello che un
tempo era il “malato”, ora
viene definito utente, cliente,
1
cittadino-utente. L’approccio
centrato sul paziente affianca
e integra quello centrato sulla
malattia. Sappiamo che spesso per curare un paziente
dobbiamo estendere le nostre
competenze alla sua dimensione sociale, culturale e psicologica. Viene richiesto di
essere distaccati osservatori
della malattia e contemporaneamente di essere capaci di
empatia ed empowerment.
Dobbiamo abituarci a considerare il paziente soggetto degli
interventi che lo riguardano e
non oggetto dell’agire medico. Dobbiamo imparare a sviluppare la capacità di coping
(ability to cope, capacità di
fare fronte), elemento, questo, che, in contrasto con il
classico concetto di “prendere
in carico” (che sottintende un
rapporto di dipendenza e di
potere), pone l’accento sull’importanza dell’autonomia e
delle “modalità riequilibranti”
interne a ogni individuo (risorsa fondamentale nel caso
delle malattie croniche), e, in
una prospettiva sociale, sull’importanza del coping verso
l’ambiente visto non solo in
termini individuali, ma anche
collettivi (Di Stanislao, 2000).
temporalità, di non dimenticare mai le totalità integratrici”. Riteniamo che i concetti
d’integrazione e, come suo
epifenomeno, continuità abbiano rappresentato gli obiettivi sottostanti a tutte le innovazioni attuate nelle organizzazioni. In campo sanitario
l’obiettivo è quello di ridurre
la frammentazione nell’erogazione dell’assistenza attraverso il potenziamento del coordinamento e della continuità
della cura all’interno e tra le
diverse istituzioni variamente
coinvolte nell’assistenza dei
pazienti con problemi complessi (Ovretveit, 1998).
Integrazione
Per quanto riguarda le tipologie d’integrazione rispetto al
bisogno dell’utente e alla sua
complessità si possono riprendere le tradizionali distinzioni di Leutz (1999)
(Fig. 1): linkage, coordination
e full integration.
– Linkage. Relazioni funzionali semplici tra servizi diversi, con un approccio all’integrazione che richiede
pochi cambiamenti e che
Gli obiettivi della navigazione: integrazione/continuità
Morin ci ha insegnato che “il
metodo della complessità richiede di pensare senza mai
chiudere i concetti, di spezzare le sfere chiuse, di ristabilire
le articolazioni fra ciò che è disgiunto, di sforzare di comprendere la multidimensionalità, di pensare con la singolarità, con la località, con la
Cfr. anche l’articolo Di Stanislao et al. in questo stesso numero della rivista.
opera nel contesto degli attuali sistemi frammentati.
– Coordination. Attua un ribilanciamento e un’integrazione del sistema attraverso la creazione di una
terza infrastruttura e meccanismi appositamente definiti, in cui soggetti/organizzazioni diverse mantengono la propria autonomia, ma si coordinano in
modo sistematico per consentire di superare il gap
tra la pluralità di servizi e
gli utenti, senza stravolgere il sistema esistente.
– Full integration. Implica
un’organizzazione unitaria
e una modalità di governo
centralizzata, che riguarda
la completa revisione e il
consolidamento di tutte o
della maggior parte delle
responsabilità, delle risorse
e dei finanziamenti esistenti. È rivolta prevalentemente a particolari gruppi
di soggetti.
Continuità1
La comunità scientifica appare, nel suo complesso, concorde con le indicazioni emerse
Fig. 1. Tipologie integrazione.
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dal rapporto del CHSRF (Reid
et al., 2002) che individua due
elementi core e tre tipologie
della continuità assistenziale.
I due elementi core che definiscono il concetto di continuità dell’assistenza sono:
– l’esperienza dell’interazione tra l’individuo e gli operatori che forniscono assistenza (providers);
– l’assistenza fornita nel corso del tempo.
Stante gli elementi core della
continuità, questa è declinata attraverso tre tipologie di
dimensioni:
1. Continuità relazionale (Relational continuity). Consiste nella relazione continua del paziente con diversi professionisti sanitari e sociosanitari che forniscono assistenza in modo
organico, coerente e attento allo sviluppo del
percorso di trattamento in
senso prospettico.
2. Continuità gestionale (Management continuity). Questo si realizza attraverso
un’azione complementare e
temporalmente coordinata
e integrata dei servizi/professionisti coinvolti nel sistema di offerta assistenziale. È particolarmente
importante in patologie
cliniche croniche o complesse, che richiedono l’integrazione di più attori
professionali/istituzionali
nella gestione del percorso
paziente.
3. Continuità informativa (Informational continuity).
Permette la comunicazione
tra i soggetti istituzionali/professionali che afferiscono ai differenti setting
assistenziali nel percorso
di cura del paziente. Ri-
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La continuità assistenziale
guarda informazioni non
solo sulla condizione clinica, ma anche sulle preferenze, le caratteristiche
personali e di contesto,
utili ad assicurare la rispondenza al bisogno di
salute.
Gli arcipelaghi di certezza:
reti e processi assistenziali
La traduzione istituzionale e
operativa delle logiche di integrazione/continuità dell’assistenza è nella progettazione e implementazione
delle reti e dei processi assistenziali, che riteniamo siano, a oggi, strumenti ineludibili per perseguire gli
obiettivi fondamentali del
nostro sistema sanitario
(equità, efficacia, efficienza)
attraverso:
– La promozione delle dinamiche di clinical governance e l’integrazione dei percorsi assistenziali tra le diverse istituzioni coinvolte
(strutture di medicina di
base, ospedaliera, territoriale, ecc.) per far fronte alla complessità dei bisogni e
ai trend epidemiologici (invecchiamento popolazione,
cronicizzazione, pluripatologia, ecc) che spingono
verso approcci pluridisciplinari e forme di integrazione verticali (tra i diversi
livelli assistenziali) e orizzontali (all’interno degli
stessi livelli).
– L’attivazione di processi di
benchmarking e benchlearning al fine di permettere
alle singole componenti
della rete di disporre di
informazioni e dati utili a
promuovere processi di miglioramento gestionali, finanziari e qualitativi.
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– La razionalizzazione del
sistema di offerta dei servizi sul territorio al fine di
evitare duplicazioni in alcuni luoghi e carenza in
altri.
– Il garantire una politica
centralizzata degli investimenti soprattutto per ciò
che riguarda tecnologie ed
impianti ad elevata specializzazione e alti costi di
acquisto e gestione.
– Il perseguimento di economie di scala grazie all’accentramento di alcune
funzioni in staff (acquisti,
amministrazione, manutenzione, ecc.).
Le reti
Nei sistemi sociali, economici,
istituzionali e aziendali da
tempo sono emersi modelli di
organizzazione complessa ma
flessibile, caratterizzati dalla
presenza di forme di cooperazione tra soggetti individuali
e collettivi che perseguono un
comune obiettivo. Tali modelli organizzativi complessi, definibili come reti organizzative o imprese di reti, sono
composti di soggetti individuali e collettivi ad alta capacità di auto-organizzazione,
che instaurano tra di loro modalità differenti di relazione
reciproca, costruiscono delle
relazioni più stabili e strutturate e agiscono in riferimento
ad obiettivi condivisi, cercando linguaggi comuni, condividendo valori, dotandosi di sistemi di coordinamento e
controllo e di monitoraggio
(Meneguzzo, 2008). Il nucleo
delle reti cliniche è la rete dei
professionisti di una determinata famiglia professionale
che decide dove allocare i saperi della specialità e i servizi
a essi collegati (Lega e Tozzi,
2009).
I network (reti) sono soluzioni
istituzionali e gestionali nate
dall’interdipendenza di più
aziende, pubbliche, private,
per affrontare problemi complessi e per la necessità di
avere infrastrutture adeguate
agli sviluppi internazionali o
alle riforme dei sistemi di welfare (O’Toole, 1997; Rittel e
Webber, 1973). Nel settore
pubblico le reti si caratterizzano come naturale evoluzione delle logiche di public governance e dei processi propri
dell’economia della regolazione. Esse si caratterizzano come knowledge e labor intensive, con servizi di alta personalizzazione e dominanza dagli assetti intangibili, in linea
con la società della conoscenza. La logica reticolare permette di affrontare in modo
più sistematico le necessità di
gestione unitaria di bisogni
sanitari sempre più complessi, in un contesto di sostenibilità economiche.
Gli elementi caratterizzanti la
rete
In merito ai contenuti delle
reti interorganizzative Gugiatti (1996) ha individuato
tre elementi base che caratterizzano qualsiasi configurazione interorganizzativa.
– I nodi della rete, quelle
parti (aziende, enti, strutture; comuni, distretti,
strutture funzionali, gruppi, di lavoro,gruppi professionali,gruppi sociali, persone) che costituiscono la
rete stessa e che secondo
Butera (1990) presentano
la capacità di sopravvivere
autonomamente e di comunicare con gli altri
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sistemi per lo scambio di
valori ed informazioni.
– Le connessioni della rete, i
legami a due a due tra i
nodi che consentono la
trasmissione e la diffusione all’interno della rete
degli artefatti (fisici, intellettuali, informativi)
prodotti da ciascun nodo
(Cartoccio e Fabbro, 1992):
cooperazione lavorativa
(fare); connessioni burocratiche (eseguire disposizioni); informazioni (trasmettere e ricevere informazioni); comunicazioni
(intendersi); impegni e obblighi; processi decisionali, ecc. (Pipan, 2009).
– Le proprietà operative della
rete, ciò che definisce il
funzionamento della rete
comprendendo sia la dimensione culturale (ad es.
l’insieme di linguaggi, i codici e valori che guidano i
comportamenti) sia le
scelte di assetto dei sistemi operativi (ad es. pianificazione e controllo, ricerca e sviluppo, gestione
del personale).
La tipologia delle reti
In sanità i modelli operativi
di integrazione delle organizzazioni secondo il concetto di
rete sono numerosi e potenzialmente infiniti, in quanto
si distinguono principalmente per l’intensità e l’eventuale
natura gerarchica delle relazioni funzionali fra i punti di
produzione dei servizi, e
oscillano tra due dimensioni:
le reti integrate orizzontali e
verticali.
Integrazione orizzontale
Le reti integrate orizzontali
prevedono la concentrazione
della gestione del sistema reticolare di produzione, senza
individuare a priori una gerarchia fra i punti di produzione. Esse sono orientate a
realizzare la cooperazione fra
erogatori che operano in uno
stesso setting assistenziale e
sono finalizzate a stabilire
una collaborazione clinica sistematica che si concretizza
nella condivisione di conoscenze, informazioni e modalità operative. Butera (1990)
la definirebbe rete paritetica
senza un vero centro gravitazionale (es.: i dipartimenti
ospedalieri; i dipartimenti
transmurali; i dipartimenti
interaziendali; i servizi distrettuali).Tale modello prevede, al fine di sfruttare la
massima potenzialità dei servizi presenti nel territorio, di
mettere in rete tutte le differenti tipologie di prestazioni
all’interno di una stessa branca o area di attività che le
differenti realtà aziendali attualmente erogano in maniera frammentata o disomogenea in modo da offrire a tutti
i cittadini lo stesso livello di
servizi e con la stessa qualità.
Integrazione verticale
La traduzione organizzativa
del modello di rete sanitaria
ad integrazione verticale è il
cosiddetto sistema hub &
spoke che prevede la concentrazione dell’assistenza di
elevata complessità o rara in
centri di eccellenza (hub),
supportati da una rete di servizi (spoke) cui competono il
primo contatto con i pazienti
e il loro invio a centri di riferimento quando una determinata soglia di gravità clinicoassistenziale viene superata e
si richiedono competenze in-
tense che non possono essere
assicurate in modo diffuso,
ma devono essere concentrate in centri regionali di alta
specializzazione (o tecnologici) cui sono inviati gli ammalati dagli ospedali del territorio. La rete integrata verticalmente ha due obiettivi prioritari: fornire delle economie di
scala che derivano dalla condivisione di servizi ed assicurare la continuità assistenziale, poiché tutti i nodi della
rete condividono linee guida
cliniche e protocolli diagnostico-terapeutici. Il tentativo
è quello di conciliare esigenze diverse e talvolta tra loro
contrastanti: ossia una distribuzione generale dei servizi
sul territorio tale da garantire facilità di accesso ai cittadini, la soddisfazione delle
preferenze e delle aspettative
di questi ultimi, la concentrazione degli interventi a
elevata complessità in centri
di riferimento quale garanzia
di qualità e sostenibilità dei
costi.
Un modello che potremmo
definire misto (integrazione
verticale/orizzontale) è quello del modello poli/antenne
dove le specialità e i livelli di
intensità sono sparsi nella rete e ogni nodo è contemporaneamente un hub e uno spoke
su attività differenti per l’intera rete.
Nel “continuum” dell’integrazione orizzontale/verticale
possono essere individuate
diverse tipologie di network.
Tra le tante classificazioni riportiamo quella di Goddwin
(2004), ripresa in larga misura dal NHS (Kennedy, 2007),
che descrive quattro tipologie generali e strutturali. Le
tipologie sopra illustrate so-
no forme di organizzazione
sociale e derivano dall’incrocio di due dimensioni basilari
di un’organizzazione: il livello di regolamentazione sociale
(concerne il livello di regole e
norme che governano la vita
sociale) e il livello di integrazione sociale (riguarda il livello per il quale la vita sociale di un individuo è legata
agli altri singolarmente e/o
attraverso gruppi).
Regolamentazione sociale
1. Hierarchical networks. Sono fortemente regolati e
integrati; tali network
hanno un core organizzativo (es. uno steering group)
che ha l’autorità per governare i membri dei
network periferici. Tali
network hanno molte caratteristiche delle organizzazioni individuali.
2. Enclave networks. Sono
usualmente fortemente integrati e debolmente regolati (struttura piatta).
I membri condividono
informazioni, idee e strategie e nuovi modelli di lavoro. Queste organizzazioni possono essere anche
descritte come network di
coalizione di interessi.
3. Individualistic networks.
Sono debolmente regolati e
integrati. I soggetti (individui o organizzazioni) in
tali network cercano di occupare una posizione centrale tra le differenti organizzazioni gerarchiche o
enclave al fine di controllare i collegamenti tra tali
gruppi. A volte è chiamato
network a legame flessibile
o network a farfalla.
4. Isolates. Sono fortemente
regolati ma debolmente
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integrati; gli isolates hanno pochi legami, sono poco responsabili nei confronti degli altri e generalmente non sono coinvolti
nei network.
Integrazione sociale
1. Learning and informational
network. Una forma molto
comune di network che permette agli stakeholder di
condividere idee e informazioni, best practice, policy e
strategie, ma non necessariamente lo sviluppo di
nuove strutture di offerta.
Finanziariamente sono sostenuti dai membri (individui/organizzazioni) stessi
del network e coordinati
per lo più da un organo
rappresentante o da un’agenzia governativa o da
un’istituzione neutra di
supporto (es. università).
2. Co-ordinated Health and
Social Care Network. Tali
network sono più integrati
formalmente: lo scopo è
quello di promuovere la
riorganizzazione del servizio attraverso partnership
istituzionali di professionisti. Una forma di
network coordinato è il
modello hub & spoke che
ripartisce ruoli e funzioni
tra ospedali al fine di migliorare l’accesso e/o rendere più efficace l’utilizzo
del servizio.
3. Procurement network. Soprattutto negli Stati Uniti
si è sviluppata la tendenza
a provvedere a tutti gli
elementi che compongono
il “continuum” assistenziale, dall’assicurazione sanitaria ai servizi ospedalieri e non fino al long
term care. Tale rete si svi-
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luppa attraverso la strategie a livello di corporate,
strategie funzionali attraverso lo sviluppo di sistemi informatici e di finanziamento che permettano
acquisti comuni e attraverso l’integrazione tra i clinici (case-management).
4. Managed network. È una
forma meno co-ordinata e
più organizzata, controllabile e chiusa di network. Un
esempio è il Kaiser Permanent negli USA che ha: una
popolazione definita (cfr
gli iscritti); una responsabilità contrattuale per un
pacchetto definito e completo di servizi sociosanitari; un network chiuso ad un
gruppo ristretto di provider
retribuiti (o a contratto o
dipendenti); un’enfasi sulle
cure primarie e servizi non
istituzionali extramurari;
un utilizzo di revisioni sistematiche o del disease
management per migliorare
la qualità.
Indipendentemente dalla
struttura delle relazioni della
rete due, sono le condizioni
base che devono sussistere affinché un network si costituisca e perduri nel tempo (Jarrillo, 1988; Grandori, 1989;
Luke et al., 1989; Powell,
1990; Cartoccio e Fabbro,
1992; Thomas et al., 1992;
Zuckerman et al., 1995):
– Deve esistere una comunanza e condivisione di intenti strategici e/o di
obiettivi perseguiti dalle
organizzazioni inserite
nella rete.
– Tutte le organizzazioni che
partecipano alla rete in
qualche modo devono trarre beneficio dalla loro partecipazione ed i meccani-
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smi di redistribuzione dei
benefici complessivamente
accumulati devono essere
corretti, equi, trasparenti.
Ulteriori requisiti suggeriti da
Wall e Boggust (2003) sono:
– Supporto di procedure basate sulle prove di efficacia.
– Struttura organizzativa e
gestionale chiara.
– Ricorso costante a processi
educativi e di addestramento.
– Rappresentazione dei pazienti nella gestione della
rete.
– Garanzia dei livelli di responsabilità e di qualità.
Nella già citata ricerca dell’AgeNaS (2009) il “focus” sui
fattori prioritari d’implementazione delle reti cliniche ha
evidenziato che il coinvolgimento e la responsabilizzazione dei professionisti della rete
(nonché il supporto di un
coordinamento tecnico regionale) e la presenza di risorse
dedicate rappresentano i due
principali fattori che offrono
la garanzia di alta probabilità
di successo di qualsiasi progetto di rete (Di Stanislao et
al., 2009).
Quali evidenze sui vantaggi
delle reti?
In maniera sintetica tra i vantaggi più comuni emersi da indagini di letteratura (Lega,
1998; Wall e Boggust, 2003;
Goddwin 2004) possono essere
elencati i seguenti: potenziale
di cura del paziente senza discontinuità, assistenza integrata attraverso i confini fra le
professioni e le valenze assistenziali; differenziazione dei
contributi professionali; utilizzo più efficiente dello staff;
condivisione di good e best
practice; maggiore equità di
accesso ai servizi; centralizzazione del paziente nel percorso di cura; protezione e supporto reciproco; sviluppo di
opportunità di apprendimento
organizzativo; maggiori disponibilità di risorse; economie di
scala; prevenzione della duplicazione di sforzi e delle risorse; condivisione dei costi di ricerca e sviluppo; maggiore circolazione delle informazioni e
accelerazione dei processi di
diffusione dell’innovazione;
evoluzione e disponibilità al
cambiamento; accesso a nuove
risorse manageriali.
I processi assistenziali
All’interno della logica dei
processi assistenziali (Auder
et al, 1990; Woolf, 1990;
Shekim, 1994; Pearson et al,
1995; Panella et al., 1997,Morosini et al., 2004; Di Stanislao, 2005) si possono ricomprendere tutte quelle strategie assistenziali che identificano, per specifiche categorie
di pazienti e in specifici contesti locali, le sequenze degli
atti da effettuare al fine di:
migliorare gli esiti, contenere
le variazioni non necessarie
nei trattamenti, ridurre al
minimo i rischi per i pazienti,
eliminare il più possibile i ritardi e gli sprechi.
Le strategie assistenziali basate sulle logiche dei processi
affondano le loro radici nell’humus della Evidence Based
Medicine (Cochrane, 1999) e si
differenziano tra loro per i livelli di attenzione posti, nella
loro costruzione e implementazione, alle dimensioni sinteticamente riportate in Tab. 1.
Tali strategie si dispongono
quindi su livelli di complessità
crescente, a secondo delle dimensioni coinvolte, partendo
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dai Protocolli diagnostico-terapeutici (PDT) nei quali il “focus” è sugli aspetti prevalentemente clinici con un approccio comunque multiprofessionale e multidisciplinare,
fino a giungere al Disease Management dove la rilevanza
degli aspetti organizzativogestionali (cultura aziendale,
coordinamento organizzativo,
sistemi informativi, ecc.) da
una parte e l’empowerment/
partnership del paziente, della
famiglia e della comunità sono fattori imprescindibili dell’azione assistenziale.
Da un punto di vista dei modelli di riferimento si è passati
dal modello del Managed Care,
nato negli USA intorno alla
metà del secolo scorso, quando le industrie avvertirono la
necessità di contrattare con le
organizzazioni sanitarie pacchetti predefiniti di prestazioni per i propri dipendenti
(Fairfield et al, 1997; Robinson e Steiner, 1998), trasferendo le logiche della quality
assurance industriale a quello
sanitario (i primi percorsi assistenziali derivavano dalla tecnica dei critical pathways –
percorsi critici- usata nel mondo industriale per ottimizzare
i tempi di lavoro, al Chronic
Care Model2, sviluppato sem-
pre negli USA dalla metà degli
anni ’90 (Katon et al., 1995;
Wagner et al, 1996 (1 e 2); Wagner, 1996; Von Korff et al.,
1997), nel quale venne ridefinito l’approccio alle malattie
croniche spostando i modelli
di assistenza da un approccio
reattivo, basato sul “paradigma dell’attesa” dell’evento
acuto, ad un approccio proattivo, improntato al paradigma
preventivo, dell’evitamento o
del rinvio nel tempo della progressione della malattia, sull’empowerment del paziente (e
della comunità) e alla qualificazione del team assistenziale
(sanitario e sociale), paradig-
mi che sono alla base del Disease Management.
Quali evidenze per gli approcci assistenziali basati sui processi?
Nel corso di questi ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi sulla capacità
degli approcci legati al Chronic Model Care di migliorare
gli outcome di salute (Harris,
1997; Bodenheimer et al.,
2002 -1 e 2; Tsai et al., 2005;
Ouwens et al., 2005 e di abbassare i costi dell’assistenza
(Wagner et al., 2001; Goetzel
et al., 2005; Huang et al.,
2007; Huang et al., 2008).
Analoghe evidenze sono presenti in letteratura sulla capacità dei clinical pathways di
migliorare la qualità dei processi (reale applicazione delle
raccomandazioni/protocolli/
linee guida diagnostico-terapeutico e assistenziali) e degli esiti (Rotter et al., 2008;
Barbieri et al., 2009; Panella
et al., 2009).
In Tab. 2 si è riporta un quadro sinottico degli elementi
concettuali sommariamente
sin qui esposti (integrazione
– reti – processi – continuità
assistenziale) disposti lungo
un ipotetico asse di livelli di
complessità3.
Tab. 1. La logica dei processi di assistenza sanitaria: le dimensioni delle strategie d’intervento.
Il Chronic Care Model individua in modo puntuale le variabili fondamentali che rendono possibile un approccio “sistemico” alle malattie croniche, “sistemico” in quanto muove tutte le leve organizzative ed operative per promuovere un approccio appropriato da parte degli operatori. Il Chronic Care Model pone in risalto 6 aree di intervento per migliorare l’assistenza ai pazienti affetti da patologia cronica: 1. Il sistema organizzativo
(health system): creare una cultura, un’organizzazione e meccanismi che promuovano un’assistenza sicura e di alta qualità; 2. Il disegno del sistema di erogazione (delivery system design). Assicurare l’erogazione di un’assistenza clinica efficace ed efficiente e di un sostegno auto-gestito; 3. I
processi decisionali (decision support). Promuovere un’assistenza clinica che sia in accordo alle evidenze scientifiche e alle preferenze del paziente; 4. Il sistema informativo (clinical information systems). Organizzare i dati relativi ai pazienti e alle popolazioni per facilitare un’assistenza efficace ed efficiente; 5. Il sostegno all’autogestione (self-management support). Potenziare e preparare i pazienti a gestire la loro salute e la loro assistenza; 6. Le connessioni con la comunita’(the community). Mobilizzare le risorse della comunità per incontrare i bisogni dei pazienti.
3 Nota degli Autori: I confini classificatori sono come sempre arbitrari e sfumano l’uno nell’altro, ma riteniamo in estrema sintesi che a bisogni
sanitari complessi (patologia mentale, patologie croniche evolutive, soggetti “fragili” come gli anziani, le gravi disabilità fisiche/psichiche/sensoriali, ecc.) occorra rispondere, per avere qualche concreta “chance” di successo, con modelli organizzativi/operativi congruenti e quindi altrettanto
complessi. La sintesi proposta, con la inevitabile semplificazione che ogni sintesi comporta, peraltro può essere di ausilio nella navigazione che gli
operatori quotidianamente affrontano nel nostro servizio sanitario.
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Tab. 2. Bisogni, integrazione, reti, processi, continuità assistenziale e livelli di complessità: un quadro sinottico.
Consolidare gli arcipelaghi
Sviluppare le reti e i processi? È una domanda retorica
in quanto, come giustamente affermano Lega e Tozzi
(2009), non abbiamo scelta.
E tale scelta è:
– “Spinta” dal passato: una
risposta ai problemi posti
dal disease management
che riempiono da un ventennio l’agenda delle politiche sanitarie.
– “Tirata” dal futuro: per le
considerazioni di ordine
epidemiologico (invecchiamento popolazione,
cronicizzazione, pluripatologia, ecc), per garantire
di prevenire/posticipare la
severità delle malattie croniche, per anticipare l’evento acuto e per aumentare i gradi di sostenibilità
dell’intervento pubblico.
Inoltre, come abbiamo sinte-
ticamente riportato, aumentano nel tempo le evidenze
della loro capacità di corrispondere alle tre E di un sistema sanitario di qualità:
equità, efficacia, efficienza.
Quali indicazioni per sviluppare e consolidare questi arcipelaghi in modo da dar
sempre più senso fattuale alle
parole integrazione/continuità?
Innanzitutto ci sembra di
grande “saggezza” tener conto delle “leggi” di Leutz
(1999) sull’integrazione:
– È possibile integrare alcuni
dei servizi per tutti i cittadini, tutti i servizi per alcune delle persone, ma
non è possibile integrare
tutti i servizi per tutte le
persone.
– L’integrazione ha dei costi
prima che dia dei benefici.
– La tua integrazione è la
mia frammentazione.
– Non si può integrare un
piolo quadrato e un buco
rotondo.
– Colui che integra detta il
tempo e le regole.
La prima legge ci indica un
percorso di sano realismo:
l’ottimo è il contrario del possibile. Partiamo nell’implementazione delle logiche dell’integrazione dalle esperienze consolidate, anche se solo
in alcuni specifici settori,
consolidiamo le esperienze e
sfruttiamo nel tempo l’effetto
di una sana “contaminazione” in altri settori.
La terza legge ci richiama a
quel doloroso processo indicato in premessa di destrutturazione del proprio sapere
e di crisi “professionale”,
crisi che, come sintetizzato
nell’ideogramma cinese della
parola crisi, comporta un pe-
ricolo ma anche l’opportunità
di avviare un percorso euristico di ricerca, di scoperta,
di apprendimento e quindi di
miglioramento continuo. Un
cambiamento culturale che è
possibile, come testimoniano
le numerose esperienze in
atto.
Sembra inoltre opportuno richiamare le indicazioni emerse dall’European Social
Network Conference tenutasi a
Edimburgo nel luglio del
2005. Nella sintesi del documento Integrated Care. A Guide for Policymakers (Lloyd et
Wait, 2005) vengono riportati
i punti che seguono:
L’assistenza integrata è diventata una componente fondamentale della salute e delle
riforme dell’assistenza sociale
in tutta Europa.
L’assistenza integrata cerca di
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colmare la tradizionale divisione tra assistenza sanitaria
e sociale. In tal modo, essa
può:
– affrontare il cambiamento
della domanda di assistenza derivanti dall’invecchiamento della popolazione,
– offrire un’assistenza che è
centrata sulla persona, riconoscendo che gli esiti
dell’assistenza sanitaria e
sociale sono interdipendenti,
– facilitare l’integrazione sociale dei gruppi più vulnerabili della società attraverso un migliore accesso
ai servizi della comunità
flessibili,
– portare ad una migliore efficienza del sistema attraverso un migliore coordinamento dell’assistenza.
Mettere i modelli di assistenza integrata in pratica, pone
sfide importanti a livello politico, organizzativo e di erogazione dei servizi.
L’esperienza di cure integrate
finora è limitata, ma promettente. Ulteriori ricerche sono
necessarie per garantire che
l’applicazione dei modelli
proposti è fattibile, sostenibile e si traduce in migliori
condizioni di salute.
Le politiche devono essere
adattate alle realtà locali.
Le 8 raccomandazioni per i responsabili politici per portare
avanti l’agenda sull’assistenza integrata.
1. Garantire che lo sviluppo
delle cure integrato è compatibile con la salute e le
altre politiche di assistenza sociale.
2. Fissare obiettivi realistici
per i modelli di assistenza
integrata. Prestare particolare attenzione alle possibili sfide in fase di esecuzione.
3. Investire nella formazione
di tutti i professionisti
che per colmare il divario
culturale tra assistenza
sanitaria e sociale. Questo
allo scopo di facilitare il
coordinamento delle cure
e favorire il rispetto reciproco.
4. Chiedersi per quali soggetti si è cominciata ad inte-
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grare l’assistenza e trovare
il giusto equilibrio tra
utenti e fornitori dell’assistenza integrata.
5. Stringere legami più stretti tra responsabili politici,
professionisti e ricercatori
in modo di apprendere dall’esperienza.
6. Condividere la ricerca e le
migliori pratiche all’interno e tra i paesi.
7. Condurre ricerche sul rapporto costo-efficacia per
determinare gli effetti dei
diversi modelli di assistenza integrata in materia di
uso delle risorse e risultati
di salute.
8. Esplorare le possibilità della tecnologia per facilitare
l’attuazione delle cure integrate.
Per concludere, riprendendo
alcune suggestioni della Conferenza di Edimburgo:
– L’esperienza di cure integrate finora è limitata, ma
promettente. I veri cambiamenti organizzativi e
culturali non avvengono
nel corso di una legislazione ma di qualche lu-
stro. A un trentennio dell’istituzione del Servizio
sanitario nazionale sono a
tutti evidenti gli enormi
passi avanti effettuati.
Tutti i sistemi regionali si
sono mossi. Alcuni, favoriti da migliori situazioni
economiche e da condizioni culturali e sociali
storicamente determinatesi, si sono mossi più rapidamente, sperimentando modelli fortemente innovativi, altre Regioni
stanno avanzando più
lentamente, ma nessuna è
restata ferma.
– Ulteriori ricerche sono necessarie per garantire che
l’applicazione dei modelli
proposti è fattibile, sostenibile e si traduce in migliori
condizioni di salute. Occorre andare avanti, sperimentare, valutare, scambiare esperienze: non per
individuare modelli da
esportare/imporre, ma per
individuare i driver degli
interventi che aumentano
la probabilità di successo
degli stessi.
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(segue da pag. 79):
Un nuovo modello culturale,
professionale ed organizzativo
Ogni sistema è perfettamente studiato e disegnato per
ottenere i risultati che ottiene, ha sempre ripetuto Donald Berwick, ed è quindi inverosimile pensare che stressando l’attuale sistema, aggiungendo risorse, chiedendo
di più ai professionisti sia
possibile ottenere risultati
diversi da quelli che oggi otteniamo. Sono quindi necessari modelli organizzativi diversi, studiati e disegnati per
ottenere nuovi livelli di
performance. Ed è qui che si
apre la sfida vera dei nostri
sistemi, studiare ed imparare
qualcosa che per ora non ci è
mai appartenuto. Siamo e saremo sempre aiutati dalle
esperienze degli altri che già
hanno iniziato, avremo modo
di vedere i risultati ottenuti
e di trasportarli nelle nostre
organizzazioni migliorandoli
addirittura. La sfida della
continuità temporale è già
stata vinta da qualcuno. Recentemente è stato pubblicato un volume di Berry e Selman, Management Lessons
from Mayo Clinic: Inside One
of the Worlds Most Admired
Service Organizations: quella
che loro chiamano destination medicine è una risposta
ai nostri nuovi bisogni. Forse
non è la sola via possibile per
arrivare a trovare quello che
stiamo cercando, ma ha dimostrato la praticabilità di
un percorso, e attrezzandosi
tra sistemi push e sistemi
pull, tra gestione degli ospedali per flussi e i concetti di
variabilità naturale ed artificiale, tra teoria dei vincoli e
legge di Pareto, l’interesse
che ha spinto tutti noi nelle
nostre professioni saprà anche questa volta, una volta
applicati principi e strumenti
di questo nuovo mondo, ripagarci con la vera ed unica
soddisfazione che ognuno di
noi ricerca, la possibilità di
migliorare la qualità di ciò
che facciamo per i pazienti.
È questo, come ricordato, il
campo di applicazione più
peculiare delle nostre direzioni aziendali. Richiede un
forte cambiamento culturale
che fa propria la necessità di
guardare, senza pregiudizi,
ai modelli organizzativi operativi nel mondo esterno
delle aziende di prodotto e
di servizio. Mondi che abbiamo considerato sempre con
diffidenza perché abbiamo
sempre ritenuto che il nostro “prodotto” fosse qualcosa di particolare (cosa che
ovviamente è), in grado però
da solo di giustificare un disinteresse, e quindi un rifiuto, verso tutto ciò che non è
prettamente tecnico professionale. Secondo me un errore di prospettiva perché il
mondo delle organizzazioni
esterne ci dimostra che proprio per valorizzare le competenze, le conoscenze e le
capacità dei suoi operatori,
finalizzandole al migliore risultato possibile, è necessaria la conoscenza di sistemi
culturali in grado di far lavorare bene insieme tutte le
grandi risorse dei nostri sistemi, che a ragione, sono
molto “complessi”. Fa però
ben sperare il fatto che vi
siano molti segnali che dimostrano come molte aziende abbiano già intrapreso
questa strada che richiede
curiosità, coraggio di superare lo status quo e voglia di
studiare e ricercare ancora.
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Alessandro Bussotti
MMG, Firenze - Agenzia
Continuità assistenziale,
AOU Careggi, Firenze
“L
a sig.ra Maria è una
ottantaquattrenne
che vive sola, arrangiandosi discretamente con
l’aiuto di una signora, che le
fa la spesa e le pulizie in casa
e sta con lei alcune ore al giorno. Il resto della giornata lo
passa andando al vicino circolo ricreativo e a fare qualche
breve passeggiata e qualche
volta al cinema con le poche
amiche che le sono rimaste. Il
cibo se lo prepara da sola, legge abitualmente il giornale e
guarda tutte le sere la TV.
La salute però non va tanto
bene: è diabetica, ipertesa, ha
una artrosi delle ginocchia
che le rende sempre più difficile e doloroso camminare e
soprattutto fare le scale (purtroppo abita al secondo piano
di un condominio senza
ascensore), qualche anno prima ha avuto un infarto miocardico ed è stata sottoposta a
rivascolarizzazione, da qualche tempo le è stata scoperta
anche una iperuricemia. In
occasione dell’infarto ha
smesso di fumare, ma le tante
sigarette fumate negli anni
precedenti le hanno lasciato
una bronchite cronica con
tosse, catarro e un discreto affanno. Purtroppo un altro fatto che riduce la sua autonomia è l’obesità: è sempre stata
un po’ abbondante ma dai 60
ai 70 anni ha accumulato pa-
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La riorganizzazione
delle cure primarie
recchi chili che poi non è stata più capace di lasciare.
Per tutti i suoi malanni ogni
giorno deve prendere 11 farmaci diversi per un totale di
14 compresse e un quarto (di
un farmaco infatti deve prendere solo un quarto di compressa), alle quali aggiunge,
quando le ginocchia si fanno
sentire di più, un antidolorifico. Ha inoltre due macchinette da cui deve inalare un
farmaco: una la deve usare
due volte al giorno, l’altra
una volta sola.
Ha due figli che vivono in due
città molto lontane. Le sono
molto affezionati e non le fanno mancare nulla: pagano loro
tutte le spese (lei, d’altra parte ha solo una piccola pensione e, pagato l’affitto, non le
resterebbe davvero molto),
anche se non riescono ad andare a trovarla molto spesso.
Insistono perché lei controlli
spesso il suo stato di salute:
infatti Maria è seguita dal centro diabetologico e dal centro
per la cura dell’ipertensione
del vicino ospedale e viene visitata periodicamente da un
cardiologo, da un pneumologo
e da un reumatologo. Lei ha
provato tante volte a dire ai figli che ha un medico di famiglia di cui si fida e con cui si
trova molto bene, ma loro continuano ad insistere per le visite specialistiche, anche per-
Il ruolo del medico di base ed il problema
della cronicità
ché il MMG non può certamente andare a controllarla così
spesso come avrebbe bisogno.
Tutti gli specialisti, ad ogni
visita, cambiano qualcosa della sua terapia ed il suo medico
di famiglia cerca di riaggiustarla rendendola un po’ meno
caotica, ma i figli insistono
perché lei segua i consigli degli specialisti e a lei, in fondo,
fa piacere sentire che sono così preoccupati per lei.
Purtroppo non è raro che si
verifichi un aggravamento
delle sue condizioni: negli ultimi tre mesi per cinque volte
si è trovata a respirare peggio
del solito. In un caso è venuto il suo medico che ha aggiustato la terapia, l’ha rassicurata, ha telefonato ai figli
rassicurando anche loro; ma
le altre quattro volte è capitato di notte o di festa (purtroppo il tempo delle notti,
dei sabati e delle domeniche
è più lungo di quello dei giorni lavorativi) e sia il medico
della Guardia medica, sia lo
specialista cardiologo e pneumologo consultati telefonicamente hanno consigliato il ricovero ospedaliero. E così Maria si è trovata al Pronto Soccorso, da dove è stata poi tra-
sferita in reparto, due volte
in medicina, una volta in
pneumologia ed un’altra in
cardiologia. La degenza è
sempre stata breve (dai 4 a 6
giorni), la riacutizzazione
della BPCO e della insufficienza cardiaca è stata rapidamente risolta e Maria è tornata a casa. I giorni di ricovero però li ha sempre passati a
letto e così di volta in volta la
sua autosufficienza è progressivamente diminuita. In
occasione dell’ultimo ricovero
non è più riuscita a mettersi
in piedi ed è risultata notevolmente confusa, tanto che
la signora che la segue non se
l’è sentita di riprenderla a casa in quelle condizioni. I figli, impegnati col lavoro, non
sono potuti venire e si è
quindi deciso, una volta stabilizzata la situazione, di trasferirla in un reparto di lungodegenza di una casa di cura
convenzionata: qui lo stato
confusionale è peggiorato e
Maria ha perso completamente la sua autonomia”.
La storia di Maria contiene
tutti gli elementi di ciò che
accade quando l’assistenza di
una persona funziona bene in
ogni singola parte, ma le parti
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non sono coordinate fra loro
in una vera presa in carico. In
fondo la famiglia, la badante,
il medico di famiglia, la guardia medica, gli specialisti, l’ospedale in ogni sua componente hanno fatto quello che
dovevano, ma il sistema nel
suo insieme non è riuscito nel
vero scopo che si doveva raggiungere: la conservazione più
a lungo possibile di una qualità di vita accettabile.
In realtà ormai tutti hanno
ben presente che il problema
vero che si presenterà nei
prossimi anni ai sistemi sanitari è quello della continuità
assistenziale: non dovrà essere più il cittadino a rincorrere
servizi e professionisti che
agiscono in modo indipendente e non di rado in polemica
fra loro, ma dovranno essere
questi a coordinarsi per fornire la migliore assistenza possibile nell’ambito di un piano di
azione personalizzato.
In realtà gli ultimi anni hanno prodotto un aggravamento
del problema, più che facilitarne la soluzione. I motivi
sono molteplici:
1. L’ospedale è sicuramente la
parte che ha subito i maggiori mutamenti: si è progressivamente trasformato
in ambiente destinato alla
cura dei problemi acuti (o,
più spesso, delle riacutizzazioni di quelli cronici), iniziando ad organizzarsi per
intensità di cura ed aumentando progressivamente la
propria efficienza, misurata
in termini di durata del ricovero e di tasso di occupazione dei posti letto. Questi
si sono progressivamente
ridotti e si dovranno ulteriormente ridurre nei prossimi anni.
2. Si è assistito ad una impressionante accelerazione
del livello tecnologico (e
del costo) dell’assistenza
sanitaria; e questo ha ancora una volta riguardato
in gran parte le strutture
ospedaliere.
3. Si sono organizzati numerosi sistemi per supportare
l’ospedale in questa sua ristrutturazione (Day Hospital, Day Service, Week Hospital, dimissione protetta, Discharge Room, Triage,
ecc.) ma niente di tutto
questo è successo sul territorio, anche se sarebbe logico pensare, fra l’altro, ad
una sorta di triage territoriale al momento della dimissione, ad un “ricovero
protetto” e ad una ammissione condivisa.
4. Parallelamente è aumentato (e così farà ulteriormente nei prossimi anni) il numero dei malati cronici,
frutto dell’aumento della
durata della vita e del miglioramento della qualità
delle cure dei periodi acuti.
5. Le cose sono cambiate
molto poco sul territorio,
sede di quelle cure primarie sulle quali, per motivi
economici e di qualità della vita, si dovrebbe spostare l’assistenza vera ai malati cronici.
In definitiva appare sempre
più chiaro che la nuova struttura ospedaliera riuscirà a
funzionare solo se troverà un
sistema territoriale in grado
di accogliere il paziente,
prenderlo in carico e restituirlo all’ospedale solo in caso di
vera instabilizzazione del
quadro e non, come sta spesso accadendo ora, per motivi
più sociali che sanitari.
L’elemento critico è quindi ancora una volta la comunicazione (e quindi la continuità)
fra le strutture: senza dimenticare la comunicazione all’interno dell’ospedale, problema
affatto risolto, il vero problema è la continuità nel momento del ricovero e della dimissione ospedaliera, la comunicazione e collaborazione
fra i professionisti che agiscono in ambito territoriale ed il
ruolo del MMG all’interno del
sistema delle cure primarie.
La rifondazione della medicina generale
Questo è il titolo che è stato
dato ad un documento elaborato dalla FIMMG (Federazione italiana medici di medicina
generale) all’inizio del 2007 e
che poi ha fornito le basi dell’Accordo collettivo nazionale
per la medicina generale firmato nel 2009 ad attualmente
in vigore, anche se non completamente applicato.
L’elemento fondamentale risulta essere la formazione di
quelle che vengono definite
“Aggregazioni funzionali territoriali”, che hanno alcune
caratteristiche importanti:
– coprire un ambito di popolazione di 20-30000 abitanti;
– essere obbligatorie: al contrario delle associazioni
previste dai precedenti accordi, alle quali i MMG potevano aderire o meno,
tutti i MMG dovranno entrare a far parte di questa
nuova forma associativa;
– comprendere sia MMG sia
medici di continuità assistenziale (Guardia medica);
– prevedere un MMG coordinatore con compiti di raccordo funzionale e profes-
sionale in modo da favorire la partecipazione della
medicina generale alla definizione dei percorsi assistenziali delle maggiori
patologie e dei livelli d’integrazione fra le varie figure professionali e alla
definizione e contrattazione dei budget, in una parola a quello che viene definito governo clinico.
La realizzazione di queste
strutture dovrebbe fornire
una vera assistenza 24 ore su
24,365 giorni all’anno a tutti
gli assistiti dell’associazione
da parte di medici in contatto
fra loro. Si favorirebbe inoltre
un processo di piena integrazione dei MMG all’interno del
distretto, mentre finora, con
poche e lodevoli eccezioni, i
professionisti dipendenti dell’azienda sanitaria hanno
sempre sentito i colleghi convenzionati come un corpo
estraneo, di cui diffidare, ricambiati da una analoga diffidenza in una spirale che ha
approfondito le difficoltà comunicative invece di affrontarle e risolverle.
Inoltre, finalmente i medici
che fino a poco tempo fa venivano definiti “di Guardia
medica” dovrebbero diventare
realmente medici di continuità assistenziale, termine
usato già ora, ma non rispondente certo alla realtà. In
questo modo, invece, si dovrebbe realizzare un ruolo
unico del medico di medicina
generale, che accomuni il
professionista che continua a
lavorare con i propri assistiti
secondo l’attuale schema della scelta (e quindi della manifestazione della fiducia) da
parte del cittadino, ed il professionista che, legato invece
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ad un rapporto orario, svolge
altre funzioni all’interno del
gruppo, quali quelle della copertura notturna e festiva,
ma anche di altre attività, per
esempio legate all’attuazione
della medicina di iniziativa.
Si dovrebbe così risolvere anche la difficoltà nell’inserimento nella professione, che
sta costringendo tanti MMG
giovani e con poche scelte (e
quindi con tutte le spese necessarie all’avvio dell’attività
ma senza i ricavi che consentano di vivere dignitosamente) ad arrangiarsi in lavori che
poco hanno a che fare con la
medicina generale, perdendo
così per la strada l’entusiasmo
e le competenze accumulate
negli anni di formazione.
assistenza efficace del cronico non può esimersi da un intervento multiprofessionale e
multidisciplinare. Una reale
presa in carico del paziente
cronico richiede obbligatoriamente l’azione di diverse figure professionali: in primo
luogo l’infermiere, ma anche
il dietista, il fisioterapista,
l’assistente sociale e, in ambito medico, il medico di comunità e lo specialista. Solo un
team ben articolato e ben
condotto, teso alla valutazione globale dei bisogni della
persona, con il coinvolgimento ed il sostegno della famiglia e di un paziente realmente e compiutamente informato, può realisticamente far
fronte a questa sfida.
In realtà non si tratta solo di
organizzare efficacemente il
sistema delle cure primarie,
ma di rafforzarlo nella sua cultura e nei suoi principi, togliendolo dalla subalternità in
cui si trova oggi: basti pensare
alla assoluta preponderanza
ospedaliera nella formazione
dello studente di medicina. I
principi fondamentali delle
cure primarie (basso livello
tecnologico, approccio olistico, centralità della relazione
col paziente, coordinamento
delle cure) accomunano i due
professionisti che ne costituiscono il nucleo, l’infermiere
ed il medico di famiglia, e dovrebbero farli sentire parte
della stessa famiglia, piuttosto che concorrenti, come
sembra accadere attualmente.
I due sistemi, quello ospedaliero e quello territoriale, dovrebbero riconoscere l’uno la
specificità dell’altro e rispettarne la preponderanza nei
rispettivi ambiti: solo così si
potrà arrivare ad una vera in-
Il MMG inserito nel sistema
delle cure primarie ed il
problema della cronicità
Il sistema delle cure primarie
deve prepararsi ad affrontare
tutti i problemi connessi con
l’invecchiamento della popolazione e della crescente prevalenza delle malattie croniche. L’ospedale si sta già attrezzando a rispondere al meglio alle necessità del paziente acuto o riacutizzato, e
quindi avrà sempre maggiori
difficoltà nella gestione dei
pazienti cronici, non solo dal
punto di vista dei costi delle
sue prestazioni, ma anche e
soprattutto della appropriatezza delle risposte alle necessità del paziente.
Parallelamente il territorio
non potrà fare a meno di organizzarsi per prendere in carico il paziente cronico. Le
nuove aggregazioni professionali della medicina generale
costituiranno il fulcro di questa organizzazione, ma una
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tegrazione e ad una comunicazione efficace, con il paziente finalmente e realmente al centro.
Questi principi dovrebbero
essere alla base della ristrutturazione dei due momenti
critici della continuità assistenziale ospedale-territorio.
– La dimissione: attualmente
la dimissione coincide con
una relazione di qualità e
quantità estremamente variabile (da un laconico foglietto contenente una
stringata diagnosi fino ad
arrivare ad una lunga e minuziosa descrizione accompagnata da infinite fotocopie con i risultati dei singoli accertamenti diagnostici)
ma con un contenuto di
informazioni realmente
utilizzabili molto scarso. In
realtà la dimissione non
dovrebbe essere un “momento” ma un “processo”
che inizia subito, all’ingresso del paziente in reparto,
e dovrebbe comportare
l’immediata comunicazione
al MMG dell’avvenuto ricovero del suo assistito (la
maggior parte dei ricoveri
avviene attualmente per
presentazione spontanea o
attraverso il sistema del
118). Una buona cartella
clinica informatizzata dovrebbe poi consentire un
facile scambio di informazioni fra MMG e collega
ospedaliero durante il ricovero e, infine, la dimissione
dovrebbe essere prevista
con almeno 48 ore di anticipo, consentendo al sistema delle cure primarie di
pianificare e organizzare
tutto quello di cui il paziente avrà bisogno una
volta tornato a casa. Do-
vrebbe essere il territorio
(attraverso una sorta di
“triage”) a decidere se il
paziente può tornare a casa
oppure se le condizioni socio sanitarie sono tali da
obbligare altre soluzioni
(cure intermedie, lungodegenza, RSA).
– L’ammissione: attualmente
il Pronto soccorso è la vera
e unica “porta” dell’ospedale e viene sommerso non
solo da una grande quantità di accessi impropri di
pazienti che dovrebbero
ricevere risposte dall’assistenza territoriale, ma anche da richieste appropriate ma che non richiederebbero un ricovero (pazienti
complessi che non possono essere seguiti in modo
adeguato nel loro iter diagnostico terapeutico nell’assistenza di primo livello) e da richieste di ricovero che potrebbero essere
trattate “in elezione” e
per le quali il Pronto soccorso funziona, in modo
improprio, da “accettazione”. Una miglior comunicazione fra il MMG e l’ospedale potrebbe meglio
graduare le risposte da dare a questi pazienti (day
hospital, day service, consulenze ambulatoriali, ricoveri programmati), evitando ricoveri inutili e facilitando al cittadino un
itinerario di malattia, che
spesso è già sufficientemente doloroso di per sé,
senza che ci sia il bisogno
di aggravarlo con la complessità e la farraginosità
delle strutture sanitarie.
(segue a pag. 96)
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Rita Maricchio1
Mara Pellizzari2
Annalisa Silvestro3
1 Responsabile
Infermieristica
RSA Distretto est, ASSn. 5
“Bassa Friulana”
2 Direttore SAITRA ASS n. 5
“Bassa Friulana”
3 Direttore SATER AUSL Bologna
- Presidente FNC Ipasvi
I
l trend demografico ed
epidemiologico della popolazione italiana, delinea un aumento progressivo
delle patologie cronico degenerative cambiando radicalmente i bisogni assistenziali
e il profilo delle persone assistite che afferiscono alle
strutture sanitarie.
Le organizzazioni hanno la
necessità di rivedere e ripensare l’offerta sanitaria, i professionisti devono ridelineare
le modalità di approccio alla
domanda e di gestione degli
assistiti, gli amministratori
devono ripensare le linee di
governance 1.
In numerosi ambiti operativi
si è inoltre particolarmente
accentuata, nell’ultimo periodo, la necessità di superare la
frammentazione di analisi e
la parcellizzazione degli interventi per orientare l’attenzione all’intero, ossia alla
“globalità” di ogni soggetto,
oggetto o processo che si intende osservare. Tale impostazione ha condotto all’utilizzo del paradigma sistemico
come adeguata modalità in-
L’assistenza
infermieristica
terpretativa ed operativa. Il
concetto e la relativa definizione, muovono dal presupposto che il soggetto non può
essere completamente spiegato solamente con l’analisi
di ciò che lo compone ma anche con l’analisi delle interrelazioni che si attivano fra le
diverse componenti.
Tali concettualizzazioni trovano ampia coerenza nel paradigma a cui si riferisce
strutturalmente l’assistenza
infermieristica. La mission
primaria dell’infermiere è il
prendersi cura della persona
che assiste, in logica olistica, considerando le sue relazioni sociali ed il contesto
ambientale.
Assistenza infermieristica in
logica di continuità assistenziale significa:
– partecipare alla identificazione dei bisogni di salute
della persona;
– identificare i bisogni di assistenza infermieristica
della persona e formulare
gli obiettivi che l’assistito
deve raggiungere;
– pianificare, gestire e valu-
Le figure professionali e le componenti
della continuità
tare l’intervento assistenziale;
– promuovere e mantenere
“una rete di rapporti interprofessionali e una efficace gestione degli strumenti informativi”2 anche per
superare la frammentazione delle cure;
– contribuire a dare continuità ai processi ed ai percorsi assistenziali intraospedalieri e tra l’ospedale
e il domicilio o tra le diverse strutture territoriali.
Gli infermieri e la continuità assistenziale
La”continuità assistenziale”
può essere definita come la
successione, senza interruzioni nel tempo, di percorsi,
prestazioni e processi assistenziali con valenza preventiva, curativa e riabilitativa.
La continuità nell’ambito dell’assistenza evidenzia tre
componenti:
– la componente informativa,
– la componente gestionale,
– la componente relazionale3.
La continuità di informazioni
è indispensabile per garantire
la condivisione della storia
della persona assistita tra i
vari professionisti. La mancanza di informazioni condivise è l’aspetto più critico
nella continuità assistenziale
dove si presuppone che i professionisti documentino le
informazioni raccolte e condividano la documentazione.
La continuità nella gestione
garantisce un’assistenza coerente e condivisa tra i vari
professionisti coinvolti nel
processo assistenziale, la persona assistita e i caregiver. È
particolarmente importante
nei casi di persone con malattie croniche o complicate dal
punto di vista clinico e nei casi che richiedono l’intervento
A. Silvestro, R. Maricchio, M. Molinar Min, A. Montanaro, P. Rossetto, La complessità assistenziale. Concettualizzazione, modello di analisi e
metodologia applicativa, McGraw-Hill, 2009.
2 Federazione nazionale Collegi IPASVI, Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009, a cura di Annalisa Silvestro, McGraw-Hill,
2009.
3 J.L. Haggerty, R.J. Reid, G.K. Feeman, B. Starfield, C. Adair, R. Mckendry, Continuity of care:a multidisciplinary review, BMJ, Nov 2003, 22,
327 (7425), pp. 1219-21.
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Territorio
La continuità assistenziale
di diversi professionisti. La
continuità si ottiene quando i
servizi vengono erogati in maniera complementare e tempestiva e senza soluzione di
intervento. La condivisione di
percorsi clinico-assistenziali
facilita la gestione della continuità, garantendo sicurezza
alle persone assistite e ai professionisti.
La continuità di relazione garantisce la stabilità e il mantenimento della relazione tra
l’équipe di cura, la persona
assistita e i caregiver (patto
di alleanza assistenziale). Assicura alle persone assistite
dei punti di riferimento e dà
ai professionisti la possibilità
di confrontarsi sull’evoluzione dello specifico caso nel
tempo.
La maggiore rilevanza attribuita a una delle componenti
la continuità assistenziale,
dipende dal contesto di cura,
dai professionisti e dalla loro
prospettiva curativo assistenziale: se centrata sulla persona o sulla malattia.
Per gli assistiti ed i loro familiari la continuità assistenziale è il sentirsi “presi in carico” da un professionista che
è a conoscenza del percorso
ospedaliero da loro effettuato
e che è in grado di sviluppare
efficacemente un piano assistenziale e di seguirlo nel
tempo.
Per i professionisti la continuità assistenziale significa,
invece, avere sufficienti co-
noscenze ed informazioni sul
paziente e applicare al meglio
le competenze4.
Una revisione della letteratura5 individua specifiche figure professionali impegnate
nella gestione delle informazioni e coinvolte nel coordinamento delle persone coinvolte nel mantenimento della
continuità assistenziale. Tali
figure sono il discharge professional (liaison nurse in Inghilterra – discharge coordinator negli USA – discharge
liaison nurse, liaison nurse o
transfer nurse nei Paesi Bassi)
e il case manager.
Il discharge professional ha
due sostanziali modalità di
effettuazione:
– attraverso il discharge
planner che è un professionista (non necessariamente un infermiere) dipendente dall’ospedale. La
qualità della dimissione da
lui gestita è strettamente
legata alla sua conoscenza
delle risorse presenti sul
territorio e alla sua capacità di coordinare la comunicazione tra gli operatori
coinvolti nell’assistenza al
paziente;
– attraverso il liaison nurse
che ha funzioni di collegamento tra l’ospedale e il
territorio per assicurare la
continuità delle cure. Il
liaison nurse è un infermiere che svolge la propria
attività all’interno della
struttura ospedaliera ma
N. 179 - 2010
che spesso lavora nell’ambito di un’organizzazione
territoriale.
Il discharge professional, oggetto di molti studi, dà risultati contrastanti6 in termini
di efficacia di risultato.
Il case manager – nell’ambito
del case management – rappresenta una metodologia di
organizzazione dei servizi sanitari che si basa sulla centralità del “caso”, della persona e che ha come obiettivo la
massima integrazione degli
interventi necessari a fornire
una risposta ai bisogni di salute dell’assistito.
Il case manager – normalmente un infermiere – valuta, pianifica, monitorizza e
coordina i servizi erogati da
diversi contesti. Il case manager utilizza un approccio assistenziale sistemico ed ha
come obiettivi: l’attenzione
alla qualità dell’assistenza
complessivamente erogata, la
diminuzione della frammentazione dell’assistenza, l’innalzamento della qualità possibile della vita, il contenimento dei costi (ANA 1991).
Il case management è un processo collaborativo che attraverso la comunicazione e l’uso delle risorse disponibili è
volto alla programmazione,
all’attuazione, al coordinamento, al monitoraggio e alla
verifica delle opportunità e
dei servizi per rispondere ai
bisogni dell’individuo” (CSMA
1994).
L’infermiere case manager,
migliorando la continuità delle cure7, ha impatto sulla qualità della pianificazione della
dimissione, sulla diminuzione
dei costi sostenuti dall’ospedale e sull’aumento della soddisfazione dell’assistito.
Il concetto di continuità ha
più valenze. Una valenza
temporale ossia le 24 ore,
l’intero tempo della malattia,
l’arco di una vita, ed una valenza di continuità rispetto al
mantenimento di una comunicazione continua e di un
dialogo professionale che usa
strumenti e metodi quali il
problem solving.
In ogni modo le organizzazioni sanitarie sono di fronte ad
un dilemma che nasce dalla
valutazione oramai consolidata che erogare assistenza in
modo frammentario non dà
efficacia; ne consegue che le
organizzazioni sanitarie e coloro che vi lavorano, devono
rivalutare le modalità con cui
considerano ed effettuano gli
interventi necessari al paziente. È necessario ragionare con
una visione più ampia rispetto a quanto fatto fino ad ora,
ossia in logica di processo.
Agire per processi permette
di pensare alla persona – malata o sana – che ha necessità
di essere trattata e considerata, tenendo presente che l’assistenza “non si esaurisce”
nell’episodio che l’ha portata
all’attenzione dell’operatore
o della struttura sanitaria.
L. Saiani, A. Palese, A. Brugnolli, C. Benaglio, La Pianificazione delle dimissioni ospedaliere e il contributo degli infermieri, Assistenza infermieristica e ricerca, 2004, 23, 4, pp. 237-8.
5 F. Colle, A. Palese, S. Brusaferro, La continuità dell’assistenza basata su informazioni scritte e infermieri dedicate: revisione della letteratura,
Assistenza infermieristica e ricerca, 2004, 23, 4, pp. 179-85.
6 Ibidem.
7 D. Einstadter, R.D. Cebul, P.R. Franta, Effect of a nurse case manager on post discharge follow-up, J Gen Intern Med, 1996, 11, p. 648.
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La continuità assistenziale
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Agire per processi permette
di pensare che esiste un prima ed un dopo rispetto alla
situazione di malattia presente e che esiste un bisogno
di assistenza che, seppur con
sfaccettature diverse, è fondamentale per l’individuo;
nella logica e nell’agire per
processi è fondamentale la
continuità ed è indispensabile garantirla.
Continuità delle cure, continuità di comunicazione, continuità nella risposta al bisogno, continuità nell’essere
della persona. Quest’ultima
“necessità di continuità” è
particolarmente forte nei casi
in cui la malattia è grave, invalidante, cronica o prodromica della fase di terminalità
di vita.
Diviene fondamentale allora,
lavorare e comunicare tra servizi, tra operatori e tra strutture diverse; ognuno deve diventare “cliente e fornitore”
dell’altro e procedere sistematicamente per il raggiungimento di risultati assistenziali che hanno come obiettivo finale il benessere del paziente nell’ambito del suo
percorso di vita e di malattia.
Le parole chiave per la continuità dell’assistenza sono,
ancora una volta, integrazione e multidisciplinarietà; integrazione e multidisciplinarietà all’interno dell’ospedale,
tra servizi di diagnosi e unità
di degenza, tra ospedale e
territorio e tra i diversi servizi territoriali.
Non possono essere gli assistiti che si costruiscono con
difficoltà il percorso, mettendo in comunicazione i professionisti (medici, infermieri,
consulenti, operatori sociali…) e le strutture che maga-
ri lavorano fornendo prestazioni/servizi di qualità, ma
che non tengono conto dei
tempi e delle necessità di altri soggetti coinvolti nel medesimo percorso di cura.
Il tema della continuità delle
cure fra ospedale e territorio
è da molti anni individuato
come un tema “nevralgico” e
sul quale tutti i professionisti
devono fornire il loro impegno affinché diventi visibile
ed attuabile.
La scelta di campo orientata
alla comunità e alla rete parentale, l’applicazione delle
norme che istituiscono l’assistenza domiciliare, sono certamente stati avvenimenti
che hanno “movimentato” i
tradizionali servizi extraospedalieri e hanno spinto
verso la scrittura di una pagina nuova della storia dell’assistenza nel territorio.
Il definirsi della figura dell’infermiere di famiglia o di
comunità e delle relative
esperienze, vengono senz’altro incontro alle esigenze e
alle situazioni indicate delineate. L’infermiere di famiglia o di comunità è anche un
case manager che, in quanto
“gestore” di un gruppo di famiglie o di una comunità,
può garantire la continuità
dell’assistenza sia attraverso
un buon sistema di comunicazione e di trasferimento di
informazioni, sia attraverso il
mantenimento di una costante interrrelazione tra i diversi
professionisti. Elementi, questi, essenziali per evitare il
vuoto negli “spazi interfunzionali” che si collocano tra
una fase e l’altra del processo
di cura.
Nel nostro paese, la dimissione ospedaliera è uno dei mo-
menti più critici del processo
di cura di un persona. La dimissione è solitamente effettuata in base a criteri clinici
a fronte di un’epidemiologia
socio sanitaria caratterizzata
frequentemente da criticità
sociali e da carenza di strutture intermedie e strutture
residenziali territoriali. La
difficoltà ad ottenere risposte a livello territoriale porta
spesso, soprattutto i soggetti
fragili, a ri-ospedalizzazioni
evitabili.
La “dimissione difficile” si inserisce e viene intesa come la
fase di un percorso curativo
assistenziale che vuole rispettare la continuità e che
pertanto necessita di un consumo di risorse economiche,
umane, organizzative che
vanno oltre la potenzialità
della persona e della sua rete
familiare e che implica un
coinvolgimento particolare di
tutti i presidi territoriali.
Il mantenimento della continuità assistenziale richiede,
però, un cambiamento di cultura soprattutto all’interno
delle strutture ospedaliere
spesso concepite e vissute
come staccate dai servizi territoriali. La dimissione ospedaliera deve essere protetta e
correttamente pianificata affinché la rete dei servizi possa attivarsi, la sicurezza della
persona assistita possa essere
garantita e il contesto domiciliare possa essere organizzato nel migliore dei modi.
La modifica diventa tassonomica: la dimissione precoce si
trasforma in “attenzione precoce alla dimissione”, che dovrebbe iniziare non appena il
paziente ha superato la fase
critica o acuta.
La pianificazione della dimis-
sione non può che essere multidisciplinare: ciascun professionista è impegnato nella
stesura di un piano di interventi che comprende la valutazione dell’assistito, la pianificazione, l’applicazione e il
monitoraggio degli interventi
e che si propone l’integrazione di prestazioni sociali e sanitarie. In tale approccio pianificatorio si inserisce la figura dell’infermiere case manager che si adopera per il mantenimento della continuità
assistenziale secondo la logica dell’approccio complessivo.
L’infermiere case manager
opera basandosi su un insieme di competenze e di pratiche specializzate che attingono dal bagaglio informativo e
di esperienza di differenti
aree professionali; ha la responsabilità di mantenere
l’integrazione tra i diversi
professionisti impegnati nel
“caso” di cui si occupa e di
coordinare i percorsi e le risposte dei servizi a cui accede
l’assistito.
Il case management è lontano
dall’approccio al paziente solo nell’attimo delle cure previste ed erogate, in quanto si
esprime attraverso una modalità che supera l’attività
frammentata ed episodica dato che considera i pazienti
come soggetti che stanno vivendo una fase del “continuum” salute-malattia. Lo
scopo principale del case management è infatti quello di
orientare all’autocura, ridurre
la frammentazione dell’assistenza, fornire qualità curativa attraverso la continuità,
migliorare la qualità possibile
di vita degli assistiti, ridurre la degenza ospedaliera,
aumentare la soddisfazione
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La continuità assistenziale
dello staff clinico assistenziale e promuovere l’uso efficace
ed efficiente delle risorse.
Il case management infermieristico rappresenta una modalità operativa con cui erogare prestazioni a carattere
sistematico sulla base della
massima personalizzazione e
della continuità assistenziale; prestazioni coordinate e
garantite da un infermiere di
riferimento.
L’applicazione di questa metodologia prevede l’acquisizione e l’esercizio di competenze professionali per la
conduzione dei casi e orientate alla soluzione di problemi
(problem solving oriented).
La metodologia utilizzata
non è specifica dell’infermieristica ma per gli infermieri si
configura significativamente
coerente con il contenuto
proprio della loro disciplina,
Chiari P., Santullo A. (2005), L’infermiere Case manager, McGraw-Hill,
Milano.
Colle F., Palese A., Brusaferro S. (2004), La continuità dell’assistenza
basata su informazioni scritte e infermieri dedicate: revisione della letteratura, Assistenza Infermieristica e Ricerca, 23, 4, pp. 179-85.
Einstadter D., Cebul R.D., Franta P.R. (1996), Effect of a nurse case
manager on post discharge follow-up, J Gen Intern Med, 11, pp. 648-8.
Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009), Commentario al codice
deontologico dell’infermiere 2009, a cura di Annalisa Silvestro, McGraw-Hill, Milano.
Haggerty J.L., Reid R.J., Feeman G.K., Starfield B., Adair C., Mckendry
R. (Nov 2003), Continuity of care:a multidisciplinary review, BMJ, 22,
327 (7425) , pp. 1219-21.
Il sistema informativo
Una vera continuità assistenziale deve prevedere facili
collegamenti e scambi di
informazioni fra i professionisti che operano nei vari settori dell’assistenza: quindi
non solo fra ospedale e territorio, ma anche all’interno
dell’uno e dell’altro.
Nonostante che parlarsi direttamente per telefono o,
ancor meglio, incontrandosi
di persona costituisca il modo
migliore di scambiarsi impressioni e informazioni, la
mole di lavoro è tale che solo
con lo specifico ambito di intervento e con i valori deontologici di riferimento.
Il riconoscimento formale della metodologia del case management come appropriata per
l’erogazione di servizi assistenziali, delinea e richiede a
chi assume la responsabilità di
un “caso”, un preciso ambito
di autonomia decisionale che
si configura e completa nella
collaborazione alla pianifica-
zione degli interventi, nell’impegno a che il piano sia attuato e, non meno importante,
nella verifica di quanto attuato e dei suoi esiti.
Tutti momenti e fasi assolutamente fattibili e gestibili
per il professionista infermiere che in questo momento
storico della realtà italiana
viene identificato come una
risorsa per il sistema salute e
per la collettività.
Pellizzari M et al. (2002), Il progetto Infermiere di comunità, Nursing
Oggi Geriatria, 3.
Bibliografia
(segue da pag. 92):
La riorganizzazione delle cure
primarie
N. 179 - 2010
l’utilizzo di un sistema informatizzato può rendere realizzabile su larga scala una continuità assistenziale.
In realtà solo ora si comincia a
pensare di mettere in relazione i sistemi informatizzati dei
diversi pezzi del sistema sanitario in modo da facilitare le
comunicazioni. Da notare che
l’adozione della carta sanitaria e del fascicolo sanitario
elettronico non risolve, se non
parzialmente, il problema della comunicazione fra i professionisti che devono collaborare alla cura del paziente. Basti
pensare al paziente ricoverato
e alla necessità di un continuo
scambio di informazioni e di
indicazioni fra il team ospeda-
Pellizzari M. (2008), L’infermiere di comunità dalla teoria alla prassi,
McGraw-Hill, Milano.
Saiani L., Palese A., Brugnolli A., Benaglio C. (2004), La Pianificazione delle dimissioni ospedaliere e il contributo degli infermieri, Assistenza Infermieristica e Ricerca, 23, 4, pp. 237-8.
Sasso L., Gamberoni L., Ferraresi A., Tibaldi L. (2005), L’infermiere di
Famiglia, McGraw-Hill, Milano.
Silvestro A., Maricchio R., Molinar Min M., Montanaro A., Rossetto P.
(2009), La complessità assistenziale - Concettualizzazione, modello di
analisi e metodologia applicativa, McGraw-Hill, Milano.
Trinchero E. (2000), Case Management: approccio sistemico alla gestione del paziente, Mecosan Management ed Economia sanitaria, 32.
liero che conduce le cure e
quello territoriale che accoglierà il paziente al momento
della dimissione.
Tutti questi problemi ed i
meccanismi messi in atto per
affrontarli e risolverli sono
comuni a tutti i sistemi sanitari: basti pensare al Chronic
Care Model, modello di cura
delle malattie croniche di origine statunitense, ma ormai
adottato da molti servizi sanitari europei, fra cui quello
toscano.
Basti pensare alla sorprendente somiglianza della storia della signora Maria e del
suo medico a quella raccontata dal New York Times del 6
giugno 2009 (If all doctors
had more time to listen di Julie Weed), in cui il dott. Jose
Battle si reca a casa di una
sua paziente di 93 anni che
vive in un piccolo appartamento del Bronx da cui non
riesce più ad uscire e che ha
in abbondanza solo referti di
specialisti e medicine, di cui
la maggior parte scadute. Il
medico parla con la paziente,
semplifica la terapia e conferma la sua disponibilità. Non
sono certo gli Stati Uniti la
patria delle cure primarie, ma
l’intervento del dott.Battle
ricalca esattamente quello
che dovrebbe essere l’intervento del team territoriale
verso il quale tutti ci auguriamo di star procedendo.
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La continuità assistenziale
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Lucia Livatino1
Lorenzo Roti2
1 Formazione, educazione
e promozione della salute
Azienda USL 4 Prato
2 Assistenza primaria Azienda
USL 4 Prato
L
a medicina è stata storicamente incentrata sul
rapporto fiduciario singolo medico-singolo paziente;
in questa dimensione si concentravano tutte le possibilità
di cura, fondate soprattutto
sul supporto psicologico: il
paziente era ben lieto di affidarsi interamente al proprio
medico, senza porsi il problema della propria libertà, all’interno di un sistema organizzato a bassa tecnologia e a
bassa complessità. Oggi il rapporto medico-paziente è evoluto in un rapporto paritario,
anzi volto ad esaltare la centralità del paziente, la presenza di altre figure professionali
è costante e le tecnologie onnipresenti necessitano di
competenze tecniche specifiche, pur riconoscendo la
realtà di un paziente che
spesso deve percorrere autonomamente strade difficili e
complesse in sistemi ad alta
tecnologia e a bassissimo livello di comprensibilità.
Di fronte a questo scenario
nuovo si pongono nuove sfide per la formazione dei professionisti che devono essere
in grado di gestirne la complessità.
L’evoluzione delle professioni
sanitarie è stato accompagnata e si è affermata attraverso la formazione universitaria. Se negli anni sessanta
L’integrazione
dei profili professionali
esisteva solo il Corso di laurea
in medicina e chirurgia, con
alcune Scuole a fini speciali,
oggi esistono più di 20 corsi
di laurea triennali delle professioni sanitarie, in 4 classi
con 5 CdL specialistica.
La funzione della formazione
universitaria si è dovuta concentrare all’inizio principalmente sullo sviluppo specifico
delle competenze distintive
delle figure sanitarie e successivamente sulla loro armonizzazione e inserimento nell’ambito del lavoro interprofessionale,
proponendo
profonde modifiche ai programmi formativi e indirizzandosi a preparare professionisti che siano già abituati a
lavorare in équipe, parola magica e ricorrente nel linguaggio sanitario degli ultimi anni.
Non è la specificità di alcuni
insegnamenti riguardanti gli
aspetti psicosociali (che pure
sono importanti), ma l’insieme del sapere volto alla formazione di un medico della
persona, dotato di nozioni
specifiche, ma soprattutto di
una cultura della complessità
e della continuità. Perché lo
studente deve apprendere
che l’atto medico è assolutamente unitario, e che nelle
malattie di lunga durata la
diagnosi è un’operazione che
viene ripetuta molte volte
(staging della malattia), la
I bisogni formativi in relazione
al nuovo modello assistenziale
cura è un intervento che assume contenuti sempre diversi, così come la prognosi
non è un atto statico, ma il
primo momento di un processo di care spesso senza fine.
Nel complesso della riforma
degli studi universitari ha assunto ed assume importanza
centrale anche l’insieme delle
lauree triennali, che mirano a
formare una classe di professionisti che, insieme al medico, partecipa con competenze specifiche al lavoro di
équipe. Una scommessa importante per il futuro di questo nuovo settore di insegnamento è costituito dalla possibilità di trasmettere i contenuti tecnici specifici assieme ad un metodo ed a una visione complessiva dello scenario professionale.
Tutto ciò appare dunque essenziale alla luce dei nuovi
modelli assistenziali, sia
ospedalieri (ospedale per intensità di cure) sia territoriali
(la gestione della cronicità
secondo l’ECCM), che chiedono alle professioni di stressare l’attenzione, una volta acquisiti gli aspetti del sapere,
saper cosa e quando fare, e
del saper fare, sugli elementi
e le competenze legate al
“saper essere” e al “saper far
fare” (con e tra operatori professionali ma anche con il paziente/cittadino). Nell’ambito delle organizzazioni sanitarie occorre quindi aumentare la capacità di orientare
la formazione continua su
questi due aspetti fondamentali della competenza funzionale a partecipare e adeguarsi
ai cambiamenti richiesti dall’innovazione tecnica, organizzativa e sociale.
In definitiva questo significa
che dal concetto di fissità legato tradizionalmente alla
chiarezza semplificata della
mansione e del ruolo, si debba muovere anche la formazione continua verso profili
di competenze dei professionisti, più flessibili e mobili,
in continua rimodulazione,
un apprendimento effettivamente life-long.
Delle tre componenti classiche della competenza (conoscenze, capacità, comportamento) è probabilmente
quella del comportamento,
della competenza relazionale
e organizzativa, la più critica
e decisiva per l’introduzione
positiva di nuovi modelli
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La continuità assistenziale
organizzativi e assistenziali.
Si tratta cioè di quel sapere,
certamente clinico e tecnico,
richiesto ai professionisti che
lavorano non soltanto sul paziente, ma con il paziente, in
un contesto organizzativo
aziendale, tenuto conto delle
attese sociali, un sapere
quindi necessariamente interprofessionale e multidimensionale.
Consapevolezza, padronanza
di sé, motivazione, empatia e
abilità nelle relazioni interpersonali sono i 5 elementi
da potenziare sulla base delle
capacità emotive individuali.
L’intelligenza emotiva è sicuramente una delle qualità individuali sulla quale concentrare le attenzioni formative,
alla base della possibilità di
sviluppare le competenze
professionali in organizzazioni soggette a continui
cambiamenti.
Le due più grandi novità con
le quali dovranno misurarsi i
professionisti nei prossimi
anni nell’ambito della continuità assistenziale in Toscana
saranno: l’ospedale per intensità di cure e l’applicazione di
un modello innovativo per la
gestione della cronicità (Expanded Chronic Care Model progetto regionale sanità di
iniziativa).
L’attuazione di questi due modelli, descritti in altri contributi della presente monografia, richiede non soltanto uno
sforzo di adattamento professionale ed organizzativo (e talora logistico), ma un vero e
proprio cambiamento culturale e comportamentale degli
operatori, all’interno del quale
il tema della continuità assistenziale è senz’altro una della componenti più rilevanti.
Volendo richiamare in sintesi
gli elementi essenziali dei 2
modelli, limitandosi agli
obiettivi del presente contributo, si possono definire le
dimensioni professionali,
comportamentali ed operative sulle quali sarà necessario
orientare lo sforzo formativo
primario:
1. Il lavoro in team.
2. La comunicazione tra i
professionisti dei diversi
setting assistenziali.
3. La personalizzazione del
piano assistenziale sulla
base del rischio clinico e
delle condizioni socio-familiari.
4. La continuità della presa
in carico attraverso figure
di riferimento all’interno
dei singoli setting e nel
passaggio da un setting all’altro (es. tutor clinico,
tutor assistenziale, care
manager).
5. La valorizzazione e il riconoscimento del ruolo del
paziente non soltanto nella decisione ma anche nella partecipazione attiva alla definizione e perseguimento degli obiettivi di
salute.
6. Lo sviluppo delle capacità
di gestione della propria
condizione (self management).
7. Il lavoro per obiettivi di
salute (si lavora sui comportamenti e stili di vita
degli assisiti).
8. La revisione dei risultati:
col paziente come nel team.
Una concreta ipotesi di lavoro
può essere che, per ciascun dei
punti suddetti si esemplifichi
e si sostanzi (o sia elemento
critico) l’integrazione e i relativi bisogni formativi in termini di metodologie e obiettivi.
N. 179 - 2010
In particolare la continuità
delle cure obbliga il personale
sanitario a creare relazioni
umane strette che vanno poi
instaurate con le altre figure
professionali, “la malattia è
divenuta un luogo di incontro
tra persone, costruttivo e gratificante oppure distratto e
inefficace o peggio conflittuale e sofferto” (Cheli).
Da qui la necessità di acquisire abilità comunicative, di
gestione delle emozioni e di
risoluzione dei conflitti.
Il cambiamento richiesto ai
professionisti può essere percepito da alcuni come una
opportunità ma da altri come
una minaccia: solitamente alla crescita del ruolo e autonomia di una figura (es. infermiere nella sanità di iniziativa) corrisponde una resistenza al nuovo modello da parte
di un’altra (es. il medico di
medicina generale nella sanità di iniziativa).
Il cambiamento implica infatti destabilizzazione, perdita
di un vecchio equilibrio, nuovo impegno mentale e apprendimento. La resistenza
individuale al cambiamento è
tanto più facile quanto più
un professionista non ha affrontato nel corso della sua
esperienza un processo di
crescita ed evoluzione, bensì
ha cristallizzato i propri modelli comportamentali.
Il cambiamento professionale
ed individuale è interdipendente col cambiamento organizzativo strutturale, il modello di ospedale per intensità di cure ne è, da questo
punto di vista, un esempio di
grande efficacia.
Si tratta infatti di passare da
una responsabilizzazione
professionale ed individuale
tout court alla responsabilizzazione dell’ambiente organizzativo dove il singolo professionista, accanto alla tradizionale verifica della propria attività standardizzata,
aggiunge autonomia ed iniziativa individuale, orientate
alla migliore gestione del
problema di salute del paziente.
Un esempio in questo senso
lo dovremo saper attuare nell’ambito dell’implementazione del progetto regionale toscano del Chronic Care Model,
per il quale è richiesto un
mutamento sostanziale del
rapporto tra professionisti e
pazienti: lo stabilirsi di una
vera e propria partnership
partecipata tra team/professionista attivato e paziente
informato potrà realizzarsi
solo se l’ambiente di lavoro si
connoterà come luogo idoneo
a promuovere la responsabilizzazione sana fatta non soltanto di esecuzione di compiti, ma anche di capacità di
prendere decisioni e sviluppare iniziativa.
Per la formazione la criticità si
individua nell’insufficienza di
una offerta “classica” rivolta
solo alle competenze tecniche, e nella peculiarità dei
modelli organizzativi-gestionali da condividere fra sanitari, tecnici e sociale (Lewin,
Quaglino ed il valore del
T-Group). Le resistenze sono
ancora alte, la vera integrazione multiprofessionale è lontana, si cercano validi indicatori
per valutare le esperienze ad
oggi fatte legate a particolari
patologie croniche, lotta al
dolore, cure intermedie.
(segue a pag. 109)
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La continuità assistenziale
Territorio 99
N. 179 - 2010
F. Di Stanislao1,2
G. Caracci1
F. Moirano1
I sistemi di indicatori
1 Agenzia
nazionale per i Servizi
sanitari regionali
2 Università Politecnica
delle Marche
I
l presente articolo ha l’obiettivo di sintetizzare lo
stato dell’arte delle riflessioni maturate sui sistemi di
indicatori di continuità assistenziale nonché quello di
proporre tracce di lavoro su
cui muoversi nel prossimo futuro.
La fonte bibliografica di riferimento è stato il rapporto finale di ricerca Defusing the confusion: Concepts and measures
of continuity of healthcare del
Canadian Health Service Research Foundation (CHSRF)
(Reid et al., 2002) che, allo
stato attuale, costituisce il riferimento base sul tema.
A livello nazionale abbiamo
fatto riferimento:
– al rapporto della ricerca finalizzata “Sperimentazione di una serie di indicatori per la misura della
continuità assistenziale”
(AgeNaS, 2008)1;
– al rapporto “Misurare e valutare l’integrazione professionale e la continuità delle
cure” di FIASO-CERGAS
Bocconi (Longo F., Salvatore D., Tasselli S., 2009)2.
La continuità dell’assistenza: lo schema concettuale
di riferimento
Un’esplicita preoccupazione
per assicurare la continuità
dell’assistenza è emersa, a livello internazionale, sin dalla
fine degli anni ottanta, riflettendo l’aumentata complessità della gestione delle malattie croniche e la frammentazione delle componenti in
cui si articola l’esperienza del
paziente che percorre le
strutture sanitarie.
Il concetto di continuità dell’assistenza, che interessa ambiti disciplinari e organizzativi diversi, risulta particolarmente complesso e la ricerca
di definizioni condivise ha impegnato considerevolmente la
comunità scientifica3.
L’analisi del problema e la
conseguente formulazione di
soluzioni sono stati resi difficoltosi dall’assenza di una
definizione operativa condivisa e dall’utilizzo di sinonimi quali “continuum dell’assistenza” “coordinamento
dell’assistenza”, integrazione
dei servizi.
Continuità gestionale, informativa
e assistenziale
La continuità dell’assistenza,
dalla prospettiva dell’erogatore, deve essere vista, come
fornitura di servizi tempestiva, coordinata e integrata,
sostenuta da un valido sistema di monitoraggio e di valutazione.
A tutt’oggi comunque la comunità scientifica internazionale e nazionale appare,
nel suo complesso, concorde
con le indicazioni emerse dal
rapporto del CHSRF che individua due elementi core e tre
tipologie della continuità assistenziale.
I due elementi core che definiscono il concetto di continuità dell’assistenza sono:
– l’esperienza dell’interazione tra l’individuo e gli operatori che forniscono assistenza (providers);
– l’assistenza fornita nel corso del tempo.
La presenza contestuale di
entrambi gli elementi è fondamentale per distinguere il
concetto di continuità da
quello di altri tipi di processi
assistenziali, ad esempio:
– il “focus” solo sulla interazione operativa tra provider
sostanzia i concetti di coordinamento e integrazione,
ma non della continuità
(manca l’esperienza di interazione con l’individuo);
– la comunicazione interpersonale individuo/provider
in un singolo incontro non
sostanzia il concetto di relazione terapeutica che si
sviluppa nel tempo (dal
singolo episodio di ospedalizzazione al long term
care) con i diversi operatori che affiancano l’individuo.
Stante gli elementi core della
continuità, questa viene declinata attraverso tre tipologie di dimensioni:
Alla ricerca, promossa e coordinata dall’Agenas negli anni 2006-2008, hanno partecipato sette regioni (Abruzzo, Emilia-Romagna, Lazio,
Lombardia, ASR Marche, ARES Puglia, Veneto) e una azienda sanitaria (Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” di Trieste).
2 Rapporto FIASO - Cergas, Università Commerciale Luigi Bocconi presentato a Milano il 23 giugno 2009 nel corso del convegno “Il Governo
del Territorio nelle Aziende Sanitarie”.
3 Il CHSRF ha individuato 2.439 pubblicazioni/documenti (periodo 1966-2001), di cui 583 sono stati giudicati rilevanti per il contributo concettuale al tema, individuando 186 definizioni di continuità dell’assistenza (Reid et al., 2002 - Allegato G), assistenziale oggetto di indagine (Haggerty, Freeman et al., 2003).
1
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Territorio
La continuità assistenziale
1. Continuità relazionale (Relational continuity). Consiste nella relazione continua del paziente con diversi professionisti sanitari e sociosanitari che forniscono assistenza in modo
organico, coerente e attento allo sviluppo del
percorso di trattamento in
senso prospettico. Attiene
ad un rapporto fiduciale da
cui dipende l’integrazione
tra operatori e servizi, la
compliance del paziente e
del care-giver, il clima delle relazioni. Tale dimensione riguarda il coinvolgimento di operatori motivati in grado di promuovere
le finalità della rete assistenziale complessa in cui
sono coinvolti, anche attraverso la disponibilità e
la capacità di comunicazione efficace. La continuità relazionale si realizza attraverso:
a. la relazione/rapporto tra
individuo e provider nel
corso del tempo, che
aiuta a creare un ponte
tra contatti discontinui
(Ongoing patient-provider relationship);
b. la stabilità/coerenza
della presenza di medesimi operatori, che favorisce lo stabilirsi della
relazione/rapporto con
l’individuo (Consistency
of personnel).
2. Continuità gestionale (Management continuity). È
particolarmente importante in patologie cliniche
croniche o complesse, che
richiedono l’integrazione
di più attori professionali/istituzionali nella gestione del percorso paziente. Questo si realizza attra-
verso un’azione complementare e temporalmente
coordinata e integrata dei
s e r v i z i / p rof e s s i o n i s t i
coinvolti nel sistema di offerta assistenziale. Essa
garantisce che l’azione
giusta venga intrapresa al
momento giusto, nei modi
e nei tempi più appropriati
per conseguire gli esiti ottimali; prevede che siano
seguite linee guida o documenti di consenso largamente condivisi, che consentano di trattare la cronicità con la minima frequenza di riacutizzazioni,
complicanze e aggravamenti. La continuità gestionale si realizza con:
a. l’integrazione e il coordinamento dell’assistenza attraverso la pianificazione, implementazione e valutazione
dei percorsi assistenziali (Clinical Patwhay,
Consistency of care;
b. la flessibilità che deve
essere una caratteristica
intrinseca dei percorsi
assistenziali per permettere l’adattabilità degli
stessi a nuovi/mutati bisogni di salute e a variazioni di contesto dell’assistito (Flexibility).
3. Continuità informativa
(Informational continuity).
Permette la comunicazione
tra i soggetti istituzionali/professionali che afferiscono ai differenti setting
assistenziali nel percorso di
cura del paziente. Riguarda
informazioni non solo sulla
condizione clinica, ma anche sulle preferenze, le caratteristiche personali e di
contesto, utili ad assicurare
la rispondenza al bisogno
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N. 179 - 2010
di salute. La continuità
informativa consente di
scambiare e condividere le
informazioni relative ai diversi episodi di cura dello
stesso paziente da parte di
differenti erogatori. Rappresenta una condizione
necessaria ad una cura efficace ed efficiente, soprattutto in situazioni di patologie complesse, di comorbidità, di assistenza a malati cronici con episodi di
riacutizzazione o anche in
situazioni acute che richiedano multiprofessionalità.
Tale dimensione è necessaria al coordinamento tempestivo degli interventi fra
loro integrati, che escludano ridondanze e doppioni
di raccolta informativa e
siano finalizzati ad evitare
o almeno ridurre discordanze ed errori di raccolta,
interpretazione e registrazione. La continuità informativa si promuove attraverso:
a. il trasferimento delle
informazioni del paziente tra operatori
(dello stesso team, della
stessa organizzazione e
tra diverse organizzazioni), che rappresenta
un requisito basilare per
l’integrazione e il coordinamento dell’assistenza (Transfer of
information);
b. l’allargamento dello
spettro di conoscenze,
nel senso che le informazioni non devono essere riferite solo alla
condizione clinica, ma
anche alle preferenze,
le caratteristiche personali e di contesto, utili
ad assicurare la rispon-
denza dei servizi/prestazioni ai bisogni del
paziente (Accumulated
knowledge of patient).
Alcuni contributi bibliografici successivi a questo schema
non ne hanno intaccato logiche e contenuti, ma proposto
aggregazioni diverse e/o più
puntuali focalizzazioni:
Gulliford et al. (2006) individuano 4 “sottodomini” della
continuità:
– continuità nel tempo (continuity longitudinal);
– flessibilità (flexibility);
– continuità relazionale
(continuity relational);
– continuità nei team e nei
“confini” tra unità operative e/o organizzazioni
(team and cross-boundary
continuity).
Freeman et al. (2003) individuano come elemento centrale della continuità il concetto
di Experienced continuity (l’esperienza di un’assistenza coordinata e fluente nel tempo
dal punto di vista del paziente) che va perseguita attraverso il conseguimento della:
– continuità/coerenza informativa e dei medical record
(continuity of information;
continuity and coherence
of medical record);
– efficace comunicazione tra
professionisti e servizi e
col paziente (cross-boundary and team continuity);
– flessibilità per adattarsi ai
bisogni del paziente nel
tempo (flexible continuity);
– assistenza assicurata nel
tempo (longitudinal continuity);
– assistenza garantita da
uno specifico professionista con il quale il paziente
può sviluppare nel tempo
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La continuità assistenziale
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N. 179 - 2010
una migliore relazione
personale e terapeutica
(relational or interpersonal
continuity).
Leggere la continuità assistenziale
A fronte dello schema di riferimento individuato dal CHSRF:
Relational continuity
– Ongoing patient-provider
relationship
– Consistency of personnel
Management continuity
– Consistency of care
– Flexibility
Informational continuity
– Transfer of information
– Accumulated knowledge of
patient
Appare evidente che la costruzione di strumenti di lettura/analisi della continuità
assistenziale vada rapportata
alla tipologia/dimensione
della continuità che si vuole
esplorare, tenendo conto di
due ulteriori elementi:
– nessuna misura, allo stato
attuale, è capace di riflettere il concetto di continuità nella sua interezza;
– alcune “specifiche” misure
ancorché incardinate all’interno di una specifica prospettiva si riverberano inevitabilmente sulle altre apportando quindi contributi
interpretativi rilevanti. Ad
esempio l’incremento-allargamento delle informazioni
sul paziente al di là di quelle squisitamente cliniche
(Accumulated knowledge of
patient) si riverbera sia sulla continuità gestionale, in
termini di capacità adatti-
va/flessibilità del sistema
ai mutamenti di bisogni del
paziente, sia sulla continuità relazionale, in quanto aiuta a consolidare la relazione con il paziente attraverso una attenta lettura delle caratteristiche/
preferenze personali e del
contesto familiare/sociale.
La prospettiva di lettura/
analisi della continuità assistenziale attraverso sistemi
di indicatori necessita inoltre
della condivisione del concetto di indicatore e delle diverse modalità di costruzione.
Abbiamo fatto nostre alcune
delle riflessioni di Pierluigi
Morosini4, che sintetizziamo
nei seguenti punti:
– La funzione di un indicatore è di segnalare dove vi
può essere un problema
nella nostra organizzazione, come un cane da caccia
punta alla selvaggina. Ma
sono poi i responsabili (i
cacciatori) a dovere valutare se vi sono problemi su
cui prendere provvedimenti.
– Gli indicatori sono variabili misurabili, ad alto contenuto informativo che
servono a confrontare un
fenomeno nel tempo (in
momenti diversi) e nello
spazio (tra realtà diverse)
o rispetto ad un obiettivo
da raggiungere o da mantenere, che consentono
una valutazione sintetica
di fenomeni e forniscono
gli elementi necessari ad
orientare le decisioni.
– La “forma” degli indicatori
è molteplice:
• I tassi, proporzioni, indici, ecc., sono gli indicatori classici che derivano dai sistemi informativi correnti e da studi “ad hoc”.
• Le cosiddette “specifiche” di un prodotto
(nell’ambito industriale) possono essere considerate indicatori con
la relativa soglia.
• I requisiti di accreditamento, di certificazione,
di buona pratica professionale/organizzativa,
possono essere considerati anch’essi indicatori
con la relativa soglia
(obiettivo da raggiungere o da mantenere).
Leggere la continuità relazionale
La lettura della continuità relazionale è quella che più direttamente attiene la prospettiva del paziente e può
avvenire attraverso:
1. Il monitoraggio della soddisfazione/esperienza degli utenti da svilupparsi
mediante:
• l’effettuazione di periodiche indagini di soddisfazione dei pazienti e
dei loro famigliari;
• la divulgazione/discussione dei risultati dell’indagine con i pazienti/famiglie o associazioni utenti;
• la divulgazione/discussione dei risultati dell’indagine con gli operatori;
• la stesura di un report
contenente i problemi
aperti e le azioni di
miglioramento da realizzare.
Vastissima è la bibliografia sull’argomento.
Oltre alla bibliografia riportata da Reid et al.
(2002 - Allegato D), si
segnala, tra i più recenti contributi:
– il questionario Patient
Continuity of Care
Questionnaire (PCCQ)
(Hadjistavropoulos et
al., 2008) messo a punto per indagare i seguenti aspetti della
continuità assistenziale
nell’interfaccia ospedale
territorio:
• le relazioni con i providers in ospedale
• le informazioni trasmesse al paziente
• le relazioni con i providers nel territorio
• la gestione delle
informazioni scritte
• la gestione del follow-up
• la gestione della comunicazione tra providers
– la review di Adler et al.
(2010) sulla relazione
tra continuità assistenziale e soddisfazione del
paziente nel primary
health care.
2. L’analisi della corrispondenza ad alcuni requisiti
di buone pratiche organizzative, ad es.:
• presenza di un singolo
operatore (care manager) preposto a seguire
nel tempo specifici pazienti;
4 Il Prof. Morosini, prematuramente scomparso, ha offerto alla comunità scientifica nazionale e internazionale contributi scientifici fondamentali
nel campo della epidemiologia valutativa dei servizi sanitari nonché, da acuto autore di aforismi, spunti di riflessione sui significanti/significati
delle attività di ricerca.
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Territorio
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• presenza di un team di
operatori preposto a seguire nel tempo specifici pazienti;
• presenza nell’organizzazione di policy/linee
guida/ standard di pratiche sulla continuità
relazionale;
• presenza di report che
testimonino la conoscenza delle esigenze
del paziente e del contesto in cui vive (nelle
patologie croniche);
• presenza di report sulla
qualità della continuità
dell’assistenza predisposti con i care giver;
• individuazione di un responsabile (es. team
leader) che effettui periodicamente la supervisione della qualità
della continuità relazionale;
• iniziative aziendali di
informazione/formazione e comunicazione
tra pazienti/famiglie e
operatori;
• analisi e approfondimento dei reclami su
carenze di continuità
assistenziale.
Leggere la continuità gestionale
La continuità dell’assistenza
presuppone l’assunzione, da
parte delle organizzazioni,
delle logiche delle reti e dei
processi assistenziali.
Una trattazione esaustiva di
tali logiche e dei relativi strumenti esula dagli scopi di questo articolo e vengono dati come assunti. Si cercherà di offrire elementi di ragione per
rispondere a un quesito di
fondo: al di là della dichiarazione formale dell’esistenza di
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La continuità assistenziale
una rete (es.: emergenza-urgenza, oncologica, cardiologica, ecc.) o di percorsi/processi
assistenziali (es.: percorso
IMA, stroke, frattura femore,
trauma cranico, ecc.), come
evidenziare una reale strutturazione/funzionamento in rete degli elementi costitutivi (i
nodi) della stessa e dei processi assistenziali implementati?
Nel caso in cui una organizzazione non sia inserita all’interno di una rete assistenziale specifica o non partecipi
ad alcun percorso assistenziale strutturato, il monitoraggio della propria capacità
di garantire la continuità gestionale può essere effettuato attraverso l’adozione dei
seguenti requisiti:
– Individuazione di operatori il cui ruolo è quello di
garantire la gestione della
continuità (es. case manager o team leader responsabile di coordinare l’assistenza all’interno dell’organizzazione).
– Uso di standard clinici (linee guida; protocolli; ecc)
per coordinare l’assistenza
ai pazienti dentro la propria organizzazione.
– Uso di standard clinici (linee guida; protocolli; ecc)
per coordinare l’assistenza
ai pazienti con le altre organizzazioni.
– Definizione di standard di
pratica clinica correlati alla gestione delle continuità (es. politiche o pratiche mirate a promuovere/mantenere i meeting
dei team di lavoro).
– Audit periodici per massimizzare il coordinamento
dell’assistenza e la continuità dell’assistenza.
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– Incontri periodici dei team
sull’assistenza al paziente.
– Incontro dei team con i care giver.
– Conferenze inter-organizzazioni per promuovere/
facilitare l’assistenza integrata dei pazienti.
– Accordi assistenziali collaborativi con altre organizzazioni sanitarie.
– Accordi assistenziali collaborativi con settori extrasanitari (es. enti locali,
scuola, giustizia, ecc.).
– Utilizzo di indicatori per
misurare la gestione della
continuità assistenziale.
Nel caso in cui l’organizzazione sia inserita formalmente
entro una rete assistenziale
e/o condivida percorsi assistenziali strutturati potrebbe
essere utile fornirsi di una
griglia di lettura/analisi del
grado di maturazione delle
stesse.
Lontani dal proporre una
check list esaustiva di analisi
del funzionamento di una rete e dei percorsi assistenziali,
nella Tabella 1, ci si limita a
proporre una lista di criteri/
requisiti che possono evidenziare aree di miglioramento
organizzativo.
Indicatori di continuità gestionale
Gli indicatori di continuità
gestionale presenti in letteratura possono essere raccolti,
per comodità descrittiva, in
tre macro categorie:
– indicatori di concentrazione/dispersione/sequenzialità (longitudinalità)
dell’assistenza;
– indicatori indiretti di continuità di assistenza territoriale;
– indicatori diretti continuità di assistenza specifici per patologia.
Indicatori di concentrazione/dispersione/sequenzialità
(longitudinalità) dell’assistenza
La letteratura propone alcuni
indicatori volti a misurare direttamente “concentrazione/dispersione” e “sequenzialità” dell’assistenza come
elementi chiave della continuità (Tab. 2). Le misure di
“concentrazione/dispersione” basano il loro assunto
sull’ipotesi che più grande è
la concentrazione dell’assistenza su uno stesso provider
(operatore o servizio) e più
sequenziale nel tempo, più
forte è la relazione che si stabilisce, più consistente il piano di attività e più scorrevole
il trasferimento dell’informazione.
Un altro set di indicatori
“specifici” su continuità/
coordinamento dell’assistenza è quello dalla RAND Health
che, a partire dal 2000, ha
avviato il progetto ACOVE
(Assessing Care of Vulnerable
Elders) focalizzato sui grandi anziani (> 75 anni) che,
a maggior rischio di malattia/perdite funzionali, sono i
più suscettibili agli effetti legati alla scarsa qualità dell’assistenza. Gli indicatori riportati in Tabella 3 sono
quelli individuati nel sottoinsieme “Continuità e coordinamento dell’assistenza”
(Wenger e Young, 2004).
Indicatori indiretti di continuità di assistenza territoriale
Gli indicatori più utilizzati
per una lettura indiretta della continuità assistenziale
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La continuità assistenziale
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Tab. 1.
La rete e i percorsi assistenziali
Requisiti
Si
No
Parz.
La rete assistenziale
1. È stato identificato il bacino di utenza della rete
2. Sono state individuati tutti i nodi che compongono la rete (UU.OO., servizi, Presidi)
3. Sono specificate le funzioni e le attività di ciascun nodo
4. Sono specificate le dotazioni strutturali, strumentali e le dotazioni organiche di ciascun nodo
5. Sono state definite (se indicate) le sedi hub e spoke dei nodi della rete. In questo caso sono state regolati:
a. le responsabilità di coordinamento per il percorso clinico e il follow-up dei pazienti
b. i criteri di ammissione dei pazienti e le priorità di accesso
c. i tempi e le liste di attesa differenziate per gli hub e spoke
d. i criteri di dimissione e re-invio allo spoke
6. Sono state elaborate e condivise linee guida e protocolli assistenziali
7. Sono state adottate procedure informatiche, per il collegamento in rete di tutte le unità operative coinvolte
8. Sono attivati piani di formazione continua e condivisi per gli operatori della rete
9. È previsto lo scambio di operatori tra i nodi della rete, per finalità di aggiornamento professionale o di ricerca
10. Sono previsti progetti di ricerca comuni tra i nodi della rete
11. Esiste un board di coordinamento della rete che predispone un documento di programmazione in cui sono esplicitati
gli obiettivi e le attività di breve-medio periodo coerenti con le linee programmatiche regionali (o aziendali).
Gli obiettivi:
a. sono misurabili attraverso indicatori specifici;ì
b. contengono l’indicazione del tempo necessario al loro perseguimento
c. contengono l’indicazione delle scadenze entro cui andranno verificati
12. Viene redatto annualmente un report sulle attività della rete che viene presentato formalmente in apposita/e riunione/i agli operatori della rete
I percorsi assistenziali
13. La rete ha definito un percorso assistenziale per la patologia più “rilevante” (da un punto di vista clinico e/o
epidemiologico) tra quelle di sua pertinenza
14. Per il percorso di assistenza individuato sono indicati:
a.
b.
c.
d.
i criteri che ne hanno determinato la scelta
la flow chart del percorso
la descrizione, per ciascuna fase del percorso, delle categorie assistenziali principali
la valutazione clinica
15. Il coordinatore o il gruppo di coordinamento
16. Gli operatori che hanno partecipato alla stesura
17. La data della compilazione o della conferma o dell’aggiornamento delle raccomandazioni
18. Tutti gli operatori delle UO coinvolte nella costruzione del percorso sono stati informati sui contenuti dello stesso
e formati relativamente alle nuove procedure assistenziali
19. I documenti relativi al profilo sono collocati in posizione facilmente accessibile in ogni UO
20. Viene effettuato periodicamente un audit per la valutazione del grado di applicazione del profilo di assistenza
e sono valutati i motivi di scostamento dal profilo stesso
21. Viene redatto periodicamente un report sui risultati del monitoraggio del percorso assistenziale
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La continuità assistenziale
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Tab. 2. Indicatori di concentrazione/dispersione/sequenzialità dell’assistenza (da Reid et. al., 2002).
Indicatore
Descrizione
Numero di provider
N° di provider con i quali il paziente viene in contatto durante un episodio di assistenza (es.: ospedalizzazione)
o in un determinato periodo di tempo (es. un anno).
Usual Provider of Continuity
(UPC) (Breslau et al 1975)
N° di visite dell’operatore “usuale” in un dato periodo di tempo sul n° totale di visite di operatori simili.
Continuity of Care (COC) Index
(Bice et al 1977)
Misura la concentrazione e la dispersione di assistenza tra tutti i provider visti da un paziente.
Known’Provider Continuity
Misura la concentrazione di assistenza con i differenti provider visti da un paziente.
(K index) (Ejlertsson et al 1985)
Likelihoodof Continuity (LICON) Misura la probabilità che il numero di provider visti sia più basso di quello che sarebbe occorso in condizioni casuali, dati il
(Steinwachs 1979)
livello di utilizzazione dei servizi da parte del paziente e il numero di provider disponibili.
Modified Modified Continuity
Misura la concentrazione di assistenza in una popolazione di pazienti e il livello individuale dei pazienti.
Index (MMCI) (Magill et al 1987)
Sequential Continuity (SECON)
(Steinwachs 1979)
La proporzione di visite sequenziali con lo stesso provider, in un determinato periodo di tempo.
Alpha Index (CI?) (Lou 2001)
Rappresenta una media pesata tra la sequenzialità e la concetrazione di provider visti in una serie di visite.
sono i PQIs (Prevention Quality Indicators) messi a punto
dall’AHRQ (AHRQ, 2007,
AHRQ, 2008).
I PQIs, basati su dati di ricovero (SDO), sono indicatori
utili a evidenziare problemi
di qualità dell’assistenza per
le condizioni sensibili al sistema delle cure ambulatoriali, il che li propone al ruolo di
possibili indicatori di discontinuità assistenziale in quanto basati su condizioni per le
quali una buona rete di assistenza extraospedaliera deve
evitare o comunque ridurre il
rischio di ricovero per complicanze o aggravamenti.
I PQIs fanno riferimento alle
sotto riferite 14 condizioni
sensibili ai trattamenti extraospedalieri:
1. Complicanze a breve termine del diabete (PQI 1)
2. Appendicite perforata
(relativa ai ricoveri per
appendicite verificatisi)
(PQI 2)
3. Complicanze a lungo termine del diabete (PQI 3)
4. BPCO (PQI 5)
5. Ipertensione (PQI 7)
6. Scompenso cardiaco
(PQI 8)
7. Basso peso alla nascita
(relativo al numero di
parti) (PQI 9)
8. Disidratazione (PQI 10)
9. Polmonite batterica
(PQI 11)
10. Infezioni urinarie
(PQI 12)
11. Angina senza procedure
(PQI 13)
12. Diabete non controllato
(PQI 14)
13. Asma in paziente adulto
(PQI 15)
14. Amputazioni delle estremità inferiori in diabetici
(PQI 16)
Ricoveri per tali condizioni
potrebbero essere evitati
qualora esistesse una rete assistenziale sul territorio di
buona qualità anche se, naturalmente, anche altri fattori
al di fuori del controllo diretto del sistema sanitario possono avere un ruolo nel determinarli, ad esempio le cat-
tive condizioni socio-economico-culturali, ambientali e
la scarsa compliance da parte
del paziente alle prescrizioni
del medico di base o dell’ambulatorio specialistico.
Per questo tali indicatori si
suggeriscono solo come strumenti di screening, che solo
un attento studio di correlazione locale può servire a
contestualizzare e a rendere
operativamente efficaci nella
valutazione della continuità
assistenziale.
Indicatori diretti di continuità
di assistenza specifici per patologia
I Clinical Pathway (percorsi/
processi/profili assistenziali)
rappresentano il modello
operativo-funzionale per tradurre nella pratica la sequenza tempestiva e ordinata degli interventi sanitari per la
diagnosi, la terapia, la riabilitazione di patologie croniche
o complesse. In tale approccio si può tenere conto di
gran parte degli accorgimenti
che la ricerca ha dimostrato
utili per cambiare in meglio il
comportamento dei professionisti sanitari (Panella et
al., 1997, Panella et al.,
2000; Morosini et al., 2004 Di
Stanislao, 2005):
– combinazione di qualità
professionale e organizzativa, di sforzi verso il miglioramento sia dell’efficacia, sia dell’efficienza;
– attribuzione di priorità alle raccomandazioni professionali più importanti;
– coinvolgimento nella definizione precisa delle raccomandazioni e soprattutto nelle loro modalità di
applicazione dei professionisti locali, in particolare
dei più influenti e prestigiosi;
– rilevazione di indicatori di
processo e di esito, con
feed-back ai partecipanti;
– applicabilità senza bisogno di grosse risorse aggiuntive;
– presenza di incentivi economici e amministrativi
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Tab. 3. Indicatori di continuità e coordinamento dell’assistenza della RAND Health (Wenger e Young, 2004).
INDICATORE
NUMERATORE
DENOMINATORE
1. Identificare fonte di cura
Soggetti che riescono a identificare un medico/servizio Tutte le persone di età = o > a 75 anni
che si sarebbe chiamato in caso di bisogno di cure
mediche o conoscono il numero di telefono o altro
meccanismo attraverso il quale possono raggiungere
questa fonte di cura.
2. Follow-up farmaci
La cartella clinica alla visita del follow-up documenta
uno dei seguenti elementi: il farmaco è stato preso,
il medico ha chiesto/informato il paziente per il farmaco
(ad esempio, gli effetti collaterali o adesione o
disponibilità), o il farmaco non è stato iniziato perché
non era necessario o perché si è cambiato.
Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 che hanno iniziato
un nuovo farmaco su prescrizione medica e per i quali è
prevista una vista di follow-up visita con il medico che
prescrive.
3. Continuità delle prescrizioni
farmaceutiche tra i medici
La cartella clinica del medico non-prescrittore contiene
il cambiamento effettuato.
Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 assistiti da 2 o più
medici in cui un medico ha prescritto un nuovo farmaco o
una sostituzione del farmaco
4. Ragione per la consultazione
La ragione della consultazione deve essere documentata Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 con prescrizione di
nella cartella del consulente.
consulenza specialistica.
5. Raccomandazioni del
documento consulente
La cartella clinica del medico di riferimento documenta Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 con visita
le raccomandazioni del o include le note del consulente specialistica e tornati al medico di riferimento.
entro 6 settimane o al momento della visita di follow-up,
se posteriore.
6. Test diagnostico di follow-up
La cartella clinica alla visita follow-up dovrebbe
Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 con cartella clinica
documentare uno dei seguenti elementi: risultato
con prescrizione di un test diagnostico.
del test, test non è stato necessario o ragione per cui non
sarà effettuato, o il test è ancora in corso
7. Continuità dei trattamenti
La cartella clinica ambulatoriale deve documentare il
farmacologici dopo il ricovero cambiamento farmaco entro 6 settimane dalla
dimissione.
Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale con
prescrizione di nuovi farmaci o sostituzione di farmaci alla
dimissione.
8. Tempo di attesa risultati test
diagnostici
La cartella clinica ambulatoriale o della residenza deve
documentare il risultato del test entro 6 settimane di
dimissione ospedaliera.
Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale a casa o
in una residenza con un test in attesa di risposta.
9. Visite di follow-up
dopo ospedalizzazione
La documentazione medica dovrebbe documentare che
la visita o il trattamento ha avuto luogo o che è stato
rinviato o non è stato necessario.
Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale a casa o
in una residenza in attesa di risposta a un test o un follow-up
per una visita medica o un trattamento (ad es.: terapia
fisica).
Pazienti con visita di follow-up o contatti telefonici
documentati entro 6 settimane dalla dimissione e nella
documentazione medica dovrebbe essere registrato il
motivo del recente ricovero in ospedale.
Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale
sopravvissuti almeno 4 settimane dopo la dimissione.
10. Follow-up ospedaliero dopo 6
settimane dalla dimissione
11. Trasferimento cartelle cliniche Le cartelle cliniche dei reparti riceventi devono
Pazienti di età = o > a 75 trasferiti tra reparti di emergenza
comprendere la documentazione medica dal reparto
o tra reparti per acuti.
di trasferimento, o devono documentare che il
trasferimento di tale documentazione medica è in corso.
12. Sintesi dimissioni entro 6
settimane dimissione
La cartella clinica ambulatoriale o della residenza deve Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale a casa o
contenere la lettera di dimissione (o documento analogo) in una residenza
entro 6 settimane dalla dimissione.
13. Interprete
È documentabile che per facilitare la comunicazione tra
il paziente e gli operatori sia stato utilizzato
un interprete o materiale tradotto nella lingua
dello straniero.
Pazienti di età = o > a 75 sordi o stranieri che non parlano
l’italiano
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Territorio
106
concordati (ad esempio,
inclusione nel budget).
Lo strumento percorsi assistenziali ha inoltre i vantaggi
di:
– stimolare un approccio basato sui processi, superando le compartimentazioni
in unità organizzative e
servizi, e centrato sui problemi di salute dei pazienti;
– promuovere il pieno coinvolgimento dei professionisti ed essere quindi funzionale all’obiettivo della
clinical governance;
– orientare il sistema informativo aziendale verso la
rilevazione dell’appropriatezza degli interventi e degli esiti, sia intermedi nel
processo assistenziale, sia
finali;
– facilitare la misurazione
dell’impatto economico
delle decisioni;
– favorire la riprogettazione
della struttura organizzativa e del sistema delle responsabilità aziendali in
modo sempre più coerente
con la missione aziendale
di tutela della salute.
Nel corso di questi ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi5 e diverse metanalisi (Rotter et al., 2008;
Barbieri et. al., 2009;) che
mostrano la capacità dei clinical pahtway di migliorare la
qualità dei processi (reale applicazione delle raccomandazioni/protocolli/linee guida
diagnostico-terapeutico e assistenziali) e degli esiti.
I clinical pathway maggior-
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La continuità assistenziale
mente studiati e quindi su
cui è possibile reperire repertori di indicatori di processo
ed esito sono quelli relativi a:
infarto miocardico acuto;
scompenso cardiaco; stroke;
politraumatizzato; trauma
cranico; frattura del femore;
BPCO; uremia cronica. Inoltre, sempre più numerosi, appaiono contributi di ricerca
su: pazienti oncologici; pazienti “fragili”; schizofrenia;
depressione.
A titolo di esempio, si riportano alcuni risultati (Tab. 4) di
un trial clinico randomizzato
controllato in cluster finalizzato a valutare l’impatto della
realizzazione del percorso assistenziale dello scompenso
cardiaco negli ospedali (Panella et al., 2009)6.
Leggere la continuità informativa
Come ricordato in premessa la
continuità informativa rappresenta un requisito basilare
per l’integrazione e il coordinamento dell’assistenza.
L’attenzione posta dall’organizzazione allo sviluppo della
continuità informativa può
essere valutata attraverso la
corrispondenza ai requisiti di
seguito delineati nonché direttamente attraverso la produzione di indicatori ricavabili direttamente dai datawarehouse:
– la documentazione clinica
di reparto (diario clinico,
lettera di dimissione; visite/consulenze, referti radiologici e di laboratorio)
è gestita in forma digitale;
N. 179 - 2010
– la documentazione clinica
è gestita in forma digitale
nei seguenti servizi: laboratorio analisi; anatomia
patologica, diagnostica per
immagini, pronto soccorso, farmacia;
– la documentazione clinica
è accessibile per via elettronica da parte dei provider interni all’organizzazione;
– la documentazione clinica
è accessibile per via elettronica da parte dei provider esterni all’organizzazione (es. medici di medicina generale);
– viene effettuata una verifica periodica della qualità
(completezza, leggibilità,
ecc.) delle cartelle cliniche;
– sono state emanate linee
guida per garantire la continuità informativa;
– privacy: sono presenti e
adottati tutti i documenti
e le misure previste dalla
normativa attuale sulla tutela dei dati personali.
Di rilievo alcune riflessioni di
Longo et al. (2009) sui determinanti “soft” (cioè non attinenti la presenza le tecnologie informatiche) della continuità informativa. I principali driver esplicativi dei livelli
di frequenza dello scambio
informativo tra i professionisti, e conseguentemente dell’integrazione/coordinamento, sembrano essere:
– la vicinanza spaziale, e
nello specifico la presenza
fisica dei professionisti
nella stessa struttura:
quanto più i professionisti
lavorano nello stesso ambiente fisico, tanto più si
scambiano informazioni e
sono integrati nella cura
dei medesimi pazienti;
– la gravità della condizione
clinica dei pazienti: quanto più gravi sono le condizioni cliniche dei pazienti,
e quanto maggiore e “urgente” è perciò la tipologia di assistenza richiesta,
tanto maggiore è il livello
di scambio di informazioni
e il coordinamento tra i
professionisti coinvolti;
– l’orientamento e la cultura
verso l’integrazione presenti all’interno delle singole aziende: in contesti
in cui vi è una maggiore
apertura dei professionisti
verso l’integrazione, si riscontrano livelli di integrazione professionale più
elevati per tutte le patologie analizzate.
Considerazioni
Le evidenze attuali sui benefici dello sviluppo delle logiche/metodologie e strumenti
per garantire la continuità
assistenziale sono essenzialmente (Longo et al., 2008):
– Una maggiore appropriatezza (coerente applicazione di linee guida /protocolli diagnostici terapeutici) ed efficacia (outcome) derivante dall’adozione dei clinical pahtway
per specifiche patologie
(Rotter et al. 2008, Barbieri et al., 2009, Panella et
al. 2009).
Ricordiamo solo alcuni siti WEB di interesse (cfr. ad es.: European Pathway Association http://www.e-p-a.org; International Journal of Care
Pathways, http://ijcp.rsmjournals.com; GIN - Guidelines International Network Conference http://www.g-i-n.net).
6 16 ospedali hanno chiesto di realizzare il percorso assistenziale dello scompenso cardiaco, 14 community hospitals sono stati selezionati (selezione
basata sulla confrontabilità della localizzazione, dei pazienti, dei servizi, teaching statuse livello di aggiornamento professionale) e randomizzati.
5
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La continuità assistenziale
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Tab. 4. Sintesi dei principali risultati di un trial clinico randomizzato controllato in cluster
sullo scompenso cardiaco (Panella et al., 2009).
INDICATORI DI PROCESSO
Procedure diagnostiche
Percorso
scompenso
Assistenza
tradizionale
%
%
Significatività
statistica
Ecocardigrafia
77.10
12.09
< 0.001
Ecocardigrafia transesofagea
19.16
1.40
< 0.001
Elettrocardiografia
96.26
95.35
n.s.
Rx torace
90.65
79.07
< 0.001
Ossimetria
73.83
26.05
< 0.001
Monitoraggio peso
47.66
36.74
< 0.022
Monitoraggio diuresi
67.76
49.77
< 0.001
Trattamenti farmacologici
Farmaci inotropi
66.36
48.84
< 0.001
ACE inibitori
57.94
40.00
< 0.001
Beta bloccanti
46.73
10.23
< 0.001
Diuretici
95.33
. 95.81
n.s.
Nitrati
33.18
24.19
< 0.039
Altri vasodilatatori
39.25
3.26
< 0.001
Eparina
50.00
19.07
< 0.001
Anticoagulanti orali
58.88
14.88
< 0.001
Trattamenti riabilitativi - Empowerment paziente (JCAHO core measures set)
Valutazione della funzione ventricolare sx alla dimissione
o pianificata per dopo la dimissione
98.1
12.1
< 0.001
Riabilitazione cardiologica alla dimissione o pianificata
per dopo la dimissione
36.4
5.1
< 0.001
Counseling per la cessazione del fumo
58.8
12.9
< 0.004
Istruzioni scritte alla dimissione sulle attività fisiche, dieta,
farmaci, follow-up, monitoraggio peso e su comportamenti
in caso di comparsa di sintomi
62.6
8.8
< 0.001
ACE - inibitori alla dimissione con/senza controindicazioni,
con LVF < 40%
60.0
41.7
n.s.
Mortalità intraospedaliera
5.6
15.3
< 0.001
Tasso di riammissione non programmate
7.9
13.9
n.s.
INDICATORI DI ESITO
Soddisfazione pazienti
8.5
8.1
n.s.
Appropriatezza degenza
76.2
72.1
n.s.
Degenza media
10.3
11.4
< 0.028
– Evidenze ancora insufficienti sulle possibili economie derivanti dalla loro
applicazione(Peikes et al.,
2009).
– Una maggiore soddisfazione degli utenti del sistema, attraverso la valoriz-
zazione di relazioni interpersonali capaci di aumentare il senso di cura percepita da parte dei pazienti;
(Becker et al., 1974; Longo
et al., 2009).
Su quest’ultimo tema è interessante notare come il livello
di soddisfazione derivante da
accresciuti livelli di continuità
nelle cure dipenda spesso dalle condizioni socio-economiche dei pazienti: pazienti particolarmente fragili, e spesso
esclusi dalla condivisione di
informazioni relative al pro-
prio percorso di cura, si sentono particolarmente soddisfatti
della presenza di relazioni
stabili con professionisti,
mentre lo stesso livello di soddisfazione non si registra in
pazienti più evoluti e avanzati
socialmente ed economicamente (Becker et al., 1974).
Questa evidenza suggerisce
come la soddisfazione del paziente possa essere rivolta alla
gratificazione del rapporto
personale con il professionista, ovvero a quel meccanismo
di “meta-continuità” che non
può essere propriamente associato a una corretta definizione di “continuità assistenziale”, nonché alla dimensione
dell’accessibilità dei servizi
(es.: facilità di accesso allo
studio del MMG o al centro
diabetico o all’ambulatorio;
Longo et al., 2009).
Da un punto di vista delle
metodologie/strumenti di
lettura, dalla revisione della
letteratura e dall’analisi delle
esperienze emergono alcune
indicazioni che rappresentano anche possibili traiettorie
di lavoro futuro:
– la continuità assistenziale
deve essere esplorata con
un approccio multidimensionale capace di leggere
le tre dimensioni fondanti
il concetto di continuità:
la continuità relazionale,
gestionale e informativa.
– la maggior parte delle attività di ricerca sperimentate riguardano la continuità
gestionale. Gli indicatori
sui percorsi assistenziali di
specifiche patologie offrono indicazioni fondamentali sull’efficacia (effectiveness), appropriatezza ed
efficienza dell’assistenza
erogata;
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Territorio
La continuità assistenziale
– è necessario approfondire
le sperimentazioni sullo
sviluppo ed applicazione
di misure dirette di lettura:
• della prospettiva del paziente;
• della dimensione della
continuità informativa;
• delle interfacce (confini) tra le articolazioni
organizzative interaziendali e tra aziende.
È necessario utilizzare strumenti “ibridi” (Longo et al.,
2009) (es.: griglie di analisi
organizzativa; survey/indagini di soddisfazione dei pazienti/famiglie e operatori;
focus group; dati organizzativi di azienda, ecc.) rispetto
agli indicatori tradizionalmente intesi, indispensabili
per leggere dimensioni non
altrimenti esplorabili che
possono offrire utili spunti di
riflessione il management e
gli operatori di line delle nostre organizzazioni.
Riteniamo che lo sviluppo e
l’applicazione di un sistema
di monitoraggio della conti-
nuità dell’assistenza sia da
mettere nell’agenda delle
priorità delle nostre organizzazioni sanitarie per un triplice motivo:
– fornire l’evidenza della reale implementazione delle
logiche delle reti e dei processi assistenziali, logiche
ormai ineludibili nel governo e gestione di un sistema
complesso quale quello della sanità. Reti e processi
sono la traduzione organizzativa ed operativa del concetto di sistema; rappresentano le modalità per
passare da un sistema di
progetti intra/inter-aziendali spesso virtuosi, ma sovente non coordinati tra loro, a un progetto di sistema
in cui le parti in causa agiscono, dialogano, si confrontano intorno ai bisogni
del paziente;
– portare ulteriori elementi
conoscitivi, già suffragati
per molti aspetti e in diversi campi da risultati di ricerca, alle evidenze che il
buon funzionamento di una
108
Bibliografia
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Barbieri A., Vanhaecht K., Van Herck P., Sermeus W., Faggiano F., Mar-
N. 179 - 2010
rete, fortemente connessa e
ben strutturata, percorsa da
un regolare flusso informativo, che operi interventi di
documentata efficacia,
tempestivi e coordinati, si
traduce nel buon trattamento della cronicità; nella
promozione di un clima lavorativo atto a motivare
tutti gli operatori a dare il
meglio nel conseguire gli
obiettivi di un progetto
condiviso, e nella risultante
soddisfazione del paziente
preso in carico dall’istituzione e reso protagonista
delle decisioni che lo riguardano;
– dare evidenza che l’obiettivo dell’equità dell’assistenza e del contrasto delle diseguaglianze nella salute, principio fondante
del nostro sistema sanitario, non è solo una mera
dichiarazione d’intenti, ma
viene realmente perseguito monitorando la capacità
del nostro sistema di una
reale “presa in carico” dei
cittadini e, tra questi, so-
prattutto di quelli che rischiano per la loro condizione di deprivazione (culturale, sociale, materiale,
relazionale) di non accedere tempestivamente e di
affrontare un “pericoloso
viaggio” (Bodenheimer T.,
2008) o navigazione (Sofaer S., 2009) tra gli arcipelaghi dei servizi e delle
prestazioni offerte dal sistema. La sfida per il futuro (Longo et al, 2009) delle ricerche sul campo è
quello di andare a intercettare quei livelli di bisogno inespresso che non
riescono per svariate ragioni a tradursi in domanda esplicita di servizi (pazienti non arruolati nei
percorsi, soggetti con elevati fattori di rischio che
non partecipano a programmi di prevenzione…),
valutandone le criticità
nell’accesso ai servizi e
programmando le strategie
di inclusione in programmi
formalizzati di assistenza
o monitoraggio.
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La continuità assistenziale
Territorio 109
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Panella M., Moran N., Di Stanislao F. (marzo 1997), Una metodologia
(segue da pag. 98):
L’integrazione dei profili professionali
Fondamentale quindi:
– prestare particolare attenzione alle figure infermieristiche ad essa peculiarmente dedicate ed in particolar
modo al ruolo del coordinatore infermieristico che deve essere in possesso di
competenze di management e dello strumento
informatico in generale,
con tutte le applicazioni
che mette a disposizione;
– dare priorità allo sviluppo
di una efficace comunicazione clinico-assistenziale
fra i nodi della rete utilizzando metodologie quali:
lavoro in gruppo, roleplayng, simulazioni, audit
formativi periodici sui casi, patto formativo d’aula
come fondamento del percorso, utilizzo di esperti in
counselling relazionale,
momenti d’incontro/confronto fra coordinatori infermieristici e con gli altri
operatori sanitari, in particolare MMG;
per lo sviluppo dei profili di assistenza: l’esperienza del TriHealth Inc,
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Panella M., Marchisio S., Kozel D., Ongari M., Bazzoni C., Fasolini G.,
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– ipotizzare l’individuazione
di una figura all’interno
del gruppo multidisciplinare che sia riconosciuto
quale referente formativo
del percorso, che si correli
quindi con gli altri professionisti coinvolti, affianchi, se non coincidente,
con l’animatore di formazione di riferimento e con
l’ufficio formazione dell’azienda sanitaria;
– allestire una serie di indicatori di valutazione della
qualità, ad esempio:
• Presenza mappatura
competenze.
• Eventi formativi già
svolti.
• Glossario condiviso.
• Sistema informativo conosciuto e integrato.
L’obiettivo è quello di dare vita ad una rete (comunità di
pratiche) che supporti dinamicamente il processo di sviluppo e continuo cambiamento delle pratiche assistenziali
e relazionali in ospedale come sul territorio.
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Sae l ute
Territorio
110
Cesare Cislaghi
Università di Milano - Agenzia
nazionale per i Servizi sanitari
regionali, Roma
L
a remunerazione di una
attività non segue dei
criteri univoci e ben definiti ma anzi dipende fortemente dal contesto in cui viene eseguita. In generale la remunerazione è definibile come ciò che riceve un soggetto
in cambio di una attività che
ha prestato.
La remunerazione dipende allora soprattutto dal rapporto
intercorrente tra i due soggetti coinvolti, il prestatore
ed il remuneratore. Se il prestatore è in rapporto di dipendenza con il remuneratore, la remunerazione diventa
essenzialmente un finanziamento, cioè un trasferimento
di risorse al prestatore per integrarlo delle risorse da questo utilizzate per compiere la
prestazione. Se invece il rapporto non è di dipendenza allora la remunerazione diventa
un prezzo e cioè l’equivalente
in denaro del valore che il
compratore attribuisce alla
prestazione acquisita. La differenza tra le due fattispecie
è tutt’altro che ininfluente in
quanto nel primo caso la misura della remunerazione sono i costi che si sono sostenuti per svolgere l’attività, mentre nel secondo la remunerazione è proporzionale al valore d’uso dell’attività stessa.
Ci sono anche remunerazioni
che assumono criteri interme-
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La continuità assistenziale
N. 179 - 2010
Modelli di
remunerazione
delle prestazioni
di quali ad esempio le tariffe,
che sono prezzi regolati e proporzionali ai costi e in cui il
rapporto tra il soggetto prestatore e il soggetto remuneratore non è di dipendenza,
ma il rapporto non avviene
nell’ambito di un mercato libero bensì di un mercato regolato; la particolarità poi
delle tariffe di molti settori
pubblici quali la sanità è che
il remuneratore è un soggetto
terzo rispetto al produttore ed
all’utilizzatore, e quindi utilizza un criterio intermedio
tra il corrispettivo del costo
ed il corrispettivo del valore.
Un altro elemento importante è il soggetto che di fatto
definisce la remunerazione:
se l’attività si svolge in situazione di monopolio la remunerazione la definisce il produttore monopolista; se si
svolge in situazione di monopsonio invece la remunerazione la definisce il compratore monopsonista; è solo in
situazioni di concorrenza che
la remunerazione si definisce
mediante un equilibrio tra
l’interesse dell’offerta e quella della domanda. Il monopolista chiederà la maggior remunerazione possibile compatibile con il mantenimento
del livello di domanda che lui
ritiene necessaria per ottimizzare il sistema produttivo; il monopsonista, invece,
L'obiettivo del raggiungimento di un equilibrio
fra il risultato clinico e quello economico
offrirà la remunerazione minore compatibile con il mantenimento di un livello di offerta sufficiente a soddisfare
le proprie esigenze. In situazioni di concorrenza poi è
l’incontro tra gli interessi
dell’offerta e della domanda
che definisce l’entità della remunerazione: la carenza di
offerta farà aumentare i prezzi, mentre la carenza di domanda li farà diminuire.
Un altro elemento importante è il contenuto dell’attività
oggetto della remunerazione:
questa può essere un singolo
elemento utilizzato, oppure
la prestazione elementare, la
prestazione complessa, l’intero percorso prestazionale od
anche, infine, la copertura
del rischio di necessitare in
futuro di una prestazione.
Ci sono infatti in sanità delle
situazioni in cui viene remunerato il singolo elemento, ad
esempio il farmaco, oppure
gli elementi separati di una
prestazione, come in una prestazione specialistica la visita
del clinico distinta dalle procedure diagnostiche, come
una ecografia effettuate contestualmente.
Tutta la medicina diagnostica
e specialistica viene per lo più
remunerata a singola prestazione mentre i ricoveri ospedalieri nel nostro sistema pubblico vengono remunerati “a
corpo” con una tariffa che
comprende forfettariamente
tutte le prestazioni fornite al
ricoverato. Se ad esempio per
curare un caso di polmonite
occorrono due visite specialistiche, un esame radiologico e
dei farmaci antibiotici, la remunerazione di tutto ciò avviene in modo specifico se il
paziente è curato a domicilio,
mentre viene remunerato globalmente con una tariffa associata al DRG se il paziente è
assistito in ospedale.
Qual’è l’elemento che distingue, ai fini della remunerazione, i due processi assistenziali? È la diversità o l’unicità
tra il soggetto che gestisce
clinicamente il caso ed il soggetto che riscuote la remunerazione. A domicilio, infatti,
la cura della polmonite viene
gestita da un medico o talvolta, seppur scorrettamente,
anche da più medici, ma la
remunerazione riguarda non
il prescrittore bensì i singoli
erogatori delle singole prestazioni da loro prescritte.
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In ospedale, invece, la responsabilità della cura è dello
stesso soggetto, l’ospedale,
che poi percepisce la relativa
remunerazione.
La differenza è che nel primo
caso la variabilità, corretta o
no, delle cure è a carico del
malato, o di chi lo ha “assicurato” e nel secondo invece è a
carico dell’ospedale. L’ospedale in tal modo è stimolato a
cercare di ottimizzare i costi
consentendo le sole prestazioni appropriate, mentre a
domicilio non vi è alcun incentivo ad evitare sprechi o
inappropriatezze ed anzi, per
ragioni difensive, ogni medico può essere portato a richiedere il maggior numero
di riscontri diagnostici ed a
ricettare anche farmaci che
forse in ospedale non sarebbero stati prescritti; per la
verità la stessa cosa oggi può
succedere anche negli ospedali per la difficoltà della direzione a condizionare e controllare gli operatori sia medici che infermieri.
Quella che ricevono oggi gli
ospedali si usa chiamarla remunerazione prospettica in
quanto è definita a priori sulla base della caratterizzazione diagnostica del ricovero e
non è influenzata, nell’ambito dello stesso DRG, dalla tipologia e dalla quantità delle
prestazioni erogate durante il
ricovero stesso. In realtà, è
previsto un correttivo per i
ricoveri che durano “oltre soglia”, cioè che necessitano
una degenza di durata anomala ed in questo caso la tariffa è incrementata da una
remunerazione pro-die.
Quale dei due sistemi è migliore? Se si considera l’efficienza sicuramente il sistema
Tab. 1. Esempio dei PAC ed APA attivati all’Ospedale San Filippo Neri di Roma.
I PAC (Pacchetti ambulatoriali complessi) sono formati da un insieme di prestazioni ambulatoriali per: • gestire un
problema sanitario complesso, al fine di pianificare e coordinare il processo assistenziale, riducendo così il numero di
accessi dell’utente • elaborare la documentazione clinica • stendere la relazione finale.
P401: Diagnostico per ipertensione
P2500: Diabete neodiagnosticato e non complicato
P2777: Sindrome metabolica
P2357: Diagnostico per l’addensamento polmonare
P4912: per broncopatia cronica ostruttiva con o senza insufficienza respiratoria cronica - BPCO
P162: Rivalutaziove e full-up neoplasie polmonari
PV58: Diagnostico per la somministrazione controllata dei farmaci
P4939: per asma bronchiale
P331: Deterioramento funzioni cognitive
P340: Diagnostica sclerosi multipla
P7804: Diagnostico dei disturbi dell’equilibrio
P345: Studio epilessia
P78404: Diagnostico cefalea e altre sindromi dolorose neurologiche
P27801: Obesità
P174: Stadiazione e rivalutazione di neoplasia mammaria
P765A/B/C/D/E/F/G: Follow-up del bambino pre-termine
P5790A: Diagnostico per la celiachia
Gli APA (Accoppiamenti di prestazioni ambulatoriali) sono stati attivati in modo da effettuare alcuni interventi chirurgici e le prestazioni ad essi collegate in regime ambulatoriale.
04.43: Liberazione del tunnel carpale
13.14: Intervento di asportazione cataratta
49.46: Asportazione delle emorroidi
Le prestazioni eseguite sono soggette al pagamento di un unico ticket, salvo i casi di esenzione. La partecipazione
alla spesa per entrambe i pacchetti di prestazioni è di €36.15
migliore è il sistema prospettico in quanto il prescrittore
sarà incentivato a razionalizzare il ricorso alle diverse
prestazioni necessarie; c’è
però da osservare che non
sempre il clinico del reparto
fa sue le esigenze dell’amministrazione ed invece si lascia
andare alle preoccupazioni
difensivistiche prescrivendo
esami e terapie non sempre
del tutto appropriati. Ed ancora, l’amministrazione può
avere interesse ad un peggioramento non reale del quadro
diagnostico per poter usufruire di una tariffa corrispondente ad un DRG di mag-
gior complessità. Situazioni
di questo tipo sono state evidenziate anche in sede penale, ma non è detto che sempre ci siano delle colpe o del
dolo; può accadere semplicemente che si instaurino degli
atteggiamenti meno rigorosi
e più protettivi che poi, soggettivamente, non è difficile
riuscire a giustificare come
atteggiamenti corretti favorevoli al malato.
Al contrario, potrebbe avvenire che per esigenze di contenimento dei costi non si effettuino prestazioni diagnostiche, terapeutiche od assistenziali che invece sarebbero ne-
cessarie per un corretto trattamento della patologia in
corso. Questo aspetto sarebbe
probabilmente più diffuso se il
sistema remunerativo prospettico fosse applicato anche
alle cure domiciliari in quanto
non ci sarebbe la garanzia di
una struttura controllata come quella ospedaliera. In questo caso sarebbe comunque
necessario che l’assistenza
fosse governata in modo unitario da un soggetto che poi
fosse anche titolare della remunerazione e quindi avesse a
suo carico il pagamento o comunque l’onere delle singole
prestazioni.
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La continuità assistenziale
Un sistema di questo tipo era
stato istituito nel sistema inglese con il fundholding seppur la responsabilità economica del fundholder era praticamente solo virtuale: il medico fundholder aveva la responsabilità prescrittiva delle
prestazioni dei suoi pazienti
ed i costi di queste erano addebitati al suo budget; se a fine anno i costi superavano il
budget stabilito il medico
aveva delle sanzioni mentre
se erano inferiore ne aveva
dei vantaggi.
Il sistema non ha retto per
problemi essenzialmente di
equità in quanto i pazienti
dei fundholder risultavano
avere dei privilegi rispetto
agli altri pazienti in quanto i
medici contrattavano con i
presidi che erogavano prestazioni delle modalità più convenienti e poi riuscivano a
contenere i costi con sistemi
non espliciti di selezione della propria clientela. La debolezza del fundholding inglese
era il fatto che il funzionamento era affidato ai singoli
medici o ai singoli gruppi di
medici e quindi era soggetto a
distorsioni prodotte dai loro
interessi personali. L’esperienza comunque aveva evidenziato che i comportamenti
prescrittivi cambiano a seconda del sistema remunerativo e
quindi è opportuno ragionare
su quale sia il sistema migliore per garantire sia l’efficienza. sia la tutela del paziente.
sia l’equità dei trattamenti.
Oggi si sente sempre più l’esigenza di passare dalla remunerazione per fattore produttivo alla remunerazione per
prestazione nei settori dove
ancora questa non si è realizzata, per poi superare la re-
munerazione per prestazione
con quella per evento complessivo ed ancora, più estesamente, per intero percorso
assistenziale. Il presupposto
di questa convinzione è che
una remunerazione prospettica riesca a stimolare l’operatore verso una maggiore efficienza ed appropriatezza
del percorso assistenziale, ma
anche contribuisca a far ritrovare maggiore unità nella gestione del trattamento complessivo. Se infatti la remunerazione di un intero percorso assistenziale non è unitaria i singoli servizi coinvolti non hanno alcuna convenienza ad evitare sovrapposizioni di attività e neppure,
paradossalmente, a ridurre
eventuali complicazioni dei
trattamenti.
Le esperienze in atto di remunerazione per eventi complessi sono diverse e riguardano soprattutto la fase diagnostica per certe patologie
come, ad esempio, il diabete
o l’ipertensione; sono i codiddetti PAC, pacchetti ambulatoriali complessi o gli APA,
accorpamenti di prestazioni
ambulatoriali che riproducono percorsi trasferiti in ambito ambulatoriale e che però
avevano già una loro unitarietà in ambito ospedaliero;
in Tabella 1 sono riportati come esempio quelli attivati
dall’Ospedale San Filippo Neri
di Roma. Si deve osservare
che in questi casi all’unicità
della remunerazione corrisponde l’unicità del soggetto
erogatore, e questa è la condizione necessaria per poter
attivare questo sistema.
I problemi attuali di inefficienza del percorso assistenziale sono comunque diversi:
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innanzitutto nella fase diagnostica, ma poi anche in
quella terapeutica e soprattutto nella fase di post-acuzie e di riabilitazione. Il numero di esami clinici ripetuti
in tempi così ristretti da non
giustificare l’ipotesi di una
evoluzione del quadro clinico
sono davvero moltissimi e
comportano un costo economico notevole. A questi si aggiungono le pratiche diagnostiche superflue ma prescritte per ragioni difensive; se il
prescrittore non ha interesse
ad evitarle è evidente che
emerge l’interesse opposto ad
effettuarle per diminuire i rischi di responsabilità.
Il legame poi tra territorio e
ospedale, soprattutto tra la
fase acuta e la fase post-acuta dell’assistenza, è un legame davvero molto difficile ed
anche in questi casi non vi è
un incentivo, se non morale e
deontologico, che possa
rafforzarlo; stabilire invece
una convenienza economica
spingerebbe sicuramente a
cercare di realizzarlo, e questo andrebbe sicuramente a
giovamento innanzitutto dei
malati e poi anche del bilancio della ASL.
Tutte le considerazioni precedenti assumono una rilevanza
notevole quando si ragioni su
come remunerare la conti-
nuità assistenziale; va da sé
che per continuità assistenziale non si intende qui la
continuità del servizio assistenziale durante le 24 ore
del giorno, cioè il servizio comunemente chiamato di
Guardia medica che ancora
oggi molte Regioni chiamano
“continuità assistenziale” rifacendosi ad una dizione presente nella normativa. Intendiamo qui per continuità assistenziale quell’assetto organizzativo dell’assistenza volto a seguire con continuità il
malato durante tutto il suo
percorso di malattia, riunendo così funzionalmente i diversi transiti nei diversi servizi e coordinando le differenti
équipes di operatori sanitari
sia sul piano informativo che
decisionale.
Ci si chiede se per realizzare
questo concetto di continuità
assistenziale è necessario, o
per lo meno utile, rivedere
anche i meccanismi di remunerazione. È chiaro che il problema non si risolve cambiando solamente i sistemi di remunerazione ma è doveroso
ragionare sulla necessità o
anche solo sulla opportunità
di modificarli.
Un percorso di continuità assistenziale è fatto da un insieme di eventi, alcuni complessi
ed articolati in più prestazioni
Fig. 1.
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(ad esempio un ricovero ospedaliero), alcuni invece semplici e riconducibili ad una semplice prestazione (ad esempio
un accertamento diagnostico
di laboratorio), come rappresentato dalla Figura 1 che evidenzia all’interno di un percorso degli eventi complessi,
all’interno di questi delle prestazioni ed all’interno delle
prestazioni delle componenti
elementari.
Ed allora cosa remunerare? I
fattori produttivi consumati?
Le singole prestazioni? Gli
eventi complessi? L’intero
percorso? La risposta potrebbe essere semplice e cioè l’intero percorso in maniera prospettica, cioè considerando il
costo medio di conduzione di
un percorso simile. Ma per fare questo, come già detto,
dovrebbe esserci un punto di
riferimento autorevole che
governa l’intero percorso e
che sia in grado di assumersi
anche gli oneri economici che
ne derivano; in termini
aziendali si direbbe che serve
un imprenditore capace di organizzare un insieme complesso di attività; chiameremo questo “imprenditore”
Presidio di continuità assistenziale (PCA), ed al suo interno si troverà l’operatore di
riferimento del paziente, che
indicheremo con il termine
Coordinatore di continuità
assistenziale (CCA).
Il CCA dovrebbe perciò avere
la completa responsabilità
della gestione del paziente
che verrebbe così assegnato a
lui e temporaneamente cancellato dagli assistiti dal
MMG; si osservi che il CCA sarebbe opportuno fosse lo
stesso MMG che ne assume le
funzioni, o in altri un opera-
tore, anche non medico, con
una professionalità specifica.
Il CCA dovrà però lavorare all’interno di un PCA che sarà finanziato dalla ASL con tariffe
specifiche per ogni percorso
assistenziale individuato per
tipo di patologia, per gravità e
per complessità del caso; le
prestazioni prescritte dal CCA,
se non eseguite internamente
al PCA, sarebbero remunerate
da questo ai diversi produttori; il PCA svolgerebbe quindi
un ruolo simile a quello dell’ospedale quando si avvale di
prestazioni non prodotte internamente ma acquisite
esternamente. Il CCA dovrà
seguire effettivamente e costantemente il paziente per
tutto il suo percorso di malattia e se possibile di guarigione, garantendo la continuità
dell’assistenza, l’unitarietà
dell’impostazione diagnostica
e terapeutica ed evitando così
sovrapposizioni e inappropriatezze. Un compito molto importante sarà anche quello di
unificare tutte le fasi assistenziali e soprattutto quelle
relative alla riabilitazione ed
alla lungodegnenza.
Quali difficoltà potrebbero riscontrarsi? La difficoltà maggiore è quella della predisposizione di un ruolo di CCA. Sicuramente questa nuova figura sarebbe vissuta inizialmente come un aggravio dei
costi e non ci si renderebbe
conto che invece potrebbe
proprio diventare lo strumento per ottenere importanti risparmi. Potrebbero anche intervenire situazioni problematiche nelle relazioni tra gli
operatori; il CCA verrebbe infatti ad avere un ruolo dominante di coordinatore che altri operatori potrebbero non
accettare e potrebbero cercare di contrastarlo. La cultura
della continuità assistenziale
non può essere “imposta” ma
deve essere metabolizzata da
tutti gli operatori coinvolti
altrimenti è forte il rischio
che qualcuno di loro la viva
come sopraffazione della propria autonomia professionale,
mentre altri come opportunità per scaricare alcune attività e problemi gravosi di loro
competenza!
Se si vuole cambiare il sistema tariffario deve cambiare
omogeneamente anche il sistema contabile: il PCA può
diventare percettore delle tariffe di remunerazione dei
percorsi assistenziali da lui
gestiti solo se contestualmente si possono valutare i
costi da lui sostenuti, costi
sia del proprio personale e
delle strutture e dei beni utilizzati, ma anche costi delle
prestazioni acquistate all’esterno del PCA stesso.
È chiaro che se il PCA è un
presidio all’interno di un’ASL,
questi saranno solo flussi
contabili e non reali trasferimenti monetari, ma non
avrebbe senso cambiare il sistema tariffario se non ci fosse la reale possibilità di valutare economicamente l’attività svolta dal PCA. Potrebbe
peraltro forse ipotizzarsi anche un PCA esterno all’ASL e
facente parte, ad esempio, di
una azienda ospedaliera oppure potrebbe porsi esso stesso come azienda autonoma,
sia pubblica che anche privata come ad esempio una società di MMG; in questi casi i
flussi contabili sarebbero corrispondenti a dei traferimenti
reali di denaro.
Per elaborare delle opportune
tariffe per percorso assistenziale dovrebbe innanzitutto
essere svolta una rilevazione
delle attività e dei costi; non
si può certo pensare che il
PCA gestisca tutta la casistica! Dovranno essere assegnati al PCA solo i casi in cui è
preminente il problema della
continuità rispetto a quello
della singolarità delle diverse
prestazioni.
Sarà quindi necessario innanzitutto classificare questi percorsi cercando di individuare
delle categorie che abbiano
una loro omogeneità sia clinica che economica; se la variabilità all’interno dei percorsi
fosse eccessiva, allora il sistema sarebbe impraticabile e
quindi più dannoso che utile;
si dovrebbe probabilmente
iniziare dai percorsi meglio
definibili e con una variabilità
interna non eccessiva.
Dovrebbero poi essere analizzati in modo analitico su un
campione abbastanza vasto
di pazienti appartenenti ai
diversi percorsi assistenziali i
costi delle diverse prestazioni
da loro utilizzate, evidenziando anche le inappropriatezze e le sovrapposizioni che
non dovranno essere conteggiate per stimare i costi complessivi su cui definire i valori
tariffari.
È chiaro che le tariffe non dovranno assolutamente essere
maggiori delle medie dei costi
attualmente rilevati, ma sarà
anche opportuno che, almeno
inizialmente, non siano di
molto inferiori.
A differenza di quanto si osserva oggi nei singoli ricoveri
ospedalieri, la presenza di situazioni outliers potrà essere
un problema rilevante da tenere in dovuta considerazione
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in quanto potrà modificare
notevolmente i costi medi e
soprattutto potrà rendere non
giustamente remunerative le
tariffe predisposte. Peraltro si
dovrà evitare che, per aggirare
le tariffe, si possa far apparire
come outliers un caso che non
ne ha le caratteristiche.
È probabile che, a differenza
di quanto oggi accade nei
DRG, la classificazione di un
percorso debba avvenire all’accettazione e non alla dimissione, con la possibilità di
modificare la classificazione
durante il decorso dell’assistenza solo se intervengono
eventi oggettivi non dipendenti dalle scelte assistenziali o non prodotti dalle stesse.
Il sistema che qui si è disegnato può apparire un po’
macchinoso e di difficile implementazione in una realtà
oggi ancora molto lontana da
quella che ipotizza una completa attuazione dei meccanismi di continuità assistenziale; sarà perciò importante
avere delle realtà sperimentali avanzate in cui si realizzino
queste modalità di gestione
almeno a livello virtuale. La
virtualità non potrà però essere totale in quanto in tal
caso difficilmente gli operatori sarebbero effettivamente
responsabilizzati a sufficienza e quindi dovranno comunque essere previsti degli incentivi e dei provvedimenti
sanzionatori in conseguenza
dei risultati clinici ed economici raggiunti.
La valutazione globale dell’attività dovrebbe essere una
somma ponderata dei risultati clinici in termini di outcome raggiunti e dei costi sostenuti penalizzando in modo
cospicuo le situazioni di grave insuccesso clinico.
Deve infatti essere chiaro che
l’obiettivo principale è quello
di riuscire ad ottenere un sistema in cui il malato viene
curato ed assistito meglio di
quanto attualmente accade e
solo successivamente si deve
considerare il concomitante
obiettivo dell’efficienza economica, problema rilevante
ma che non può sopraffare
l’efficacia clinica ed il benessere del malato.
Questo equilibrio tra risultato
clinico e risultato economico
è il problema più delicato associato alla definizione di un
sistema tariffario. Non si può
assolutamente permettere
che “per starci dentro nelle
tariffe” non si eroghino prestazioni essenziali e necessarie; e neppure che si eroghino
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invece prestazioni inappropriate solo per far scattare
un’altra categoria della classificazione e quindi una tariffa più conveniente. Parallelamente però è del tutto sconveniente che vengano gonfiati dei consumi per ragioni che
non corrispondono all’utilità
dei pazienti, ma solo all’equilibrio economico delle strutture erogatrici.
Non sono certo le tariffe che
potranno risolvere questi
reali problemi di gestione
della sanità; ma le tariffe
possono essere lo strumento
che, affiancando le linee guida cliniche, ne favoriscono
l’implementazione. Il sistema dei DRG ha evidenziato
come la leva economica sia
molto importante, quasi
troppo, nella gestione dei
servizi sanitari, mentre le linee guida trovano molte più
difficoltà ad essere accettate
dagli operatori.
La mentalità odierna, diffusa
anche nel governo della sanità, costringe a condizionare
quasi tutte le scelte e le decisioni alle conseguenze economiche delle stesse; e se da una
parte non si deve favorire in
sanità una eccessiva mercantilizzazione dei processi, dall’altra non si può prescindere
dal considerare il valore economico delle attività.
È probabile che l’introduzione
di tariffe per remunerare i
percorsi assistenziali incentivi
la effettiva realizzazione della
continuità assistenziale; certo
potrà sembrare in alcuni casi
che i malati “ricevano di meno”, come viene percepita dai
pazienti in ospedale la riduzione della degenza; ma chi
potrebbe negare che la riduzione della degenze, se opportunamente controllata, non
sia anche un fattore di crescita della qualità clinica dei
trattamenti? E che quindi, se
ben gestita, sia del tutto favorevole per gli stessi ricoverati?
È questo il taglio da dare all'elaborazione di tariffe per i
percorsi assistenziali e non
certo quello riduttivo e pericoloso di un semplice modo
per risparmiare risorse. Si
tenga presente infine che, soprattutto nelle fase di studio
e implementazione, un nuovo
sistema induce nuovi costi
aggiuntivi, ma sicuramente,
una volta a regime, un sistema di remunerazione impostato non per prestazione ma
per percorso assistenziale risulterà anche molto conveniente sul piano delle risorse
economiche necessarie.
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Gianni Amunni
Direttore operativo
Istituto toscano tumori
O
gni ragionamento che
ricada sui temi dell’assistenza oncologica assume una particolare complessità non solo per gli
aspetti emozionali collegati a
questa patologia, ma anche
per le dimensioni quantitative e qualitative delle problematiche connesse. I dati di
incidenza e di prevalenza insieme all’allungamento della
vita media e alla progressiva
“cronicizzazione” della malattia neoplastica definiscono
una domanda rilevante sul
piano numerico destinata a
crescere negli anni anche in
funzione dei risultati della ricerca scientifica. A questo si
aggiunge che l’oncologia si
caratterizza per un elevato livello di multidisciplinarietà,
per cui il percorso di cura si
snoda attraverso numerose
competenze e strutture diverse che necessitano sì di
forti momenti di integrazioni, ma che spesso si svolgono
in sequenze previste da protocolli diagnostico-terapeutici particolarmente articolati.
Su tale complessità di percorso si inserisce il fatto che la
storia naturale della malattia
oncologica si svlolge in parte
a livello territoriale (diagnosi, follow-up, terminalità) ed
in parte a livello ospedaliero
(approfondimenti diagnostici, terapie medica e chirurgi-
Il malato oncologico
ca) con attivazione di competenze e procedure diverse rispondenti a modelli organizzativi in genere non integrati. In questa situazione complessa e spesso inadeguata, si
inserisce invece l’alto livello
di dibattito e di coscienza
che coinvolge operatori, pazienti e familiari sulla necessità della presa in carico globale del malato oncologico
come salto di qualità rispetto
alla semplice cura della malattia neoplastica.
Le discontinuità del percorso oncologico
Appare qui opportuno analizzare nel dettaglio le potenziali”discontinuità” che si possono registrare nel percorso oncologico e partire da queste
per ricostruire una sequenza
di azioni in grado di recuperare operativamente una effettiva continuità di cura. Tali momenti critici possono essere
così individuati:
1. Dallo screening positivo all’inizio del percorso di cura
Alla comunicazione della
diagnosi che avviene nell’ambito della struttura di
prevenzione secondaria
non è sempre attivata automaticamente e simultaneamente legata la presa
in carico da parte dei servizi di approfondimento e
di cure in genere collocati
Il superamento delle discontinuità
nel percorso di cura
in strutture ospedaliere.
Non raramente il paziente
deve o anche vuole orientarsi, in un offerta molto
articolata sotto il peso di
una diagnosi inattesa e
vissuta come particolarmente drammatica.
2. Dall’approfondimento diagnostico al programma di
cura
La fase di stadiazione della
malattia avviene in ambiti
diversi (MMG, specialista
d’organo di fiducia, reparto ospedaliero, CORD/accoglienza) e non obbligatoriamente vede coinvolta
la struttura o i professionisti che inizieranno la fase
di cura e che a loro volta
inducono ripetizione di accertamenti e dubbi per il
paziente.
3. Il percorso di cura multidisciplinare
Questa fase avviene generalmente tutta in ambito
ospedaliero, ma attiva secondo sequenze particolari, almeno tre competenze,
quali il chirurgo, l’oncologo medico e il radioterapista, con passaggi in cura
tra diversi professionisti e
collocazioni in diverse
strutture, con conseguenti
potenziali soluzioni di
continuo del percorso assistenziale.
4. Ospedale-territorio
I link tra queste due realtà
sono molteplici e dislocati
in tutto il percorso di diagnosi e cura e risentono
non raramente di “diverse
titolarità” specie quando
sono coinvolte aziende
ospedaliere e aziende territoriali. Le situazioni più
frequenti sono sia quelle
legate dalla gestione a domicilio delle problematiche connesse alle cure
ospedaliere, sia quelle legate alla fine del programma di interventi ospedalieri con il passaggio al territorio per il follow-up o per
situazioni di terminalità.
5. Consulenze, Second Opinion ecc.
Queste situazioni, prevalentemente ma non solo,
promosse dal malato o dai
familiari, possono attivare
percorsi e/o procedure
che, se tra loro discordanti, determinano livelli di
incertezza negativi per la
qualità di vita e la compliance del paziente.
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Le criticità più avvertite
C’è ampia letteratura sulle
criticità percepite dall’utente
in riferimento alla continuità
di cura.
Anche l’Istituto toscano tumori in collaborazione con il
MES dell’Istituto superiore
S. Anna di Pisa ha svolto indagini in questo senso, sia
con interviste random che
con specifici focus group.
I risultati che emergono sono
in genere concordanti ed
esprimono dei bisogni comuni anche a modelli organizzativi diversi:
In sintesi queste sembrano
essere le problematiche emergenti:
1. Mancanza di un riferimento
professionale unico nel percorso assistenziale che sia a
conoscenza del caso e che
sia in grado di intervenire
in situazioni di criticità clinica e/o organizzativa.
2. Scarsa evidenza di una regia unitaria del percorso di
cura specie nel programmare la prenotazione della
diagnostica.
3. Non sufficiente strutturazione della multidisciplinarietà con elevato rischio di
pareri non concordanti o ritardi nei passaggi di cura.
4. Inadeguato coordinamento
ospedale/territorio con
difficoltà al momento della
dimissione di appropriato
e tempestivo affidamento
ai Servizi territoriali, peraltro considerati quantitativamente insufficienti.
Gli attori in gioco
È evidente che ogni azione
volta a razionalizzare il percorso oncologico nell’ottica
della continuità assistenziale
deve prevedere un forte livel-
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La continuità assistenziale
lo di integrazione tra i diversi
professionisti e le diverse
strutture coinvolte.
In Toscana l’ITT si pone come
momento di governo unitario
di tutti gli attori impegnati
nella ricerca, nella cura e nella prevenzione dei tumori, ma
occorre tradurre questa affermazione di principio in procedure che determinino una effettiva presa in carico del paziente oncologico e della globalità dei suoi bisogni. Questa
azione di integrazione riguarda numerosi attori che oltre a
competenze diverse, si presentano con diverse appartenenze amministrative e con
“gerarchie” non facilmente
integrabili secondo regole
condivise. Una elencazione
dei diversi profili coinvolti
prevede almeno i seguenti: il
medico di medicina generale,
gli specialisti direttamente
impegnati nel percorso di cura (chirurghi, oncologi e radioterapisti), gli specialisti
parzialmente coinvolti (anatomopatologi, radiodiagnosti,
psicologi, specialisti d’organo
ecc.), le unità di cure palliative e gli hospices, l’ISPO e i
servizi di screening aziendali,
sevizi sociosanitari, il volontariato nelle sue diverse forme e finalità.
Tutti questi attori sono formalmente o informalmente
coinvolti nei dipartimenti
oncologici, ma occorre per
ciascuno definire il momento
di attivazione, le modalità di
interazione, la titolarità di
competenze, l’assunzione
condivisa di responsabilità.
Il MMG come momento unificante
Non vi è dubbio che nel nostro Sistema sanitario il MMG
N. 179 - 2010
ha una posizione eccellente
nell’ottica di individuare una
professionalità sanitaria di riferimento costante per il cittadino utente.
In effetti se da un lato si assiste ad un continuo succedersi di strutture e professionisti che hanno in carico il
paziente oncologico, dall’altro il medico di medicina generale rappresenta una presenza costante ed una figura
che oggettivamente è sempre
coinvolta nelle diverse fasi di
malattia. In questo senso il
MMG è il professionista che
ha le maggiori potenzialità di
raccordo tra specialisti, di sostegno ed informazione per il
paziente, di regia (se non altro organizzativa) del percorso di cura. Non è possibile
tuttavia limitarsi a queste
considerazioni e non affrontare le problematiche che
rendono talvolta assai difficile questo ruolo e che sono riconducibili ad alcune criticità
particolarmente rilevanti:
– Non è attiva al momento
una efficace modalità di
raccolta di trasmissione
dei dati clinici del cittadino come base di una responsabilità “informata”
dei singoli casi.
– Non esiste al momento una
figura di riferimento ospedaliero che sia tale anche
per il medico di medicina
generale e che contribuisca con quest’ultimo alla
gestione integrata dei bisogni del paziente.
– Il passaggio di cura se da
un lato definisce le competenze nelle varie fasi di
malattia, dall’altro non
aiuta a creare momenti di
concertazione tra professionisti.
– Sia il ricovero che la dimissione, come pure l’accesso
a particolari indagini, raramente sono il frutto di
una decisione concordata
e spesso rappresentano
momenti di passaggio di
responsabilità senza “passaggio di consegne”.
L’integrazione dell’oncologia con il territorio
Vi sono due momenti in cui
l’integrazione con il territorio
assume particolare valore
nell’ottica della continuità
assistenziale ed in cui l’inadeguatezza delle procedure
ingenera situazioni di grande
criticità. Il primo caso si ha
per il paziente ancora in carico alla cura ospedaliera, che
nelle fasi di intervallo tra i
trattamenti, presenta situazioni di urgenza o più semplicemente fenomeni di tossicità legata alla terapia oncologica. È evidente che in questi casi deve essere previsto
un riferimento certo nella
struttura ospedaliera, la cui
possibilità d’azione è peraltro
limitata dal fatto che in molti
casi i servizi oncologici non
dispongono di ricovero ordinario. Sempre a questo ambito è da ricondurre l’attività di
prenotazione di esami diagnostici comunicati come urgenti o comunque indispensabili per tempestive scelte
terapeutiche. In questo ambito non è accettabile che la
programmazione venga ricercata dall’utente nell’ambito
dei Servizi di prenotazione
territoriali, che non sono predisposti per adeguarsi alla
specificità delle sequenze del
percorso di cura.
Più opportuna appare la individuazione di una struttura
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La continuità assistenziale
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dedicata nell’ambito del dipartimento oncologico che
abbia gli strumenti per un
dialogo flessibile ed”intelligente” con i servizi di diagnostica.
La seconda situazione è quella che si verifica al termine
delle c.d. cure specifiche per
il tumore quando il passaggio
di cura ospedale-territorio ha
le caratteristiche di essere
definitivo o comunque con
una prospettiva di lungo termine. In questo caso occorre
agire con grande attenzione
su alcune potenziali criticità:
1. In caso di paziente guarito, la fine del trattamento
ospedaliero viene spesso
vissuta come la perdita di
un controllo stretto e attivo, magari legato a interventi pesanti, ma sempre
indicativo di un forte “impegno contro il tumore”.
In queste situazioni, in cui
talvolta il paziente richiede un ingiustificato followup intensivo, può essere
forte il bisogno di relazione e soprattutto deve essere chiara la continuità e la
integrazione in sequenze
razionali di controlli ospedalieri e territoriali.
2. In caso di paziente in fase
avanzata di malattia,
quando occorre ricreare la
situazione di protezione
sanitaria e di “sollievo”
per la famiglia, rappresentata dal ricovero ospedaliero in una più opportuna
forma di assistenza domiciliare. In queste situazioni è fondamentale che al
momento della dimissione
sia effettivamente predisposta la modalità di accoglienza territoriale e che
questa venga vissuta come
una continuità della fase
ospedaliera stessa.
Il ruolo del volontariato
Proprio in questa ultima situazione entra frequentemente in gioco il mondo dell’associazionismo (profit e noprofit) e del volontariato che
in oncologia assume dimensioni rilevanti.
Non raramente il volontariato
svolge una funzione vicariante nei confronti dei servizi
pubblici territoriali garantendo quelle prestazioni (infermieristiche, mediche, sociali,
psicologiche, logistiche) che
stanno alla base di una effettiva continuità assistenziale a
livello domiciliare. Le problematiche che si aprono a questo livello sono da ricondurre
all’estrema varietà di requisiti
professionali di queste associazioni e soprattutto alle modalità di interazione con il
Servizio sanitario regionale
sulle quali non c’è sempre
chiarezza e da cui possono derivare situazioni di disorientamento per l’utente.
In maniera molto schematica
questo rapporto può essere
sinergico (pieno inserimento
nelle équipe pubblica) collaborativo (divisione di compiti
secondo una comune collaborazione) competitivo (offerta
alternativa) e persino conflittuale (prevalenza di logiche
di mercato).
In un quadro così variegato,
pur riconoscendo un ruolo
spesso insostituibile di completamento dell’offerta, non
è sempre facile avere il polso
della situazione per quanto
riguarda i temi della appropriatezza e dei diritti dei cittadini. Situazioni critiche,
peraltro marginali, spingono
a definire modelli organizzativi in cui sia possibile una
regia unitaria degli interventi
che a partire da un’analisi
corretta dei bisogni, definisce un’offerta concertata ed
articolata sulle diverse specificità degli attori in gioco.
La rete dei servizi per la
continuità
Il modello organizzativo dell’assistenza oncologica in Toscana ha al suo interno gli
strumenti per rispondere, almeno in via teorica, alle necessità della continuità assistenziale o più in generale alla presa in carico globale del
paziente e dei suoi bisogni.
Le strutture impegnate sono
molteplici e per molti aspetti
simili a quanto si trova in altre Regioni (cambiando sigle
ed acronimi) con particolare
riferimento a quelle che hanno privilegiato un modello a
rete:
– CORD/accoglienza, quale
riferimento di accesso ai
percorsi oncologici con
funzioni di programmazione della diagnostica e della cura.
– GOM (gruppo oncologico
multidisciplinare), quale
strumento per la valutazione integrata di ogni
singolo caso.
– Dipartimento oncologico,
quale coordinamento di
tutte le attività impegnate
nella diagnosi e cura dei
tumori.
– CORAT (Centro oncologico
di riferimento per l’assistenza territoriale), quale
punto di integrazione dei
servizi territoriali.
A queste strutture si aggiungono servizi con funzioni specifiche quali le Unità di cure
palliative, la rete della psiconcologia, il Centro di coordinamento delle sperimentazioni cliniche che sicuramente contribuiscono a rafforzare
un sistema di protezione e di
garanzia per il paziente oncologico. Questo modello ha
tuttavia ottenuto ottimi risultati sulla qualità, l’appropriatezza e l’omogeneità delle
cure, ma non sono ancora sufficientemente garantiti gli
aspetti legati alla continuità
di cura ed appare da rimodulare la modalità di collegamento e di interazione tra i
diversi settori che insieme definiscono il percorso complessivo di diagnosi e cura.
Proposte operative
In un sistema così articolato
e potenzialmente efficace
possono essere utili alcuni
interventi migliorativi in grado di dare risposte alle criticità oggettivamente presenti
o anche soltanto percepite
dal paziente con forte senso
di disagio ed a rischio di produrre atteggiamenti di sfiducia nei confronti della qualità
stessa della cura.
Seguono alcune proposte, in
parte in fase di realizzazione,
che a partire dagli attuali assetti possono rappresentare
azioni migliorative che in larga misura hanno già precisi
riferimenti normativi ancora
potenzialmente disattesi:
1. Ascolto
Il sistema a rete, pur nei
suoi molteplici vantaggi,
rischia di perdere in termini di visibilità delle strutture, di orientamento dei
percorsi e più in generale
di riferimento complessivo
del “settore oncologico”.
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La creazione del Call center
regionale per l’oncologia
con un numero verde a disposizione dei cittadini assolve ad una triplice funzione e cioè di sostegno
psicologico al disagio connesso alla malattia, di
orientamento nella complessità dei percorsi di diagnosi e cura, di osservazione dei bisogni, delle criticità e delle inefficienze.
2. Accessibilità e semplificazione
La complessità l’articolazione dei percorsi ospedalieri e le difficoltà della
prenotazione della diagnostica rendono necessario
un portale unico per l’oncologia che sia il punto di
riferimento unitario per
l’utente e sede di programmazione di tutti gli accertamenti.
I CORD-Accoglienza devono opportunamente implementare queste funzioni e
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La continuità assistenziale
rappresentare l’accesso
unico a tutti i servizi.
3. Multidiscipliarietà e integrazione di competenze
Occorre che la valutazione
di più specialisti costituisca un momento unico e
strutturato del percorso
oncologico in cui si concertano le scelte e si propongono programmi condivisi da tutti i professionisti coinvolti. I GOM hanno questa funzione, ma
devono essere più visibili
e soprattutto operare sull’intera casistica oncologica ipotizzando ad esempio
la obbligatorietà della valutazione GOM per ogni
istologia di tipo oncologico.
4. Tutor
Si tratta di rendere operativa per l’oncologia una
esplicita indicazione del
PSR in modo che ogni paziente abbia un riferimen-
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to clinico del suo percorso
di cura, fisicamente individuato, che sia in relazione
anche con il medico di medicina generale e che gestisce le soluzioni di continuo nei passaggi di cura.
5. Comunicazione
Appare ormai irrinunciabile un sistema informatizzato in grado di aggiornare
e rendere fruibile la storia
clinica del paziente nei
suoi diversi momenti. La
carta sanitaria prevista dal
PSR potrebbe assolvere a
questa funzione e superare
la molteplicità di cartelle
cliniche che anche sul piano dell’immagine, negano
l’unicità del percorso.
6. Ospedale-territorio
Pur nella molteplicità di
situazioni che coinvolgono
i due ambiti sanitari, fondamentale è dare la priorità ad una concertazione
nella dimissione che deve
attivare tutte le figure
coinvolte (tutor, MMG, responsabile strutture ospedaliere) e che deve avvenire una volta definita e prenotata la successiva modalità assistenziale di tipo
domiciliare.
7. Regia del percorso
Il dipartimento oncologico
ha la potenzialità di ricomprendere al suo interno gran parte delle attività coinvolte e di porsi
come interlocutore autorevole nei confronti di
partner collocati in altri
ambiti e per i quali comunque si rende necessaria una semplificazione
organizzativa che in parte
può essere svolta dalla Società della salute. Una regia unitaria del percorso
oncologico consente di
programmare in maniera
più razionale gli interventi e di utilizzare in maniera efficace le risorse.
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La continuità assistenziale
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Vittorio Boscherini
Medico di Medicina generale
L
o scompenso cardiaco è
una sindrome cronica ed
è uno dei problemi più
importanti che l’assistenza
sociosanitaria ha di fronte in
tutti i paesi occidentali ed in
particolare l’Italia che ha una
delle popolazioni più anziane
e quindi un più alto numero
di cittadini affetti da questa
patologia. Lo scompenso cardiaco ha un’alta prevalenza
(0,3%-2% della popolazione
adulta) ed un’alta incidenza
(0,1-0,2 nuovi casi anno) ed
è caratterizzato da multiple
riospedalizzazioni che assorbono grandi risorse, provoca
disabilità e porta spesso alla
non autosufficienza determinando quindi costi non solo
sanitari ma anche costi sociali che spesso ricadono sulle
famiglie. Per l’invecchiamento della popolazione è previsto nei prossimi anni un aumento d’assorbimento delle
risorse destinate alla gestione di tale patologia che già
adesso costituisce la prima
causa d’ospedalizzazione negli over 65 anni.
Una corretta ed adeguata gestione di tale patologia determina altresì un miglioramento della qualità di vita dei
soggetti affetti da scompenso, qualità che, nella fasi
d’instabilità, peggiora notevolmente.
Una sindrome cronica nella
Lo scompenso cardiaco
cui gestione occorre il concorso di tutte le componenti
dell’assistenza sanitaria, territoriali, specialistiche ed
ospedaliere, ma che soprattutto a livello territoriale necessita dell’intervento dell’assistenza sociale perché spesso le motivazioni che determinano le riacutizzazioni sono, trattandosi molte volte di
soggetti anziani che vivono
soli, legate alla mancanza
d’assistenza familiare e sociale: dieta non adeguata, spesso ipoalimentazione, non corretta assunzione dei farmaci
prescritti in terapia cronica e
nelle fasi di riacutizzazione,
attività di gestione della propria abitazione non adeguate
al livello di gravità della patologia in atto, ricorso all’assistenza sanitaria solo quando l’instabilità è già in fase
avanzata.
Pazienti anziani che spesso
sono affetti da più patologie
le cui interazioni producono
condizioni cliniche complesse
che implicano spesso approcci multidisciplinari anche a
livello territoriale e che devono prevedere più che un modello di gestione di una singola patologia un modello di
gestione degli anziani affetti
da cronicità.
In Toscana abbiamo scelto il
Chronic care model come strumento di gestione delle pato-
Organizzazione di un approccio
multidisciplinare prevalentemente territoriale
logie croniche, quindi anche
dello scompenso cardiaco, caratterizzato da numerose innovazioni nel modo di operare della sanità territoriale:
creazione di liste di pazienti
affetti da malattie croniche,
passaggio dalla medicina
d’attesa a quella d’iniziativa
da parte dell’attività primaria, creazione di team multidisciplinari coordinati professionalmente dal medico di
medicina generale, dotazione
dei team di personale infermieristico e sociosanitario a
loro dedicato ed a tempo pieno, definizione di percorsi assistenziali, sistema di valutazione dei risultati attraverso
l’individuazione d’indicatori
di processo e d’esito, sistema
d’incentivazione per la medicina generale legato ai risultati raggiunti.
Tutti elementi che innescheranno quel cambiamento ormai necessario nell’organizzazione e nell’erogazione dei
servizi della sanità territoriale. Ma si dovranno affrontare
limiti e problematiche, in
particolare per la gestione
dello scompenso cardiaco,
che sono insiti nell’attuale
organizzazione dei nostri ser-
vizi sociosanitari: mancanza
di continuità assistenziale
ospedale territorio, inadeguata capacità multifattoriale di rispondere ai bisogni assistenziali a livello territoriale ed in tempi consoni alla
gravità del problema, percorsi
assistenziali non incentrati
sulla persona, tentativi di gerarchizzazione ospedale-territorio, non corretta definizione delle competenze e delle responsabilità fra territorio
ed ospedale, non alti livelli
d’integrazione sociosanitaria.
La mancanza di continuità
assistenziale ospedale territorio è basata essenzialmente
sul fatto che sia l’ospedale
che il territorio implementano servizi sui loro bisogni e
non su quelli del cittadino affetto da scompenso cardiaco.
L’ospedale per esigenze legate alle necessità di tagliare i
tempi di degenza dimette i
pazienti affetti da scompenso
cardiaco non completamente
stabilizzati magari il sabato
pomeriggio, quando a livello
territoriale, oggi, non è possibile organizzare una reale
continuità assistenziale per
mancanza del personale infermieristico, d’attrezzature
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Territorio
La continuità assistenziale
e di una diagnostica adeguata
alla gestione di un paziente
ancora bisognoso di terapie
intensive, ma soprattutto per
l’impossibilità da parte della
continuità assistenziale, ex
Guardia medica, di gestire tali pazienti perché l’attuale
servizio si è totalmente slegato dall’attività primaria ed
ha obiettivi ed interessi assolutamente divergenti da chi
ha la responsabilità della gestione delle patologie croniche a livello territoriale. Solo
la riunificazione delle competenze della medicina generale
in un operatore unico a livello territoriale sarà in grado di
risolvere tale problema.
Nell’ultimo ACN ci sono elementi che potrebbero portare
a quest’obiettivo, speriamo
che nell’accordo per il biennio 2008-2009 siano inseriti
gli strumenti necessari per
innescare il cambiamento che
porti realmente il territorio a
farsi carico dei cittadini utenti sette giorni alla settimana
24 ore al dì.
Solo con la prevista creazione
delle Aggregazioni funzionali
territoriali (AFT) in cui confluiranno i medici ex attività
primaria e i medici ex a rapporto orario, si arriverà alla
gestione e alla responsabilità
globale dei pazienti territoriali in tutte le sue componenti, anche in quella della
continuità assistenziale, determinando una totale presa
in carico dei pazienti più bisognosi d’assistenza. Non
sarà più il singolo medico,
sempre nel rispetto del corretto rapporto medico-paziente che da sempre caratterizza l’attività della medicina
a ciclo di fiducia, a garantire
la continuità assistenziale e
la presa in carico del paziente, ma anche l’organizzazione
funzionale della medicina generale. Essa potrà intervenire
in caso di mancanza del medico titolare, impegnato in
altre attività o quando necessiteranno apporti d’altri medici a rapporto orario nelle
gestioni di pazienti ad alto
impegno professionale anche
sfruttando le intrinseche professionalità presenti nella
medicina generale, attualmente non valorizzate.
Sarà compito del coordinatore dell’AFT concordare con i
colleghi ospedalieri tempi e
modalità di dimissione dei
pazienti la cui gestione territoriale necessita di forme
d’assistenza complessa, attrezzature e personale “ad
hoc”. Sarà compito del coordinatore dell’AFT nell’ottica
di una corretta continuità assistenziale insieme ad un collega ospedaliero che esercita
il ruolo di tutor del paziente
nel suo percorso ospedaliero
o comunque l’interfaccia di
quel reparto con il medico di
MG, controllare se i criteri di
ammissione o dimissione dall’ospedale siano rispettati.
Purtroppo spesso tali criteri
da ambo le parti non vengono
rispettati causando ricoveri
impropri e ripetute ospedalizzazioni.
L’inadeguata capacità del territorio di rispondere ai bisogni assistenziali in particolare nel momento in cui è in atto una profonda trasformazione dell’ospedale sempre
più organizzato per la gestione della fase d’acuzie delle
patologie, è determinata anche dal fatto che la medicina
generale dà risposte di tipo
individuale legate al singolo
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Criteri di instabilità/ricovero
– Rapida nuova insorgenza di sintomi di scompenso
– Evidenza clinica e/o elettrocardiografica di ischemia miocardica acuta
– Instabilizzazione del compenso:
• Edema polmonare acuto
• Frequenza cardiaca > 120 b/min
• Pressione arteriosa sistolica< 75 mmHg
• Disturbi mentali attribuibili ad ipoperfusione cerebrale
• Instabilizzazione concomitante ad acuto peggioramento di co-morbidità extra-cardiache (p.es. malattia polmonare o renale)
– Arresto cardiaco
– Aritmie sintomatiche
– Sincope o pre-sincope
– Iposodiemia (Na < 130 mEq/L)
– Aumento della creatininemia > 2.5 mg/dl
– Anasarca o severi edemi declivi con segni di grave congestione venosa
(turgore giugulare, epatomegalia) e/o oligo-anuria
– Persistente sintomatologia nonostante ripetuti controlli ed aggiustamenti terapeutici ambulatoriali
– Necessità di avviare terapia con ACE-inibitore in regime di ricovero
ospedaliero
– Impossibilità di adeguata assistenza domiciliare
Criteri di stabilità/dimissione
– Sintomi di insufficienza cardiaca adeguatamente controllati:
• Stabilità del bilancio idrico
• Assenza di sintomi di congestione
• Pressione arteriosa stabile e > 80 mmHg
• Assenza di ipotensione posturale
• Adeguata pressione differenziale
• Frequenza cardiaca > 50 b/min e < 100 b/min
• Assenza di angina o comunque stabilità della soglia ischemica
• Assenza di aritmie maggiori sintomatiche
• Assenza di sintomi durante la cura della persona
– Funzione renale stabile
– Risoluzione o stabilizzazione di ogni causa reversibile di co-morbidità
– Adeguatezza del supporto sociale, dell’educazione del paziente e del
programma di assistenza e di visite di controllo nel tempo.
medico mentre il servizio sanitario ha bisogno di certezza
di continuità assistenziale
per tutti i pazienti gestibili a
livello territoriale.
Problema che potrà essere risolto solo organizzando la
medicina generale nelle aggregazioni funzionali a cui
sarà demandata la continuità
assistenziale e la responsabilità della presa in carico di
tutti i pazienti.
Nell’assistenza del paziente
affetto da scompenso cardiaco ci sono limiti legati anche
alla necessità della medicina
generale di farsi carico di
compiti e competenze che devono essere riconsegnate, in
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La continuità assistenziale
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un’ottica di profonda trasformazione dell’organizzazione
della sanità territoriale, alle
figure professionali di competenza, infermieri ed operatori
sociali, spostando su livelli
professionali più avanzati la
medicina generale.
Ci sono limiti di tipo professionale: portare in range l’eventuale terapia betabloccante dei pazienti dimessi dall’ospedale, instaurare una terapia in un paziente in fase iniziale e non complicato di
scompenso cardiaco; erogare
prestazioni secondo quanto
previsto dalle linee guida deve essere ed è un compito di
tutti i medici di medicina generale a livello territoriale.
Il medico di medicina generale deve gestire la maggior
parte dei pazienti affetti da
scompenso cardiaco cronico,
ma oltre alla cura di tipo tradizionale deve, insieme agli
altri operatori ed in particolare agli infermieri, operare
per individuare i soggetti a
rischio, curare le patologie
che portano a tale sindrome
ed anche attraverso la promozione d’adeguati stili di vita
rimuovere le cause scatenanti
questa malattia.
La formazione continua della
medicina generale deve contribuire alla crescita professionale in questa direzione,
una formazione sempre più
basata sui reali bisogni e
compiti dei medici a livello
territoriale.
L’apporto alla gestione di tali
pazienti da parte degli specialisti territoriali deve essere
realmente di II livello e non
vicariante funzioni e compiti
della medicina generale. Servizi di cardiologia territoriale
dovranno essere in grado di
offrire almeno un ecocardiogramma di I livello e la disponibilità in tempo reale a recarsi insieme agli altri professionisti del team a domicilio
dei pazienti, solo così saranno utili alla gestione delle
cronicità a livello territoriale.
La gestione di questi pazienti
richiede la capacità di dare risposte non solo adeguate
professionalmente ma anche
in tempi consoni alla gravità
della patologia. Di qui l’individuazione di percorsi dedicati per la diagnostica sia di
laboratorio che strumentale
e, là dove sarà possibile, l’erogazione di prestazioni direttamente sul territorio.
È ormai possibile fornire il
territorio di diagnostica anche attraverso la tele medicina. L’erogazione di ECG, Holter tele-consulti è un obiettivo raggiungibile che può, anche se in parte, colmare la carenza cronica del territorio di
diagnostica strumentale e
frenare l’accesso improprio
dei pazienti alle strutture
ospedaliere.
I percorsi assistenziali dovranno essere graduati a seconda della gravità del singolo caso, è chiaro che la gestione di un paziente anziano
con pluripatologie che vive
solo deve essere diversa dal
paziente più giovane inserito
in un ambiente familiare;
l’anziano deve essere costantemente sorvegliato a domicilio dal personale infermieristico insieme al personale di
sostegno sociale ed anche
mediante l’attivazione dell’ADI con visite programmate
dell’infermiere e del MMG.
L’integrazione fra ospedale e
territorio deve poggiare su
una corretta definizione dei
compiti, delle competenze e
delle responsabilità degli specialisti e della medicina generale. Un’integrazione basata
sulla divisione delle competenze a rete senza gerarchizzazioni dove le singole categorie di professionisti rispondono sulle competenze a loro
assegnate.
È responsabile del paziente lo
specialista durante il ricovero
ospedaliero, sarà compito
dello specialista la definizione, l’erogazione e la programmazione di tutto quanto è
necessario per il paziente durante la fase d’instabilizzazione previa sua attivazione
da parte del medico curante;
sarà compito dello specialista
fornire al paziente tutta la
diagnostica, necessaria per il
follow-up e per impedire le
riacutizzazioni, richiesta dal
medico di medicina generale
dal territorio.
Alla dimissione la responsabilità passerà al medico di medicina generale anche nel caso della creazione di team
multidisciplinari ove i singoli
professionisti risponderanno
dei compiti e delle funzioni a
loro assegnate.
La continuità assistenziale
può essere garantita anche
risolvendo il problema dell’insufficiente comunicazione tra i medici degli ospedali,
i medici di medicina generale
e i medici specialisti territoriali, comunicazione intesa
spesso anche come impossibilità a parlarsi in tempo reale per telefono; la semplice
creazione di linee telefoniche dedicate risolverebbe il
problema, ma la carenza di
comunicazione deve essere
intesa anche come mancanza
di un linguaggio comune,
della mancanza di utilizzo di
protocolli diagnostici e di linee guida condivise.
La continuità assistenziale si
garantisce quindi anche attraverso corsi d’aggiornamento in comune fra le diverse professionalità coinvolte ove ognuna apporta le
proprie esperienze ed i propri
problemi.
Un cenno particolare va fatto
al ruolo e alle funzioni del
personale infermieristico, una
figura centrale nella gestione
dei pazienti affetti da scompenso cardiaco a livello territoriale. In particolare l’infermiere dovrà essere assegnato
in maniera funzionale all’unità di medicina generale ed
assumerà autonomia e responsabilità per le funzioni specifiche, attinenti alla gestione
del paziente affetto da scompenso cardiaco, individuate in
maniera concordata con il medico di medicina generale consentendo a quest’ultimo l’acquisizione di maggior tempo
per gli altri compiti di sua reale competenza. In particolare,
all’infermiere spetterà il controllo dei pazienti a livello domiciliare per quanto riguarda
la corretta assunzione della
terapia, il rilievo dei segni o
sintomi iniziali di riacutizzazione, l’educazione sanitaria e
l’insegnamento all’autocontrollo da parte del paziente
della propria patologia, l’educazione rispetto ad una corretta dieta, anche attraverso
l’istituzione di ambulatori a
ciò dedicati, il controllo e l’eventuale richiamo attivo
dei pazienti per i follow-up
definiti dai PDT, la collaborazione con il MMG sulla definizione dei parametri per la
determinazione del rischio
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Territorio
La continuità assistenziale
cardiovascolare o l’inserimento nelle liste dei pazienti affetti da scompenso, l’aggiornamento della terapia diuretica in caso di aumento del peso, la somministrazione di farmaci e.v. prescritti dal medico
in caso di riacutizzazione, l’esecuzione di diagnostica di
primo livello come l’ECG, l’attivazione del medico di MMG
in caso di rilievo di segni d’instabilizzazione. Ma soprattutto rimarrà costantemente in
contatto anche telefonico con
il paziente.
L’infermiere sarà insieme al
medico di medicina generale
il pilastro dei team multidisciplinari che gestiranno i pazienti affetti da scompenso
cardiaco e tutte le altre patologie croniche. Il passaggio
da un rapporto medico-paziente di tipo individuale ad
uno multidisciplinare ha visto una lunga fase di definizione delle interazioni e delle
competenze fra i vari professionisti. La discussione è stata affrontata nel consiglio dei
sanitari della Regione Tosca-
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N. 179 - 2010
na ed in una successiva consensus conference le cui conclusioni sono state riportate
in una delibera della Regione
Toscana.
La gestione dei pazienti affetti da cronicità ed in particolare da scompenso cardiaco
necessita di una forte integrazione del sociale con il sanitario, problema fortemente
presente in Toscana. L’obiettivo principale della sperimentazione delle Società della salute fu proprio quello di
arrivare ad una vera integra-
zione sociosanitaria individuando in questo consorzio il
gestore unico dei problemi
sociali e sanitari.
Qualche passo in avanti in
questa direzione è già stato
fatto: i punti d’accesso unico,
la gestione consorziata del
sociale da parte delle SDS la
dove è stata realizzata, ma
tutto questo è sicuramente
insufficiente.
Obiettivo prioritario è quello
dell’uniformazione dei meccanismi d’erogazione delle due assistenze sociale e
Elementi costituivi del CCM
Ruoli professionali
Valutazione dei bisogni della comunità
Elaborazione profili di salute; identificazione di gruppi di popolazione/aree a
rischio; analisi delle disuguaglianze nella salute e nell’assistenza sanitaria.
Medici di comunità (ruolo di coordinamento), medici di famiglia, epidemiologi, ricercatori sociali, rappresentanti delle comunità locali.
Risorse della comunità
Valorizzazione e sviluppo di gruppi di volontariato, gruppi di auto-aiuto,
centri per anziani autogestiti, attività fisica adattata, ecc.
Medici di comunità (ruolo di coordinamento), medici di famiglia, infermieri,
operatori sociali, rappresentanti delle istituzioni e delle comunità locali.
Supporto all’auto-cura
Aiutare i pazienti e le loro famiglie ad acquisire conoscenze, abilità e motivazioni nella gestione della malattia, procurando gli strumenti necessari e
valutando regolarmente i risultati e i problemi.
Prevalente ruolo degli infermieri, dietisti, fisioterapisti, con il supporto di
medici di famiglia e specialisti.
Proattività degli interventi
Le consuete attività cliniche e assistenziali sono integrate e rafforzate da
interventi programmati di follow-up con sistemi automatici di allerta e di
richiamo.
Ricade sul medico di famiglia la responsabilità complessiva nei confronti del
paziente in ordine alla diagnosi, la terapia, la prevenzione e la riabilitazione.
Il MMG assume il ruolo di coordinatore degli interventi sanitari del team.
Nell’ambito delle attività programmate, nel contesto del lavoro di team e
sulla base delle linee guida condivise l’infermiere, componente del team, gestisce i sistemi di allerta e di richiamo e svolge le attività di follow-up, ne assume la responsabilità professionale inerente agli atti messi in essere e si relaziona con il MMG.
Supporto alle decisioni
L’adozione di linee guida basate sull’evidenza forniscono al team gli standard per fornire un’assistenza ottimale ai pazienti cronici.
Le linee guida sono rinforzate da un’attività di sessioni di aggiornamento e
di audit per tutti i componenti del team.
Le linee guida sulla patologie oggetto del CCM vengono elaborate dal Consiglio sanitario regionale con il coinvolgimento di tutte le professioni e saranno successivamente adattate al contesto locale dalle aziende sanitarie.
Sistemi informativi
I sistemi informativi computerizzati devono funzionare come:
1. Sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie ad attenersi alle linee guida.
2. Feedback per i medici, mostrando i loro livelli di performance nei confronti degli indicatori delle malattie croniche.
3. Registri di patologia per pianificare la cura individuale dei pazienti e per
amministrare un’assistenza population-based.
4. Strumenti per il monitoraggio e la valutazione dei progetti e degli interventi.
Medici di famiglia, infermieri, epidemiologi, medici di comunità, statistici,
economisti sanitari.
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sanitaria, l’una di tipo universalistico e quasi sempre
erogata in tempi consoni alla
gravità della patologia, l’altra legata al reddito e con
meccanismi che spesso non
sono legati all’urgenza del
caso. Ad un anziano affetto
da scompenso cardiaco che
vive solo, dimesso dall’ospedale o in fase d’instabilizzazione, deve essere garantito
immediatamente l’approvvigionamento e la somministrazione dei farmaci, una
corretta alimentazione, un
aiuto alla gestione della propria abitazione e della sua
igiene personale; molto
spesso dalla presenza o meno di questi interventi di tipo sociale dipende il successo della gestione sanitaria.
Per questi motivi le SDS devono essere assolutamente
coinvolte nella sperimentazione del Chronic Care Model
e le assistenti sociali devono
obbligatoriamente far parte
dei team assistenziali delle
patologie croniche.
Le parole chiave di una reale
continuità assistenziale nello
scompenso cardiaco sono
quindi:
– Diversa organizzazione
della medicina generale.
– Continuità assistenziale
sette giorni alla settimana
24 ore al dì.
– Aumento della sua capacità di presa in carico dei
pazienti.
– Professionalità e formazione continua.
– Team territoriali multidisciplinari.
– Medicina d’iniziativa.
– Nursing infermieristico.
– Percorsi assistenziali dimensionati sulla persona.
– Miglioramento dell’offerta
di diagnostica a livello territoriale.
– Comunicazione ospedale
territorio.
– Ospedale che eroga prestazioni in base ai bisogni
dell’utente.
– Presenza dei servizi sociali
fortemente integrati con
quelli sanitari.
Convegno internazionale
Ricerca epidemiologica e impegno civile
Il percorso scientifico e professionale di Eva Buiatti
29 e 30 giugno 2010
Palazzo Vecchio, Firenze
Martedì 29 giugno, ore 15,30-19,30
Lezioni magistrali sull’epidemiologia occupazionale, l’oncologia e la sanità pubblica
(è prevista la traduzione simultanea in e dall’inglese)
Mercoledì 30 giugno, ore 9,15-18,00
Sessione introduttiva - L’itinerario scientifico e culturale di Eva Buiatti
Prima sessione - L’epidemiologia occupazionale
Seconda sessione - Epidemiologia e prevenzione dei tumori
Terza sessione - Sanità pubblica
Scheda di iscrizione online sul sito web ARS: www.ars.toscana.it
all’indirizzo: https://www.ars.toscana.it/EVENTI/index.php?evento=epiEpi
Informazioni: [email protected]
Tel. 055 4624365 - Fax 055 3841465
Il convegno è promosso dall’Agenzia regionale di sanità della Toscana (ARS)
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Domenico Inzitari
Dipartimento di Scienze
neurologiche e psichiatriche AOU Careggi - SOD Stroke Unit
Neurologia, Università
di Firenze
L’
ictus cerebrale è una
delle malattie più frequenti e gravi come
mortalità ed esiti invalidanti.
In Italia (1), il numero di
morti attribuibili alle malattie cerebrovascolari è di circa
69.000 per anno, i casi prevalenti raggiungono quasi il milione di unità, ed i casi incidenti si attestano intorno alle 200.000 unità all’anno.
L’handicap che ne residua è
causa di costi elevati per le
famiglie, il sistema sanitario
e la società intera. Il numero
di DALY (Disability-Adjusted
Life Year), un indicatore che
valuta il numero di anni di
vita attiva persi a causa di
morte prematura e disabilità,
è di 4 DALY persi per ictus
ogni 1000 abitanti, per un totale di 230.000 DALY persi
ogni anno. La spesa annuale
per l’assistenza all’ictus cerebrale in Italia è stimata intorno ai 3.5 miliardi di euro.
Negli ultimi venti anni si sono accumulate prove scientifiche inequivocabili (2) del
fatto che una serie di interventi diagnostici, terapeutici,
ed organizzativi possono
contribuire a ridurre in modo
notevole la frequenza della
malattia e la gravità degli
esiti e quindi il carico sociale.
La serie di questi interventi si
articola su tre fasi principali
che caratterizzano il percorso
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Il paziente
con ictus cerebrale
del paziente a rischio o affetto da ictus cerebrale. La prima è quella della identificazione e del trattamento dei
fattori di rischio (prevenzione primaria). La seconda è
quella della gestione del paziente colpito da ictus che
comprende il precoce riconoscimento dei sintomi di un ictus incipiente, l’avvio urgente in ospedale, l’effettuazione dei trattamenti della fase
acuta ed il ricovero in una
unità dedicate definita Stroke
Unit. A questa fase, segue
quella finalizzata al migliore
recupero funzionale che, dopo un passaggio attraverso
una struttura ospedaliera a
specializzazione riabilitativa,
deve essere perseguito al domicilio e nel territorio con un
costante supporto riabilitativo e psico-sociale. In questa
ultima fase viene attuata anche una stretta sorveglianza
clinica allo scopo di ridurre il
rischio delle recidive (prevenzione secondaria).
Si tratta di un arco temporale
di decenni, se si considerano
la lunga fase della prevenzione primaria, e la fase post
acuta nei sopravvissuti. Il
percorso è articolato in processi sequenziali, in ciascuno
dei quali intervengono più
funzioni e strutture organizzative ed attori diversi delle
professioni sia sanitarie che
L'approccio funzionale e psico-sociale
da assicurare permanentemente
dopo la dimissione ospedaliera
sociali. La adeguata concatenazione dei processi deve essere considerato uno degli
elementi più rilevanti in termini di efficacia ed efficienza
dell’intera filiera dell’assistenza. L’ictus cerebrale è
pertanto una condizione di
malattia che può essere considerata emblematica di quella che viene definita continuità dell’assistenza.
Fase della prevenzione
La prevenzione dell’ictus cerebrale è basata sulle conoscenze, ormai molto avanzate, di una serie di fattori che
aumentano in modo definito
il rischio della malattia (2).
Oltre ai fattori non modificabili, quali l’età, la razza, la
familiarità, vi sono fattori
acquisiti quali la ipertensione arteriosa, il diabete, la dislipidemia, l’obesità, il fumo,
le aritmie cardiache. Molti di
questi fattori sono collegati
ad un anomalo stile di vita,
in termini di abitudini voluttuarie, dieta, ed attività fisica. Alcuni di questi fattori,
come ad esempio l’ipertensione arteriosa, rimangono
ampiamente sotto diagnosticati ed inappropriatamente
trattati in una larga percentuale della popolazione italiana (3). Nel complesso uno
degli aspetti maggiormente
limitanti, per quanto riguarda la prevenzione, è la incompleta aderenza ai vari
trattamenti preventivi dovuta alla scarsa compliance da
parte del paziente e alla non
appropriatezza dell’intervento del medico rispetto agli
obiettivi proposti dalla evidenza scientifica. Per quanto
riguarda le abitudini voluttuarie, quali fumo, abuso di
alcolici, consumo eccessivo
di zuccheri e grassi animali,
l’esposizione ha inizio fino
dall’età giovanile e pertanto
l’intervento è prevalentemente educativo, e deve
coinvolgere attori quali la famiglia e la scuola. Nell’età
adulta, il ruolo del medico di
medicina generale diventa
essenziale, in quanto l’identificazione prima, e l’aderenza al trattamento poi,
sono prevalentemente a suo
carico. La progressione
nel tempo della patologia
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cardiovascolare predisponente rende ad un certo punto
necessario l’intervento di
specialisti, internisti, cardiologi, neurologi, nonché quello di centri ospedalieri specializzati (centri antidiabetici, centri per il trattamento
dell’ipertensione arteriosa).
L’approccio al problema della
prevenzione richiede un forte
impegno educativo e promozionale da parte del servizio
sanitario a livello di macrosistema. Deve far parte della
prevenzione dell’ictus la conoscenza dei sintomi che annunciano l’imminente insorgenza di un ictus cerebrale.
Alla non conoscenza di questi
sintomi è imputabile una serie di ritardi temporali che
precludono l’effettuazione di
interventi terapeutici atti a
curare fin dalla sua presentazione l’ictus cerebrale e le sue
conseguenze. In ambito preventivo, una particolare attenzione viene posta negli
ultimi anni ad una sintomatologia transitoria definita
attacco ischemico transitorio
(Transient Ischemic Attack =
TIA). Tale sintomatologia
predice un rischio elevato di
ictus cerebrale addirittura
nelle 48 ore successive.
Spesso è il medico di famiglia
a dovere effettuare la prima
diagnosi. Un percorso organizzato che in Pronto soccorso o in un centro ambulatoriale ospedaliero dedicato sia
in grado di effettuare rapidamente tutte le indagini necessarie per attivare immediatamente gli interventi di
prevenzione secondaria, può
prevenire l’ictus in una quota
percentualmente rilevante di
soggetti che hanno avuto un
TIA (4).
Fase acuta
Negli ultimi quindici anni l’evidenza scientifica (2) ha definitivamente provato l’efficacia nel ridurre la mortalità
e la disabilità conseguente ad
ictus cerebrale acuto di due
tipi di intervento. L’uno è di
tipo farmacologico: si tratta
della trombolisi con attivatore tissutale del plasminogeno
(tPA), da effettuarsi entro le
3 ore dall’insorgenza dei primi sintomi; l’altro è di tipo
organizzativo, la Stroke Unit,
una struttura di degenza dedicata, multiprofessionale,
esperta e motivata, in grado
di gestire nella maniera più
appropriata le complicanze
della fase acuta ed un approccio riabilitativo precoce.
Studi randomizzati e controllati e dati osservazionali hanno inequivocabilmente dimostrato che un paziente trattato in modo appropriato con la
trombolisi ha mediamente oltre il 50% di probabilità di essere restituito ad una vita del
tutto normale. Il fattore tempo è l’elemento cruciale sia di
efficacia che di sicurezza. Se
il paziente viene trattato a 60
minuti dalla insorgenza dei
sintomi, le probabilità di un
esito favorevole sono 4 volte
più elevate che se il paziente
viene trattato più tardivamente. Pertanto i determinanti del successo sono il
precoce riconoscimento dei
sintomi da parte del paziente, l’allertamento immediato
del servizio di emergenza,
l’avvio tempestivo in ospedale, la valutazione in emergenza urgenza da parte di un
team di professionisti esperti
all’arrivo in Pronto soccorso.
La Stroke Unit è una struttura
di degenza dedicata alla ge-
stione del paziente con ictus
cerebrale acuto in cui opera
un team multidisciplinare,
medici, infermieri, tecnici della riabilitazione adeguatamente formati e continuamente addestrati alla applicazione delle migliori procedure
per il monitoraggio clinico, la
prevenzione delle complicanze, la riabilitazione precoce e
la dimissione guidata di qualsiasi paziente con ictus cerebrale acuto. L’efficacia di questa struttura è ormai inequivocabilmente provata da ampie metanalisi (5) e da studi
osservazionali condotti anche
in Italia (6). Questi studi hanno dimostrato la riduzione del
rischio di morte o disabilità
grave del 10% per il paziente
con ictus ricoverato in una
Stroke Unit, rispetto al paziente gestito in un reparto non
specializzato dell’ospedale.
Fase post-acuta
Una volta dimesso dall’ospedale per acuti, il paziente che
esce da un ictus con deficit
neurologici funzionalmente
invalidanti dovrebbe essere
avviato verso una struttura
ospedaliera specializzata e ad
un percorso che garantisca la
intensificazione degli interventi riabilitativi finalizzati al
migliore recupero funzionale.
Alla fine di questo periodo il
paziente viene dimesso al domicilio dove di norma devono
essere attivate: la prosecuzione della riabilitazione in forma estensiva, il progressivo
adattamento funzionale alle
attività della vita quotidiana,
il supporto psicologico, il monitoraggio clinico per la prevenzione delle recidive, ed infine il supporto sociale indispensabile per ridurre il disa-
gio conseguente all’handicap
ed il carico assistenziale e psicologico delle famiglie.
Un approccio continuativo di
tipo funzionale e psico-sociale deve essere garantito per
tutta la vita.
La continuità dell’assistenza
Tenendo conto di questo assai lungo ed articolato percorso, emerge chiaramente la
necessità di concatenare le
varie fasi, integrando tra di
loro i diversi contesti operativi, le funzioni, le strutture ed
infine gli operatori, tenendo
ovviamente al centro il paziente e la famiglia. La realtà
attuale, pressoché ubiquitaria nel nostro paese, ma analogamente riscontrabile in altri paesi del mondo occidentale, è la frammentazione del
sistema in unità distinte e separate, che mancano di un disegno organizzativo comune
e di un coordinamento dedicato. Le diverse funzioni operative ed i processi di cura in
ciascuna di esse compresi, si
sviluppano quindi ed operano
in modo indipendente ed eterogeneo. Ciascuno dei processi di cura può essere variamente influenzato dal fatto
che all’interno operino professionisti con diversa cultura e motivazione e risente di
una eterogenea assegnazione
delle risorse. Il paziente e la
famiglia si muovono da una
fase all’altra spesso privi di
un orientamento definito e
finalizzato, caricandosi essi
stessi (spesso anche economicamente) di scelte che non
rientrano in una logica di sistema organizzato e di efficienza clinica e gestionale.
Si possono fare numerosi
esempi. Riferendosi ad uno
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dei momenti più delicati della
prevenzione che è quello della valutazione diagnostica
clinica e strumentale in urgenza in un caso di TIA, qualora sia stato definito un percorso formativo specifico ed
il medico di famiglia sia stato
dotato di strumenti validi di
screening, e qualora quest’ultimo non trovi una immediata ed agevole risposta in
ospedale con un percorso facilitato per il work-up di laboratorio e strumentale, ecco
che il processo diventa inefficiente. Qualora in uno ospedale per acuti venga sviluppata la funzione di un team
esperto che garantisce una
pronta disponibilità per la
valutazione ed il trattamento
in emergenza-urgenza dell’ictus acuto, e sia stato organizzato un percorso clinico-diagnostico appropriato, ed invece la maggior parte dei pazienti colpiti da ictus non
siano in grado di riconoscere i
sintomi precoci dell’ictus, ovvero il sistema dell’emergenza non sia organizzato per
prelevare al domicilio e trasportare il paziente in modo
veloce ed esperto, la organizzazione del percorso intraospedaliero rimane largamente improduttiva. Ulteriore
esempio: qualora alla dimissione da una Stroke Unit, dove, tra le funzioni multidisciplinari, è prevista quella finalizzata alla riabilitazione precoce, assegnata ad un fisioterapista dedicato, il paziente
non trovi rapida collocazione
in una ulteriore struttura
ospedaliera che sia in grado
di proseguire la riabilitazione
in forma intensiva, i risultati
di una organizzazione a tipo
Stroke Unit vengono ad essere
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in parte vanificati. Infine,
qualora alla conclusione della
riabilitazione ospedaliera il
paziente non venga preso in
carico tempestivamente dai
servizi territoriali di riabilitazione, il beneficio funzionale
ottenuto in ospedale rischia
di essere annullato.
Nel nostro come in altri paesi
dovrebbe essere identificata
una funzione di coordinamento regionale o locale o,
per quanto riguarda il percorso territoriale post acuto, almeno la figura di un case-manager che abbia il compito di
guidare la transizione tra le
varie fasi, controllandone i risultati. Il medico di famiglia
manca spesso della necessaria formazione culturale, che
dovrebbe spaziare dalla corretta gestione degli interventi medici di prevenzione, alla
valutazione degli obiettivi e
dell’efficacia dei trattamenti
riabilitativi. Inoltre egli stesso non ha a disposizione un
piano dettagliato dell’offerta,
e manca di strumenti di comunicazione adeguati.
Strategie per migliorare la
continuità dell’assistenza
Il problema strategico è stato
affrontato all’estero ed ha costituito l’oggetto di alcune revisioni di scopo. Cameron et
al. (7) articolano le possibili
azioni su tre livelli: sociale, di
sistema ed individuale. Questo
ultimo livello costituisce un
obiettivo minimale: è quello
in cui vengono attuati interventi mirati a guidare e supportare il singolo paziente e la
sua famiglia. In analogia con
esperienze applicate alle problematiche degli anziani, la
funzione potrebbe essere svolta da un case-manager, anche
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non medico (fisioterapista o
infermiere).
Le iniziative sociali sono poste in atto dai Governi, nazionale o regionale, ed hanno
effetti generali ed allargati a
tutta la popolazione. Tale livello comprende le decisioni
e le definizioni di piano ed
una adeguata attribuzione di
risorse. Le azioni possono includere meccanismi di incentivazione per le singole funzioni e strutture. Possono essere comprese in questo livello campagne educative per il
pubblico, che, oltre alle
informazioni per una corretta
prevenzione, diffondano la
conoscenza dei sintomi che
denunciano un ictus incipiente, le indicazioni per l’allertamento veloce del sistema
dell’emergenza, la conoscenza dei moderni trattamenti
dell’ictus acuto, il valore della
riabilitazione.
Gli interventi di sistema sono
quelli finalizzati a modificare, adeguando alla migliore
evidenza scientifica, le singole funzioni e strutture esistenti in una area geografica
(ad esempio attivando in un
ospedale per acuti la Stroke
Unit), ed implementando percorsi clinici (ad esempio, un
percorso intra-ospedaliero
dedicato), integrando peraltro queste azioni in un piano
organizzativo territorio-ospedale definito (ad esempio assicurando gli opportuni collegamenti tra sistema dell’emergenza, ospedali periferici
ed ospedali di riferimento) od
ospedale-territorio (collegando in modo appropriato la
riabilitazione intra ospedaliera con l’area della riabilitazione territoriale). Essenziale
per un efficiente funziona-
mento di tali collegamenti è
la messa in opera di un adeguato sistema di comunicazioni. In rapporto alla rapida
operatività richiesta dagli interventi della fase acuta, possono essere utilizzati collegamenti telematici già validati
in altri paesi (8) per il trasferimento rapido di informazioni cliniche ed immagini radiologiche tra ospedale
esperto di riferimento ed
ospedali periferici.
Appare sempre più essenziale
supportare l’organizzazione
integrata su scala regionale
con una funzione di coordinamento dedicata che ne valuti la performance e ne stimoli il miglioramento (9). Tale funzione, per esempio, è
stata recentemente implementata in Catalogna (Spagna) con risultati eccellenti
(10).
Barriere alla implementazione di un sistema integrato di cura
Tenendo conto di quanto finora esposto, non c’è dubbio
che l’implementazione di un
sistema integrato di cura per
l’ictus cerebrale debba essere
ritenuta una assoluta priorità per il Servizio sanitario
sia nazionale che regionale.
Invece, sia in altri paesi che
in Italia, la visione del problema e le azioni operative
conseguenti sono in posizione secondaria rispetto ad altre decisioni e quindi in ritardo. Numerosi ostacoli si
oppongono alla operatività
gestionale ed organizzativa.
La prima è costituita dalla
ancora scarsa consapevolezza nella popolazione generale, tra i professionisti, tra gli
amministratori e tra i politici
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della gravità del problema ictus da un lato, e delle enormi potenzialità di cura esistenti al giorno d’oggi dall’altro lato. Ciò si traduce in
una ridotta spinta promozionale da parte dell’opinione
pubblica sul livello politicoamministrativo. Nel febbraio
2005, la Conferenza Stato
Regioni (11) ha emanato un
documento per l’organizzazione dei percorsi di cura per
l’ictus cerebrale, da cui
emergono in maniera chiara
le indicazioni per un sistema
integrato di cura. Solo alcuni
piani regionali, tra cui quello 2007-2009 della Regione
Toscana, lo hanno adottato
come riferimento. Dal momento della pianificazione a
quello della implementazione e della reale operatività
del sistema si frappongono
ulteriori ostacoli che comprendono la disorganizzazione e la inefficienza del sistema sanitario in generale
(specie in alcune Regioni), la
mancata identificazione di
precise figure professionale
di riferimento, la fisiologica
opposizione al cambiamento
delle strutture sanitarie e
dei professionisti e, non ultimo, la carenza di percorsi
formativi specifici.
Conclusioni
L’ictus cerebrale è una malattia frequente ed importante,
con un notevole carico di costi per le famiglie, il Servizio
sanitario e la società intera. Il
percorso si articola in più fasi,
per ciascuna delle quali esistono ad oggi provate possibi-
lità di cura. Ciascuna delle fasi prevede un approccio basato su più funzioni, strutture e
figure professionali, che devono essere opportunamente
integrate. Il sistema deve essere regolato e monitorato
con adeguati strumenti di misura della performance. A livello politico-amministrativo
l’ictus deve essere considerato
una priorità assoluta con conseguente forte impegno istituzionale, adeguata pianificazione e congrua attribuzione
di risorse.
Bibliografia
patients: an observational follow-up study, Lancet, Jan, 27, 369
(9558), pp. 299-305.
(1) Di Carlo A., Baldereschi M., Gandolfo C., et al. (2003), ILSA
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www.spread.it
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(stroke unit) care for stroke, Cochrane Database Syst Rev (4),
CD000197. Review.
(11) Presidenza del Consiglio dei Ministri (2005), Accordo ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Ministro
della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano,
concernente “Linee di indirizzo per la definizione del percorso assistenziale ai pazienti con ictus cerebrale”, 3 Febbraio.
(6) Candelise L., Gattinoni M., Bersano A., Micieli G., Sterzi R., Morabito A. (2007), PROSIT Study Group. Stroke-unit care for acute stroke
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Giovanna Del Giudice
Portavoce nazionale Forum
Salute mentale, già direttore
del Dipartimento di Salute
mentale di Cagliari
P
er collocare il tema della
continuità terapeutica
ed assistenziale nella
salute mentale, all’interno
delle attuali culture intorno
alla malattia mentale, della
legislazione e del sistema dei
servizi, riteniamo indispensabile ricordare i passaggi essenziali avvenuti negli ultimi
quaranta anni in Italia nell’assistenza psichiatrica.
Agli inizi degli anni sessanta,
a Gorizia, Franco Basaglia, insieme al suo gruppo di lavoro,
nel confronto con la realtà
“arcaica” del manicomio e nell’incontro con “quel che resta
di un uomo” nell’internamento manicomiale, denuncia con
una azione pratica e teorica la
funzione repressiva e violenta
del manicomio – luogo di custodia più che di cura, di salvaguardia della società più
che della persona malata, di
controllo della devianza, contenitore della miseria – e l’internamento come processo di
negazione di storia, ruolo, po-
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L’assistenza psichiatrica
tere e diritti per la persona
con sofferenza e di destino
certo verso la cronicizzazione
e il silenziamento.
“Tuttavia il carattere radicale
di questa critica del manicomio …non porta gli psichiatri italiani innovatori ad imboccare la strada dell’antipsichiatria. …viene tenuto
fermo l’obbiettivo e il compito terapeutico…e nello stesso tempo viene utilizzato il
potere, residuale ma insostituibile, [della psichiatria]…
come potere di trasformazione”1. La “messa tra parentesi
della malattia” che dichiarata
da Basaglia “perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento, che va oltre il significato reale della malattia
stessa”2, non è certamente da
intendersi come negazione
della malattia, né tanto meno
dell’azione terapeutica e clinica per agire solo una dimensione politica, ma come
Il modello organizzativo dei servizi addetti
alla cura della sofferenza mentale
necessità di “avvicinarsi” al
soggetto con sofferenza, riconoscerlo come “escluso” e
“senza diritti” 3 , occuparsi
della sua miseria e ri-costruire l’accesso ai diritti, primo di
tutti quello alla cura. La “negazione del malato come irrecuperabile” e quindi il ruolo
degli operatori come “semplici carcerieri”4 colloca il lavoro
terapeutico “su un terreno
nuovo, tutto da arare”5.
Prende così avvio una “azione
di rinnovamento e poi di trasformazione assistenziale… e
di apertura dell’istituzione”6
tra profonde resistenze e significative attenzioni in particolare da parte degli operatori, dei lavoratori, gli studenti, gli intellettuali che alla fine degli anni sessanta
sviluppavano una critica alle
“istituzioni totali” e guarda-
vano ad un cambiamento nella medicina, e nella psichiatria in particolare.
Nel 1971, dopo circa 2 anni di
direzione nell’Ospedale psichiatrico di Colorno (Pr),
Franco Basaglia viene chiamato a dirigere l’Ospedale
psichiatrico provinciale di
Trieste dove, insieme al gruppo di lavoro triestino, opera
per il superamento definitivo
dello stesso e la costruzione
di una rete di “istituzioni inventate”7 nel territorio.
Intanto in altre realtà italiane
alcuni operatori innovatori
portano avanti il lavoro di decostruzione del manicomio, a
Nocera Superiore (Salerno),
Perugia, Arezzo, Ferrara…
L’azione pratica e teorica svolta in tali realtà, e in particolare il concreto superamento a
Trieste 8 del manicomio e la
F. Rotelli, O. De Leonardis, D. Mauri, Deistituzionalizzazione un’altra via, Ed. per la salute mentale, 1992.
F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Einaudi, 1968.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 F. Basaglia e al., La nave che affonda, Savelli, 1978.
7 F. Rotelli, L’istituzione inventata, Ed. “e”, 1992.
8 A gennaio del 1977 in una conferenza stampa F. Basaglia annuncia il progetto di chiusura dell’Ospedale psichiatrico. A quell’epoca il numero dei
degenti nell’Ospedale psichiatrico di Trieste è passato da 1260 a 433 “ospiti” – persone che rimangono nel comprensorio ospedaliero solo perché ancora non si sono create le condizioni concrete per una vita nella comunità – e 132 ricoverati; continua a funzionare il reparto di accettazione per il ricovero
delle persone in crisi. Ma il processo di decostruzione del manicomio è consolidato e si vuole ratificare l’inconvertibilità del percorso fatto.
1
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costruzione, tra il 1975 e il
1977, di un circuito di servizi
territoriali alternativi allo
stesso, diventa base di un
cambiamento legislativo, ritenuto ormai dai più improcrastinabile. Il Parlamento
italiano all’unanimità il 13
maggio del 1978 approva la
legge di riforma dell’assistenza psichiatrica, L.180 9 , assunta poi negli articoli 33,
34, 35 e 64 della legge di
riforma sanitaria, L.833 del
dicembre 1978.
Nel passaggio dalla legge psichiatrica del 190410 – che definiva il malato di mente “pericoloso a sé e agli altri” e “di
pubblico scandalo” e intorno
a questa pericolosità aveva
organizzato l’istituzione manicomio – alla nuova legislazione la persona con malattia
mentale entra nella “cittadinanza sociale”, viene negata
l’equivalenza malattia mentale-pericolosità sociale e sancito il diritto per la persona
alla cura nella comunità, di
norma in regime volontario.
Se guardiamo, con uno sguardo d’insieme, a questi trent’anni di vita della riforma,
certamente possiamo dire che
un mutamento epocale è avvenuto in Italia nella cura e
presa in carico del malato di
mente e dei suoi familiari.
Si è passati da una psichiatria
asilare, fondata sull’esclusione e l’internamento, ad un lavoro di salute mentale nella
comunità fondato sull’inclusione. La psichiatria è entrata
nella medicina; è stata soppressa una legge “speciale” e
uno statuto di eccezione per
il malato di mente costruendo
un “altro diritto per il malato
di mente”; si è restituito il
problema delle persone con
sofferenza mentale ad una sanità generale. La “coazione”
della cura della precedente
legge è stata sostituita dagli
“accertamenti e i trattamenti
sanitari volontari” nel territorio. Solo eccezionalmente e
“nei casi previsti dalla legge
possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti obbligatori nel rispetto della dignità
della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione…” 11. Le persone
quindi mantengono i diritti
anche in condizioni di trattamento sanitario obbligatorio.
Sul piano operativo, pur con
notevoli ritardi e con una accelerazione significativa data
solo dalle leggi finanziarie
del ’94 e ’96, su tutto il territorio nazionale i manicomi
pubblici sono stati definitivamente chiusi e un sistema di
servizi di salute mentale è ormai diffuso su tutto il territorio nazionale; l’intervento di
cura si è spostato dall’ospedale al territorio.
In ogni azienda sanitaria locale è attivo un dipartimento
di salute mentale12 costituito
da una articolazioni di strutture per la salute mentale,
quali quelle previste dal progetto obiettivo nazionale tutela salute mentale 19982000. Il numero attuale delle
persone prese in carico dai
servizi di sanità pubblica è
“di oltre dieci volte superiore
a quello del 1978 … Oggi circa un milione di cittadini ricevono assistenza presso i
centri di salute mentale e in
linea di massima ciò viene
fatto da équipe multidisciplinare che garantisce per lo
meno livelli di competenza
professionale ed etica incomparabili con quelli degli ospedali psichiatrici del 1978”13.
Ma tanto più in questi
trent’anni sul piano della risposta alla sofferenza mentale, sul piano terapeutico è
mutato lo “sguardo” sull’altro. Oggetto della psichiatria
non è più la malattia, e la pericolosità ad essa connessa,
ma il soggetto e il suo contesto di vita, la sua storia, i bisogni, le aspettative differenziate; non più percorsi “certi”
verso la cronicità e l’esclusione, ma percorsi verso la guarigione, l’emancipazione e il
protagonismo dei soggetti.
Possiamo quindi affermare
con forza che significativamente è mutato il destino di
migliaia di uomini e donne
con sofferenza e dei loro familiari e complessivamente è
cambiato l’atteggiamento
culturale nei confronti di
ogni forma di diversità, evidenziandosi l’illibertà, la disuguaglianza e l’esclusione
sociale troppe volte a questa
connessa.
Dai dati a disposizione 14 si
evince che in Italia il numero
totale dei dipartimenti di salute mentale è 211; i centri di
salute mentale sono 707; i
servizi psichiatrici di diagnosi
e cura sono 321 con 3.997 posti letto; i centri diurni sono
612 e 1.552 le strutture residenziali con un totale di
17.101 posti residenza. Sono
presenti nel paese 8 cliniche
psichiatriche universitarie con
162 posti letto, 56 case di cura
private con un totale di 3.975
posti letto. Il personale complessivo ammonta a 34.446
operatori, tra cui 5.561 medici
e 14.760 infermieri. Per quanto riguarda il modello organizzativo del dipartimento di salute mentale, questo è diverso
tra le varie Regioni, e a volte
nelle differenti aziende della
stessa Regione, e tanto più è
differente l’operatività nelle
diverse aree.
Guardando, invece, da vicino
i servizi della salute mentale,
non possiamo non riconoscere le grandi difficoltà, e perfino le resistenze, che si evidenziano tuttora in molti territori nell’attuazione della
legge di riforma.
Ancora molto rimane da fare
in relazione alla qualità dei
9 Legge n. 180 sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori” - Gazzetta ufficiale 16 maggio 1978, n. 133. Trattasi di una
“legge quadro”, approvata anche sotto la spinta di un referendum, proposto dai radicali per l’abolizione della legislazione in vigore, che avrebbe
potuto lasciare il paese senza una legislazione.
10 Legge n. 36 del 14 febbraio 1904 “Legge sui manicomi e sugli alienati, disposizioni e cura degli alienati”.
11 Art. 1 Legge 13 maggio 1978, n. 180.
12 Va ricordato che nella Lombardia il DSM fa capo alla azienda ospedaliera.
13 A. Fioritti, Riportare i servizi di salute a contatto con le sfide dell’oggi, Animazione sociale, dic. 2009.
14 Dati del ministero della Salute del 2001.
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Territorio
La continuità assistenziale
servizi, agli stili operativi, alle
pratiche in campo, alla formazione degli operatori. In alcuni servizi persistono pratiche
manicomiali, quando non si
perpetuano “crimini di pace”
nei confronti delle persone
con malattia mentale, i centri
di salute mentale sono spesso
solo “la somma di ambulatori
individuali, privati”15; il servizio pubblico “foraggia” cliniche e residenze del privato
profit spesso ancora segregative; si fa ricorso a ricoveri a
tempo indefinito e senza progetto a volte “deportando” i
soggetti lontano dai loro contesti di vita; la maggior parte
dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura operano a porte
chiuse e fanno ricorso ai mezzi di contenzione.
Esistono peraltro in alcune
aree del paese centri di salute
mentale che garantiscono risposte sulle 24 ore, per 7 giorni e la continuità delle cure,
alcuni dotati di posti letto per
l’accoglienza diurno-notturna, che contrastano la frammentarietà delle risposte e le
pratiche di delega e di neoistituzionalizzazione. Centri
di salute mentale a bassa soglia; che hanno la responsabilità della cura di un determinato territorio; accoglienti e
qualificati negli habitat; che
operano attraverso équipe
multidisciplinari; che assicurano sostegno alle persone
con sofferenza nella complessità dei loro bisogni e le supportano anche nella vita quotidiana; che sviluppano programmi individuali di presa in
carico e di abilitazione, capacitazione, emancipazione sociale, declinando la propria
azione nella comunità in sinergia con le sue risorse formali ed informali, in rete con
gli altri servizi sociali e sanitari. Esistono servizi psichiatrici di diagnosi e cura, circa il
20%, che operano con le porte aperte e fanno a meno dei
mezzi di contenzione.
Infine riteniamo necessario
evidenziare che negli ultimi
anni stiamo assistendo nel
campo psichiatrico ad un riduttivo ritorno ad una visione positivistica-biologica della malattia mentale, ad un
dominio del modello medicoclinico, ad una focalizzazione
sul sintomo dimenticando la
persona sofferente, ad una
centralità della diagnosi, ad
una patologizzazione e medicalizzazione della vita quotidiana, ad una ricerca di certezze tesa sempre più a ridurre la complessità. E insieme si
sta sviluppando una psichiatria difensiva che invece della
ricerca, la messa in discussione e la critica, l’assunzione
della responsabilità e del rischio, si trincera nel ruolo,
nella “posizione di garanzia”
per giustificare pratiche e stili di lavoro nelle quali sfuma
l’interesse e la centralità della persona-con-sofferenza.
Complessivamente, lungo
continua ad essere il percorso
della deistituzionalizzazione
che partito dalla decostruzione del manicomio, vuole decostruire la concezione della
malattia, vuole essere teoria
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e pratica che interroga e si
interroga, che pone dubbi su
cosa è la psichiatria, su cosa
è la salute mentale, sui percorsi della cura, sulle relazioni, sui rapporti di potere, e
chiede che esistano servizi
“…nella loro versione di arricchimento della normalità e
non nella versione di impoverimento della normalità”16.
La continuità terapeutica
ed assistenziale
Porre attenzione e garantire
priorità alla continuità assistenziale, in particolare dopo
un ricovero ospedaliero, viene oggi considerato essenziale nella gestione dei processi
di cura. Viene altresì considerato essenziale dare priorità
all’integrazione sociosanitaria, intesa come filosofia di
intervento che, partendo dalla visione dell’unitarietà e
complessità dei bisogni della
persona, diviene modalità di
organizzazione dei servizi sociali e sanitari e delle risposte, ma anche valorizzazione
delle risorse del soggetto e
del suo contesto oltre che dei
gruppi formali ed informali
della comunità locale.
Nel Piano sanitario nazionale
2003-2005 si legge “L’integrazione (interdisciplinare, interprofessionale, intersettoriale)
rappresenta un principio/valore ampiamente condiviso e
la continuità delle cure, all’interno di un sistema a rete, costituisce l’elemento oggi irrinunciabile di risposte adeguate a bisogni complessi”.
I soggetti principalmente in-
teressati a questo modello di
cura e di assistenza, sempre
più numerosi, sono da individuare nelle persone portatrici
di malattia di lunga durata ed
invalidanti, persone con problemi di salute mentale, anziani non autosufficienti o affetti dalle patologie della vecchiaia, disabili, malati terminali, in ultima analisi persone
che, insieme ai loro caregivers,
necessitano di essere presi in
carico nella complessità dei
loro bisogni e supportati per
un periodo protratto nel loro
ambiente di vita.
Nel campo specifico della salute mentale la continuità terapeutica ed assistenziale assume grande rilevanza e si
declina come continuità nel
progetto di cura e di assistenza non solo tra il servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura e le unità territoriali dei centri di salute
mentale17, ma anche tra le diverse unità operative del dipartimento.
Definiamo la continuità terapeutico assistenziale come la
presa in carico, continuata
nel tempo e nello spazio, della
persona e del suo contesto socio-familiare, attraverso un
progetto terapeutico abilitativo individuale assunto da una
microequipe multidisciplinare
del centro di salute mentale.
Per presa in carico intendiamo l’insieme delle pratiche complesse e su molteplici piani che un’équipe multidisciplinare assume e mette in atto nell’incontro con
la persona che si rivolge,
15 Di Munzio et al., Manuale pratico di Psichiatria territoriale, Idelson-Gnocchi, 2009.
16 Intervista a Franco Rotelli a cura di Anna Poma Che tipo di servizi vorresti se andassi fuori di testa, Animazione Sociale, dic. 2009.
17Le unità operative del dipartimento di Salute mentale hanno tutte sede nel territorio, tranne il servizio psichiatrico di diagnosi e cura allocato in un
presidio ospedaliero.
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La continuità assistenziale
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direttamente o indirettamente, al centro di salute mentale e che riguardano la persona nella sua globalità e il suo
contesto, e non solo della
malattia. La presa in carico,
nel linguaggio psichiatrico,
fa riferimento per lo più a
persone con disturbo mentale
severo che necessitano di un
intervento complesso e multidisciplinare, mentre di norma si parla di trattamento in
riferimento alle prestazioni
tecnico-professionali erogate
da un singolo operatore o, in
un numero minore di casi, da
più di un operatore, nei confronti di persone con disagio
o disturbo mentale meno rilevante e con una situazione di
contesto non significativamente problematica.
La presa in carico non è somma di prestazioni specialistiche, spesso frammentate, che
segmentano la persona in bisogni separati a cui diversi
professionisti forniscono risposte in una logica di causalità lineare, ma il farsi carico,
prendere in cura la persona
nella sua globalità e il suo
contesto attraverso un progetto terapeutico abilitativo
individuale, da parte di una
microéquipe.
Il progetto terapeutico abilitativo individuale, formulato
dal gruppo curante con la
persona e con i suoi familiari,
partendo dai bisogni di salute, è volto a promuovere il
raggiungimento di un equilibrio e benessere possibili e,
attraverso percorsi di abilitazione individualizzati, l’accesso per il soggetto al pieno
diritto di cittadinanza. Sono
le aree dell’abitare, le forme e
i luoghi dell’abitare, la formazione, la possibilità e capacità di fare, il reddito, il lavoro, la socialità, l’affettività
quelle nelle quali attivamente interviene il progetto individuale, quindi i determinanti sociali di salute.
Appare utile specificare che le
risposte ai differenti bisogni
non mettono solo in gioco le
competenze e le risorse del
servizio di salute mentale, che
altrimenti potrebbe quasi assumere una funzione tutoria e
di “sequestro”, ma complessivamente quelle dei servizi sociosanitari attraverso progetti
integrati, quelle della comunità, ed anche della persona
stessa, ancorché residue, della
famiglia e della rete sociale. Si
investe quindi prima di tutto
sul “capitale sociale” di cui
ognuno è titolare.
Per quanto la continuità terapeutica ed assistenziale possa considerarsi una modalità
operativa dei servizi di salute
mentale, quando non una filosofia, questa assume particolare rilevanza in riferimento alle persone con disturbo
mentale severo, persone che
necessitano, insieme al contesto socio-familiare, di essere sostenute, supportate nella quotidianità e per un periodo prolungato, persone
quindi a rischio di esclusione
dal contratto sociale e che
fanno fatica ad accedere ai
diritti di cittadinanza.
Responsabile della continuità
terapeutico assistenziale è il
centro di salute mentale, dac-
ché “regista” dei percorsi cura, dei progetti di salute individuali dei soggetti nei diversi momenti di una storia –
della crisi, della cura, della
abilitazione, dell’inclusione,
dell’emancipazione, della recovery. Sono gli operatori del
centro di salute mentale i referenti/case manager della
persona in cura indipendentemente dalla presenza temporanea di questa in una specifica unità operativa del dipartimento. Parliamo di responsabilità nella presa in carico del servizio nel suo complesso, anche se sempre devono essere individuati gli
operatori di riferimento per
ogni singola persona.
Garante della continuità terapeutico assistenziale nel progetto individuale è la microequipe. Ci riferiamo a un sottogruppo multidisciplinare
della équipe complessiva del
centro di salute mentale che
opera in un definito “sottoterritorio” del servizio – può
trattarsi di più quartieri, paesi, comuni… a secondo della
morfologia del territorio.
La suddivisione della équipe
del centro in microéquipe
permette agli operatori di conoscere con maggiore approfondimento il territorio in
cui ogni gruppo opera, le sue
risorse, le aree a rischio, di
conoscere con maggiore appropriatezza le persone ad alta priorità e di essere riconosciuti. La microéquipe promuove, discute e condivide i
progetti individuali, discute
le strategie degli interventi
più complessi, condivide de-
cisioni e responsabilità, può
significativamente supportare il momento di fatica di un
operatore. La microequipe
garantisce continuità nel
progetto di cura ed assistenziale, ma anche permette
flessibilità; fa sì che l’assenza
temporanea, per differenti
motivi, di un operatore non
determini la sospensione del
progetto o ancora più gravemente l’abbandono della persona; può favorire la possibilità che la persona in cura
scelga l’operatore di riferimento, con cui sperimentare
un rapporto più fiduciario.
La continuità terapeutico-assistenziale è presa in carico
continuata nel tempo, oltre il
momento della crisi, per tutto il tempo di cui una persona necessita per il raggiungimento di un ben-essere, di
una indipendenza ed emancipazione possibili. È continuità di presa in carico nello
spazio, nei luoghi quindi dove la persona vive o di volta
in volta viene a trovarsi:
ospedale, carcere, ospedale
psichiatrico giudiziario, casa
di riposo, ecc…
È il territorio, l’ambiente “naturale” di vita delle persone,
il luogo elettivo della presa in
carico, dell’assistenza e del
governo dei percorsi di salute, anche nelle situazioni di
crisi. In questa ottica il ricovero nel servizio psichiatrico
ospedaliero viene previsto solo nelle situazioni in cui si
sono rese inefficaci le risposte messe in atto dal centri di
salute mentale per garantire
la cura nel territorio18.
L’Art. 35 della legge n. 833/78 prevede che una delle tre condizioni per cui è possibile attuare un Trattamento sanitario obbligatorio “in condizioni di degenza ospedaliera” siano le situazioni in cui non è possibile “adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.
18
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L’intervento domiciliare assume così significativa rilevanza. non solo come momento
di conoscenza del contesto
in cui la persona vive, di valutazione dei determinanti
sociali della malattia, di conoscenza delle relazioni familiari ed ambientali, ma come supporto concreto ed intervento terapeutico nei
confronti della persona, anche in crisi, e del suo contesto socio-familiare, di mediazione dei conflitti nella famiglia, nel vicinato… e non
da ultimo come possibilità di
sperimentare e far sperimentale un differente rapporto
di potere tra curante e curato. In ogni caso non può solo
ridursi ad una prestazione
sanitaria, per es. la somministrazione di una terapia
depot, ma essere relazione
terapeutica che passa anche
attraverso una prestazione
meramente sanitaria.
Nel lavoro psichiatrico si parla comunemente di “visita
domiciliare”, ma l’intervento
può svolgersi non solo a casa
della persona, ma anche nella
strada, nel bar, nel luogo di
lavoro, ecc…
Nell’intervento domiciliare
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La continuità assistenziale
grande importanza assumono
gli operatori non medici, in
particolare gli infermieri, ma
non si ritiene, come molte
volte accade in alcuni dipartimenti, che l’intervento domiciliare del medico possa solo
riguardare l’intervento domiciliare in urgenza, ma deve riguardare il progetto di cura
in tutte le sue fasi.
Da ultimo va sottolineato
che la continuità terapeutica ed assistenziale determina la possibilità del riconoscimento precoce delle situazioni che possono determinare il riemergere di una
crisi in una persona in carico o lo svilupparsi di disturbi mentali in una persona a
rischio.
L’avvio di soluzioni per affrontare queste situazioni,
in un rapporto di cura continuato può di ridurre la gravità e la durata delle crisi, o
delle recidive, quando non lo
sviluppo di una situazione di
crisi; può diminuire o non
rendere necessario il ricorso
ricovero e perfino il ricorso
al trattamento sanitario obbligatorio.
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Conclusioni
Da quanto detto appare evidente che la pratica della continuità assistenziale in salute
mentale ha a che vedere prioritariamente con la concezione della sofferenza mentale e
della cura, ma anche con il
modello organizzativo dei Servizi, con gli stili operativi, con
la formazione degli operatori,
perché non basta, anche se
assume grande valore, garantire alla persona una continuità, ma il problema rilevante è quali sono le direttrici
dell’azione terapeutica.
Riteniamo che il modello organizzativo – cornice strutturale e gestionale che informa gli stili operativi e le pratiche – che meglio può garantire la continuità terapeutica
ed assistenziale in salute
mentale è il centro di salute
mentale sulle 24 ore, dotato
di posti letto per l’accoglienza diurna e notturna.
Tale servizio – a bassa soglia,
responsabile della salute di
un territorio definito, aperto
ed attraversato dalla comunità, dotato di una équipe
multidisciplinare, integrato
con i servizi sociali e sanitari
e con i gruppi del territorio –
si articola in ambulatori, ma
anche in spazi collettivi, per
attività e scambi, dove la persona può sviluppare competenze ed aumentare opportunità, dove può trascorrere del
tempo in maniera consapevole e con significato, per contrastare l’isolamento, l’abbandono e l’ozio non scelto,
ma anche per diminuire il carico familiare.
Tale Centro è il luogo nella comunità dove la persona con
esperienza di malattia e la sua
famiglia possono sperimentare l’incontro, percorsi di ricostruzione di identità, senso e
potere in un tempo non scandito dalle necessità del ricovero ospedaliero, in un habitat
connotato da una architettura
della quotidianità, in un rapporto di contiguità temporale
e spaziale con gli operatori di
riferimento e in una vicinanza
con la propria casa e le proprie
relazioni. E contemporaneamente permette agli operatori
di sperimentare una conoscenza dell’altro con sofferenza, ma anche del proprio agire
terapeutico, fondata sull’incontro con il soggetto nella
sua interezza di bisogni e di
espressività.
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