00sommario 69:00sommario 1 20-04-2010 14:59 Pagina 1 Sae l ute Territorio Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Francesco Carnevale Bruno Cravedi Laura D’Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Carlo Hanau Gavino Maciocco Mariella Orsi Daniela Papini Paolo Sarti Luigi Tonelli Alberto Zanobini Comitato Editoriale Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze Mario Del Vecchio, Professore Associato Università degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze Luigi Setti, Direttore Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria - FORMAS Alberto Zanobini, Dirigente Settore Risorse umane, Comunicazione e Promozione della salute, Regione Toscana Segreteria di redazione Simonetta Piazzesi 349/4972131 Segreteria informatica Marco Ramacciotti Direzione, Redazione [email protected] http://www.salute.toscana.it Edizioni ETS s.r.l. Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158 [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] Questo numero è stato chiuso in redazione il 15 aprile 2010 179 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria Anno XXXI - Marzo-Aprile 2010 Sommario 70 A. Panti La responsabilità nelle attività mediche Monografia La continuità assistenziale 77 C.R. Tomassini Un nuovo modello culturale, professionale ed organizzativo 80 F. Di Stanislao, M. Visca, G. Caracci, F. Moirano Sistemi integrati e continuità nella cura 90 A. Bussotti La riorganizzazione delle cure primarie 93 R. Maricchio, M. Pellizzari, A. Silvestro L’assistenza infermieristica 97 L. Livatino, L. Roti L’integrazione dei profili professionali 99 F. Di Stanislao, G. Caracci, F. Moirano I sistemi di indicatori 110 C. Cislaghi Modelli di remunerazione delle prestazioni 115 G. Amunni Il malato oncologico 119 V. Boscherini Lo scompenso cardiaco 124 D. Inzitari Il paziente con ictus cerebrale 128 G. Del Giudice L’assistenza psichiatrica Abbonamenti 2010 Italia € 41,32 Estero € 46,48 Fotocomposizione e stampa Edizioni ETS - Pisa Per abbonarsi: www.edizioniets.com/saluteeterritorio Pagamenti online con carta di credito o PayPal 01Panti 70:01Panti 70 20-04-2010 Sae l ute Territorio 70 Antonio Panti Presidente dell’Ordine dei medici di Firenze P remetto due considerazioni. La prima: il problema degli “errori medici”, della cosiddetta malpractice, sta turbando i medici, protagonisti della nuova condizione di essere oggetto di richieste di risarcimento o di contenzioso giudiziario. I medici sentono minacciata la loro autonomia professionale, quale posizione di garanzia per il paziente, e percepiscono quasi una diminuzione del prestigio di cui hanno sempre goduto a causa dell’aiuto offerto nella sofferenza. Nasce così la medicina difensiva, che preoccupa gli amministratori che ne avvertono la dannosità per l’assistenza e per le scarse risorse disponibili nella sanità. Il sottosegretario Fazio ha prudenzialmente stimato in circa il 15% della spesa sanitaria (oltre 15 miliardi di euro, rispetto ai 106 miliardi di spesa sanitaria pubblica nel 2007) gli oneri derivanti da accertamenti richiesti in vista di eventuali contenziosi. Nel processo decisionale medico sono presenti sia variabili cognitive che contestuali inerenti la disponibilità di strumenti o la peculiarità del paziente. A queste si aggiungono variabili economiche derivanti dai costi delle decisioni e altre inerenti il rischio di subire richieste risarcitorie. È questa la medicina difensiva che si definisce “posi- 15:09 Pagina 70 Medicina difensiva N. 179 - 2010 La responsabilità nelle attività mediche tiva”, quando si aumenta la richiesta di prestazioni in ciascun singolo caso, oppure “negativa”, quando si allontanano i casi a maggior rischio di errore. In Italia non esistono ricerche approfondite, escluso una recentissima dell’Ordine di Roma che dimostra come il medico abbia una percezione del rischio giudiziario assai maggiore della realtà, certamente per il peso di una pressione mediatica che ne influenza il comportamento. Secondo questa ricerca una percentuale variabile tra il 70 e il 90% dei medici (in particolare in chirurgia, ostetricia, Pronto soccorso e medicina generale) ha talora richiesto prestazioni per cautelarsi rispetto a possibili guai assicurativi, temendo, ove fosse stato omesso quell’accertamento, di essere più esposti al contenzioso. In Italia, rispetto agli USA, sembra assai minore il fenomeno del patient screaming, cioè l’evitamento del caso difficile. La medicina difensiva rappresenta una inaspettata anomalia della pratica medica che oggi sempre più ricerca la “appropriatezza”, cioè un’elevata attenzione qualitativa alla prestazione mediante la cosiddetta “medicina basata sulle evidenze”, e quindi fonda le decisioni su prove di efficacia. Talora la causa di richieste di accertamenti risie- Come affrontare e gestire il concetto di “colpa medica” de nel timore di un rischio per il medico, il contrario della cosiddetta “gestione del rischio clinico”, volta invece a garantire la miglior sicurezza del paziente rispetto ai possibili incidenti insiti nella estrema complessità della medicina moderna. Prima di entrare nel merito si impone una seconda considerazione. Oggi i medici sono quasi tutti dipendenti o convenzionati, incardinati nel servizio pubblico. L’indipendenza che i medici riaffermano è libertà di giudizio a letto del paziente, nel suo esclusivo interesse. La medicina è atto individuale nella relazione tra medico e paziente, fondamento e cardine della prassi medica, ma l’esercizio professionale si svolge sempre all’interno di percorsi assistenziali complessi, ove cooperano molteplici professionalità e discipline. Il medico ne è il leader, ma l’organizzazione ne condiziona i risultati, la dotazione e la funzionalità degli strumenti è essenziale, il lavoro in gruppo prassi ineludibile; la responsabilità del singolo è nei fatti difficilmente definibile. Inoltre l’organizzazione del servizio (la filiera decisionale dal direttore sanitario a quello di unità operativa semplice) ha responsabilità nella causazione di eventi avversi anche attraverso il meccanismo dell’assegnazione, all’interno di ciascuna procedura, di compiti ai singoli operatori. Il concetto di responsabilità medica è molto vasto perché testimonia ancora, all’interno del rapporto di cura, il senso profondo di un’autentica relazione tra medico e paziente, piuttosto che l’emergere di aspetti contrattuali. Tuttavia la responsabilità oggettiva si sposta, nei moderni complessi sistemi di cura, verso l’organizzazione, dal momento che il percorso di cura è affidato a équipe multiprofessionali e pluridisciplinari, secondo protocolli e linee guida in cui ogni professionista, medico e non medico, opera sempre secondo modalità coordinate e correlate. Un’ulteriore premessa: purtroppo sui cosiddetti “errori medici” si sono costruite campagne di stampa cervellotiche. “Una strage di pazienti per gli errori dei medici” titolava a quattro colonne un servizio sull’argomento uno dei maggiori quotidiani italiani. Sono estrapolazioni ipotetiche, lontanissime dalla realtà che, tuttavia, gettano 01Panti 70:01Panti 70 28-04-2010 10:10 Pagina 71 Sae l ute Medicina difensiva Territorio 71 N. 179 - 2010 discredito sui medici, generano burn out, cioè disamore per la professione, e favoriscono la medicina difensiva. I dati certi in nostro possesso, purtroppo solo la Toscana e la Lombardia dispongono di flussi informativi affidabili, non sono molti. Farò riferimento ai dati del Servizio sanitario toscano, raccolti dal Centro regionale per la gestione del rischio clinico e per la sicurezza del paziente (CGRC), unico in Italia. Le richieste di risarcimento sono circa 1500 ogni anno, circa 14 ogni 10.000 ricoveri. Qualche discrasia dipende dalla lieve differenza tra sinistri denunciati e quelli accaduti nello stesso anno. Vi sono certamente eventi avversi che non sono stati oggetto di richiesta risarcitoria ma il trend sociale fa pensare che il loro numero non modifichi sostanzialmente il quadro. La distribuzione degli importi liquidati per gravità mostra che il 57,2% (Fig. 1) dei danni si colloca al di sotto di 5000 €e quelli di importo inferiore a 50.000 € rappresentano il 93% dei casi. I rarissimi fatti gravi tuttavia finiscono sulla stampa e in lunghissimi procedimenti penali; nessuno darà notizia dell’eventuale assoluzione del medico. È interessante confrontare le stime del ministero della Salute con i dati toscani. Risalta l’enormità della spesa assicurativa pubblica, cui deve aggiungersi la quota versata dai medici per assicurare la colpa grave. Risalta la ingente entità delle riserve e, più che altro, la differenza tra la somma dei premi versati e quella degli importi liquidati più le riser- ve. Nel 2004 risultano erogati dal Servizio sanitario nazionale quasi 540 milioni di euro in premi assicurativi (Fig. 2). Nel periodo 2003/07 l’onere per premi assicurativi delle ASL toscane si situa intorno ai 45 milioni di euro per anno. La somma delle liquidazioni e delle riserve non ha ma superato i 18 milioni di euro. Come si giustifica questa differenza? Infine non è irrilevante per i cittadini che anche i casi risolti in sede assicurativa si trascinano per più anni. Un danno ulteriore rispetto a quello già subìto. In 5 anni il numero dei sinistri non conclusi entro l’anno dalla denuncia è quasi raddoppiato. Infine meno del 20% dei sinistri finiscono dal magistrato, il 15% in civile, il 4% in penale. Circa 300 casi ogni anno in Toscana; non pochi e con tendenza in aumento. Le specialità più esposte a richieste risarcitorie sono l’ortopedia, la chirurgia, la ostetricia, la medicina d’urgenza; ovviamente le compagnie assicurative richiedono agli specialisti premi più onerosi che, nella professione privata, si traducono in aumento degli onorari. La distribuzione dei sinistri pone al primo posto l’errato intervento e, subito dopo, le cadute, poi l’errore diagnostico e terapeutico. Qualche ulteriore considerazione si impone: due fenomeni caratterizzano i sistemi sanitari moderni, la numerosità delle prestazioni e la complessità delle attività. La possibilità di un evento aumenta con la grandezza della popolazione di riferimento. La Toscana ha 3.600.000 abitanti; ogni anno si registrano circa 700.000 ricoveri ospedalieri, circa 1.500.000 accessi al Pronto soccorso, circa 400.000 interventi di emergenza territoriale, circa venti milioni di prestazioni specialistiche e quasi altrettanti di medicina generale. La spesa sanitaria pubblica supera i 7 miliardi di euro. Ancor più rilevante è l’estrema complessità di qualsivoglia percorso assistenziale necessario anche nella casistica più semplice. In un piccolo ospedale si eseguono decine di migliaia di procedure diverse. Nessuna impresa industriale ricorre a tante “catene di montaggio” per ottenere il prodotto finale, nel nostro caso la diagnosi e la terapia che produca i migliori risultati per il paziente. Insistiamo su questi aspetti perché i vertici dell’azienda sanitaria sono corresponsabili, con le loro scelte sulla dotazione e turnazione del personale, sulla assegnazione delle risorse e sull’organizzazione ambientale, della riuscita di tutte le singole prestazioni che nell’insieme vano a comporre il percorso assistenziale di ciascun paziente. Una breve digressione. Negli anni sessanta la mortalità per parto (entro cinque giorni per cause legate al parto) era di 150 donne ogni 100.000 parti (dati Istat); da oltre 10 anni l’Italia è allineata con i migliori servizi sanitari del mondo e la mortalità per parto è di 3 donne ogni 100.000 parti. Standardizzando i dati su 600.000 parti, negli anni sessanta si perdevano ogni anno 900 donne, oggi 18; una diminuzione di cinquanta Fig. 1. Distribuzione degli importi liquidati per gravità. Gravità = fascia economica 01Panti 70:01Panti 70 28-04-2010 Sae l ute Territorio 72 10:10 Pagina 72 Medicina difensiva N. 179 - 2010 Fig. 2 volte, un risparmio incredibile di vite in così pochi decenni. Un vero miracolo della scienza medica. Al di sotto di questi risultati la medicina per ora non è in grado di scendere perché non può prevedere e curare alcune complicazioni, con nessun mezzo disponibile. Tuttavia allora la morte per parto era considerata una fatalità accettata dalla società e dalla magistratura; nei casolari sperduti si partoriva con la sola levatrice che nessuno chiamava in giudizio. Oggi quasi tutti i ginecologi coinvolti in simili tragici eventi ricevono almeno un avviso di garanzia. Tuttavia gli incidenti accadono; talora sono realmente delle “fatalità”, talora sono attribuibili a errori del medico. Secondo il ministero della Salute e la moderna ergonomia gli “eventi inattesi durante un processo assistenziale che provocano danni e sono prevenibili” possono derivare da errori individuali del medico, cognitivi o per violazioni di regole, ma nella mas- sima parte dei casi (l’85% secondo i dati della ASL fiorentina) sono errori organizzativi, cioè possono essere scoperti e non reiterati attraverso procedure di risk management, cioè di gestione del rischio connesso con qualsiasi procedura clinica. Occuparsene, scoprirli e evitarne la ripetizione è garanzia per la sicurezza del paziente. L’articolo 14 del Codice di deontologia medica, approvato nel dicembre 2006, si intitola “sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico”. È ben chiara ai medici una sorta di regola cautelare, propria anche del diritto. Il rischio connesso a ogni atto medico (pensiamo alla rarissima ma grave e imprevedibile allergia al paracetamolo) deve essere inferiore al rischio connesso colla patologia. Talora il bilanciamento non è semplice, ecco l’importanza dell’informazione completa e del consenso. Tuttavia molti rischi possono essere evitati con precise misure precauzionali, quando non siano legati a difficoltà intrinseche al caso ma alla inadeguatezza organizzativa o alla violazione di norme. Tuttavia, che fare quando si sta per perdere il malato in attesa che tutto sia in regola? A differenza del diritto che si fonda sulla ponderata riflessione, l’agire del medico spesso costringe a decisioni probabilistiche in tempi ristrettissimi. Il Codice deontologico è fonte normativa minore, tuttavia citato nelle sentenze della Cassazione. Quindi ne puntualizziamo alcuni concetti. Scopo precipuo del medico è il miglioramento della qualità delle cure: a tal fine deve rilevare, segnalare e valutare gli errori. Dal momento che dalle sue segnalazioni possono emergere fatti che potrebbero portarlo in tribunale, prevarrà l’interesse del medico o quello del paziente? Il medico,comunque, deve utilizzare ogni strumento conoscitivo disponibile e mettere in atto i comportamenti utili ad evitare la ripetizione di errori, sia che questi abbiamo causato eventi avversi, sia che non abbiano provocato alcun danno, col fine di impedire che un comportamento errato ma prevenibile possa infine provocare il danno finora scongiurato. Il Codice sottolinea come questi strumenti di indagine debbano essere riservati, alla stregua di quanto accade in moltissimi paesi dove esistono leggi “ad hoc” (dalla Danimarca agli USA a molti altri). In un sistema giuridico come il nostro, portare a superficie i rischi è aiutare i pazienti o autolesionismo? La giusta punizione dei colpevoli può trovare bilanciamento con la prevenzione dei rischi insiti nei processi assistenziali complessi della medicina moderna? Indubbiamente nell’agire medico sono insiti molteplici rischi, alcuni connessi alla peculiarità di ciascun paziente e ai possibili eventi avversi legati alla terapia; altri connessi con la continua innovazione tecnologica e scientifica che offre soluzioni sempre più tecnicamente ardue; altri, infine, frutto di errori cognitivi o latenti (organizzativi). La loro valutazione è imperativo morale per i medici che debbono interessarsi degli eventi gravi ma ancor più delle azioni insicure, dei near misses, la cui correzione può evitare danni futuri che, invece, grazie a questo impegno, non si verificheranno. Tutte le indagini svolte nel mondo danno lo stesso risultato: per ogni mille azioni insicure, risolte sul momento dal personale impegnato, cento provocano lievi incidenti, dieci danni gravi, una sola è mortale. L’errore, 01Panti 70:01Panti 70 20-04-2010 15:09 Pagina 73 Sae l ute Medicina difensiva Territorio 73 N. 179 - 2010 secondo James Reason, forse il maggior esperto in ergonomia medica, “mostra il fallimento di un’azione pianificata per raggiungere uno scopo desiderato”, in questo caso la migliore cura per il paziente. L’errore medico ha interesse assicurativo quando provoca un danno che il medico avrebbe potuto evitare. Su questo tripode, danno, causa, negligenza, si fonda la responsabilità del singolo. Ma, come abbiamo già detto, l’azione fallisce per lo più per problemi organizzativi, di alterazioni, sconnessioni, inadeguatezze, incoerenze, nelle procedure assistenziali. Allora colpa e responsabilità perdono molto della loro pretesa intersezione. Un’altra digressione è inevitabile. Anche in recentissime sentenze l’infermiere è definito come “ausiliario”, capace solo di atti delegati, la cui responsabilità in vigilando resta tutta del medico. Non spetta a me ricordare la legislazione vigente sulle professioni sanitarie, non più ausiliarie né soggette a mansionari, bensì composte da laureati che, nel caso delle scienze infermieristiche, “svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e alla salvaguardia della salute individuale e collettiva” come recita la l. 251/00. Si discute ormai di specializzazioni universitarie infermieristiche e moltissime prestazioni sono svolte da infermieri, ostetriche o altri laureati, in autonomia gestionale, sia pur sulla base di idonei percorsi formativi e di protocolli condivisi. Ricordo l’infermiere di triage nel Pronto soccorso, le ambulanze infermieristiche del 118, il parto fisiologico, i compiti degli infermieri nel territorio o in terapia intensiva e molte altre situazioni di cura. Mantenere la responsabilità unica del medico in servizi di Pronto soccorso cui accedono oltre duecento pazienti al giorno (oltre sessantamila all’anno) è impensabile anche perché si sottrarrebbe il medico a prestazioni importanti per impegnarlo nel togliere un tappo di cerume. L’adeguamento della giurisprudenza alla realtà sanitaria è ineludibile. Ma un punto nodale in tema di rischio clinico è rappresentato dagli “eventi sentinella” che, secondo la definizione del ministero della Salute, è “un evento avverso di particolare gravità, potenzialmente indicativo di un serio malfunzionamento del sistema”. Il ministero, in linea con le indicazioni dell’OMS, impone, al verificarsi di una di queste evenienze, un’indagine immediata cui far seguire l’adozione e il rafforzamento di misure preventive. In Italia vi è un settore del ministero della Salute dedicato al rischio clinico, mentre in molti paesi esistono strutture indipendenti come l’inglese NICE (National Institut for Clinical Excellence) o l’american JHCO (Joint Health Commission for Clinical Organization). In pratica tutti gli “eventi sentinella”, secondo la classificazione ministeriale, ripresa da quella dell’OMS, dal suicidio del paziente, al materiale lasciato all’interno del sito chirurgico, alla morte imprevista a seguito di intervento, possono es- sere potenziali reati procedibili d’ufficio. Questi organismi dedicati alla sicurezza del paziente agiscono sul piano formativo, organizzativo, tecnologico e di controllo per ridurre il rischio clinico: ridurre, perché l’eliminazione ne è tecnicamente impossibile. Non a caso la più importante pubblicazione del Governo USA sull’argomento si intitola To err is human. E in realtà la sanità, come ogni sistema procedurale, ha molte difese ma anche smagliature o buchi; gli incidenti sono molto rari rispetto ai rischi (1 su 1000, secondo gli studi più aggiornati) perché le reazioni del personale e del sistema fanno sì che non sia molto probabile che, per errori attivi o – meglio – per l’emergere dei fattori latenti, le smagliature si allineino in modo da consentire il passaggio di un vettore negativo. Le organizzazioni internazionali della sanità considerano la prevenzione dei rischi, cioè il clinical risk management quale componente essenziale di quello che viene chiamato “governo clinico”. In passato il ruolo dei medici e degli amministratori nelle organizzazioni sanitarie era ben distinto. Oggi sia gli uni che gli altri sanno che è possibile conseguire finalità comuni (le migliori cure per il paziente) solo se si concerta tra tutti gli attori l’organizzazione del servizio e si concorda all’interno di una cornice comune (le risorse disponibili) l’assegnazione delle strutture, delle tecnologie, del personale, garantendo innovazione e, più che altro, uguaglianza di trattamento per ogni pazien- te. Secondo il ministero della Sanità inglese il governo clinico è uno strumento per favorire il continuo miglioramento della qualità del servizio, creando un clima in cui possa fiorire l’eccellenza delle cure. Ebbene una funzione integrale del governo clinico è la gestione del rischio cioè la capacità di diminuire la probabilità di incorrere in un errore umano. Uno dei principali strumenti di governo clinico è l’audit. Questo, secondo la definizione del NICE, è “un processo di miglioramento della qualità finalizzato a migliorare i servizi sanitari tramite la revisione sistematica dell’assistenza rispetto a criteri espliciti e l’implementazione del cambiamento”. L’audit si svolge secondo procedure codificate dall’ergonomia, all’interno del gruppo di lavoro interessato all’esame della criticità, sotto la guida di un esperto esterno e deve essere attuato ogni volta che si debba prevenire oppure si sia concretizzato un evento avverso, tanto più se si tratta di evento sentinella, in modo da capirne la genesi e di adottare le opportune azioni di cambiamento. Sono evidenti le differenze tra audit, inchiesta interna dell’azienda e inchiesta giudiziaria, che tutte possono conseguire a un evento avverso (Fig. 3). Nell’audit non si debbono stabilire responsabilità ma solo individuare criticità per correggerle. Le finalità della medicina e del diritto, per quanto siano diverse, debbano convivere perché si propongono scopi ugualmente importanti per la tutela dei cittadini e della società. Finora il proble- 01Panti 70:01Panti 70 28-04-2010 Sae l ute Territorio 74 10:10 Pagina 74 Medicina difensiva N. 179 - 2010 Fig. 3. Audit, inchiesta interna amministrativa, inchiesta giudiziaria a confronto. ma ha avuto scarsa risonanza perché l’Italia, rispetto agli altri paesi occidentali, è in ritardo nelle procedure per la gestione del rischio clinico. A parte qualche iniziativa in alcune ASL emiliane o lombarde, solo in Toscana esiste un centro regionale con una pratica consolidata nella gestione degli audit clinici. Tuttavia in Toscana si sono già create incomprensioni con i magistrati inquirenti che è necessario dissipare. A questo punto è possibile formulare qualche proposta. La medicina ha raggiunto traguardi impensabili ma, nello stesso tempo, ha creato illusioni e delusioni che i media hanno enfatizzato. Così i medici vivono una professione in cui si ripongono speranze estreme e dalla quale si hanno risposte formidabili ma che può condurre anche sul banco degli imputati. E i medici, in caso di sospetto errore, si trovano davanti non solo i problemi assicurativi ma, talora, quelli del giudizio civile e penale, accompagnati sempre da procedimenti disciplinari aziendali e ordinistici. Cinque tipi di giudizio da affrontare; il burn out ne è conseguenza inevitabile. Il costo in denaro e in perdita di fiducia per la sanità che deriva dal vigente sistema di risarcimento del danno è pesantissimo e poco utile sia ai pazienti che ai medici. Occorre individuare soluzioni che restituiscano serenità al me- dico mentre svolge la sua delicata missione. Infine occorre avere ben presente che un sistema di gestione del rischio che fondi il suo approccio col paziente e con i familiari sulla trasparenza, sulle doverose scuse e sulla garanzia che il sistema sta imparando dagli errori, limita molto il contenzioso. I medici esperti sanno che i pazienti per lo più si appagano col “sapere quel che realmente è successo” e con la offerta di scuse nonché con la garanzia che il sistema potrà cambiare. Un confronto chiaro e sereno blocca sul nascere gran pare della litigiosità. Non tutta però, e quindi occorre affrontare alcuni nodi, raccordandone la soluzione ai moderni sistemi di tutela della sicurezza del paziente. A parere degli Ordini dei medici è indispensabile ripensare il concetto di colpa medica, favorire soluzioni extragiudiziarie del contenzioso, riflettere sulla qualificazione dei periti e chiarire le differenze tra inchiesta giudiziaria e audit clinico. Nessuno vuol diminuire il livello di tutela giuridica del cittadino; però si dovrebbero individuare nuovi assetti, capaci di rispondere all’organizzazione della medicina moderna, limitando il ricorso dei medici alla medicina difensiva e tentando di contenere i costi assicurativi della sanità. Riflettiamo sul fatto che la carenza di fondi limita l’offerta di 01Panti 70:01Panti 70 20-04-2010 15:09 Pagina 75 Sae l ute Medicina difensiva Territorio 75 N. 179 - 2010 cure innovative. Il sistema risarcitorio sembra dominato da una sorta di aggressività poco produttiva. I danni esistono e così le responsabilità del sistema e, in minor misura, del singolo. È constatazione inconfutabile, tuttavia, che pochissime persone sono risarcite e in tempi biblici. Altresì il sistema sanitario funziona bene ma mai del tutto bene. Grazie agli enormi successi della medicina le persone, quando il successo manca, non possono non chiedersi se qualcosa non ha funzionato e perché. Tuttavia il processo non è una soluzione soddisfacente, se non altro per i suoi costi e per la sua incredibile lunghezza. Insomma solo pochissimi danneggiati ottengono un risarcimento mentre moltissimi altri, che non ne avrebbero diritto, impegnano tribunali e denaro pubblico. Per questo la soluzione è difficile, perché ogni facilitazione al risarcimento potrebbe subissare il servizio sanitario di cause aumentando enor- memente la spesa. Secondo la Federazione degli Ordini dei medici occorre obbligare le aziende sanitarie pubbliche e private alla copertura assicurativa dei rischi derivanti dall’attività medica, affermando la responsabilità diretta della struttura sanitaria per fatto illecito commesso da qualsiasi professionista di cui essa si avvalga anche occasionalmente. Ciò non avrebbe effetto deflattivo sul contenzioso; tuttavia si avrebbe una più elevata tutela del danneggiato, una riduzione dei costi da medicina difensiva e una elevazione degli standard di sicurezza assistenziale. Un sistema tipo no fault in cui l’onere della prova da parte del danneggiato sarebbe alleggerito; forse occorrerebbe definire condizioni di idoneità della richiesta risarcitoria senza distinguere tra casi sfortunati e vittime di negligenze, a parte la colpa grave. Insomma risarcimenti forfettari in tempi prestabiliti. Ancora una volta il Parlamen- to sembra intenzionato a promulgare una legge sulla responsabilità professionale. Una legge siffatta dovrebbe rendere obbligatoria la conciliazione o l’arbitrato, la cui conclusione positiva dovrebbe inibire ogni successivo ricorso al giudice; i dati economici danno conto dell’opportunità di creare un fondo di garanzia gestito direttamente dalle ASL. Infine vi è l’esigenza di istituire un albo dei periti che affianchino il medico legale. La troppo difforme qualità delle perizie rende opportuna una norma sulla selezione dei tecnici e sull’ordinaria collegialità dell’incarico peritale. Siamo di fronte all’incontro di due scienze probabilistiche, la medicina e il diritto, che si confrontano nelle situazioni cliniche in cui, come è stato scritto “i fatti sono incerti, i valori in conflitto, i rischi elevati e le decisioni urgenti”. Ultima questione è quella degli audit in caso di eventi procedibili d’ufficio o quando vi sia stata querela. In molti paesi la leg- ge secreta gli audit, vietandone l’uso in giudizio. Senza preordinare soluzioni, tuttavia il problema non può essere eluso e meriterebbe un qualche chiarimento interno alla magistratura che evitasse incresciosi equivoci. In alcuni Ordini dei medici si stanno sperimentando forme di conciliazione senza, ad oggi, risultati significativi. La Regione Toscana, d’intesa con la Federazione regionale degli Ordini, e con il supporto della Facoltà di giurisprudenza fiorentina, ha avviato un tentativo di conciliazione nell’Azienda di Careggi con franchigia fino a 100.000 euro. Un importante sperimento da cui ci attendiamo esiti positivi. In conclusione è importante ridurre nei medici la percezione di rischiare, nel delicato momento della decisione clinica, tranquillità, prestigio e ruolo. È necessario modificare la normativa vigente per riuscire a risarcire i danni senza attendere anni e, nello stesso tempo, a migliorare la sicurezza delle cure. Bibliografia Iadecola G. (1998), Potestà di curare e consenso del paziente, CEDAM. Barni M. (1999), Diritti e doveri, la responsabilità del medico, Giuffré. Ministero della Salute (2006), Rilevazione nazionale sugli aspetti assicurativi in ambito di gestione aziendale del rischio clinico, Roma. Centro Regionale Gestione Rischio Clinico Regione Toscana, Sinistrosità regionale, Rapporto 2003/2006. Cipolla C. (2006), Il contenzioso sociosanitario, Franco Angeli. Codice Deontologico dei Medici FNOMCeO 2006. Collana studi giudiziari della FNOMCeO (1999), Il rischio in medicina oggi e la responsabilità professionale, Roma. Comandé G., Turchetti G. (2004), La responsabilità sanitaria, CEDAM. Gardini A. (2007), Verso la qualità, Centro Scientifico Editore. Geddes da Filicaia M. (2008), Guida all’audit clinico, Il Pensiero Scientifico. Giunta F. (2009), Medicina e Diritto Penale, Edizioni ETS. Gray M., Ricciardi W. (2008), Per una sanità di valore, Ed. Iniziative Sanitarie. Guzzanti E. (2009), L’assistenza primaria in Italia, Ed. Iniziative Sanitarie. Ministero della Salute FNOMCeO IPASVI (2009), Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico, Biblioteca la Professione, Roma. Ministero della Salute, Commissione tecnica sul rischio clinico, Rapporto 2004. Ordine dei Medici di Roma (2008), I medici e la malpractice, Bollettino dell’Ordine di Roma, 6. Palazzo F. (2009), Responsabilità medica, disagio professionale e riforme penali, Diritto penale e processo, 9. Quaderni della FNOMCeO (1997), La professionalità del medico oggi, responsabilità e rischi, Roma. Seminario ASL 10 (2003), Risk management e responsabilità del medico, Firenze. Speranza L., Tousijn W., Vicarelli I. (2008), I medici in Italia, Il Mulino. Vincent Ch. (2007), Patient safety, Esse Editrice. 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 76 La costruzione di un modello sociosanitario che preveda e organizzi l’intero percorso di cura del paziente superando le attuali separatezze LA CONTINUITÀ ASSISTENZIALE Il contributo fondamentale delle reti e dei processi assistenziali La comunicazione e l’interazione delle strutture ospedaliere e territoriali Gli ambiti specialistici in cui si determinano le più significative mancanze di collegamento e di collaborazione fra i servizi a cui si rivolge il malato Esperienze “sul campo” Monografia a cura di Claudio Galanti [email protected] 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 77 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 77 N. 179 - 2010 Carlo R. Tomassini Direttore generale Azienda ospedalierouniversitaria pisana R icordo ancora perfettamente come in occasione della analisi di un evento sentinella in un ospedale (era circa il 2000, si muovevano allora i primi passi dell’interesse verso i nuovi metodi di analisi e della gestione del rischio clinico) raccogliemmo, con i miei colleghi, la percezione del vissuto dell’esperienza del ricovero di una paziente attraverso un primo tentativo di narrative medicine (altro tipo di nuovo strumento di valutazione). Un lungo racconto che, come una sceneggiatura di un film, ripercorreva la stessa esperienza di quel ricovero in modo per certi versi drammatico, in ogni caso completamente diverso dalla prospettiva tecnica ma sostanzialmente algida della scheda FMEA che avevamo utilizzato noi. Si trattava del caso di una paziente alla quale nel giro di qualche giorno erano state cambiate terapie dai diversi membri della équipe medica della struttura, senza che vi fosse una apparente motivazione: su questo avevano inciso anche diverse e contrastanti scelte diagnostiche, alcune delle quali invasive. Il decorso, apparentemente tranquillo, si complicò e la degenza della paziente si tra- Un nuovo modello culturale, professionale ed organizzativo sformò in un lungo periodo di sofferenza. Dalla scheda FMEA si capiva che qualcosa non aveva funzionato nelle relazioni fra i medici del reparto ma mai così chiaramente come dalla lettura dell’esperienza raccontata dalla signora. La percezione chiara che i vari operatori che si succedevano al suo letto non erano minimamente a conoscenza del ragionamento clinico del collega che li aveva preceduti, la tranquillità con cui ognuno dei medici formulava quindi alla signora la propria presunta diagnosi e gli accertamenti conseguenti, la sicumera e la autoreferenzialità con la quale la propria diagnosi veniva affermata. Terapie iniziate e poi cessate. Infine l’incapacità di capire chi si sarebbe preso in carico il suo problema i giorni successivi. Una sensazione di fortissimo abbandono e solitudine, con tanta ansia e paura, dentro il luogo più tecnologico, professionale e teoricamente sicuro, come un ospedale. Questo insieme di cose potrebbe essere utile per derivarne una prima descrizione del termine continuità delle cure, cosa di cui spesso parliamo invece dalla prospettiva per noi più facile, quella di conoscitori, anche molto Dalla erogazione di prestazioni alla presa in carico del paziente esperti, del nostro servizio. Da questa prospettiva spesso operiamo profonde riflessioni ed analisi del fenomeno, descriviamo e classifichiamo le varie tipologie di continuità (quella informativa, quella gestionale, quella relazionale e volendo anche altre), ed infine sviluppiamo e proponiamo delle raccomandazioni che, pur utilissime, mancano spesso di ciò che più ci serve: una teoria sistemica corredata di strumenti operativi per realizzarla. Questo argomento ci porta direttamente al tasto forse più dolente dei nostri sistemi sanitari e che ritengo utile richiamare nel nostro caso. Se guardiamo indietro al secolo scorso (già pochi anni fa) e volessimo sintetizzare ciò che è accaduto negli ultimi decenni nel nostro mondo non credo avremmo dubbi a segnalarne la fortissima caratterizzazione tecnologica. La facilità con cui siamo capaci di assorbire tutte le innovazioni che vengono offerte dal mondo della chimica (farmaci ed altro), della bioingegneria (protesi ed altro), della genetica (terapie geniche), della elettronica (sistemi robotici), dell’informatica (algoritmi diagnostici e terapeutici), della fisica (grandi macchine oncologiche) ecc. è assolutamente straordinaria. Su questa offerta spesso si è formata e specializzata la nostra forza professionale. Solo da un mondo non siamo stati capaci di assorbire altrettanto velocemente conoscenze e formazione, quello della scienza dei sistemi. Un mondo conosciuto da tutto il resto delle aziende ed industrie, non sanitarie, non solo di prodotto ma anche di servizio. Un mondo che potrebbe aiutarci a gestire meglio il complesso sistema che oggi siamo, e far funzionare bene insieme, coordinandole, sincronizzandole, integrandole, le tantissime sue componenti. Componenti non solo professionali (medici, infermieri, tecnici e così via) ma anche disciplinari (medicina, pediatria, chirurgia etc) e organizzative (aziende ospedaliere e aziende territoriali ad esempio). All’interno di questo mondo vi sono modelli, teorie ed anche molti strumenti operativi in grado di aiutarci a lavorare 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 78 78 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale con maggiore attenzione al cosiddetto mondo delle operazioni che permette sostanzialmente di creare un ambiente di lavoro “a prova di professionisti” piuttosto che “basato sui professionisti”, con il risultato di creare ambienti robusti ed affidabili, con alti gradi di sicurezza intrinseca, rispetto ai risultati che devono essere garantiti ai nostri utenti. In questo nuovo ambiente anche le competenze e le professionalità del singolo professionista hanno maggiori capacità di espressione e valorizzazione. Il tema che oggi vogliamo affrontare è quello della continuità delle cure. Credo che come linea guida potremmo cercare di capire prima di tutto cosa significhi continuità per il paziente, come nel nostro esempio, all’interno di un ospedale; oppure nel momento di passaggio fra livelli di cura diversi come tipicamente si realizza nel momento delle dimissioni verso il domicilio; o ancora fra professionisti all’interno della rete di richiesta di consulenze e prese in carico. Su queste basi (dando per scontato che il lettore sia già ampiamente a conoscenza dell’argomento e abbia già avuto modo di confrontarsi su questo tema nella pratica clinica e/o gestionale) forse risulta più facile capire quali sono i nodi critici su cui conviene lavorare di più per assicurare risultati migliori di quelli che oggi otteniamo (indipendentemente quindi dal loro valore assoluto, ottimo o meno). Suggerirei solo tre argomenti, abbastanza puntuali, su cui ritengo che lavorare con conoscenze e strumenti diversi possa portare a risultati decisamente interessanti. Il primo oggetto di discussione è relativo ai dati, alle informazioni che si generano ad ogni incontro tra un paziente ed un professionista sanitario: oggetto che poi si trasforma, nelle raccomandazioni sulla continuità delle cure, e si classifica sotto la voce comunicazione. Il paradigma prevalente in questo processo è che i dati sono di proprietà di chi li esegue e non del paziente. I segnali che validano il paradigma sono molti: quando il paziente esce da un ospedale o da un ambulatorio esce con una sintesi di ciò che è accaduto, sintesi più o meno esaustiva, più o meno corredata (spesso meno) da immagini diagnostiche o da descrizioni dell’iter diagnostico seguito. Per avere accesso alla completezza dei dati il paziente deve farne richiesta, deve attendere i tempi necessari e non di rado deve anche pagare per il servizio. Frequentemente, nei casi ad esempio di malattie croniche, la sintesi è ancor più sintetica perché serve maggiormente al curante che al paziente, col risultato che questi pazienti, che tipicamente richiedono una collettività di specialisti (pensiamo ad un paziente diabetico piuttosto che un paziente reumatico), spesso arrivano allo specialista di turno con un corredo informativo non esaustivo e anche di cattiva qualità. Tutte le raccomandazioni in tema di comunicazione, che lavorano stressando il paradigma prevalente, cerca- N. 179 - 2010 no conseguentemente di innalzare la compliance dei medici nella adesione alla chiarezza e completezza delle informazioni. Il sistema cerca quindi, attraverso i suoi operatori (sistema basato sui professionisti) di spingere i dati e le informazioni verso la tappa successiva insieme al paziente. Questo sforzo, per esperienza credo di tutti, ottiene risultati, anche quando apprezzabili, di relativa breve durata. Cambiando paradigma gli sforzi possono essere indirizzati invece verso soluzioni diverse e di lunga durata. Se il nuovo paradigma fosse “i dati sono del paziente: sono sua proprietà e quindi lo accompagnano sempre”, come faremmo a realizzare questo obiettivo? Molto probabilmente troveremmo delle soluzioni diverse che non si affidano alla, seppur lodevole, adesione all’obiettivo da parte degli operatori, ma soluzioni intrinsecamente, nativamente capaci di realizzare l’obiettivo, indipendentemente dalle caratteristiche del professionista: ciò che si diceva, un sistema a prova di professionista. Forse, se il paradigma fosse stato questo dall’inizio, non ci troveremmo oggi a confrontarci con i mille problemi, tipici di tutte le nostre aziende, della informatizzazione dei reparti, delle cartelle cliniche, dei numerosissimi programmi che sono nati e cresciuti e diffusi all’interno dei nostri sistemi, senza ordine e senza coerenza e che di fatto ci rendono assolutamente immobili rispetto alle decisioni da prendere. È peraltro da ricordare che il driver della ricerca di informatizzazione dell’informazione, anche oggi, non è tanto legato a questo nuovo standard quanto ancora a necessità prioritariamente dell’azienda (controllo dei costi, controllo dei volumi delle prestazioni, controllo dei parametri di ribaltamento costi in funzione della ricerca del controllo del budget), il che non è proprio consolante. Ecco quindi che un grande sforzo verso la gestione sicura delle informazioni può diventare una soluzione importante. La carta sanitaria su cui la Regione Toscana, ma non solo, si sta avviando lavora proprio in questa direzione. Ogni incontro del paziente con il SSR viene registrato e tracciato e lo accompagnerà sempre dovunque vada. In questa direzione si possono muovere anche tutte quelle iniziative che, sfruttando le tecnologie oggi disponibili, riescono a realizzare con maggiore facilità il contatto fra i vari professionisti che lavorano sul paziente, quindi ecco che i sistemi RisPacs non sono solo sistemi per realizzare delle economie legate al filmless ma anche e soprattutto oggetti che rendono facilmente disponibili le informazioni più critiche fra gli operatori. La possibilità legata alla rete internet o intranet permette un rapido scambio, anche in tempo reale, fra professionisti con il paziente in ambulatorio evitando di ripercorrere la logica delle richieste di consulenza con la discontinuità temporale sottesa. Il secondo oggetto è il lavoro fra professionisti diversi o 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 79 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 79 N. 179 - 2010 gruppi diversi. Questo è ormai un dato consolidato. Se oggi parliamo di continuità di cure è solo perché la medicina è cambiata, e la diffusa e strabiliante crescita delle conoscenze e delle competenze ha determinato anche una corrispondente frammentazione sul versante professionale. Da qui la necessità di assicurare che i vari e spesso numerosi elementi di conoscenza che vengono generati intorno al paziente trovino sempre il modo di associarsi allo stesso. Tutti gli esperti della gestione qualità conoscono l’affermazione secondo la quale “la qualità cade ai confini delle professioni, delle discipline e delle strutture” e di conseguenza la necessità di mantenere grande attenzione proprio su queste “terre di nessuno” attraverso cui passa solo il paziente. Già la considerazione espressa in precedenza potrebbe in parte risolvere l’argomento ma questo punto suggerisce anche aree di intervento diverse. Se è reale il pericolo di una caduta di tensione ai confini che abbiamo detto, forse risulterebbe allora conveniente creare delle aree di overlapping fra professioni, discipline e strutture in grado di attenuare il rischio del passaggio. È in questa direzione che credo vada letto l’orientamento verso il teamworking con il superamento della più tradizionale forma di organizzazione delle strutture monoprofessionali e/o monospecialistiche. Il tutto può essere reso poi più robusto cercando di realizzare un sistema organizzato ed esplicito di relazioni attese fra le varie figure coinvolte e necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di cura: è il settore classico delle clinical paths. Il valore aggiunto di tali strumenti è rappresentato dalla esplicitazione del ruolo di ciascuno nella realizzazione dell’obiettivo, dalla immediata evidenza che nessuno, senza il contributo degli altri, riesce ad ottenere il risultato atteso e che il proprio intervento risulta, al pari degli altri, indispensabile, infine dal fatto che esiste anche una relazione temporale da rispettare nello svolgimento del percorso di cure e quindi la necessità di acquisire capacità di relazione fra i membri dell’équipe. Un aspetto particolare, in questo contesto, e molto importante sia per la numerosità che per la criticità, è rappresentato dal momento della dimissione ospedaliera. La particolarità è legata spesso sia ad un passaggio fra due livelli di cura estremamente diversi, l’ospedale e il proprio domicilio, sia al fatto che il passaggio avviene fra due mondi professionali culturalmente e organizzativamente diversi, nei tempi di intervento e nella concentrazione multi professionale che caratterizza l’ospedale rispetto al territorio. L’atteggiamento da vincere e superare riposa sul fatto che questo momento, la dimissione, è ampiamente conosciuto, previsto e prevedibile sin dall’entrata del paziente nell’ospedale. Straordinariamente, ancora oggi, nella maggior parte dei casi il momento della dimissione è il momento più critico perché solo il giorno stesso spesso ci si accorge delle difficoltà che il paziente incontrerà nel suo rientro al domicilio, dalla necessità di presidi, di farmaci, di istruzioni mediche, di assistenza anche sociale. Di nuovo il paziente registrerà tutta una serie di piccole difficoltà che, insieme, potrebbero vanificare il grande e sofisticato sistema di diagnosi e cura realizzato poco prima, con il risultato di outcome imperfetti o di reingressi ospedalieri. Ecco che in questa direzione si potrebbero muovere dei sistemi organizzati, come in tante realtà sta avvenendo, di agenzie ospedaliereterritoriali che, sin dai primi giorni del ricovero, inizino a realizzare un triage del paziente per capire se la sua dimissione sarà possibile senza ostacoli e senza difficoltà, preparando i familiari in tempo, attivando la rete dei servizi sociali e realizzando una continuità stretta con il medico di medicina generale e del servizio infermieristico territoriale. I lavori, anche italiani, che hanno sperimentato modelli integrati, fra ospedale e territorio, della gestione della dimissione e del follow-up in pazienti anziani, riescono a dimostrare una riduzione dei tassi di mortalità. Il terzo oggetto è la continuità delle cure nella dimensione tempo. Questo aspetto è spesso trascurato oppure letto solo nella monodimensionalità del tempo della lista di attesa. Questo è peraltro il campo in cui maggiore è la responsabilità e visibilità di intervento della organizzazione sanitaria, là dove il mondo della scienza dei siste- mi può portare i suoi maggiori contributi e aiutarci a risolvere uno dei problemi che maggiormente affliggono i nostri sistemi. Se è vero, come abbiamo detto, che il percorso del paziente è spesso il risultato di tantissimi interventi che idealmente si connettono fra loro come tanti pezzi di un puzzle, quindi con un ordine e una posizione precisi, per dare tutti insieme la vera e perfetta immagine che stiamo cercando, non possiamo accontentarci di questo. Abbiamo bisogno anche di considerare la continuità temporale con cui questi pezzi del sistema si correlano fra loro. L’ideale è rappresentato da un succedersi, senza soluzione di continuità, di tutte le attività necessarie. Il fattore tempo è sicuramente, in generale, una caratteristica di un servizio che apprezziamo tutti moltissimo nei termini di tempestività. Nel caso di un servizio sanitario la tempestività assume sempre più valore diagnostico e terapeutico, e con questa nuova dimensione dobbiamo confrontarci. A livello dei nostri servizi già abbiamo problemi di apparente sproporzione fra domanda e offerta con la prima che supera di gran lunga la seconda, se chiediamo di aggiungerci anche il rispetto, per ogni singolo paziente, di una continuità temporale senza soluzioni, allora rischiamo realmente di stressare il sistema al punto da creare danni enormi. (segue a pag. 89) 02monografia 76:02monografia 75 Sae l ute Territorio 80 F. Di Stanislao1,2 M. Visca1, G. Caracci1 F. Moirano1 1 Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali 2 Università Politecnica delle Marche La conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze. E. Morin Q uesto contributo si pone l’obiettivo di condividere con i lettori alcuni approdi (gli “arcipelaghi di certezze”) sul tema integrazione/continuità maturati nel corso del nostro percorso formativo e nelle nostre esperienze professionali di programmazione e organizzazione sanitaria. Tali approdi sono stati alimentati dall’esperienza sul campo e dalla fertilizzazione crociata con altri saperi (la sociologia, l’epistemologia, le scienze organizzative, la pedagogia, ecc.) che hanno rappresentato un faticoso processo di continua destrutturazione del sapere, ma nel contempo un percorso euristico di ricerca, di scoperta, di apprendimento che ha influenzato profondamente il nostro modo di leggere la realtà organizzativa e di orientare/condizionare scelte e decisioni operative. Navigare nell’incertezza In sanità tutto è in continua trasformazione, instabile, incerto. Di seguito si riporta una sintetica riflessione su tre termini di riferimento del nostro navigare nel paradigma reticolare dei servizi sanitari. 20-04-2010 15:16 Pagina 80 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 Sistemi integrati e continuità nella cura Le conoscenze L’espansione e l’accelerazione delle conoscenze in campo biomedico, manifestatesi tumultuosamente nel corso degli ultimi decenni, si trascinano come conseguenza necessità e rischi (Morin, 1985). – necessità è quella di sviluppare discipline sempre più specifiche per delimitare un dominio di competenza, senza il quale la conoscenza diventerebbe inafferrabile. La segmentazione disciplinare estrae, svela o costruisce un oggetto non banale per lo studio scientifico; – rischi sono quelli della compartimentalizzazione, frazionamento, riduzionismo del sapere cui consegue una inevitabile iperspecializzazione che si trascina di conseguenza: • l’unidimensionalizzazione del multidimensionale, • la disgiunzione dei problemi, separando ciò che è tessuto insieme (complexus), • la generazione di una sorta di autosufficienza della disciplina, una “cosificazione” dell’oggetto studiato e processi di inarrestabile e progressiva autoreferenzialità, nonché conseguen- Implementazione delle reti e dei processi assistenziali ti distorsioni interpretative e perdita della visione dell’insieme. Questa situazione, si scarica drammaticamente sui professionisti della sanità chiamati da una parte ad un continuo rimodellamento delle conoscenze specialistiche/particolari (si stima che nell’arco di un quinquennio metà del patrimonio cognitivo deve essere aggiornato) e delle operatività che ne derivano, dall’altro a dare vita a nuove forme assistenziali ed assetti organizzativi per assicurare ai pazienti interventi “olistici” sempre più globali e completi in termini tecnici, relazionali e sociali. Una tensione su poli opposti (iperspecializzazione/ pensiero sistemico) che non è presente in altre organizzazioni di servizi alla persona e che è vissuta quotidianamente dagli operatori e spesso misconosciuta dai manager/politici che governano il sistema. L’organizzazione Viviamo tutti l’incessante rimodellizzazione del SSN negli aspetti normativi e negli assetti organizzativi (Fiorino, 2008; Goldstein, 2008). Assi- stiamo ai continui mutamenti del numero e della varietà delle strutture interne alle aziende sanitarie, agli ospedali, ai distretti per rispondere più compiutamente ai bisogni dei cittadini. Dipartimenti, unità operative complesse e semplici, di valenza differenziata, incarichi professionali di alta specializzazione hanno occupato il posto dell’organizzazione precedente, molto più semplice, basata su divisione, servizio e sezione. Nelle organizzazioni sanitarie, vi è un continuo reciproco processo di adattamento di un’unità alle altre e dell’intera organizzazione all’ambiente esterno. Ogni reparto è libero di agire, capace di azione semiautonoma, è collegato agli altri reparti da legami non rigidi, non sempre e non tutti codificabili. Ognuno di essi è formalmente autonomo e ha risorse, confini, obiettivi specifici ma non può funzionare senza gli altri. Ogni “reparto” è indispensabile agli altri e a sua volta ha bisogno degli altri. Il funzionamento di un’organizzazione sanitaria non dipende solo dal comportamento 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 81 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 81 N. 179 - 2010 delle sue unità organizzative, ma anche da quello dei singoli professionisti che vi operano. Essi sono agenti individuali e rappresentano l’unità elementare della complessità delle organizzazioni sanitarie. Ai medici, e ai professionisti sanitari, si richiede capacità di prendere decisioni e di agire in modo indipendente e, se la situazione lo richiede, la capacità di coordinare la propria attività con quella di altri. I professionisti della sanità operano con una considerevole autonomia decisionale e sono di conseguenza restii ad assumere una posizione subalterna o a perseguire obiettivi organizzativi che siano non direttamente collegati ai loro scopi professionali. Essi attribuiscono maggiore valore al riconoscimento professionale che a quello ottenuto dall’organizzazione. Accettano il controllo quando è esercitato “tra pari”, e non da un’autorità gestionale o sulla base di norme organizzative. La possibilità terapeutica è affidata al coordinarsi di molti operatori di molti servizi. Di qui nasce la particolare difficoltà del coordinamento e del controllo delle organizzazioni sanitarie. I pazienti Sono sempre più complesse, articolate e consapevoli le domande rivolte alla medicina: non più solo cura ma salute, benessere, prevenzione, assistenza, riabilitazione, promozione della salute, educazione alla salute. Quello che un tempo era il “malato”, ora viene definito utente, cliente, 1 cittadino-utente. L’approccio centrato sul paziente affianca e integra quello centrato sulla malattia. Sappiamo che spesso per curare un paziente dobbiamo estendere le nostre competenze alla sua dimensione sociale, culturale e psicologica. Viene richiesto di essere distaccati osservatori della malattia e contemporaneamente di essere capaci di empatia ed empowerment. Dobbiamo abituarci a considerare il paziente soggetto degli interventi che lo riguardano e non oggetto dell’agire medico. Dobbiamo imparare a sviluppare la capacità di coping (ability to cope, capacità di fare fronte), elemento, questo, che, in contrasto con il classico concetto di “prendere in carico” (che sottintende un rapporto di dipendenza e di potere), pone l’accento sull’importanza dell’autonomia e delle “modalità riequilibranti” interne a ogni individuo (risorsa fondamentale nel caso delle malattie croniche), e, in una prospettiva sociale, sull’importanza del coping verso l’ambiente visto non solo in termini individuali, ma anche collettivi (Di Stanislao, 2000). temporalità, di non dimenticare mai le totalità integratrici”. Riteniamo che i concetti d’integrazione e, come suo epifenomeno, continuità abbiano rappresentato gli obiettivi sottostanti a tutte le innovazioni attuate nelle organizzazioni. In campo sanitario l’obiettivo è quello di ridurre la frammentazione nell’erogazione dell’assistenza attraverso il potenziamento del coordinamento e della continuità della cura all’interno e tra le diverse istituzioni variamente coinvolte nell’assistenza dei pazienti con problemi complessi (Ovretveit, 1998). Integrazione Per quanto riguarda le tipologie d’integrazione rispetto al bisogno dell’utente e alla sua complessità si possono riprendere le tradizionali distinzioni di Leutz (1999) (Fig. 1): linkage, coordination e full integration. – Linkage. Relazioni funzionali semplici tra servizi diversi, con un approccio all’integrazione che richiede pochi cambiamenti e che Gli obiettivi della navigazione: integrazione/continuità Morin ci ha insegnato che “il metodo della complessità richiede di pensare senza mai chiudere i concetti, di spezzare le sfere chiuse, di ristabilire le articolazioni fra ciò che è disgiunto, di sforzare di comprendere la multidimensionalità, di pensare con la singolarità, con la località, con la Cfr. anche l’articolo Di Stanislao et al. in questo stesso numero della rivista. opera nel contesto degli attuali sistemi frammentati. – Coordination. Attua un ribilanciamento e un’integrazione del sistema attraverso la creazione di una terza infrastruttura e meccanismi appositamente definiti, in cui soggetti/organizzazioni diverse mantengono la propria autonomia, ma si coordinano in modo sistematico per consentire di superare il gap tra la pluralità di servizi e gli utenti, senza stravolgere il sistema esistente. – Full integration. Implica un’organizzazione unitaria e una modalità di governo centralizzata, che riguarda la completa revisione e il consolidamento di tutte o della maggior parte delle responsabilità, delle risorse e dei finanziamenti esistenti. È rivolta prevalentemente a particolari gruppi di soggetti. Continuità1 La comunità scientifica appare, nel suo complesso, concorde con le indicazioni emerse Fig. 1. Tipologie integrazione. 02monografia 76:02monografia 75 Sae l ute Territorio 82 dal rapporto del CHSRF (Reid et al., 2002) che individua due elementi core e tre tipologie della continuità assistenziale. I due elementi core che definiscono il concetto di continuità dell’assistenza sono: – l’esperienza dell’interazione tra l’individuo e gli operatori che forniscono assistenza (providers); – l’assistenza fornita nel corso del tempo. Stante gli elementi core della continuità, questa è declinata attraverso tre tipologie di dimensioni: 1. Continuità relazionale (Relational continuity). Consiste nella relazione continua del paziente con diversi professionisti sanitari e sociosanitari che forniscono assistenza in modo organico, coerente e attento allo sviluppo del percorso di trattamento in senso prospettico. 2. Continuità gestionale (Management continuity). Questo si realizza attraverso un’azione complementare e temporalmente coordinata e integrata dei servizi/professionisti coinvolti nel sistema di offerta assistenziale. È particolarmente importante in patologie cliniche croniche o complesse, che richiedono l’integrazione di più attori professionali/istituzionali nella gestione del percorso paziente. 3. Continuità informativa (Informational continuity). Permette la comunicazione tra i soggetti istituzionali/professionali che afferiscono ai differenti setting assistenziali nel percorso di cura del paziente. Ri- 20-04-2010 15:16 Pagina 82 La continuità assistenziale guarda informazioni non solo sulla condizione clinica, ma anche sulle preferenze, le caratteristiche personali e di contesto, utili ad assicurare la rispondenza al bisogno di salute. Gli arcipelaghi di certezza: reti e processi assistenziali La traduzione istituzionale e operativa delle logiche di integrazione/continuità dell’assistenza è nella progettazione e implementazione delle reti e dei processi assistenziali, che riteniamo siano, a oggi, strumenti ineludibili per perseguire gli obiettivi fondamentali del nostro sistema sanitario (equità, efficacia, efficienza) attraverso: – La promozione delle dinamiche di clinical governance e l’integrazione dei percorsi assistenziali tra le diverse istituzioni coinvolte (strutture di medicina di base, ospedaliera, territoriale, ecc.) per far fronte alla complessità dei bisogni e ai trend epidemiologici (invecchiamento popolazione, cronicizzazione, pluripatologia, ecc) che spingono verso approcci pluridisciplinari e forme di integrazione verticali (tra i diversi livelli assistenziali) e orizzontali (all’interno degli stessi livelli). – L’attivazione di processi di benchmarking e benchlearning al fine di permettere alle singole componenti della rete di disporre di informazioni e dati utili a promuovere processi di miglioramento gestionali, finanziari e qualitativi. N. 179 - 2010 – La razionalizzazione del sistema di offerta dei servizi sul territorio al fine di evitare duplicazioni in alcuni luoghi e carenza in altri. – Il garantire una politica centralizzata degli investimenti soprattutto per ciò che riguarda tecnologie ed impianti ad elevata specializzazione e alti costi di acquisto e gestione. – Il perseguimento di economie di scala grazie all’accentramento di alcune funzioni in staff (acquisti, amministrazione, manutenzione, ecc.). Le reti Nei sistemi sociali, economici, istituzionali e aziendali da tempo sono emersi modelli di organizzazione complessa ma flessibile, caratterizzati dalla presenza di forme di cooperazione tra soggetti individuali e collettivi che perseguono un comune obiettivo. Tali modelli organizzativi complessi, definibili come reti organizzative o imprese di reti, sono composti di soggetti individuali e collettivi ad alta capacità di auto-organizzazione, che instaurano tra di loro modalità differenti di relazione reciproca, costruiscono delle relazioni più stabili e strutturate e agiscono in riferimento ad obiettivi condivisi, cercando linguaggi comuni, condividendo valori, dotandosi di sistemi di coordinamento e controllo e di monitoraggio (Meneguzzo, 2008). Il nucleo delle reti cliniche è la rete dei professionisti di una determinata famiglia professionale che decide dove allocare i saperi della specialità e i servizi a essi collegati (Lega e Tozzi, 2009). I network (reti) sono soluzioni istituzionali e gestionali nate dall’interdipendenza di più aziende, pubbliche, private, per affrontare problemi complessi e per la necessità di avere infrastrutture adeguate agli sviluppi internazionali o alle riforme dei sistemi di welfare (O’Toole, 1997; Rittel e Webber, 1973). Nel settore pubblico le reti si caratterizzano come naturale evoluzione delle logiche di public governance e dei processi propri dell’economia della regolazione. Esse si caratterizzano come knowledge e labor intensive, con servizi di alta personalizzazione e dominanza dagli assetti intangibili, in linea con la società della conoscenza. La logica reticolare permette di affrontare in modo più sistematico le necessità di gestione unitaria di bisogni sanitari sempre più complessi, in un contesto di sostenibilità economiche. Gli elementi caratterizzanti la rete In merito ai contenuti delle reti interorganizzative Gugiatti (1996) ha individuato tre elementi base che caratterizzano qualsiasi configurazione interorganizzativa. – I nodi della rete, quelle parti (aziende, enti, strutture; comuni, distretti, strutture funzionali, gruppi, di lavoro,gruppi professionali,gruppi sociali, persone) che costituiscono la rete stessa e che secondo Butera (1990) presentano la capacità di sopravvivere autonomamente e di comunicare con gli altri 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 83 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 83 N. 179 - 2010 sistemi per lo scambio di valori ed informazioni. – Le connessioni della rete, i legami a due a due tra i nodi che consentono la trasmissione e la diffusione all’interno della rete degli artefatti (fisici, intellettuali, informativi) prodotti da ciascun nodo (Cartoccio e Fabbro, 1992): cooperazione lavorativa (fare); connessioni burocratiche (eseguire disposizioni); informazioni (trasmettere e ricevere informazioni); comunicazioni (intendersi); impegni e obblighi; processi decisionali, ecc. (Pipan, 2009). – Le proprietà operative della rete, ciò che definisce il funzionamento della rete comprendendo sia la dimensione culturale (ad es. l’insieme di linguaggi, i codici e valori che guidano i comportamenti) sia le scelte di assetto dei sistemi operativi (ad es. pianificazione e controllo, ricerca e sviluppo, gestione del personale). La tipologia delle reti In sanità i modelli operativi di integrazione delle organizzazioni secondo il concetto di rete sono numerosi e potenzialmente infiniti, in quanto si distinguono principalmente per l’intensità e l’eventuale natura gerarchica delle relazioni funzionali fra i punti di produzione dei servizi, e oscillano tra due dimensioni: le reti integrate orizzontali e verticali. Integrazione orizzontale Le reti integrate orizzontali prevedono la concentrazione della gestione del sistema reticolare di produzione, senza individuare a priori una gerarchia fra i punti di produzione. Esse sono orientate a realizzare la cooperazione fra erogatori che operano in uno stesso setting assistenziale e sono finalizzate a stabilire una collaborazione clinica sistematica che si concretizza nella condivisione di conoscenze, informazioni e modalità operative. Butera (1990) la definirebbe rete paritetica senza un vero centro gravitazionale (es.: i dipartimenti ospedalieri; i dipartimenti transmurali; i dipartimenti interaziendali; i servizi distrettuali).Tale modello prevede, al fine di sfruttare la massima potenzialità dei servizi presenti nel territorio, di mettere in rete tutte le differenti tipologie di prestazioni all’interno di una stessa branca o area di attività che le differenti realtà aziendali attualmente erogano in maniera frammentata o disomogenea in modo da offrire a tutti i cittadini lo stesso livello di servizi e con la stessa qualità. Integrazione verticale La traduzione organizzativa del modello di rete sanitaria ad integrazione verticale è il cosiddetto sistema hub & spoke che prevede la concentrazione dell’assistenza di elevata complessità o rara in centri di eccellenza (hub), supportati da una rete di servizi (spoke) cui competono il primo contatto con i pazienti e il loro invio a centri di riferimento quando una determinata soglia di gravità clinicoassistenziale viene superata e si richiedono competenze in- tense che non possono essere assicurate in modo diffuso, ma devono essere concentrate in centri regionali di alta specializzazione (o tecnologici) cui sono inviati gli ammalati dagli ospedali del territorio. La rete integrata verticalmente ha due obiettivi prioritari: fornire delle economie di scala che derivano dalla condivisione di servizi ed assicurare la continuità assistenziale, poiché tutti i nodi della rete condividono linee guida cliniche e protocolli diagnostico-terapeutici. Il tentativo è quello di conciliare esigenze diverse e talvolta tra loro contrastanti: ossia una distribuzione generale dei servizi sul territorio tale da garantire facilità di accesso ai cittadini, la soddisfazione delle preferenze e delle aspettative di questi ultimi, la concentrazione degli interventi a elevata complessità in centri di riferimento quale garanzia di qualità e sostenibilità dei costi. Un modello che potremmo definire misto (integrazione verticale/orizzontale) è quello del modello poli/antenne dove le specialità e i livelli di intensità sono sparsi nella rete e ogni nodo è contemporaneamente un hub e uno spoke su attività differenti per l’intera rete. Nel “continuum” dell’integrazione orizzontale/verticale possono essere individuate diverse tipologie di network. Tra le tante classificazioni riportiamo quella di Goddwin (2004), ripresa in larga misura dal NHS (Kennedy, 2007), che descrive quattro tipologie generali e strutturali. Le tipologie sopra illustrate so- no forme di organizzazione sociale e derivano dall’incrocio di due dimensioni basilari di un’organizzazione: il livello di regolamentazione sociale (concerne il livello di regole e norme che governano la vita sociale) e il livello di integrazione sociale (riguarda il livello per il quale la vita sociale di un individuo è legata agli altri singolarmente e/o attraverso gruppi). Regolamentazione sociale 1. Hierarchical networks. Sono fortemente regolati e integrati; tali network hanno un core organizzativo (es. uno steering group) che ha l’autorità per governare i membri dei network periferici. Tali network hanno molte caratteristiche delle organizzazioni individuali. 2. Enclave networks. Sono usualmente fortemente integrati e debolmente regolati (struttura piatta). I membri condividono informazioni, idee e strategie e nuovi modelli di lavoro. Queste organizzazioni possono essere anche descritte come network di coalizione di interessi. 3. Individualistic networks. Sono debolmente regolati e integrati. I soggetti (individui o organizzazioni) in tali network cercano di occupare una posizione centrale tra le differenti organizzazioni gerarchiche o enclave al fine di controllare i collegamenti tra tali gruppi. A volte è chiamato network a legame flessibile o network a farfalla. 4. Isolates. Sono fortemente regolati ma debolmente 02monografia 76:02monografia 75 Sae l ute Territorio 84 integrati; gli isolates hanno pochi legami, sono poco responsabili nei confronti degli altri e generalmente non sono coinvolti nei network. Integrazione sociale 1. Learning and informational network. Una forma molto comune di network che permette agli stakeholder di condividere idee e informazioni, best practice, policy e strategie, ma non necessariamente lo sviluppo di nuove strutture di offerta. Finanziariamente sono sostenuti dai membri (individui/organizzazioni) stessi del network e coordinati per lo più da un organo rappresentante o da un’agenzia governativa o da un’istituzione neutra di supporto (es. università). 2. Co-ordinated Health and Social Care Network. Tali network sono più integrati formalmente: lo scopo è quello di promuovere la riorganizzazione del servizio attraverso partnership istituzionali di professionisti. Una forma di network coordinato è il modello hub & spoke che ripartisce ruoli e funzioni tra ospedali al fine di migliorare l’accesso e/o rendere più efficace l’utilizzo del servizio. 3. Procurement network. Soprattutto negli Stati Uniti si è sviluppata la tendenza a provvedere a tutti gli elementi che compongono il “continuum” assistenziale, dall’assicurazione sanitaria ai servizi ospedalieri e non fino al long term care. Tale rete si svi- 20-04-2010 15:16 Pagina 84 La continuità assistenziale luppa attraverso la strategie a livello di corporate, strategie funzionali attraverso lo sviluppo di sistemi informatici e di finanziamento che permettano acquisti comuni e attraverso l’integrazione tra i clinici (case-management). 4. Managed network. È una forma meno co-ordinata e più organizzata, controllabile e chiusa di network. Un esempio è il Kaiser Permanent negli USA che ha: una popolazione definita (cfr gli iscritti); una responsabilità contrattuale per un pacchetto definito e completo di servizi sociosanitari; un network chiuso ad un gruppo ristretto di provider retribuiti (o a contratto o dipendenti); un’enfasi sulle cure primarie e servizi non istituzionali extramurari; un utilizzo di revisioni sistematiche o del disease management per migliorare la qualità. Indipendentemente dalla struttura delle relazioni della rete due, sono le condizioni base che devono sussistere affinché un network si costituisca e perduri nel tempo (Jarrillo, 1988; Grandori, 1989; Luke et al., 1989; Powell, 1990; Cartoccio e Fabbro, 1992; Thomas et al., 1992; Zuckerman et al., 1995): – Deve esistere una comunanza e condivisione di intenti strategici e/o di obiettivi perseguiti dalle organizzazioni inserite nella rete. – Tutte le organizzazioni che partecipano alla rete in qualche modo devono trarre beneficio dalla loro partecipazione ed i meccani- N. 179 - 2010 smi di redistribuzione dei benefici complessivamente accumulati devono essere corretti, equi, trasparenti. Ulteriori requisiti suggeriti da Wall e Boggust (2003) sono: – Supporto di procedure basate sulle prove di efficacia. – Struttura organizzativa e gestionale chiara. – Ricorso costante a processi educativi e di addestramento. – Rappresentazione dei pazienti nella gestione della rete. – Garanzia dei livelli di responsabilità e di qualità. Nella già citata ricerca dell’AgeNaS (2009) il “focus” sui fattori prioritari d’implementazione delle reti cliniche ha evidenziato che il coinvolgimento e la responsabilizzazione dei professionisti della rete (nonché il supporto di un coordinamento tecnico regionale) e la presenza di risorse dedicate rappresentano i due principali fattori che offrono la garanzia di alta probabilità di successo di qualsiasi progetto di rete (Di Stanislao et al., 2009). Quali evidenze sui vantaggi delle reti? In maniera sintetica tra i vantaggi più comuni emersi da indagini di letteratura (Lega, 1998; Wall e Boggust, 2003; Goddwin 2004) possono essere elencati i seguenti: potenziale di cura del paziente senza discontinuità, assistenza integrata attraverso i confini fra le professioni e le valenze assistenziali; differenziazione dei contributi professionali; utilizzo più efficiente dello staff; condivisione di good e best practice; maggiore equità di accesso ai servizi; centralizzazione del paziente nel percorso di cura; protezione e supporto reciproco; sviluppo di opportunità di apprendimento organizzativo; maggiori disponibilità di risorse; economie di scala; prevenzione della duplicazione di sforzi e delle risorse; condivisione dei costi di ricerca e sviluppo; maggiore circolazione delle informazioni e accelerazione dei processi di diffusione dell’innovazione; evoluzione e disponibilità al cambiamento; accesso a nuove risorse manageriali. I processi assistenziali All’interno della logica dei processi assistenziali (Auder et al, 1990; Woolf, 1990; Shekim, 1994; Pearson et al, 1995; Panella et al., 1997,Morosini et al., 2004; Di Stanislao, 2005) si possono ricomprendere tutte quelle strategie assistenziali che identificano, per specifiche categorie di pazienti e in specifici contesti locali, le sequenze degli atti da effettuare al fine di: migliorare gli esiti, contenere le variazioni non necessarie nei trattamenti, ridurre al minimo i rischi per i pazienti, eliminare il più possibile i ritardi e gli sprechi. Le strategie assistenziali basate sulle logiche dei processi affondano le loro radici nell’humus della Evidence Based Medicine (Cochrane, 1999) e si differenziano tra loro per i livelli di attenzione posti, nella loro costruzione e implementazione, alle dimensioni sinteticamente riportate in Tab. 1. Tali strategie si dispongono quindi su livelli di complessità crescente, a secondo delle dimensioni coinvolte, partendo 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 85 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 85 N. 179 - 2010 dai Protocolli diagnostico-terapeutici (PDT) nei quali il “focus” è sugli aspetti prevalentemente clinici con un approccio comunque multiprofessionale e multidisciplinare, fino a giungere al Disease Management dove la rilevanza degli aspetti organizzativogestionali (cultura aziendale, coordinamento organizzativo, sistemi informativi, ecc.) da una parte e l’empowerment/ partnership del paziente, della famiglia e della comunità sono fattori imprescindibili dell’azione assistenziale. Da un punto di vista dei modelli di riferimento si è passati dal modello del Managed Care, nato negli USA intorno alla metà del secolo scorso, quando le industrie avvertirono la necessità di contrattare con le organizzazioni sanitarie pacchetti predefiniti di prestazioni per i propri dipendenti (Fairfield et al, 1997; Robinson e Steiner, 1998), trasferendo le logiche della quality assurance industriale a quello sanitario (i primi percorsi assistenziali derivavano dalla tecnica dei critical pathways – percorsi critici- usata nel mondo industriale per ottimizzare i tempi di lavoro, al Chronic Care Model2, sviluppato sem- pre negli USA dalla metà degli anni ’90 (Katon et al., 1995; Wagner et al, 1996 (1 e 2); Wagner, 1996; Von Korff et al., 1997), nel quale venne ridefinito l’approccio alle malattie croniche spostando i modelli di assistenza da un approccio reattivo, basato sul “paradigma dell’attesa” dell’evento acuto, ad un approccio proattivo, improntato al paradigma preventivo, dell’evitamento o del rinvio nel tempo della progressione della malattia, sull’empowerment del paziente (e della comunità) e alla qualificazione del team assistenziale (sanitario e sociale), paradig- mi che sono alla base del Disease Management. Quali evidenze per gli approcci assistenziali basati sui processi? Nel corso di questi ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi sulla capacità degli approcci legati al Chronic Model Care di migliorare gli outcome di salute (Harris, 1997; Bodenheimer et al., 2002 -1 e 2; Tsai et al., 2005; Ouwens et al., 2005 e di abbassare i costi dell’assistenza (Wagner et al., 2001; Goetzel et al., 2005; Huang et al., 2007; Huang et al., 2008). Analoghe evidenze sono presenti in letteratura sulla capacità dei clinical pathways di migliorare la qualità dei processi (reale applicazione delle raccomandazioni/protocolli/ linee guida diagnostico-terapeutico e assistenziali) e degli esiti (Rotter et al., 2008; Barbieri et al., 2009; Panella et al., 2009). In Tab. 2 si è riporta un quadro sinottico degli elementi concettuali sommariamente sin qui esposti (integrazione – reti – processi – continuità assistenziale) disposti lungo un ipotetico asse di livelli di complessità3. Tab. 1. La logica dei processi di assistenza sanitaria: le dimensioni delle strategie d’intervento. Il Chronic Care Model individua in modo puntuale le variabili fondamentali che rendono possibile un approccio “sistemico” alle malattie croniche, “sistemico” in quanto muove tutte le leve organizzative ed operative per promuovere un approccio appropriato da parte degli operatori. Il Chronic Care Model pone in risalto 6 aree di intervento per migliorare l’assistenza ai pazienti affetti da patologia cronica: 1. Il sistema organizzativo (health system): creare una cultura, un’organizzazione e meccanismi che promuovano un’assistenza sicura e di alta qualità; 2. Il disegno del sistema di erogazione (delivery system design). Assicurare l’erogazione di un’assistenza clinica efficace ed efficiente e di un sostegno auto-gestito; 3. I processi decisionali (decision support). Promuovere un’assistenza clinica che sia in accordo alle evidenze scientifiche e alle preferenze del paziente; 4. Il sistema informativo (clinical information systems). Organizzare i dati relativi ai pazienti e alle popolazioni per facilitare un’assistenza efficace ed efficiente; 5. Il sostegno all’autogestione (self-management support). Potenziare e preparare i pazienti a gestire la loro salute e la loro assistenza; 6. Le connessioni con la comunita’(the community). Mobilizzare le risorse della comunità per incontrare i bisogni dei pazienti. 3 Nota degli Autori: I confini classificatori sono come sempre arbitrari e sfumano l’uno nell’altro, ma riteniamo in estrema sintesi che a bisogni sanitari complessi (patologia mentale, patologie croniche evolutive, soggetti “fragili” come gli anziani, le gravi disabilità fisiche/psichiche/sensoriali, ecc.) occorra rispondere, per avere qualche concreta “chance” di successo, con modelli organizzativi/operativi congruenti e quindi altrettanto complessi. La sintesi proposta, con la inevitabile semplificazione che ogni sintesi comporta, peraltro può essere di ausilio nella navigazione che gli operatori quotidianamente affrontano nel nostro servizio sanitario. 2 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 86 Sae l ute Territorio 86 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 Tab. 2. Bisogni, integrazione, reti, processi, continuità assistenziale e livelli di complessità: un quadro sinottico. Consolidare gli arcipelaghi Sviluppare le reti e i processi? È una domanda retorica in quanto, come giustamente affermano Lega e Tozzi (2009), non abbiamo scelta. E tale scelta è: – “Spinta” dal passato: una risposta ai problemi posti dal disease management che riempiono da un ventennio l’agenda delle politiche sanitarie. – “Tirata” dal futuro: per le considerazioni di ordine epidemiologico (invecchiamento popolazione, cronicizzazione, pluripatologia, ecc), per garantire di prevenire/posticipare la severità delle malattie croniche, per anticipare l’evento acuto e per aumentare i gradi di sostenibilità dell’intervento pubblico. Inoltre, come abbiamo sinte- ticamente riportato, aumentano nel tempo le evidenze della loro capacità di corrispondere alle tre E di un sistema sanitario di qualità: equità, efficacia, efficienza. Quali indicazioni per sviluppare e consolidare questi arcipelaghi in modo da dar sempre più senso fattuale alle parole integrazione/continuità? Innanzitutto ci sembra di grande “saggezza” tener conto delle “leggi” di Leutz (1999) sull’integrazione: – È possibile integrare alcuni dei servizi per tutti i cittadini, tutti i servizi per alcune delle persone, ma non è possibile integrare tutti i servizi per tutte le persone. – L’integrazione ha dei costi prima che dia dei benefici. – La tua integrazione è la mia frammentazione. – Non si può integrare un piolo quadrato e un buco rotondo. – Colui che integra detta il tempo e le regole. La prima legge ci indica un percorso di sano realismo: l’ottimo è il contrario del possibile. Partiamo nell’implementazione delle logiche dell’integrazione dalle esperienze consolidate, anche se solo in alcuni specifici settori, consolidiamo le esperienze e sfruttiamo nel tempo l’effetto di una sana “contaminazione” in altri settori. La terza legge ci richiama a quel doloroso processo indicato in premessa di destrutturazione del proprio sapere e di crisi “professionale”, crisi che, come sintetizzato nell’ideogramma cinese della parola crisi, comporta un pe- ricolo ma anche l’opportunità di avviare un percorso euristico di ricerca, di scoperta, di apprendimento e quindi di miglioramento continuo. Un cambiamento culturale che è possibile, come testimoniano le numerose esperienze in atto. Sembra inoltre opportuno richiamare le indicazioni emerse dall’European Social Network Conference tenutasi a Edimburgo nel luglio del 2005. Nella sintesi del documento Integrated Care. A Guide for Policymakers (Lloyd et Wait, 2005) vengono riportati i punti che seguono: L’assistenza integrata è diventata una componente fondamentale della salute e delle riforme dell’assistenza sociale in tutta Europa. L’assistenza integrata cerca di 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 87 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 87 N. 179 - 2010 colmare la tradizionale divisione tra assistenza sanitaria e sociale. In tal modo, essa può: – affrontare il cambiamento della domanda di assistenza derivanti dall’invecchiamento della popolazione, – offrire un’assistenza che è centrata sulla persona, riconoscendo che gli esiti dell’assistenza sanitaria e sociale sono interdipendenti, – facilitare l’integrazione sociale dei gruppi più vulnerabili della società attraverso un migliore accesso ai servizi della comunità flessibili, – portare ad una migliore efficienza del sistema attraverso un migliore coordinamento dell’assistenza. Mettere i modelli di assistenza integrata in pratica, pone sfide importanti a livello politico, organizzativo e di erogazione dei servizi. L’esperienza di cure integrate finora è limitata, ma promettente. Ulteriori ricerche sono necessarie per garantire che l’applicazione dei modelli proposti è fattibile, sostenibile e si traduce in migliori condizioni di salute. Le politiche devono essere adattate alle realtà locali. Le 8 raccomandazioni per i responsabili politici per portare avanti l’agenda sull’assistenza integrata. 1. Garantire che lo sviluppo delle cure integrato è compatibile con la salute e le altre politiche di assistenza sociale. 2. Fissare obiettivi realistici per i modelli di assistenza integrata. Prestare particolare attenzione alle possibili sfide in fase di esecuzione. 3. Investire nella formazione di tutti i professionisti che per colmare il divario culturale tra assistenza sanitaria e sociale. Questo allo scopo di facilitare il coordinamento delle cure e favorire il rispetto reciproco. 4. Chiedersi per quali soggetti si è cominciata ad inte- Bibliografia AgeNaS (2009), Convegno di presentazione dei risultati del Progetto di ricerca finanziato dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali su: Reti ospedaliere Strumenti e modelli per la programmazione, Roma, 5 dicembre 2009. Auder A.M., Greenfield S., Field M. (1990), Medical practice guidelines: current activities and future directions, Ann Internal Med, 113 (5), pp. 709-14. Barbieri A., Vanhaecht K., Van Herck P., Sermeus W., Faggiano F., Marchisio S., Panella M. (2009), Effects of clinical pathways in the joint replacement: a meta-analysis, BMC Med., 7, 32; Published online 2009, July 1, doi: 10.1186/1741-7015-7-32 grare l’assistenza e trovare il giusto equilibrio tra utenti e fornitori dell’assistenza integrata. 5. Stringere legami più stretti tra responsabili politici, professionisti e ricercatori in modo di apprendere dall’esperienza. 6. Condividere la ricerca e le migliori pratiche all’interno e tra i paesi. 7. Condurre ricerche sul rapporto costo-efficacia per determinare gli effetti dei diversi modelli di assistenza integrata in materia di uso delle risorse e risultati di salute. 8. Esplorare le possibilità della tecnologia per facilitare l’attuazione delle cure integrate. Per concludere, riprendendo alcune suggestioni della Conferenza di Edimburgo: – L’esperienza di cure integrate finora è limitata, ma promettente. I veri cambiamenti organizzativi e culturali non avvengono nel corso di una legislazione ma di qualche lu- stro. A un trentennio dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale sono a tutti evidenti gli enormi passi avanti effettuati. Tutti i sistemi regionali si sono mossi. Alcuni, favoriti da migliori situazioni economiche e da condizioni culturali e sociali storicamente determinatesi, si sono mossi più rapidamente, sperimentando modelli fortemente innovativi, altre Regioni stanno avanzando più lentamente, ma nessuna è restata ferma. – Ulteriori ricerche sono necessarie per garantire che l’applicazione dei modelli proposti è fattibile, sostenibile e si traduce in migliori condizioni di salute. Occorre andare avanti, sperimentare, valutare, scambiare esperienze: non per individuare modelli da esportare/imporre, ma per individuare i driver degli interventi che aumentano la probabilità di successo degli stessi. Butera F. (1990), Il castello e la rete, Franco Angeli, Milano. Cartoccio A., Fabbro M. (1992), Complessità organizzativa e sviluppo manageriale, Sviluppo e Organizzaizone, 131, maggio-giugno, pp. 19-30. Cochrane A. (1999), Efficienza ed efficacia. Riflessioni sui servizi sanitari, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma. 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(1995), Alliances in health care: what we know, what we think we know, and what we should know, Health Care Management Review, vol. 20, 1, pp. 54-64. (segue da pag. 79): Un nuovo modello culturale, professionale ed organizzativo Ogni sistema è perfettamente studiato e disegnato per ottenere i risultati che ottiene, ha sempre ripetuto Donald Berwick, ed è quindi inverosimile pensare che stressando l’attuale sistema, aggiungendo risorse, chiedendo di più ai professionisti sia possibile ottenere risultati diversi da quelli che oggi otteniamo. Sono quindi necessari modelli organizzativi diversi, studiati e disegnati per ottenere nuovi livelli di performance. Ed è qui che si apre la sfida vera dei nostri sistemi, studiare ed imparare qualcosa che per ora non ci è mai appartenuto. Siamo e saremo sempre aiutati dalle esperienze degli altri che già hanno iniziato, avremo modo di vedere i risultati ottenuti e di trasportarli nelle nostre organizzazioni migliorandoli addirittura. La sfida della continuità temporale è già stata vinta da qualcuno. Recentemente è stato pubblicato un volume di Berry e Selman, Management Lessons from Mayo Clinic: Inside One of the Worlds Most Admired Service Organizations: quella che loro chiamano destination medicine è una risposta ai nostri nuovi bisogni. Forse non è la sola via possibile per arrivare a trovare quello che stiamo cercando, ma ha dimostrato la praticabilità di un percorso, e attrezzandosi tra sistemi push e sistemi pull, tra gestione degli ospedali per flussi e i concetti di variabilità naturale ed artificiale, tra teoria dei vincoli e legge di Pareto, l’interesse che ha spinto tutti noi nelle nostre professioni saprà anche questa volta, una volta applicati principi e strumenti di questo nuovo mondo, ripagarci con la vera ed unica soddisfazione che ognuno di noi ricerca, la possibilità di migliorare la qualità di ciò che facciamo per i pazienti. È questo, come ricordato, il campo di applicazione più peculiare delle nostre direzioni aziendali. Richiede un forte cambiamento culturale che fa propria la necessità di guardare, senza pregiudizi, ai modelli organizzativi operativi nel mondo esterno delle aziende di prodotto e di servizio. Mondi che abbiamo considerato sempre con diffidenza perché abbiamo sempre ritenuto che il nostro “prodotto” fosse qualcosa di particolare (cosa che ovviamente è), in grado però da solo di giustificare un disinteresse, e quindi un rifiuto, verso tutto ciò che non è prettamente tecnico professionale. Secondo me un errore di prospettiva perché il mondo delle organizzazioni esterne ci dimostra che proprio per valorizzare le competenze, le conoscenze e le capacità dei suoi operatori, finalizzandole al migliore risultato possibile, è necessaria la conoscenza di sistemi culturali in grado di far lavorare bene insieme tutte le grandi risorse dei nostri sistemi, che a ragione, sono molto “complessi”. Fa però ben sperare il fatto che vi siano molti segnali che dimostrano come molte aziende abbiano già intrapreso questa strada che richiede curiosità, coraggio di superare lo status quo e voglia di studiare e ricercare ancora. 02monografia 76:02monografia 75 Sae l ute Territorio 90 Alessandro Bussotti MMG, Firenze - Agenzia Continuità assistenziale, AOU Careggi, Firenze “L a sig.ra Maria è una ottantaquattrenne che vive sola, arrangiandosi discretamente con l’aiuto di una signora, che le fa la spesa e le pulizie in casa e sta con lei alcune ore al giorno. Il resto della giornata lo passa andando al vicino circolo ricreativo e a fare qualche breve passeggiata e qualche volta al cinema con le poche amiche che le sono rimaste. Il cibo se lo prepara da sola, legge abitualmente il giornale e guarda tutte le sere la TV. La salute però non va tanto bene: è diabetica, ipertesa, ha una artrosi delle ginocchia che le rende sempre più difficile e doloroso camminare e soprattutto fare le scale (purtroppo abita al secondo piano di un condominio senza ascensore), qualche anno prima ha avuto un infarto miocardico ed è stata sottoposta a rivascolarizzazione, da qualche tempo le è stata scoperta anche una iperuricemia. In occasione dell’infarto ha smesso di fumare, ma le tante sigarette fumate negli anni precedenti le hanno lasciato una bronchite cronica con tosse, catarro e un discreto affanno. Purtroppo un altro fatto che riduce la sua autonomia è l’obesità: è sempre stata un po’ abbondante ma dai 60 ai 70 anni ha accumulato pa- 28-04-2010 10:14 Pagina 90 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 La riorganizzazione delle cure primarie recchi chili che poi non è stata più capace di lasciare. Per tutti i suoi malanni ogni giorno deve prendere 11 farmaci diversi per un totale di 14 compresse e un quarto (di un farmaco infatti deve prendere solo un quarto di compressa), alle quali aggiunge, quando le ginocchia si fanno sentire di più, un antidolorifico. Ha inoltre due macchinette da cui deve inalare un farmaco: una la deve usare due volte al giorno, l’altra una volta sola. Ha due figli che vivono in due città molto lontane. Le sono molto affezionati e non le fanno mancare nulla: pagano loro tutte le spese (lei, d’altra parte ha solo una piccola pensione e, pagato l’affitto, non le resterebbe davvero molto), anche se non riescono ad andare a trovarla molto spesso. Insistono perché lei controlli spesso il suo stato di salute: infatti Maria è seguita dal centro diabetologico e dal centro per la cura dell’ipertensione del vicino ospedale e viene visitata periodicamente da un cardiologo, da un pneumologo e da un reumatologo. Lei ha provato tante volte a dire ai figli che ha un medico di famiglia di cui si fida e con cui si trova molto bene, ma loro continuano ad insistere per le visite specialistiche, anche per- Il ruolo del medico di base ed il problema della cronicità ché il MMG non può certamente andare a controllarla così spesso come avrebbe bisogno. Tutti gli specialisti, ad ogni visita, cambiano qualcosa della sua terapia ed il suo medico di famiglia cerca di riaggiustarla rendendola un po’ meno caotica, ma i figli insistono perché lei segua i consigli degli specialisti e a lei, in fondo, fa piacere sentire che sono così preoccupati per lei. Purtroppo non è raro che si verifichi un aggravamento delle sue condizioni: negli ultimi tre mesi per cinque volte si è trovata a respirare peggio del solito. In un caso è venuto il suo medico che ha aggiustato la terapia, l’ha rassicurata, ha telefonato ai figli rassicurando anche loro; ma le altre quattro volte è capitato di notte o di festa (purtroppo il tempo delle notti, dei sabati e delle domeniche è più lungo di quello dei giorni lavorativi) e sia il medico della Guardia medica, sia lo specialista cardiologo e pneumologo consultati telefonicamente hanno consigliato il ricovero ospedaliero. E così Maria si è trovata al Pronto Soccorso, da dove è stata poi tra- sferita in reparto, due volte in medicina, una volta in pneumologia ed un’altra in cardiologia. La degenza è sempre stata breve (dai 4 a 6 giorni), la riacutizzazione della BPCO e della insufficienza cardiaca è stata rapidamente risolta e Maria è tornata a casa. I giorni di ricovero però li ha sempre passati a letto e così di volta in volta la sua autosufficienza è progressivamente diminuita. In occasione dell’ultimo ricovero non è più riuscita a mettersi in piedi ed è risultata notevolmente confusa, tanto che la signora che la segue non se l’è sentita di riprenderla a casa in quelle condizioni. I figli, impegnati col lavoro, non sono potuti venire e si è quindi deciso, una volta stabilizzata la situazione, di trasferirla in un reparto di lungodegenza di una casa di cura convenzionata: qui lo stato confusionale è peggiorato e Maria ha perso completamente la sua autonomia”. La storia di Maria contiene tutti gli elementi di ciò che accade quando l’assistenza di una persona funziona bene in ogni singola parte, ma le parti 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 91 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 91 N. 179 - 2010 non sono coordinate fra loro in una vera presa in carico. In fondo la famiglia, la badante, il medico di famiglia, la guardia medica, gli specialisti, l’ospedale in ogni sua componente hanno fatto quello che dovevano, ma il sistema nel suo insieme non è riuscito nel vero scopo che si doveva raggiungere: la conservazione più a lungo possibile di una qualità di vita accettabile. In realtà ormai tutti hanno ben presente che il problema vero che si presenterà nei prossimi anni ai sistemi sanitari è quello della continuità assistenziale: non dovrà essere più il cittadino a rincorrere servizi e professionisti che agiscono in modo indipendente e non di rado in polemica fra loro, ma dovranno essere questi a coordinarsi per fornire la migliore assistenza possibile nell’ambito di un piano di azione personalizzato. In realtà gli ultimi anni hanno prodotto un aggravamento del problema, più che facilitarne la soluzione. I motivi sono molteplici: 1. L’ospedale è sicuramente la parte che ha subito i maggiori mutamenti: si è progressivamente trasformato in ambiente destinato alla cura dei problemi acuti (o, più spesso, delle riacutizzazioni di quelli cronici), iniziando ad organizzarsi per intensità di cura ed aumentando progressivamente la propria efficienza, misurata in termini di durata del ricovero e di tasso di occupazione dei posti letto. Questi si sono progressivamente ridotti e si dovranno ulteriormente ridurre nei prossimi anni. 2. Si è assistito ad una impressionante accelerazione del livello tecnologico (e del costo) dell’assistenza sanitaria; e questo ha ancora una volta riguardato in gran parte le strutture ospedaliere. 3. Si sono organizzati numerosi sistemi per supportare l’ospedale in questa sua ristrutturazione (Day Hospital, Day Service, Week Hospital, dimissione protetta, Discharge Room, Triage, ecc.) ma niente di tutto questo è successo sul territorio, anche se sarebbe logico pensare, fra l’altro, ad una sorta di triage territoriale al momento della dimissione, ad un “ricovero protetto” e ad una ammissione condivisa. 4. Parallelamente è aumentato (e così farà ulteriormente nei prossimi anni) il numero dei malati cronici, frutto dell’aumento della durata della vita e del miglioramento della qualità delle cure dei periodi acuti. 5. Le cose sono cambiate molto poco sul territorio, sede di quelle cure primarie sulle quali, per motivi economici e di qualità della vita, si dovrebbe spostare l’assistenza vera ai malati cronici. In definitiva appare sempre più chiaro che la nuova struttura ospedaliera riuscirà a funzionare solo se troverà un sistema territoriale in grado di accogliere il paziente, prenderlo in carico e restituirlo all’ospedale solo in caso di vera instabilizzazione del quadro e non, come sta spesso accadendo ora, per motivi più sociali che sanitari. L’elemento critico è quindi ancora una volta la comunicazione (e quindi la continuità) fra le strutture: senza dimenticare la comunicazione all’interno dell’ospedale, problema affatto risolto, il vero problema è la continuità nel momento del ricovero e della dimissione ospedaliera, la comunicazione e collaborazione fra i professionisti che agiscono in ambito territoriale ed il ruolo del MMG all’interno del sistema delle cure primarie. La rifondazione della medicina generale Questo è il titolo che è stato dato ad un documento elaborato dalla FIMMG (Federazione italiana medici di medicina generale) all’inizio del 2007 e che poi ha fornito le basi dell’Accordo collettivo nazionale per la medicina generale firmato nel 2009 ad attualmente in vigore, anche se non completamente applicato. L’elemento fondamentale risulta essere la formazione di quelle che vengono definite “Aggregazioni funzionali territoriali”, che hanno alcune caratteristiche importanti: – coprire un ambito di popolazione di 20-30000 abitanti; – essere obbligatorie: al contrario delle associazioni previste dai precedenti accordi, alle quali i MMG potevano aderire o meno, tutti i MMG dovranno entrare a far parte di questa nuova forma associativa; – comprendere sia MMG sia medici di continuità assistenziale (Guardia medica); – prevedere un MMG coordinatore con compiti di raccordo funzionale e profes- sionale in modo da favorire la partecipazione della medicina generale alla definizione dei percorsi assistenziali delle maggiori patologie e dei livelli d’integrazione fra le varie figure professionali e alla definizione e contrattazione dei budget, in una parola a quello che viene definito governo clinico. La realizzazione di queste strutture dovrebbe fornire una vera assistenza 24 ore su 24,365 giorni all’anno a tutti gli assistiti dell’associazione da parte di medici in contatto fra loro. Si favorirebbe inoltre un processo di piena integrazione dei MMG all’interno del distretto, mentre finora, con poche e lodevoli eccezioni, i professionisti dipendenti dell’azienda sanitaria hanno sempre sentito i colleghi convenzionati come un corpo estraneo, di cui diffidare, ricambiati da una analoga diffidenza in una spirale che ha approfondito le difficoltà comunicative invece di affrontarle e risolverle. Inoltre, finalmente i medici che fino a poco tempo fa venivano definiti “di Guardia medica” dovrebbero diventare realmente medici di continuità assistenziale, termine usato già ora, ma non rispondente certo alla realtà. In questo modo, invece, si dovrebbe realizzare un ruolo unico del medico di medicina generale, che accomuni il professionista che continua a lavorare con i propri assistiti secondo l’attuale schema della scelta (e quindi della manifestazione della fiducia) da parte del cittadino, ed il professionista che, legato invece 02monografia 76:02monografia 75 Sae l ute Territorio 20-04-2010 15:16 Pagina 92 92 La continuità assistenziale ad un rapporto orario, svolge altre funzioni all’interno del gruppo, quali quelle della copertura notturna e festiva, ma anche di altre attività, per esempio legate all’attuazione della medicina di iniziativa. Si dovrebbe così risolvere anche la difficoltà nell’inserimento nella professione, che sta costringendo tanti MMG giovani e con poche scelte (e quindi con tutte le spese necessarie all’avvio dell’attività ma senza i ricavi che consentano di vivere dignitosamente) ad arrangiarsi in lavori che poco hanno a che fare con la medicina generale, perdendo così per la strada l’entusiasmo e le competenze accumulate negli anni di formazione. assistenza efficace del cronico non può esimersi da un intervento multiprofessionale e multidisciplinare. Una reale presa in carico del paziente cronico richiede obbligatoriamente l’azione di diverse figure professionali: in primo luogo l’infermiere, ma anche il dietista, il fisioterapista, l’assistente sociale e, in ambito medico, il medico di comunità e lo specialista. Solo un team ben articolato e ben condotto, teso alla valutazione globale dei bisogni della persona, con il coinvolgimento ed il sostegno della famiglia e di un paziente realmente e compiutamente informato, può realisticamente far fronte a questa sfida. In realtà non si tratta solo di organizzare efficacemente il sistema delle cure primarie, ma di rafforzarlo nella sua cultura e nei suoi principi, togliendolo dalla subalternità in cui si trova oggi: basti pensare alla assoluta preponderanza ospedaliera nella formazione dello studente di medicina. I principi fondamentali delle cure primarie (basso livello tecnologico, approccio olistico, centralità della relazione col paziente, coordinamento delle cure) accomunano i due professionisti che ne costituiscono il nucleo, l’infermiere ed il medico di famiglia, e dovrebbero farli sentire parte della stessa famiglia, piuttosto che concorrenti, come sembra accadere attualmente. I due sistemi, quello ospedaliero e quello territoriale, dovrebbero riconoscere l’uno la specificità dell’altro e rispettarne la preponderanza nei rispettivi ambiti: solo così si potrà arrivare ad una vera in- Il MMG inserito nel sistema delle cure primarie ed il problema della cronicità Il sistema delle cure primarie deve prepararsi ad affrontare tutti i problemi connessi con l’invecchiamento della popolazione e della crescente prevalenza delle malattie croniche. L’ospedale si sta già attrezzando a rispondere al meglio alle necessità del paziente acuto o riacutizzato, e quindi avrà sempre maggiori difficoltà nella gestione dei pazienti cronici, non solo dal punto di vista dei costi delle sue prestazioni, ma anche e soprattutto della appropriatezza delle risposte alle necessità del paziente. Parallelamente il territorio non potrà fare a meno di organizzarsi per prendere in carico il paziente cronico. Le nuove aggregazioni professionali della medicina generale costituiranno il fulcro di questa organizzazione, ma una N. 179 - 2010 tegrazione e ad una comunicazione efficace, con il paziente finalmente e realmente al centro. Questi principi dovrebbero essere alla base della ristrutturazione dei due momenti critici della continuità assistenziale ospedale-territorio. – La dimissione: attualmente la dimissione coincide con una relazione di qualità e quantità estremamente variabile (da un laconico foglietto contenente una stringata diagnosi fino ad arrivare ad una lunga e minuziosa descrizione accompagnata da infinite fotocopie con i risultati dei singoli accertamenti diagnostici) ma con un contenuto di informazioni realmente utilizzabili molto scarso. In realtà la dimissione non dovrebbe essere un “momento” ma un “processo” che inizia subito, all’ingresso del paziente in reparto, e dovrebbe comportare l’immediata comunicazione al MMG dell’avvenuto ricovero del suo assistito (la maggior parte dei ricoveri avviene attualmente per presentazione spontanea o attraverso il sistema del 118). Una buona cartella clinica informatizzata dovrebbe poi consentire un facile scambio di informazioni fra MMG e collega ospedaliero durante il ricovero e, infine, la dimissione dovrebbe essere prevista con almeno 48 ore di anticipo, consentendo al sistema delle cure primarie di pianificare e organizzare tutto quello di cui il paziente avrà bisogno una volta tornato a casa. Do- vrebbe essere il territorio (attraverso una sorta di “triage”) a decidere se il paziente può tornare a casa oppure se le condizioni socio sanitarie sono tali da obbligare altre soluzioni (cure intermedie, lungodegenza, RSA). – L’ammissione: attualmente il Pronto soccorso è la vera e unica “porta” dell’ospedale e viene sommerso non solo da una grande quantità di accessi impropri di pazienti che dovrebbero ricevere risposte dall’assistenza territoriale, ma anche da richieste appropriate ma che non richiederebbero un ricovero (pazienti complessi che non possono essere seguiti in modo adeguato nel loro iter diagnostico terapeutico nell’assistenza di primo livello) e da richieste di ricovero che potrebbero essere trattate “in elezione” e per le quali il Pronto soccorso funziona, in modo improprio, da “accettazione”. Una miglior comunicazione fra il MMG e l’ospedale potrebbe meglio graduare le risposte da dare a questi pazienti (day hospital, day service, consulenze ambulatoriali, ricoveri programmati), evitando ricoveri inutili e facilitando al cittadino un itinerario di malattia, che spesso è già sufficientemente doloroso di per sé, senza che ci sia il bisogno di aggravarlo con la complessità e la farraginosità delle strutture sanitarie. (segue a pag. 96) 02monografia 76:02monografia 75 28-04-2010 10:14 Pagina 93 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 93 N. 179 - 2010 Rita Maricchio1 Mara Pellizzari2 Annalisa Silvestro3 1 Responsabile Infermieristica RSA Distretto est, ASSn. 5 “Bassa Friulana” 2 Direttore SAITRA ASS n. 5 “Bassa Friulana” 3 Direttore SATER AUSL Bologna - Presidente FNC Ipasvi I l trend demografico ed epidemiologico della popolazione italiana, delinea un aumento progressivo delle patologie cronico degenerative cambiando radicalmente i bisogni assistenziali e il profilo delle persone assistite che afferiscono alle strutture sanitarie. Le organizzazioni hanno la necessità di rivedere e ripensare l’offerta sanitaria, i professionisti devono ridelineare le modalità di approccio alla domanda e di gestione degli assistiti, gli amministratori devono ripensare le linee di governance 1. In numerosi ambiti operativi si è inoltre particolarmente accentuata, nell’ultimo periodo, la necessità di superare la frammentazione di analisi e la parcellizzazione degli interventi per orientare l’attenzione all’intero, ossia alla “globalità” di ogni soggetto, oggetto o processo che si intende osservare. Tale impostazione ha condotto all’utilizzo del paradigma sistemico come adeguata modalità in- L’assistenza infermieristica terpretativa ed operativa. Il concetto e la relativa definizione, muovono dal presupposto che il soggetto non può essere completamente spiegato solamente con l’analisi di ciò che lo compone ma anche con l’analisi delle interrelazioni che si attivano fra le diverse componenti. Tali concettualizzazioni trovano ampia coerenza nel paradigma a cui si riferisce strutturalmente l’assistenza infermieristica. La mission primaria dell’infermiere è il prendersi cura della persona che assiste, in logica olistica, considerando le sue relazioni sociali ed il contesto ambientale. Assistenza infermieristica in logica di continuità assistenziale significa: – partecipare alla identificazione dei bisogni di salute della persona; – identificare i bisogni di assistenza infermieristica della persona e formulare gli obiettivi che l’assistito deve raggiungere; – pianificare, gestire e valu- Le figure professionali e le componenti della continuità tare l’intervento assistenziale; – promuovere e mantenere “una rete di rapporti interprofessionali e una efficace gestione degli strumenti informativi”2 anche per superare la frammentazione delle cure; – contribuire a dare continuità ai processi ed ai percorsi assistenziali intraospedalieri e tra l’ospedale e il domicilio o tra le diverse strutture territoriali. Gli infermieri e la continuità assistenziale La”continuità assistenziale” può essere definita come la successione, senza interruzioni nel tempo, di percorsi, prestazioni e processi assistenziali con valenza preventiva, curativa e riabilitativa. La continuità nell’ambito dell’assistenza evidenzia tre componenti: – la componente informativa, – la componente gestionale, – la componente relazionale3. La continuità di informazioni è indispensabile per garantire la condivisione della storia della persona assistita tra i vari professionisti. La mancanza di informazioni condivise è l’aspetto più critico nella continuità assistenziale dove si presuppone che i professionisti documentino le informazioni raccolte e condividano la documentazione. La continuità nella gestione garantisce un’assistenza coerente e condivisa tra i vari professionisti coinvolti nel processo assistenziale, la persona assistita e i caregiver. È particolarmente importante nei casi di persone con malattie croniche o complicate dal punto di vista clinico e nei casi che richiedono l’intervento A. Silvestro, R. Maricchio, M. Molinar Min, A. Montanaro, P. Rossetto, La complessità assistenziale. Concettualizzazione, modello di analisi e metodologia applicativa, McGraw-Hill, 2009. 2 Federazione nazionale Collegi IPASVI, Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009, a cura di Annalisa Silvestro, McGraw-Hill, 2009. 3 J.L. Haggerty, R.J. Reid, G.K. Feeman, B. Starfield, C. Adair, R. Mckendry, Continuity of care:a multidisciplinary review, BMJ, Nov 2003, 22, 327 (7425), pp. 1219-21. 1 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 94 94 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale di diversi professionisti. La continuità si ottiene quando i servizi vengono erogati in maniera complementare e tempestiva e senza soluzione di intervento. La condivisione di percorsi clinico-assistenziali facilita la gestione della continuità, garantendo sicurezza alle persone assistite e ai professionisti. La continuità di relazione garantisce la stabilità e il mantenimento della relazione tra l’équipe di cura, la persona assistita e i caregiver (patto di alleanza assistenziale). Assicura alle persone assistite dei punti di riferimento e dà ai professionisti la possibilità di confrontarsi sull’evoluzione dello specifico caso nel tempo. La maggiore rilevanza attribuita a una delle componenti la continuità assistenziale, dipende dal contesto di cura, dai professionisti e dalla loro prospettiva curativo assistenziale: se centrata sulla persona o sulla malattia. Per gli assistiti ed i loro familiari la continuità assistenziale è il sentirsi “presi in carico” da un professionista che è a conoscenza del percorso ospedaliero da loro effettuato e che è in grado di sviluppare efficacemente un piano assistenziale e di seguirlo nel tempo. Per i professionisti la continuità assistenziale significa, invece, avere sufficienti co- noscenze ed informazioni sul paziente e applicare al meglio le competenze4. Una revisione della letteratura5 individua specifiche figure professionali impegnate nella gestione delle informazioni e coinvolte nel coordinamento delle persone coinvolte nel mantenimento della continuità assistenziale. Tali figure sono il discharge professional (liaison nurse in Inghilterra – discharge coordinator negli USA – discharge liaison nurse, liaison nurse o transfer nurse nei Paesi Bassi) e il case manager. Il discharge professional ha due sostanziali modalità di effettuazione: – attraverso il discharge planner che è un professionista (non necessariamente un infermiere) dipendente dall’ospedale. La qualità della dimissione da lui gestita è strettamente legata alla sua conoscenza delle risorse presenti sul territorio e alla sua capacità di coordinare la comunicazione tra gli operatori coinvolti nell’assistenza al paziente; – attraverso il liaison nurse che ha funzioni di collegamento tra l’ospedale e il territorio per assicurare la continuità delle cure. Il liaison nurse è un infermiere che svolge la propria attività all’interno della struttura ospedaliera ma N. 179 - 2010 che spesso lavora nell’ambito di un’organizzazione territoriale. Il discharge professional, oggetto di molti studi, dà risultati contrastanti6 in termini di efficacia di risultato. Il case manager – nell’ambito del case management – rappresenta una metodologia di organizzazione dei servizi sanitari che si basa sulla centralità del “caso”, della persona e che ha come obiettivo la massima integrazione degli interventi necessari a fornire una risposta ai bisogni di salute dell’assistito. Il case manager – normalmente un infermiere – valuta, pianifica, monitorizza e coordina i servizi erogati da diversi contesti. Il case manager utilizza un approccio assistenziale sistemico ed ha come obiettivi: l’attenzione alla qualità dell’assistenza complessivamente erogata, la diminuzione della frammentazione dell’assistenza, l’innalzamento della qualità possibile della vita, il contenimento dei costi (ANA 1991). Il case management è un processo collaborativo che attraverso la comunicazione e l’uso delle risorse disponibili è volto alla programmazione, all’attuazione, al coordinamento, al monitoraggio e alla verifica delle opportunità e dei servizi per rispondere ai bisogni dell’individuo” (CSMA 1994). L’infermiere case manager, migliorando la continuità delle cure7, ha impatto sulla qualità della pianificazione della dimissione, sulla diminuzione dei costi sostenuti dall’ospedale e sull’aumento della soddisfazione dell’assistito. Il concetto di continuità ha più valenze. Una valenza temporale ossia le 24 ore, l’intero tempo della malattia, l’arco di una vita, ed una valenza di continuità rispetto al mantenimento di una comunicazione continua e di un dialogo professionale che usa strumenti e metodi quali il problem solving. In ogni modo le organizzazioni sanitarie sono di fronte ad un dilemma che nasce dalla valutazione oramai consolidata che erogare assistenza in modo frammentario non dà efficacia; ne consegue che le organizzazioni sanitarie e coloro che vi lavorano, devono rivalutare le modalità con cui considerano ed effettuano gli interventi necessari al paziente. È necessario ragionare con una visione più ampia rispetto a quanto fatto fino ad ora, ossia in logica di processo. Agire per processi permette di pensare alla persona – malata o sana – che ha necessità di essere trattata e considerata, tenendo presente che l’assistenza “non si esaurisce” nell’episodio che l’ha portata all’attenzione dell’operatore o della struttura sanitaria. L. Saiani, A. Palese, A. Brugnolli, C. Benaglio, La Pianificazione delle dimissioni ospedaliere e il contributo degli infermieri, Assistenza infermieristica e ricerca, 2004, 23, 4, pp. 237-8. 5 F. Colle, A. Palese, S. Brusaferro, La continuità dell’assistenza basata su informazioni scritte e infermieri dedicate: revisione della letteratura, Assistenza infermieristica e ricerca, 2004, 23, 4, pp. 179-85. 6 Ibidem. 7 D. Einstadter, R.D. Cebul, P.R. Franta, Effect of a nurse case manager on post discharge follow-up, J Gen Intern Med, 1996, 11, p. 648. 4 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 95 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 95 N. 179 - 2010 Agire per processi permette di pensare che esiste un prima ed un dopo rispetto alla situazione di malattia presente e che esiste un bisogno di assistenza che, seppur con sfaccettature diverse, è fondamentale per l’individuo; nella logica e nell’agire per processi è fondamentale la continuità ed è indispensabile garantirla. Continuità delle cure, continuità di comunicazione, continuità nella risposta al bisogno, continuità nell’essere della persona. Quest’ultima “necessità di continuità” è particolarmente forte nei casi in cui la malattia è grave, invalidante, cronica o prodromica della fase di terminalità di vita. Diviene fondamentale allora, lavorare e comunicare tra servizi, tra operatori e tra strutture diverse; ognuno deve diventare “cliente e fornitore” dell’altro e procedere sistematicamente per il raggiungimento di risultati assistenziali che hanno come obiettivo finale il benessere del paziente nell’ambito del suo percorso di vita e di malattia. Le parole chiave per la continuità dell’assistenza sono, ancora una volta, integrazione e multidisciplinarietà; integrazione e multidisciplinarietà all’interno dell’ospedale, tra servizi di diagnosi e unità di degenza, tra ospedale e territorio e tra i diversi servizi territoriali. Non possono essere gli assistiti che si costruiscono con difficoltà il percorso, mettendo in comunicazione i professionisti (medici, infermieri, consulenti, operatori sociali…) e le strutture che maga- ri lavorano fornendo prestazioni/servizi di qualità, ma che non tengono conto dei tempi e delle necessità di altri soggetti coinvolti nel medesimo percorso di cura. Il tema della continuità delle cure fra ospedale e territorio è da molti anni individuato come un tema “nevralgico” e sul quale tutti i professionisti devono fornire il loro impegno affinché diventi visibile ed attuabile. La scelta di campo orientata alla comunità e alla rete parentale, l’applicazione delle norme che istituiscono l’assistenza domiciliare, sono certamente stati avvenimenti che hanno “movimentato” i tradizionali servizi extraospedalieri e hanno spinto verso la scrittura di una pagina nuova della storia dell’assistenza nel territorio. Il definirsi della figura dell’infermiere di famiglia o di comunità e delle relative esperienze, vengono senz’altro incontro alle esigenze e alle situazioni indicate delineate. L’infermiere di famiglia o di comunità è anche un case manager che, in quanto “gestore” di un gruppo di famiglie o di una comunità, può garantire la continuità dell’assistenza sia attraverso un buon sistema di comunicazione e di trasferimento di informazioni, sia attraverso il mantenimento di una costante interrrelazione tra i diversi professionisti. Elementi, questi, essenziali per evitare il vuoto negli “spazi interfunzionali” che si collocano tra una fase e l’altra del processo di cura. Nel nostro paese, la dimissione ospedaliera è uno dei mo- menti più critici del processo di cura di un persona. La dimissione è solitamente effettuata in base a criteri clinici a fronte di un’epidemiologia socio sanitaria caratterizzata frequentemente da criticità sociali e da carenza di strutture intermedie e strutture residenziali territoriali. La difficoltà ad ottenere risposte a livello territoriale porta spesso, soprattutto i soggetti fragili, a ri-ospedalizzazioni evitabili. La “dimissione difficile” si inserisce e viene intesa come la fase di un percorso curativo assistenziale che vuole rispettare la continuità e che pertanto necessita di un consumo di risorse economiche, umane, organizzative che vanno oltre la potenzialità della persona e della sua rete familiare e che implica un coinvolgimento particolare di tutti i presidi territoriali. Il mantenimento della continuità assistenziale richiede, però, un cambiamento di cultura soprattutto all’interno delle strutture ospedaliere spesso concepite e vissute come staccate dai servizi territoriali. La dimissione ospedaliera deve essere protetta e correttamente pianificata affinché la rete dei servizi possa attivarsi, la sicurezza della persona assistita possa essere garantita e il contesto domiciliare possa essere organizzato nel migliore dei modi. La modifica diventa tassonomica: la dimissione precoce si trasforma in “attenzione precoce alla dimissione”, che dovrebbe iniziare non appena il paziente ha superato la fase critica o acuta. La pianificazione della dimis- sione non può che essere multidisciplinare: ciascun professionista è impegnato nella stesura di un piano di interventi che comprende la valutazione dell’assistito, la pianificazione, l’applicazione e il monitoraggio degli interventi e che si propone l’integrazione di prestazioni sociali e sanitarie. In tale approccio pianificatorio si inserisce la figura dell’infermiere case manager che si adopera per il mantenimento della continuità assistenziale secondo la logica dell’approccio complessivo. L’infermiere case manager opera basandosi su un insieme di competenze e di pratiche specializzate che attingono dal bagaglio informativo e di esperienza di differenti aree professionali; ha la responsabilità di mantenere l’integrazione tra i diversi professionisti impegnati nel “caso” di cui si occupa e di coordinare i percorsi e le risposte dei servizi a cui accede l’assistito. Il case management è lontano dall’approccio al paziente solo nell’attimo delle cure previste ed erogate, in quanto si esprime attraverso una modalità che supera l’attività frammentata ed episodica dato che considera i pazienti come soggetti che stanno vivendo una fase del “continuum” salute-malattia. Lo scopo principale del case management è infatti quello di orientare all’autocura, ridurre la frammentazione dell’assistenza, fornire qualità curativa attraverso la continuità, migliorare la qualità possibile di vita degli assistiti, ridurre la degenza ospedaliera, aumentare la soddisfazione 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 96 96 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale dello staff clinico assistenziale e promuovere l’uso efficace ed efficiente delle risorse. Il case management infermieristico rappresenta una modalità operativa con cui erogare prestazioni a carattere sistematico sulla base della massima personalizzazione e della continuità assistenziale; prestazioni coordinate e garantite da un infermiere di riferimento. L’applicazione di questa metodologia prevede l’acquisizione e l’esercizio di competenze professionali per la conduzione dei casi e orientate alla soluzione di problemi (problem solving oriented). La metodologia utilizzata non è specifica dell’infermieristica ma per gli infermieri si configura significativamente coerente con il contenuto proprio della loro disciplina, Chiari P., Santullo A. (2005), L’infermiere Case manager, McGraw-Hill, Milano. Colle F., Palese A., Brusaferro S. (2004), La continuità dell’assistenza basata su informazioni scritte e infermieri dedicate: revisione della letteratura, Assistenza Infermieristica e Ricerca, 23, 4, pp. 179-85. Einstadter D., Cebul R.D., Franta P.R. (1996), Effect of a nurse case manager on post discharge follow-up, J Gen Intern Med, 11, pp. 648-8. Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009), Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009, a cura di Annalisa Silvestro, McGraw-Hill, Milano. Haggerty J.L., Reid R.J., Feeman G.K., Starfield B., Adair C., Mckendry R. (Nov 2003), Continuity of care:a multidisciplinary review, BMJ, 22, 327 (7425) , pp. 1219-21. Il sistema informativo Una vera continuità assistenziale deve prevedere facili collegamenti e scambi di informazioni fra i professionisti che operano nei vari settori dell’assistenza: quindi non solo fra ospedale e territorio, ma anche all’interno dell’uno e dell’altro. Nonostante che parlarsi direttamente per telefono o, ancor meglio, incontrandosi di persona costituisca il modo migliore di scambiarsi impressioni e informazioni, la mole di lavoro è tale che solo con lo specifico ambito di intervento e con i valori deontologici di riferimento. Il riconoscimento formale della metodologia del case management come appropriata per l’erogazione di servizi assistenziali, delinea e richiede a chi assume la responsabilità di un “caso”, un preciso ambito di autonomia decisionale che si configura e completa nella collaborazione alla pianifica- zione degli interventi, nell’impegno a che il piano sia attuato e, non meno importante, nella verifica di quanto attuato e dei suoi esiti. Tutti momenti e fasi assolutamente fattibili e gestibili per il professionista infermiere che in questo momento storico della realtà italiana viene identificato come una risorsa per il sistema salute e per la collettività. Pellizzari M et al. (2002), Il progetto Infermiere di comunità, Nursing Oggi Geriatria, 3. Bibliografia (segue da pag. 92): La riorganizzazione delle cure primarie N. 179 - 2010 l’utilizzo di un sistema informatizzato può rendere realizzabile su larga scala una continuità assistenziale. In realtà solo ora si comincia a pensare di mettere in relazione i sistemi informatizzati dei diversi pezzi del sistema sanitario in modo da facilitare le comunicazioni. Da notare che l’adozione della carta sanitaria e del fascicolo sanitario elettronico non risolve, se non parzialmente, il problema della comunicazione fra i professionisti che devono collaborare alla cura del paziente. Basti pensare al paziente ricoverato e alla necessità di un continuo scambio di informazioni e di indicazioni fra il team ospeda- Pellizzari M. (2008), L’infermiere di comunità dalla teoria alla prassi, McGraw-Hill, Milano. Saiani L., Palese A., Brugnolli A., Benaglio C. (2004), La Pianificazione delle dimissioni ospedaliere e il contributo degli infermieri, Assistenza Infermieristica e Ricerca, 23, 4, pp. 237-8. Sasso L., Gamberoni L., Ferraresi A., Tibaldi L. (2005), L’infermiere di Famiglia, McGraw-Hill, Milano. Silvestro A., Maricchio R., Molinar Min M., Montanaro A., Rossetto P. (2009), La complessità assistenziale - Concettualizzazione, modello di analisi e metodologia applicativa, McGraw-Hill, Milano. Trinchero E. (2000), Case Management: approccio sistemico alla gestione del paziente, Mecosan Management ed Economia sanitaria, 32. liero che conduce le cure e quello territoriale che accoglierà il paziente al momento della dimissione. Tutti questi problemi ed i meccanismi messi in atto per affrontarli e risolverli sono comuni a tutti i sistemi sanitari: basti pensare al Chronic Care Model, modello di cura delle malattie croniche di origine statunitense, ma ormai adottato da molti servizi sanitari europei, fra cui quello toscano. Basti pensare alla sorprendente somiglianza della storia della signora Maria e del suo medico a quella raccontata dal New York Times del 6 giugno 2009 (If all doctors had more time to listen di Julie Weed), in cui il dott. Jose Battle si reca a casa di una sua paziente di 93 anni che vive in un piccolo appartamento del Bronx da cui non riesce più ad uscire e che ha in abbondanza solo referti di specialisti e medicine, di cui la maggior parte scadute. Il medico parla con la paziente, semplifica la terapia e conferma la sua disponibilità. Non sono certo gli Stati Uniti la patria delle cure primarie, ma l’intervento del dott.Battle ricalca esattamente quello che dovrebbe essere l’intervento del team territoriale verso il quale tutti ci auguriamo di star procedendo. 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 97 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 97 N. 179 - 2010 Lucia Livatino1 Lorenzo Roti2 1 Formazione, educazione e promozione della salute Azienda USL 4 Prato 2 Assistenza primaria Azienda USL 4 Prato L a medicina è stata storicamente incentrata sul rapporto fiduciario singolo medico-singolo paziente; in questa dimensione si concentravano tutte le possibilità di cura, fondate soprattutto sul supporto psicologico: il paziente era ben lieto di affidarsi interamente al proprio medico, senza porsi il problema della propria libertà, all’interno di un sistema organizzato a bassa tecnologia e a bassa complessità. Oggi il rapporto medico-paziente è evoluto in un rapporto paritario, anzi volto ad esaltare la centralità del paziente, la presenza di altre figure professionali è costante e le tecnologie onnipresenti necessitano di competenze tecniche specifiche, pur riconoscendo la realtà di un paziente che spesso deve percorrere autonomamente strade difficili e complesse in sistemi ad alta tecnologia e a bassissimo livello di comprensibilità. Di fronte a questo scenario nuovo si pongono nuove sfide per la formazione dei professionisti che devono essere in grado di gestirne la complessità. L’evoluzione delle professioni sanitarie è stato accompagnata e si è affermata attraverso la formazione universitaria. Se negli anni sessanta L’integrazione dei profili professionali esisteva solo il Corso di laurea in medicina e chirurgia, con alcune Scuole a fini speciali, oggi esistono più di 20 corsi di laurea triennali delle professioni sanitarie, in 4 classi con 5 CdL specialistica. La funzione della formazione universitaria si è dovuta concentrare all’inizio principalmente sullo sviluppo specifico delle competenze distintive delle figure sanitarie e successivamente sulla loro armonizzazione e inserimento nell’ambito del lavoro interprofessionale, proponendo profonde modifiche ai programmi formativi e indirizzandosi a preparare professionisti che siano già abituati a lavorare in équipe, parola magica e ricorrente nel linguaggio sanitario degli ultimi anni. Non è la specificità di alcuni insegnamenti riguardanti gli aspetti psicosociali (che pure sono importanti), ma l’insieme del sapere volto alla formazione di un medico della persona, dotato di nozioni specifiche, ma soprattutto di una cultura della complessità e della continuità. Perché lo studente deve apprendere che l’atto medico è assolutamente unitario, e che nelle malattie di lunga durata la diagnosi è un’operazione che viene ripetuta molte volte (staging della malattia), la I bisogni formativi in relazione al nuovo modello assistenziale cura è un intervento che assume contenuti sempre diversi, così come la prognosi non è un atto statico, ma il primo momento di un processo di care spesso senza fine. Nel complesso della riforma degli studi universitari ha assunto ed assume importanza centrale anche l’insieme delle lauree triennali, che mirano a formare una classe di professionisti che, insieme al medico, partecipa con competenze specifiche al lavoro di équipe. Una scommessa importante per il futuro di questo nuovo settore di insegnamento è costituito dalla possibilità di trasmettere i contenuti tecnici specifici assieme ad un metodo ed a una visione complessiva dello scenario professionale. Tutto ciò appare dunque essenziale alla luce dei nuovi modelli assistenziali, sia ospedalieri (ospedale per intensità di cure) sia territoriali (la gestione della cronicità secondo l’ECCM), che chiedono alle professioni di stressare l’attenzione, una volta acquisiti gli aspetti del sapere, saper cosa e quando fare, e del saper fare, sugli elementi e le competenze legate al “saper essere” e al “saper far fare” (con e tra operatori professionali ma anche con il paziente/cittadino). Nell’ambito delle organizzazioni sanitarie occorre quindi aumentare la capacità di orientare la formazione continua su questi due aspetti fondamentali della competenza funzionale a partecipare e adeguarsi ai cambiamenti richiesti dall’innovazione tecnica, organizzativa e sociale. In definitiva questo significa che dal concetto di fissità legato tradizionalmente alla chiarezza semplificata della mansione e del ruolo, si debba muovere anche la formazione continua verso profili di competenze dei professionisti, più flessibili e mobili, in continua rimodulazione, un apprendimento effettivamente life-long. Delle tre componenti classiche della competenza (conoscenze, capacità, comportamento) è probabilmente quella del comportamento, della competenza relazionale e organizzativa, la più critica e decisiva per l’introduzione positiva di nuovi modelli 02monografia 76:02monografia 75 20-04-2010 15:16 Pagina 98 98 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale organizzativi e assistenziali. Si tratta cioè di quel sapere, certamente clinico e tecnico, richiesto ai professionisti che lavorano non soltanto sul paziente, ma con il paziente, in un contesto organizzativo aziendale, tenuto conto delle attese sociali, un sapere quindi necessariamente interprofessionale e multidimensionale. Consapevolezza, padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nelle relazioni interpersonali sono i 5 elementi da potenziare sulla base delle capacità emotive individuali. L’intelligenza emotiva è sicuramente una delle qualità individuali sulla quale concentrare le attenzioni formative, alla base della possibilità di sviluppare le competenze professionali in organizzazioni soggette a continui cambiamenti. Le due più grandi novità con le quali dovranno misurarsi i professionisti nei prossimi anni nell’ambito della continuità assistenziale in Toscana saranno: l’ospedale per intensità di cure e l’applicazione di un modello innovativo per la gestione della cronicità (Expanded Chronic Care Model progetto regionale sanità di iniziativa). L’attuazione di questi due modelli, descritti in altri contributi della presente monografia, richiede non soltanto uno sforzo di adattamento professionale ed organizzativo (e talora logistico), ma un vero e proprio cambiamento culturale e comportamentale degli operatori, all’interno del quale il tema della continuità assistenziale è senz’altro una della componenti più rilevanti. Volendo richiamare in sintesi gli elementi essenziali dei 2 modelli, limitandosi agli obiettivi del presente contributo, si possono definire le dimensioni professionali, comportamentali ed operative sulle quali sarà necessario orientare lo sforzo formativo primario: 1. Il lavoro in team. 2. La comunicazione tra i professionisti dei diversi setting assistenziali. 3. La personalizzazione del piano assistenziale sulla base del rischio clinico e delle condizioni socio-familiari. 4. La continuità della presa in carico attraverso figure di riferimento all’interno dei singoli setting e nel passaggio da un setting all’altro (es. tutor clinico, tutor assistenziale, care manager). 5. La valorizzazione e il riconoscimento del ruolo del paziente non soltanto nella decisione ma anche nella partecipazione attiva alla definizione e perseguimento degli obiettivi di salute. 6. Lo sviluppo delle capacità di gestione della propria condizione (self management). 7. Il lavoro per obiettivi di salute (si lavora sui comportamenti e stili di vita degli assisiti). 8. La revisione dei risultati: col paziente come nel team. Una concreta ipotesi di lavoro può essere che, per ciascun dei punti suddetti si esemplifichi e si sostanzi (o sia elemento critico) l’integrazione e i relativi bisogni formativi in termini di metodologie e obiettivi. N. 179 - 2010 In particolare la continuità delle cure obbliga il personale sanitario a creare relazioni umane strette che vanno poi instaurate con le altre figure professionali, “la malattia è divenuta un luogo di incontro tra persone, costruttivo e gratificante oppure distratto e inefficace o peggio conflittuale e sofferto” (Cheli). Da qui la necessità di acquisire abilità comunicative, di gestione delle emozioni e di risoluzione dei conflitti. Il cambiamento richiesto ai professionisti può essere percepito da alcuni come una opportunità ma da altri come una minaccia: solitamente alla crescita del ruolo e autonomia di una figura (es. infermiere nella sanità di iniziativa) corrisponde una resistenza al nuovo modello da parte di un’altra (es. il medico di medicina generale nella sanità di iniziativa). Il cambiamento implica infatti destabilizzazione, perdita di un vecchio equilibrio, nuovo impegno mentale e apprendimento. La resistenza individuale al cambiamento è tanto più facile quanto più un professionista non ha affrontato nel corso della sua esperienza un processo di crescita ed evoluzione, bensì ha cristallizzato i propri modelli comportamentali. Il cambiamento professionale ed individuale è interdipendente col cambiamento organizzativo strutturale, il modello di ospedale per intensità di cure ne è, da questo punto di vista, un esempio di grande efficacia. Si tratta infatti di passare da una responsabilizzazione professionale ed individuale tout court alla responsabilizzazione dell’ambiente organizzativo dove il singolo professionista, accanto alla tradizionale verifica della propria attività standardizzata, aggiunge autonomia ed iniziativa individuale, orientate alla migliore gestione del problema di salute del paziente. Un esempio in questo senso lo dovremo saper attuare nell’ambito dell’implementazione del progetto regionale toscano del Chronic Care Model, per il quale è richiesto un mutamento sostanziale del rapporto tra professionisti e pazienti: lo stabilirsi di una vera e propria partnership partecipata tra team/professionista attivato e paziente informato potrà realizzarsi solo se l’ambiente di lavoro si connoterà come luogo idoneo a promuovere la responsabilizzazione sana fatta non soltanto di esecuzione di compiti, ma anche di capacità di prendere decisioni e sviluppare iniziativa. Per la formazione la criticità si individua nell’insufficienza di una offerta “classica” rivolta solo alle competenze tecniche, e nella peculiarità dei modelli organizzativi-gestionali da condividere fra sanitari, tecnici e sociale (Lewin, Quaglino ed il valore del T-Group). Le resistenze sono ancora alte, la vera integrazione multiprofessionale è lontana, si cercano validi indicatori per valutare le esperienze ad oggi fatte legate a particolari patologie croniche, lotta al dolore, cure intermedie. (segue a pag. 109) 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 99 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 99 N. 179 - 2010 F. Di Stanislao1,2 G. Caracci1 F. Moirano1 I sistemi di indicatori 1 Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali 2 Università Politecnica delle Marche I l presente articolo ha l’obiettivo di sintetizzare lo stato dell’arte delle riflessioni maturate sui sistemi di indicatori di continuità assistenziale nonché quello di proporre tracce di lavoro su cui muoversi nel prossimo futuro. La fonte bibliografica di riferimento è stato il rapporto finale di ricerca Defusing the confusion: Concepts and measures of continuity of healthcare del Canadian Health Service Research Foundation (CHSRF) (Reid et al., 2002) che, allo stato attuale, costituisce il riferimento base sul tema. A livello nazionale abbiamo fatto riferimento: – al rapporto della ricerca finalizzata “Sperimentazione di una serie di indicatori per la misura della continuità assistenziale” (AgeNaS, 2008)1; – al rapporto “Misurare e valutare l’integrazione professionale e la continuità delle cure” di FIASO-CERGAS Bocconi (Longo F., Salvatore D., Tasselli S., 2009)2. La continuità dell’assistenza: lo schema concettuale di riferimento Un’esplicita preoccupazione per assicurare la continuità dell’assistenza è emersa, a livello internazionale, sin dalla fine degli anni ottanta, riflettendo l’aumentata complessità della gestione delle malattie croniche e la frammentazione delle componenti in cui si articola l’esperienza del paziente che percorre le strutture sanitarie. Il concetto di continuità dell’assistenza, che interessa ambiti disciplinari e organizzativi diversi, risulta particolarmente complesso e la ricerca di definizioni condivise ha impegnato considerevolmente la comunità scientifica3. L’analisi del problema e la conseguente formulazione di soluzioni sono stati resi difficoltosi dall’assenza di una definizione operativa condivisa e dall’utilizzo di sinonimi quali “continuum dell’assistenza” “coordinamento dell’assistenza”, integrazione dei servizi. Continuità gestionale, informativa e assistenziale La continuità dell’assistenza, dalla prospettiva dell’erogatore, deve essere vista, come fornitura di servizi tempestiva, coordinata e integrata, sostenuta da un valido sistema di monitoraggio e di valutazione. A tutt’oggi comunque la comunità scientifica internazionale e nazionale appare, nel suo complesso, concorde con le indicazioni emerse dal rapporto del CHSRF che individua due elementi core e tre tipologie della continuità assistenziale. I due elementi core che definiscono il concetto di continuità dell’assistenza sono: – l’esperienza dell’interazione tra l’individuo e gli operatori che forniscono assistenza (providers); – l’assistenza fornita nel corso del tempo. La presenza contestuale di entrambi gli elementi è fondamentale per distinguere il concetto di continuità da quello di altri tipi di processi assistenziali, ad esempio: – il “focus” solo sulla interazione operativa tra provider sostanzia i concetti di coordinamento e integrazione, ma non della continuità (manca l’esperienza di interazione con l’individuo); – la comunicazione interpersonale individuo/provider in un singolo incontro non sostanzia il concetto di relazione terapeutica che si sviluppa nel tempo (dal singolo episodio di ospedalizzazione al long term care) con i diversi operatori che affiancano l’individuo. Stante gli elementi core della continuità, questa viene declinata attraverso tre tipologie di dimensioni: Alla ricerca, promossa e coordinata dall’Agenas negli anni 2006-2008, hanno partecipato sette regioni (Abruzzo, Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, ASR Marche, ARES Puglia, Veneto) e una azienda sanitaria (Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” di Trieste). 2 Rapporto FIASO - Cergas, Università Commerciale Luigi Bocconi presentato a Milano il 23 giugno 2009 nel corso del convegno “Il Governo del Territorio nelle Aziende Sanitarie”. 3 Il CHSRF ha individuato 2.439 pubblicazioni/documenti (periodo 1966-2001), di cui 583 sono stati giudicati rilevanti per il contributo concettuale al tema, individuando 186 definizioni di continuità dell’assistenza (Reid et al., 2002 - Allegato G), assistenziale oggetto di indagine (Haggerty, Freeman et al., 2003). 1 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 100 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale 1. Continuità relazionale (Relational continuity). Consiste nella relazione continua del paziente con diversi professionisti sanitari e sociosanitari che forniscono assistenza in modo organico, coerente e attento allo sviluppo del percorso di trattamento in senso prospettico. Attiene ad un rapporto fiduciale da cui dipende l’integrazione tra operatori e servizi, la compliance del paziente e del care-giver, il clima delle relazioni. Tale dimensione riguarda il coinvolgimento di operatori motivati in grado di promuovere le finalità della rete assistenziale complessa in cui sono coinvolti, anche attraverso la disponibilità e la capacità di comunicazione efficace. La continuità relazionale si realizza attraverso: a. la relazione/rapporto tra individuo e provider nel corso del tempo, che aiuta a creare un ponte tra contatti discontinui (Ongoing patient-provider relationship); b. la stabilità/coerenza della presenza di medesimi operatori, che favorisce lo stabilirsi della relazione/rapporto con l’individuo (Consistency of personnel). 2. Continuità gestionale (Management continuity). È particolarmente importante in patologie cliniche croniche o complesse, che richiedono l’integrazione di più attori professionali/istituzionali nella gestione del percorso paziente. Questo si realizza attra- verso un’azione complementare e temporalmente coordinata e integrata dei s e r v i z i / p rof e s s i o n i s t i coinvolti nel sistema di offerta assistenziale. Essa garantisce che l’azione giusta venga intrapresa al momento giusto, nei modi e nei tempi più appropriati per conseguire gli esiti ottimali; prevede che siano seguite linee guida o documenti di consenso largamente condivisi, che consentano di trattare la cronicità con la minima frequenza di riacutizzazioni, complicanze e aggravamenti. La continuità gestionale si realizza con: a. l’integrazione e il coordinamento dell’assistenza attraverso la pianificazione, implementazione e valutazione dei percorsi assistenziali (Clinical Patwhay, Consistency of care; b. la flessibilità che deve essere una caratteristica intrinseca dei percorsi assistenziali per permettere l’adattabilità degli stessi a nuovi/mutati bisogni di salute e a variazioni di contesto dell’assistito (Flexibility). 3. Continuità informativa (Informational continuity). Permette la comunicazione tra i soggetti istituzionali/professionali che afferiscono ai differenti setting assistenziali nel percorso di cura del paziente. Riguarda informazioni non solo sulla condizione clinica, ma anche sulle preferenze, le caratteristiche personali e di contesto, utili ad assicurare la rispondenza al bisogno 100 N. 179 - 2010 di salute. La continuità informativa consente di scambiare e condividere le informazioni relative ai diversi episodi di cura dello stesso paziente da parte di differenti erogatori. Rappresenta una condizione necessaria ad una cura efficace ed efficiente, soprattutto in situazioni di patologie complesse, di comorbidità, di assistenza a malati cronici con episodi di riacutizzazione o anche in situazioni acute che richiedano multiprofessionalità. Tale dimensione è necessaria al coordinamento tempestivo degli interventi fra loro integrati, che escludano ridondanze e doppioni di raccolta informativa e siano finalizzati ad evitare o almeno ridurre discordanze ed errori di raccolta, interpretazione e registrazione. La continuità informativa si promuove attraverso: a. il trasferimento delle informazioni del paziente tra operatori (dello stesso team, della stessa organizzazione e tra diverse organizzazioni), che rappresenta un requisito basilare per l’integrazione e il coordinamento dell’assistenza (Transfer of information); b. l’allargamento dello spettro di conoscenze, nel senso che le informazioni non devono essere riferite solo alla condizione clinica, ma anche alle preferenze, le caratteristiche personali e di contesto, utili ad assicurare la rispon- denza dei servizi/prestazioni ai bisogni del paziente (Accumulated knowledge of patient). Alcuni contributi bibliografici successivi a questo schema non ne hanno intaccato logiche e contenuti, ma proposto aggregazioni diverse e/o più puntuali focalizzazioni: Gulliford et al. (2006) individuano 4 “sottodomini” della continuità: – continuità nel tempo (continuity longitudinal); – flessibilità (flexibility); – continuità relazionale (continuity relational); – continuità nei team e nei “confini” tra unità operative e/o organizzazioni (team and cross-boundary continuity). Freeman et al. (2003) individuano come elemento centrale della continuità il concetto di Experienced continuity (l’esperienza di un’assistenza coordinata e fluente nel tempo dal punto di vista del paziente) che va perseguita attraverso il conseguimento della: – continuità/coerenza informativa e dei medical record (continuity of information; continuity and coherence of medical record); – efficace comunicazione tra professionisti e servizi e col paziente (cross-boundary and team continuity); – flessibilità per adattarsi ai bisogni del paziente nel tempo (flexible continuity); – assistenza assicurata nel tempo (longitudinal continuity); – assistenza garantita da uno specifico professionista con il quale il paziente può sviluppare nel tempo 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 101 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 101 N. 179 - 2010 una migliore relazione personale e terapeutica (relational or interpersonal continuity). Leggere la continuità assistenziale A fronte dello schema di riferimento individuato dal CHSRF: Relational continuity – Ongoing patient-provider relationship – Consistency of personnel Management continuity – Consistency of care – Flexibility Informational continuity – Transfer of information – Accumulated knowledge of patient Appare evidente che la costruzione di strumenti di lettura/analisi della continuità assistenziale vada rapportata alla tipologia/dimensione della continuità che si vuole esplorare, tenendo conto di due ulteriori elementi: – nessuna misura, allo stato attuale, è capace di riflettere il concetto di continuità nella sua interezza; – alcune “specifiche” misure ancorché incardinate all’interno di una specifica prospettiva si riverberano inevitabilmente sulle altre apportando quindi contributi interpretativi rilevanti. Ad esempio l’incremento-allargamento delle informazioni sul paziente al di là di quelle squisitamente cliniche (Accumulated knowledge of patient) si riverbera sia sulla continuità gestionale, in termini di capacità adatti- va/flessibilità del sistema ai mutamenti di bisogni del paziente, sia sulla continuità relazionale, in quanto aiuta a consolidare la relazione con il paziente attraverso una attenta lettura delle caratteristiche/ preferenze personali e del contesto familiare/sociale. La prospettiva di lettura/ analisi della continuità assistenziale attraverso sistemi di indicatori necessita inoltre della condivisione del concetto di indicatore e delle diverse modalità di costruzione. Abbiamo fatto nostre alcune delle riflessioni di Pierluigi Morosini4, che sintetizziamo nei seguenti punti: – La funzione di un indicatore è di segnalare dove vi può essere un problema nella nostra organizzazione, come un cane da caccia punta alla selvaggina. Ma sono poi i responsabili (i cacciatori) a dovere valutare se vi sono problemi su cui prendere provvedimenti. – Gli indicatori sono variabili misurabili, ad alto contenuto informativo che servono a confrontare un fenomeno nel tempo (in momenti diversi) e nello spazio (tra realtà diverse) o rispetto ad un obiettivo da raggiungere o da mantenere, che consentono una valutazione sintetica di fenomeni e forniscono gli elementi necessari ad orientare le decisioni. – La “forma” degli indicatori è molteplice: • I tassi, proporzioni, indici, ecc., sono gli indicatori classici che derivano dai sistemi informativi correnti e da studi “ad hoc”. • Le cosiddette “specifiche” di un prodotto (nell’ambito industriale) possono essere considerate indicatori con la relativa soglia. • I requisiti di accreditamento, di certificazione, di buona pratica professionale/organizzativa, possono essere considerati anch’essi indicatori con la relativa soglia (obiettivo da raggiungere o da mantenere). Leggere la continuità relazionale La lettura della continuità relazionale è quella che più direttamente attiene la prospettiva del paziente e può avvenire attraverso: 1. Il monitoraggio della soddisfazione/esperienza degli utenti da svilupparsi mediante: • l’effettuazione di periodiche indagini di soddisfazione dei pazienti e dei loro famigliari; • la divulgazione/discussione dei risultati dell’indagine con i pazienti/famiglie o associazioni utenti; • la divulgazione/discussione dei risultati dell’indagine con gli operatori; • la stesura di un report contenente i problemi aperti e le azioni di miglioramento da realizzare. Vastissima è la bibliografia sull’argomento. Oltre alla bibliografia riportata da Reid et al. (2002 - Allegato D), si segnala, tra i più recenti contributi: – il questionario Patient Continuity of Care Questionnaire (PCCQ) (Hadjistavropoulos et al., 2008) messo a punto per indagare i seguenti aspetti della continuità assistenziale nell’interfaccia ospedale territorio: • le relazioni con i providers in ospedale • le informazioni trasmesse al paziente • le relazioni con i providers nel territorio • la gestione delle informazioni scritte • la gestione del follow-up • la gestione della comunicazione tra providers – la review di Adler et al. (2010) sulla relazione tra continuità assistenziale e soddisfazione del paziente nel primary health care. 2. L’analisi della corrispondenza ad alcuni requisiti di buone pratiche organizzative, ad es.: • presenza di un singolo operatore (care manager) preposto a seguire nel tempo specifici pazienti; 4 Il Prof. Morosini, prematuramente scomparso, ha offerto alla comunità scientifica nazionale e internazionale contributi scientifici fondamentali nel campo della epidemiologia valutativa dei servizi sanitari nonché, da acuto autore di aforismi, spunti di riflessione sui significanti/significati delle attività di ricerca. 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 102 • presenza di un team di operatori preposto a seguire nel tempo specifici pazienti; • presenza nell’organizzazione di policy/linee guida/ standard di pratiche sulla continuità relazionale; • presenza di report che testimonino la conoscenza delle esigenze del paziente e del contesto in cui vive (nelle patologie croniche); • presenza di report sulla qualità della continuità dell’assistenza predisposti con i care giver; • individuazione di un responsabile (es. team leader) che effettui periodicamente la supervisione della qualità della continuità relazionale; • iniziative aziendali di informazione/formazione e comunicazione tra pazienti/famiglie e operatori; • analisi e approfondimento dei reclami su carenze di continuità assistenziale. Leggere la continuità gestionale La continuità dell’assistenza presuppone l’assunzione, da parte delle organizzazioni, delle logiche delle reti e dei processi assistenziali. Una trattazione esaustiva di tali logiche e dei relativi strumenti esula dagli scopi di questo articolo e vengono dati come assunti. Si cercherà di offrire elementi di ragione per rispondere a un quesito di fondo: al di là della dichiarazione formale dell’esistenza di 20-04-2010 15:31 Pagina 102 La continuità assistenziale una rete (es.: emergenza-urgenza, oncologica, cardiologica, ecc.) o di percorsi/processi assistenziali (es.: percorso IMA, stroke, frattura femore, trauma cranico, ecc.), come evidenziare una reale strutturazione/funzionamento in rete degli elementi costitutivi (i nodi) della stessa e dei processi assistenziali implementati? Nel caso in cui una organizzazione non sia inserita all’interno di una rete assistenziale specifica o non partecipi ad alcun percorso assistenziale strutturato, il monitoraggio della propria capacità di garantire la continuità gestionale può essere effettuato attraverso l’adozione dei seguenti requisiti: – Individuazione di operatori il cui ruolo è quello di garantire la gestione della continuità (es. case manager o team leader responsabile di coordinare l’assistenza all’interno dell’organizzazione). – Uso di standard clinici (linee guida; protocolli; ecc) per coordinare l’assistenza ai pazienti dentro la propria organizzazione. – Uso di standard clinici (linee guida; protocolli; ecc) per coordinare l’assistenza ai pazienti con le altre organizzazioni. – Definizione di standard di pratica clinica correlati alla gestione delle continuità (es. politiche o pratiche mirate a promuovere/mantenere i meeting dei team di lavoro). – Audit periodici per massimizzare il coordinamento dell’assistenza e la continuità dell’assistenza. N. 179 - 2010 – Incontri periodici dei team sull’assistenza al paziente. – Incontro dei team con i care giver. – Conferenze inter-organizzazioni per promuovere/ facilitare l’assistenza integrata dei pazienti. – Accordi assistenziali collaborativi con altre organizzazioni sanitarie. – Accordi assistenziali collaborativi con settori extrasanitari (es. enti locali, scuola, giustizia, ecc.). – Utilizzo di indicatori per misurare la gestione della continuità assistenziale. Nel caso in cui l’organizzazione sia inserita formalmente entro una rete assistenziale e/o condivida percorsi assistenziali strutturati potrebbe essere utile fornirsi di una griglia di lettura/analisi del grado di maturazione delle stesse. Lontani dal proporre una check list esaustiva di analisi del funzionamento di una rete e dei percorsi assistenziali, nella Tabella 1, ci si limita a proporre una lista di criteri/ requisiti che possono evidenziare aree di miglioramento organizzativo. Indicatori di continuità gestionale Gli indicatori di continuità gestionale presenti in letteratura possono essere raccolti, per comodità descrittiva, in tre macro categorie: – indicatori di concentrazione/dispersione/sequenzialità (longitudinalità) dell’assistenza; – indicatori indiretti di continuità di assistenza territoriale; – indicatori diretti continuità di assistenza specifici per patologia. Indicatori di concentrazione/dispersione/sequenzialità (longitudinalità) dell’assistenza La letteratura propone alcuni indicatori volti a misurare direttamente “concentrazione/dispersione” e “sequenzialità” dell’assistenza come elementi chiave della continuità (Tab. 2). Le misure di “concentrazione/dispersione” basano il loro assunto sull’ipotesi che più grande è la concentrazione dell’assistenza su uno stesso provider (operatore o servizio) e più sequenziale nel tempo, più forte è la relazione che si stabilisce, più consistente il piano di attività e più scorrevole il trasferimento dell’informazione. Un altro set di indicatori “specifici” su continuità/ coordinamento dell’assistenza è quello dalla RAND Health che, a partire dal 2000, ha avviato il progetto ACOVE (Assessing Care of Vulnerable Elders) focalizzato sui grandi anziani (> 75 anni) che, a maggior rischio di malattia/perdite funzionali, sono i più suscettibili agli effetti legati alla scarsa qualità dell’assistenza. Gli indicatori riportati in Tabella 3 sono quelli individuati nel sottoinsieme “Continuità e coordinamento dell’assistenza” (Wenger e Young, 2004). Indicatori indiretti di continuità di assistenza territoriale Gli indicatori più utilizzati per una lettura indiretta della continuità assistenziale 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 103 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 103 N. 179 - 2010 Tab. 1. La rete e i percorsi assistenziali Requisiti Si No Parz. La rete assistenziale 1. È stato identificato il bacino di utenza della rete 2. Sono state individuati tutti i nodi che compongono la rete (UU.OO., servizi, Presidi) 3. Sono specificate le funzioni e le attività di ciascun nodo 4. Sono specificate le dotazioni strutturali, strumentali e le dotazioni organiche di ciascun nodo 5. Sono state definite (se indicate) le sedi hub e spoke dei nodi della rete. In questo caso sono state regolati: a. le responsabilità di coordinamento per il percorso clinico e il follow-up dei pazienti b. i criteri di ammissione dei pazienti e le priorità di accesso c. i tempi e le liste di attesa differenziate per gli hub e spoke d. i criteri di dimissione e re-invio allo spoke 6. Sono state elaborate e condivise linee guida e protocolli assistenziali 7. Sono state adottate procedure informatiche, per il collegamento in rete di tutte le unità operative coinvolte 8. Sono attivati piani di formazione continua e condivisi per gli operatori della rete 9. È previsto lo scambio di operatori tra i nodi della rete, per finalità di aggiornamento professionale o di ricerca 10. Sono previsti progetti di ricerca comuni tra i nodi della rete 11. Esiste un board di coordinamento della rete che predispone un documento di programmazione in cui sono esplicitati gli obiettivi e le attività di breve-medio periodo coerenti con le linee programmatiche regionali (o aziendali). Gli obiettivi: a. sono misurabili attraverso indicatori specifici;ì b. contengono l’indicazione del tempo necessario al loro perseguimento c. contengono l’indicazione delle scadenze entro cui andranno verificati 12. Viene redatto annualmente un report sulle attività della rete che viene presentato formalmente in apposita/e riunione/i agli operatori della rete I percorsi assistenziali 13. La rete ha definito un percorso assistenziale per la patologia più “rilevante” (da un punto di vista clinico e/o epidemiologico) tra quelle di sua pertinenza 14. Per il percorso di assistenza individuato sono indicati: a. b. c. d. i criteri che ne hanno determinato la scelta la flow chart del percorso la descrizione, per ciascuna fase del percorso, delle categorie assistenziali principali la valutazione clinica 15. Il coordinatore o il gruppo di coordinamento 16. Gli operatori che hanno partecipato alla stesura 17. La data della compilazione o della conferma o dell’aggiornamento delle raccomandazioni 18. Tutti gli operatori delle UO coinvolte nella costruzione del percorso sono stati informati sui contenuti dello stesso e formati relativamente alle nuove procedure assistenziali 19. I documenti relativi al profilo sono collocati in posizione facilmente accessibile in ogni UO 20. Viene effettuato periodicamente un audit per la valutazione del grado di applicazione del profilo di assistenza e sono valutati i motivi di scostamento dal profilo stesso 21. Viene redatto periodicamente un report sui risultati del monitoraggio del percorso assistenziale 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 104 20-04-2010 15:31 Pagina 104 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 Tab. 2. Indicatori di concentrazione/dispersione/sequenzialità dell’assistenza (da Reid et. al., 2002). Indicatore Descrizione Numero di provider N° di provider con i quali il paziente viene in contatto durante un episodio di assistenza (es.: ospedalizzazione) o in un determinato periodo di tempo (es. un anno). Usual Provider of Continuity (UPC) (Breslau et al 1975) N° di visite dell’operatore “usuale” in un dato periodo di tempo sul n° totale di visite di operatori simili. Continuity of Care (COC) Index (Bice et al 1977) Misura la concentrazione e la dispersione di assistenza tra tutti i provider visti da un paziente. Known’Provider Continuity Misura la concentrazione di assistenza con i differenti provider visti da un paziente. (K index) (Ejlertsson et al 1985) Likelihoodof Continuity (LICON) Misura la probabilità che il numero di provider visti sia più basso di quello che sarebbe occorso in condizioni casuali, dati il (Steinwachs 1979) livello di utilizzazione dei servizi da parte del paziente e il numero di provider disponibili. Modified Modified Continuity Misura la concentrazione di assistenza in una popolazione di pazienti e il livello individuale dei pazienti. Index (MMCI) (Magill et al 1987) Sequential Continuity (SECON) (Steinwachs 1979) La proporzione di visite sequenziali con lo stesso provider, in un determinato periodo di tempo. Alpha Index (CI?) (Lou 2001) Rappresenta una media pesata tra la sequenzialità e la concetrazione di provider visti in una serie di visite. sono i PQIs (Prevention Quality Indicators) messi a punto dall’AHRQ (AHRQ, 2007, AHRQ, 2008). I PQIs, basati su dati di ricovero (SDO), sono indicatori utili a evidenziare problemi di qualità dell’assistenza per le condizioni sensibili al sistema delle cure ambulatoriali, il che li propone al ruolo di possibili indicatori di discontinuità assistenziale in quanto basati su condizioni per le quali una buona rete di assistenza extraospedaliera deve evitare o comunque ridurre il rischio di ricovero per complicanze o aggravamenti. I PQIs fanno riferimento alle sotto riferite 14 condizioni sensibili ai trattamenti extraospedalieri: 1. Complicanze a breve termine del diabete (PQI 1) 2. Appendicite perforata (relativa ai ricoveri per appendicite verificatisi) (PQI 2) 3. Complicanze a lungo termine del diabete (PQI 3) 4. BPCO (PQI 5) 5. Ipertensione (PQI 7) 6. Scompenso cardiaco (PQI 8) 7. Basso peso alla nascita (relativo al numero di parti) (PQI 9) 8. Disidratazione (PQI 10) 9. Polmonite batterica (PQI 11) 10. Infezioni urinarie (PQI 12) 11. Angina senza procedure (PQI 13) 12. Diabete non controllato (PQI 14) 13. Asma in paziente adulto (PQI 15) 14. Amputazioni delle estremità inferiori in diabetici (PQI 16) Ricoveri per tali condizioni potrebbero essere evitati qualora esistesse una rete assistenziale sul territorio di buona qualità anche se, naturalmente, anche altri fattori al di fuori del controllo diretto del sistema sanitario possono avere un ruolo nel determinarli, ad esempio le cat- tive condizioni socio-economico-culturali, ambientali e la scarsa compliance da parte del paziente alle prescrizioni del medico di base o dell’ambulatorio specialistico. Per questo tali indicatori si suggeriscono solo come strumenti di screening, che solo un attento studio di correlazione locale può servire a contestualizzare e a rendere operativamente efficaci nella valutazione della continuità assistenziale. Indicatori diretti di continuità di assistenza specifici per patologia I Clinical Pathway (percorsi/ processi/profili assistenziali) rappresentano il modello operativo-funzionale per tradurre nella pratica la sequenza tempestiva e ordinata degli interventi sanitari per la diagnosi, la terapia, la riabilitazione di patologie croniche o complesse. In tale approccio si può tenere conto di gran parte degli accorgimenti che la ricerca ha dimostrato utili per cambiare in meglio il comportamento dei professionisti sanitari (Panella et al., 1997, Panella et al., 2000; Morosini et al., 2004 Di Stanislao, 2005): – combinazione di qualità professionale e organizzativa, di sforzi verso il miglioramento sia dell’efficacia, sia dell’efficienza; – attribuzione di priorità alle raccomandazioni professionali più importanti; – coinvolgimento nella definizione precisa delle raccomandazioni e soprattutto nelle loro modalità di applicazione dei professionisti locali, in particolare dei più influenti e prestigiosi; – rilevazione di indicatori di processo e di esito, con feed-back ai partecipanti; – applicabilità senza bisogno di grosse risorse aggiuntive; – presenza di incentivi economici e amministrativi 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 105 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 105 N. 179 - 2010 Tab. 3. Indicatori di continuità e coordinamento dell’assistenza della RAND Health (Wenger e Young, 2004). INDICATORE NUMERATORE DENOMINATORE 1. Identificare fonte di cura Soggetti che riescono a identificare un medico/servizio Tutte le persone di età = o > a 75 anni che si sarebbe chiamato in caso di bisogno di cure mediche o conoscono il numero di telefono o altro meccanismo attraverso il quale possono raggiungere questa fonte di cura. 2. Follow-up farmaci La cartella clinica alla visita del follow-up documenta uno dei seguenti elementi: il farmaco è stato preso, il medico ha chiesto/informato il paziente per il farmaco (ad esempio, gli effetti collaterali o adesione o disponibilità), o il farmaco non è stato iniziato perché non era necessario o perché si è cambiato. Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 che hanno iniziato un nuovo farmaco su prescrizione medica e per i quali è prevista una vista di follow-up visita con il medico che prescrive. 3. Continuità delle prescrizioni farmaceutiche tra i medici La cartella clinica del medico non-prescrittore contiene il cambiamento effettuato. Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 assistiti da 2 o più medici in cui un medico ha prescritto un nuovo farmaco o una sostituzione del farmaco 4. Ragione per la consultazione La ragione della consultazione deve essere documentata Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 con prescrizione di nella cartella del consulente. consulenza specialistica. 5. Raccomandazioni del documento consulente La cartella clinica del medico di riferimento documenta Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 con visita le raccomandazioni del o include le note del consulente specialistica e tornati al medico di riferimento. entro 6 settimane o al momento della visita di follow-up, se posteriore. 6. Test diagnostico di follow-up La cartella clinica alla visita follow-up dovrebbe Pazienti ambulatoriali di età = o > a 75 con cartella clinica documentare uno dei seguenti elementi: risultato con prescrizione di un test diagnostico. del test, test non è stato necessario o ragione per cui non sarà effettuato, o il test è ancora in corso 7. Continuità dei trattamenti La cartella clinica ambulatoriale deve documentare il farmacologici dopo il ricovero cambiamento farmaco entro 6 settimane dalla dimissione. Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale con prescrizione di nuovi farmaci o sostituzione di farmaci alla dimissione. 8. Tempo di attesa risultati test diagnostici La cartella clinica ambulatoriale o della residenza deve documentare il risultato del test entro 6 settimane di dimissione ospedaliera. Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale a casa o in una residenza con un test in attesa di risposta. 9. Visite di follow-up dopo ospedalizzazione La documentazione medica dovrebbe documentare che la visita o il trattamento ha avuto luogo o che è stato rinviato o non è stato necessario. Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale a casa o in una residenza in attesa di risposta a un test o un follow-up per una visita medica o un trattamento (ad es.: terapia fisica). Pazienti con visita di follow-up o contatti telefonici documentati entro 6 settimane dalla dimissione e nella documentazione medica dovrebbe essere registrato il motivo del recente ricovero in ospedale. Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale sopravvissuti almeno 4 settimane dopo la dimissione. 10. Follow-up ospedaliero dopo 6 settimane dalla dimissione 11. Trasferimento cartelle cliniche Le cartelle cliniche dei reparti riceventi devono Pazienti di età = o > a 75 trasferiti tra reparti di emergenza comprendere la documentazione medica dal reparto o tra reparti per acuti. di trasferimento, o devono documentare che il trasferimento di tale documentazione medica è in corso. 12. Sintesi dimissioni entro 6 settimane dimissione La cartella clinica ambulatoriale o della residenza deve Pazienti di età = o > a 75 dimessi da un ospedale a casa o contenere la lettera di dimissione (o documento analogo) in una residenza entro 6 settimane dalla dimissione. 13. Interprete È documentabile che per facilitare la comunicazione tra il paziente e gli operatori sia stato utilizzato un interprete o materiale tradotto nella lingua dello straniero. Pazienti di età = o > a 75 sordi o stranieri che non parlano l’italiano 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 106 concordati (ad esempio, inclusione nel budget). Lo strumento percorsi assistenziali ha inoltre i vantaggi di: – stimolare un approccio basato sui processi, superando le compartimentazioni in unità organizzative e servizi, e centrato sui problemi di salute dei pazienti; – promuovere il pieno coinvolgimento dei professionisti ed essere quindi funzionale all’obiettivo della clinical governance; – orientare il sistema informativo aziendale verso la rilevazione dell’appropriatezza degli interventi e degli esiti, sia intermedi nel processo assistenziale, sia finali; – facilitare la misurazione dell’impatto economico delle decisioni; – favorire la riprogettazione della struttura organizzativa e del sistema delle responsabilità aziendali in modo sempre più coerente con la missione aziendale di tutela della salute. Nel corso di questi ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi5 e diverse metanalisi (Rotter et al., 2008; Barbieri et. al., 2009;) che mostrano la capacità dei clinical pahtway di migliorare la qualità dei processi (reale applicazione delle raccomandazioni/protocolli/linee guida diagnostico-terapeutico e assistenziali) e degli esiti. I clinical pathway maggior- 20-04-2010 15:31 Pagina 106 La continuità assistenziale mente studiati e quindi su cui è possibile reperire repertori di indicatori di processo ed esito sono quelli relativi a: infarto miocardico acuto; scompenso cardiaco; stroke; politraumatizzato; trauma cranico; frattura del femore; BPCO; uremia cronica. Inoltre, sempre più numerosi, appaiono contributi di ricerca su: pazienti oncologici; pazienti “fragili”; schizofrenia; depressione. A titolo di esempio, si riportano alcuni risultati (Tab. 4) di un trial clinico randomizzato controllato in cluster finalizzato a valutare l’impatto della realizzazione del percorso assistenziale dello scompenso cardiaco negli ospedali (Panella et al., 2009)6. Leggere la continuità informativa Come ricordato in premessa la continuità informativa rappresenta un requisito basilare per l’integrazione e il coordinamento dell’assistenza. L’attenzione posta dall’organizzazione allo sviluppo della continuità informativa può essere valutata attraverso la corrispondenza ai requisiti di seguito delineati nonché direttamente attraverso la produzione di indicatori ricavabili direttamente dai datawarehouse: – la documentazione clinica di reparto (diario clinico, lettera di dimissione; visite/consulenze, referti radiologici e di laboratorio) è gestita in forma digitale; N. 179 - 2010 – la documentazione clinica è gestita in forma digitale nei seguenti servizi: laboratorio analisi; anatomia patologica, diagnostica per immagini, pronto soccorso, farmacia; – la documentazione clinica è accessibile per via elettronica da parte dei provider interni all’organizzazione; – la documentazione clinica è accessibile per via elettronica da parte dei provider esterni all’organizzazione (es. medici di medicina generale); – viene effettuata una verifica periodica della qualità (completezza, leggibilità, ecc.) delle cartelle cliniche; – sono state emanate linee guida per garantire la continuità informativa; – privacy: sono presenti e adottati tutti i documenti e le misure previste dalla normativa attuale sulla tutela dei dati personali. Di rilievo alcune riflessioni di Longo et al. (2009) sui determinanti “soft” (cioè non attinenti la presenza le tecnologie informatiche) della continuità informativa. I principali driver esplicativi dei livelli di frequenza dello scambio informativo tra i professionisti, e conseguentemente dell’integrazione/coordinamento, sembrano essere: – la vicinanza spaziale, e nello specifico la presenza fisica dei professionisti nella stessa struttura: quanto più i professionisti lavorano nello stesso ambiente fisico, tanto più si scambiano informazioni e sono integrati nella cura dei medesimi pazienti; – la gravità della condizione clinica dei pazienti: quanto più gravi sono le condizioni cliniche dei pazienti, e quanto maggiore e “urgente” è perciò la tipologia di assistenza richiesta, tanto maggiore è il livello di scambio di informazioni e il coordinamento tra i professionisti coinvolti; – l’orientamento e la cultura verso l’integrazione presenti all’interno delle singole aziende: in contesti in cui vi è una maggiore apertura dei professionisti verso l’integrazione, si riscontrano livelli di integrazione professionale più elevati per tutte le patologie analizzate. Considerazioni Le evidenze attuali sui benefici dello sviluppo delle logiche/metodologie e strumenti per garantire la continuità assistenziale sono essenzialmente (Longo et al., 2008): – Una maggiore appropriatezza (coerente applicazione di linee guida /protocolli diagnostici terapeutici) ed efficacia (outcome) derivante dall’adozione dei clinical pahtway per specifiche patologie (Rotter et al. 2008, Barbieri et al., 2009, Panella et al. 2009). Ricordiamo solo alcuni siti WEB di interesse (cfr. ad es.: European Pathway Association http://www.e-p-a.org; International Journal of Care Pathways, http://ijcp.rsmjournals.com; GIN - Guidelines International Network Conference http://www.g-i-n.net). 6 16 ospedali hanno chiesto di realizzare il percorso assistenziale dello scompenso cardiaco, 14 community hospitals sono stati selezionati (selezione basata sulla confrontabilità della localizzazione, dei pazienti, dei servizi, teaching statuse livello di aggiornamento professionale) e randomizzati. 5 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 107 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 107 N. 179 - 2010 Tab. 4. Sintesi dei principali risultati di un trial clinico randomizzato controllato in cluster sullo scompenso cardiaco (Panella et al., 2009). INDICATORI DI PROCESSO Procedure diagnostiche Percorso scompenso Assistenza tradizionale % % Significatività statistica Ecocardigrafia 77.10 12.09 < 0.001 Ecocardigrafia transesofagea 19.16 1.40 < 0.001 Elettrocardiografia 96.26 95.35 n.s. Rx torace 90.65 79.07 < 0.001 Ossimetria 73.83 26.05 < 0.001 Monitoraggio peso 47.66 36.74 < 0.022 Monitoraggio diuresi 67.76 49.77 < 0.001 Trattamenti farmacologici Farmaci inotropi 66.36 48.84 < 0.001 ACE inibitori 57.94 40.00 < 0.001 Beta bloccanti 46.73 10.23 < 0.001 Diuretici 95.33 . 95.81 n.s. Nitrati 33.18 24.19 < 0.039 Altri vasodilatatori 39.25 3.26 < 0.001 Eparina 50.00 19.07 < 0.001 Anticoagulanti orali 58.88 14.88 < 0.001 Trattamenti riabilitativi - Empowerment paziente (JCAHO core measures set) Valutazione della funzione ventricolare sx alla dimissione o pianificata per dopo la dimissione 98.1 12.1 < 0.001 Riabilitazione cardiologica alla dimissione o pianificata per dopo la dimissione 36.4 5.1 < 0.001 Counseling per la cessazione del fumo 58.8 12.9 < 0.004 Istruzioni scritte alla dimissione sulle attività fisiche, dieta, farmaci, follow-up, monitoraggio peso e su comportamenti in caso di comparsa di sintomi 62.6 8.8 < 0.001 ACE - inibitori alla dimissione con/senza controindicazioni, con LVF < 40% 60.0 41.7 n.s. Mortalità intraospedaliera 5.6 15.3 < 0.001 Tasso di riammissione non programmate 7.9 13.9 n.s. INDICATORI DI ESITO Soddisfazione pazienti 8.5 8.1 n.s. Appropriatezza degenza 76.2 72.1 n.s. Degenza media 10.3 11.4 < 0.028 – Evidenze ancora insufficienti sulle possibili economie derivanti dalla loro applicazione(Peikes et al., 2009). – Una maggiore soddisfazione degli utenti del sistema, attraverso la valoriz- zazione di relazioni interpersonali capaci di aumentare il senso di cura percepita da parte dei pazienti; (Becker et al., 1974; Longo et al., 2009). Su quest’ultimo tema è interessante notare come il livello di soddisfazione derivante da accresciuti livelli di continuità nelle cure dipenda spesso dalle condizioni socio-economiche dei pazienti: pazienti particolarmente fragili, e spesso esclusi dalla condivisione di informazioni relative al pro- prio percorso di cura, si sentono particolarmente soddisfatti della presenza di relazioni stabili con professionisti, mentre lo stesso livello di soddisfazione non si registra in pazienti più evoluti e avanzati socialmente ed economicamente (Becker et al., 1974). Questa evidenza suggerisce come la soddisfazione del paziente possa essere rivolta alla gratificazione del rapporto personale con il professionista, ovvero a quel meccanismo di “meta-continuità” che non può essere propriamente associato a una corretta definizione di “continuità assistenziale”, nonché alla dimensione dell’accessibilità dei servizi (es.: facilità di accesso allo studio del MMG o al centro diabetico o all’ambulatorio; Longo et al., 2009). Da un punto di vista delle metodologie/strumenti di lettura, dalla revisione della letteratura e dall’analisi delle esperienze emergono alcune indicazioni che rappresentano anche possibili traiettorie di lavoro futuro: – la continuità assistenziale deve essere esplorata con un approccio multidimensionale capace di leggere le tre dimensioni fondanti il concetto di continuità: la continuità relazionale, gestionale e informativa. – la maggior parte delle attività di ricerca sperimentate riguardano la continuità gestionale. Gli indicatori sui percorsi assistenziali di specifiche patologie offrono indicazioni fondamentali sull’efficacia (effectiveness), appropriatezza ed efficienza dell’assistenza erogata; 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 108 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale – è necessario approfondire le sperimentazioni sullo sviluppo ed applicazione di misure dirette di lettura: • della prospettiva del paziente; • della dimensione della continuità informativa; • delle interfacce (confini) tra le articolazioni organizzative interaziendali e tra aziende. È necessario utilizzare strumenti “ibridi” (Longo et al., 2009) (es.: griglie di analisi organizzativa; survey/indagini di soddisfazione dei pazienti/famiglie e operatori; focus group; dati organizzativi di azienda, ecc.) rispetto agli indicatori tradizionalmente intesi, indispensabili per leggere dimensioni non altrimenti esplorabili che possono offrire utili spunti di riflessione il management e gli operatori di line delle nostre organizzazioni. Riteniamo che lo sviluppo e l’applicazione di un sistema di monitoraggio della conti- nuità dell’assistenza sia da mettere nell’agenda delle priorità delle nostre organizzazioni sanitarie per un triplice motivo: – fornire l’evidenza della reale implementazione delle logiche delle reti e dei processi assistenziali, logiche ormai ineludibili nel governo e gestione di un sistema complesso quale quello della sanità. Reti e processi sono la traduzione organizzativa ed operativa del concetto di sistema; rappresentano le modalità per passare da un sistema di progetti intra/inter-aziendali spesso virtuosi, ma sovente non coordinati tra loro, a un progetto di sistema in cui le parti in causa agiscono, dialogano, si confrontano intorno ai bisogni del paziente; – portare ulteriori elementi conoscitivi, già suffragati per molti aspetti e in diversi campi da risultati di ricerca, alle evidenze che il buon funzionamento di una 108 Bibliografia Adler A, Vasiliadis A, Bickell N ., The relationship between continuity and patient satisfaction: a systematic review Family Practice, doi:10.1093/fampra/cmp099 (published online on January 6, 2010) Agenas - Progetto di ricerca finalizzata (2005), Sperimentazione di una serie di indicatori per la misura della continuità assistenziale. Responsabile scientifico: Prof. Piergiorgio Duca; http://www. assr.it/agenas_pdf/Sperimentazione_serie_di_indicatori.pdf AHRQ Quality Indicators (October 2001), Guide to Prevention Quality Indicators: Hospital Admission for Ambulatory Care Sensitive Conditions, Department of Health and Human Services. Agency for Healthcare Research and Quality; http://www.qualityindicators.ahrq.gov; Version 3.1 (March 12, 2007). AHRQ Quality Indicators (October 2001), Prevention Quality Indicators: Technical Specifications. Department of Health and Human Services, Agency for Healthcare Research and Quality; http://www.qualityindicators.ahrq.gov; Version 3.2 (February 29, 2008). Barbieri A., Vanhaecht K., Van Herck P., Sermeus W., Faggiano F., Mar- N. 179 - 2010 rete, fortemente connessa e ben strutturata, percorsa da un regolare flusso informativo, che operi interventi di documentata efficacia, tempestivi e coordinati, si traduce nel buon trattamento della cronicità; nella promozione di un clima lavorativo atto a motivare tutti gli operatori a dare il meglio nel conseguire gli obiettivi di un progetto condiviso, e nella risultante soddisfazione del paziente preso in carico dall’istituzione e reso protagonista delle decisioni che lo riguardano; – dare evidenza che l’obiettivo dell’equità dell’assistenza e del contrasto delle diseguaglianze nella salute, principio fondante del nostro sistema sanitario, non è solo una mera dichiarazione d’intenti, ma viene realmente perseguito monitorando la capacità del nostro sistema di una reale “presa in carico” dei cittadini e, tra questi, so- prattutto di quelli che rischiano per la loro condizione di deprivazione (culturale, sociale, materiale, relazionale) di non accedere tempestivamente e di affrontare un “pericoloso viaggio” (Bodenheimer T., 2008) o navigazione (Sofaer S., 2009) tra gli arcipelaghi dei servizi e delle prestazioni offerte dal sistema. La sfida per il futuro (Longo et al, 2009) delle ricerche sul campo è quello di andare a intercettare quei livelli di bisogno inespresso che non riescono per svariate ragioni a tradursi in domanda esplicita di servizi (pazienti non arruolati nei percorsi, soggetti con elevati fattori di rischio che non partecipano a programmi di prevenzione…), valutandone le criticità nell’accesso ai servizi e programmando le strategie di inclusione in programmi formalizzati di assistenza o monitoraggio. chisio S., Panella M. (2009), Effects of clinical pathways in the joint replacement: a meta-analysis, BMC Med., 7, p. 32; published online 2009 July 1. doi: 10.1186/1741-7015-7-32. Becker M.H., Drachman R.H., Kirscht J.P. (1974), A field experiment to evaluate various outcomes of continuity of physician care, Am J Public Health, 64 (11), pp. 1062-70. Bice T.W., Boxerman S.B. (1977), A quantitative measure of continuity of care, Med Care, 15, pp. 347-9. Bodenheimer T. 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(marzo 1997), Una metodologia (segue da pag. 98): L’integrazione dei profili professionali Fondamentale quindi: – prestare particolare attenzione alle figure infermieristiche ad essa peculiarmente dedicate ed in particolar modo al ruolo del coordinatore infermieristico che deve essere in possesso di competenze di management e dello strumento informatico in generale, con tutte le applicazioni che mette a disposizione; – dare priorità allo sviluppo di una efficace comunicazione clinico-assistenziale fra i nodi della rete utilizzando metodologie quali: lavoro in gruppo, roleplayng, simulazioni, audit formativi periodici sui casi, patto formativo d’aula come fondamento del percorso, utilizzo di esperti in counselling relazionale, momenti d’incontro/confronto fra coordinatori infermieristici e con gli altri operatori sanitari, in particolare MMG; per lo sviluppo dei profili di assistenza: l’esperienza del TriHealth Inc, QA vol. 8, n. 1, pp. 1-16. 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(2004), Quality Indicators of Continuity and Coordination of Care for Vulnerable Elder Persons, WORKING PAPER – RAND HEALTH, August 2004. – ipotizzare l’individuazione di una figura all’interno del gruppo multidisciplinare che sia riconosciuto quale referente formativo del percorso, che si correli quindi con gli altri professionisti coinvolti, affianchi, se non coincidente, con l’animatore di formazione di riferimento e con l’ufficio formazione dell’azienda sanitaria; – allestire una serie di indicatori di valutazione della qualità, ad esempio: • Presenza mappatura competenze. • Eventi formativi già svolti. • Glossario condiviso. • Sistema informativo conosciuto e integrato. L’obiettivo è quello di dare vita ad una rete (comunità di pratiche) che supporti dinamicamente il processo di sviluppo e continuo cambiamento delle pratiche assistenziali e relazionali in ospedale come sul territorio. 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 110 Cesare Cislaghi Università di Milano - Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali, Roma L a remunerazione di una attività non segue dei criteri univoci e ben definiti ma anzi dipende fortemente dal contesto in cui viene eseguita. In generale la remunerazione è definibile come ciò che riceve un soggetto in cambio di una attività che ha prestato. La remunerazione dipende allora soprattutto dal rapporto intercorrente tra i due soggetti coinvolti, il prestatore ed il remuneratore. Se il prestatore è in rapporto di dipendenza con il remuneratore, la remunerazione diventa essenzialmente un finanziamento, cioè un trasferimento di risorse al prestatore per integrarlo delle risorse da questo utilizzate per compiere la prestazione. Se invece il rapporto non è di dipendenza allora la remunerazione diventa un prezzo e cioè l’equivalente in denaro del valore che il compratore attribuisce alla prestazione acquisita. La differenza tra le due fattispecie è tutt’altro che ininfluente in quanto nel primo caso la misura della remunerazione sono i costi che si sono sostenuti per svolgere l’attività, mentre nel secondo la remunerazione è proporzionale al valore d’uso dell’attività stessa. Ci sono anche remunerazioni che assumono criteri interme- 20-04-2010 15:31 Pagina 110 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 Modelli di remunerazione delle prestazioni di quali ad esempio le tariffe, che sono prezzi regolati e proporzionali ai costi e in cui il rapporto tra il soggetto prestatore e il soggetto remuneratore non è di dipendenza, ma il rapporto non avviene nell’ambito di un mercato libero bensì di un mercato regolato; la particolarità poi delle tariffe di molti settori pubblici quali la sanità è che il remuneratore è un soggetto terzo rispetto al produttore ed all’utilizzatore, e quindi utilizza un criterio intermedio tra il corrispettivo del costo ed il corrispettivo del valore. Un altro elemento importante è il soggetto che di fatto definisce la remunerazione: se l’attività si svolge in situazione di monopolio la remunerazione la definisce il produttore monopolista; se si svolge in situazione di monopsonio invece la remunerazione la definisce il compratore monopsonista; è solo in situazioni di concorrenza che la remunerazione si definisce mediante un equilibrio tra l’interesse dell’offerta e quella della domanda. Il monopolista chiederà la maggior remunerazione possibile compatibile con il mantenimento del livello di domanda che lui ritiene necessaria per ottimizzare il sistema produttivo; il monopsonista, invece, L'obiettivo del raggiungimento di un equilibrio fra il risultato clinico e quello economico offrirà la remunerazione minore compatibile con il mantenimento di un livello di offerta sufficiente a soddisfare le proprie esigenze. In situazioni di concorrenza poi è l’incontro tra gli interessi dell’offerta e della domanda che definisce l’entità della remunerazione: la carenza di offerta farà aumentare i prezzi, mentre la carenza di domanda li farà diminuire. Un altro elemento importante è il contenuto dell’attività oggetto della remunerazione: questa può essere un singolo elemento utilizzato, oppure la prestazione elementare, la prestazione complessa, l’intero percorso prestazionale od anche, infine, la copertura del rischio di necessitare in futuro di una prestazione. Ci sono infatti in sanità delle situazioni in cui viene remunerato il singolo elemento, ad esempio il farmaco, oppure gli elementi separati di una prestazione, come in una prestazione specialistica la visita del clinico distinta dalle procedure diagnostiche, come una ecografia effettuate contestualmente. Tutta la medicina diagnostica e specialistica viene per lo più remunerata a singola prestazione mentre i ricoveri ospedalieri nel nostro sistema pubblico vengono remunerati “a corpo” con una tariffa che comprende forfettariamente tutte le prestazioni fornite al ricoverato. Se ad esempio per curare un caso di polmonite occorrono due visite specialistiche, un esame radiologico e dei farmaci antibiotici, la remunerazione di tutto ciò avviene in modo specifico se il paziente è curato a domicilio, mentre viene remunerato globalmente con una tariffa associata al DRG se il paziente è assistito in ospedale. Qual’è l’elemento che distingue, ai fini della remunerazione, i due processi assistenziali? È la diversità o l’unicità tra il soggetto che gestisce clinicamente il caso ed il soggetto che riscuote la remunerazione. A domicilio, infatti, la cura della polmonite viene gestita da un medico o talvolta, seppur scorrettamente, anche da più medici, ma la remunerazione riguarda non il prescrittore bensì i singoli erogatori delle singole prestazioni da loro prescritte. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 111 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 111 N. 179 - 2010 In ospedale, invece, la responsabilità della cura è dello stesso soggetto, l’ospedale, che poi percepisce la relativa remunerazione. La differenza è che nel primo caso la variabilità, corretta o no, delle cure è a carico del malato, o di chi lo ha “assicurato” e nel secondo invece è a carico dell’ospedale. L’ospedale in tal modo è stimolato a cercare di ottimizzare i costi consentendo le sole prestazioni appropriate, mentre a domicilio non vi è alcun incentivo ad evitare sprechi o inappropriatezze ed anzi, per ragioni difensive, ogni medico può essere portato a richiedere il maggior numero di riscontri diagnostici ed a ricettare anche farmaci che forse in ospedale non sarebbero stati prescritti; per la verità la stessa cosa oggi può succedere anche negli ospedali per la difficoltà della direzione a condizionare e controllare gli operatori sia medici che infermieri. Quella che ricevono oggi gli ospedali si usa chiamarla remunerazione prospettica in quanto è definita a priori sulla base della caratterizzazione diagnostica del ricovero e non è influenzata, nell’ambito dello stesso DRG, dalla tipologia e dalla quantità delle prestazioni erogate durante il ricovero stesso. In realtà, è previsto un correttivo per i ricoveri che durano “oltre soglia”, cioè che necessitano una degenza di durata anomala ed in questo caso la tariffa è incrementata da una remunerazione pro-die. Quale dei due sistemi è migliore? Se si considera l’efficienza sicuramente il sistema Tab. 1. Esempio dei PAC ed APA attivati all’Ospedale San Filippo Neri di Roma. I PAC (Pacchetti ambulatoriali complessi) sono formati da un insieme di prestazioni ambulatoriali per: • gestire un problema sanitario complesso, al fine di pianificare e coordinare il processo assistenziale, riducendo così il numero di accessi dell’utente • elaborare la documentazione clinica • stendere la relazione finale. P401: Diagnostico per ipertensione P2500: Diabete neodiagnosticato e non complicato P2777: Sindrome metabolica P2357: Diagnostico per l’addensamento polmonare P4912: per broncopatia cronica ostruttiva con o senza insufficienza respiratoria cronica - BPCO P162: Rivalutaziove e full-up neoplasie polmonari PV58: Diagnostico per la somministrazione controllata dei farmaci P4939: per asma bronchiale P331: Deterioramento funzioni cognitive P340: Diagnostica sclerosi multipla P7804: Diagnostico dei disturbi dell’equilibrio P345: Studio epilessia P78404: Diagnostico cefalea e altre sindromi dolorose neurologiche P27801: Obesità P174: Stadiazione e rivalutazione di neoplasia mammaria P765A/B/C/D/E/F/G: Follow-up del bambino pre-termine P5790A: Diagnostico per la celiachia Gli APA (Accoppiamenti di prestazioni ambulatoriali) sono stati attivati in modo da effettuare alcuni interventi chirurgici e le prestazioni ad essi collegate in regime ambulatoriale. 04.43: Liberazione del tunnel carpale 13.14: Intervento di asportazione cataratta 49.46: Asportazione delle emorroidi Le prestazioni eseguite sono soggette al pagamento di un unico ticket, salvo i casi di esenzione. La partecipazione alla spesa per entrambe i pacchetti di prestazioni è di €36.15 migliore è il sistema prospettico in quanto il prescrittore sarà incentivato a razionalizzare il ricorso alle diverse prestazioni necessarie; c’è però da osservare che non sempre il clinico del reparto fa sue le esigenze dell’amministrazione ed invece si lascia andare alle preoccupazioni difensivistiche prescrivendo esami e terapie non sempre del tutto appropriati. Ed ancora, l’amministrazione può avere interesse ad un peggioramento non reale del quadro diagnostico per poter usufruire di una tariffa corrispondente ad un DRG di mag- gior complessità. Situazioni di questo tipo sono state evidenziate anche in sede penale, ma non è detto che sempre ci siano delle colpe o del dolo; può accadere semplicemente che si instaurino degli atteggiamenti meno rigorosi e più protettivi che poi, soggettivamente, non è difficile riuscire a giustificare come atteggiamenti corretti favorevoli al malato. Al contrario, potrebbe avvenire che per esigenze di contenimento dei costi non si effettuino prestazioni diagnostiche, terapeutiche od assistenziali che invece sarebbero ne- cessarie per un corretto trattamento della patologia in corso. Questo aspetto sarebbe probabilmente più diffuso se il sistema remunerativo prospettico fosse applicato anche alle cure domiciliari in quanto non ci sarebbe la garanzia di una struttura controllata come quella ospedaliera. In questo caso sarebbe comunque necessario che l’assistenza fosse governata in modo unitario da un soggetto che poi fosse anche titolare della remunerazione e quindi avesse a suo carico il pagamento o comunque l’onere delle singole prestazioni. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 112 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale Un sistema di questo tipo era stato istituito nel sistema inglese con il fundholding seppur la responsabilità economica del fundholder era praticamente solo virtuale: il medico fundholder aveva la responsabilità prescrittiva delle prestazioni dei suoi pazienti ed i costi di queste erano addebitati al suo budget; se a fine anno i costi superavano il budget stabilito il medico aveva delle sanzioni mentre se erano inferiore ne aveva dei vantaggi. Il sistema non ha retto per problemi essenzialmente di equità in quanto i pazienti dei fundholder risultavano avere dei privilegi rispetto agli altri pazienti in quanto i medici contrattavano con i presidi che erogavano prestazioni delle modalità più convenienti e poi riuscivano a contenere i costi con sistemi non espliciti di selezione della propria clientela. La debolezza del fundholding inglese era il fatto che il funzionamento era affidato ai singoli medici o ai singoli gruppi di medici e quindi era soggetto a distorsioni prodotte dai loro interessi personali. L’esperienza comunque aveva evidenziato che i comportamenti prescrittivi cambiano a seconda del sistema remunerativo e quindi è opportuno ragionare su quale sia il sistema migliore per garantire sia l’efficienza. sia la tutela del paziente. sia l’equità dei trattamenti. Oggi si sente sempre più l’esigenza di passare dalla remunerazione per fattore produttivo alla remunerazione per prestazione nei settori dove ancora questa non si è realizzata, per poi superare la re- munerazione per prestazione con quella per evento complessivo ed ancora, più estesamente, per intero percorso assistenziale. Il presupposto di questa convinzione è che una remunerazione prospettica riesca a stimolare l’operatore verso una maggiore efficienza ed appropriatezza del percorso assistenziale, ma anche contribuisca a far ritrovare maggiore unità nella gestione del trattamento complessivo. Se infatti la remunerazione di un intero percorso assistenziale non è unitaria i singoli servizi coinvolti non hanno alcuna convenienza ad evitare sovrapposizioni di attività e neppure, paradossalmente, a ridurre eventuali complicazioni dei trattamenti. Le esperienze in atto di remunerazione per eventi complessi sono diverse e riguardano soprattutto la fase diagnostica per certe patologie come, ad esempio, il diabete o l’ipertensione; sono i codiddetti PAC, pacchetti ambulatoriali complessi o gli APA, accorpamenti di prestazioni ambulatoriali che riproducono percorsi trasferiti in ambito ambulatoriale e che però avevano già una loro unitarietà in ambito ospedaliero; in Tabella 1 sono riportati come esempio quelli attivati dall’Ospedale San Filippo Neri di Roma. Si deve osservare che in questi casi all’unicità della remunerazione corrisponde l’unicità del soggetto erogatore, e questa è la condizione necessaria per poter attivare questo sistema. I problemi attuali di inefficienza del percorso assistenziale sono comunque diversi: 112 N. 179 - 2010 innanzitutto nella fase diagnostica, ma poi anche in quella terapeutica e soprattutto nella fase di post-acuzie e di riabilitazione. Il numero di esami clinici ripetuti in tempi così ristretti da non giustificare l’ipotesi di una evoluzione del quadro clinico sono davvero moltissimi e comportano un costo economico notevole. A questi si aggiungono le pratiche diagnostiche superflue ma prescritte per ragioni difensive; se il prescrittore non ha interesse ad evitarle è evidente che emerge l’interesse opposto ad effettuarle per diminuire i rischi di responsabilità. Il legame poi tra territorio e ospedale, soprattutto tra la fase acuta e la fase post-acuta dell’assistenza, è un legame davvero molto difficile ed anche in questi casi non vi è un incentivo, se non morale e deontologico, che possa rafforzarlo; stabilire invece una convenienza economica spingerebbe sicuramente a cercare di realizzarlo, e questo andrebbe sicuramente a giovamento innanzitutto dei malati e poi anche del bilancio della ASL. Tutte le considerazioni precedenti assumono una rilevanza notevole quando si ragioni su come remunerare la conti- nuità assistenziale; va da sé che per continuità assistenziale non si intende qui la continuità del servizio assistenziale durante le 24 ore del giorno, cioè il servizio comunemente chiamato di Guardia medica che ancora oggi molte Regioni chiamano “continuità assistenziale” rifacendosi ad una dizione presente nella normativa. Intendiamo qui per continuità assistenziale quell’assetto organizzativo dell’assistenza volto a seguire con continuità il malato durante tutto il suo percorso di malattia, riunendo così funzionalmente i diversi transiti nei diversi servizi e coordinando le differenti équipes di operatori sanitari sia sul piano informativo che decisionale. Ci si chiede se per realizzare questo concetto di continuità assistenziale è necessario, o per lo meno utile, rivedere anche i meccanismi di remunerazione. È chiaro che il problema non si risolve cambiando solamente i sistemi di remunerazione ma è doveroso ragionare sulla necessità o anche solo sulla opportunità di modificarli. Un percorso di continuità assistenziale è fatto da un insieme di eventi, alcuni complessi ed articolati in più prestazioni Fig. 1. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 113 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 113 N. 179 - 2010 (ad esempio un ricovero ospedaliero), alcuni invece semplici e riconducibili ad una semplice prestazione (ad esempio un accertamento diagnostico di laboratorio), come rappresentato dalla Figura 1 che evidenzia all’interno di un percorso degli eventi complessi, all’interno di questi delle prestazioni ed all’interno delle prestazioni delle componenti elementari. Ed allora cosa remunerare? I fattori produttivi consumati? Le singole prestazioni? Gli eventi complessi? L’intero percorso? La risposta potrebbe essere semplice e cioè l’intero percorso in maniera prospettica, cioè considerando il costo medio di conduzione di un percorso simile. Ma per fare questo, come già detto, dovrebbe esserci un punto di riferimento autorevole che governa l’intero percorso e che sia in grado di assumersi anche gli oneri economici che ne derivano; in termini aziendali si direbbe che serve un imprenditore capace di organizzare un insieme complesso di attività; chiameremo questo “imprenditore” Presidio di continuità assistenziale (PCA), ed al suo interno si troverà l’operatore di riferimento del paziente, che indicheremo con il termine Coordinatore di continuità assistenziale (CCA). Il CCA dovrebbe perciò avere la completa responsabilità della gestione del paziente che verrebbe così assegnato a lui e temporaneamente cancellato dagli assistiti dal MMG; si osservi che il CCA sarebbe opportuno fosse lo stesso MMG che ne assume le funzioni, o in altri un opera- tore, anche non medico, con una professionalità specifica. Il CCA dovrà però lavorare all’interno di un PCA che sarà finanziato dalla ASL con tariffe specifiche per ogni percorso assistenziale individuato per tipo di patologia, per gravità e per complessità del caso; le prestazioni prescritte dal CCA, se non eseguite internamente al PCA, sarebbero remunerate da questo ai diversi produttori; il PCA svolgerebbe quindi un ruolo simile a quello dell’ospedale quando si avvale di prestazioni non prodotte internamente ma acquisite esternamente. Il CCA dovrà seguire effettivamente e costantemente il paziente per tutto il suo percorso di malattia e se possibile di guarigione, garantendo la continuità dell’assistenza, l’unitarietà dell’impostazione diagnostica e terapeutica ed evitando così sovrapposizioni e inappropriatezze. Un compito molto importante sarà anche quello di unificare tutte le fasi assistenziali e soprattutto quelle relative alla riabilitazione ed alla lungodegnenza. Quali difficoltà potrebbero riscontrarsi? La difficoltà maggiore è quella della predisposizione di un ruolo di CCA. Sicuramente questa nuova figura sarebbe vissuta inizialmente come un aggravio dei costi e non ci si renderebbe conto che invece potrebbe proprio diventare lo strumento per ottenere importanti risparmi. Potrebbero anche intervenire situazioni problematiche nelle relazioni tra gli operatori; il CCA verrebbe infatti ad avere un ruolo dominante di coordinatore che altri operatori potrebbero non accettare e potrebbero cercare di contrastarlo. La cultura della continuità assistenziale non può essere “imposta” ma deve essere metabolizzata da tutti gli operatori coinvolti altrimenti è forte il rischio che qualcuno di loro la viva come sopraffazione della propria autonomia professionale, mentre altri come opportunità per scaricare alcune attività e problemi gravosi di loro competenza! Se si vuole cambiare il sistema tariffario deve cambiare omogeneamente anche il sistema contabile: il PCA può diventare percettore delle tariffe di remunerazione dei percorsi assistenziali da lui gestiti solo se contestualmente si possono valutare i costi da lui sostenuti, costi sia del proprio personale e delle strutture e dei beni utilizzati, ma anche costi delle prestazioni acquistate all’esterno del PCA stesso. È chiaro che se il PCA è un presidio all’interno di un’ASL, questi saranno solo flussi contabili e non reali trasferimenti monetari, ma non avrebbe senso cambiare il sistema tariffario se non ci fosse la reale possibilità di valutare economicamente l’attività svolta dal PCA. Potrebbe peraltro forse ipotizzarsi anche un PCA esterno all’ASL e facente parte, ad esempio, di una azienda ospedaliera oppure potrebbe porsi esso stesso come azienda autonoma, sia pubblica che anche privata come ad esempio una società di MMG; in questi casi i flussi contabili sarebbero corrispondenti a dei traferimenti reali di denaro. Per elaborare delle opportune tariffe per percorso assistenziale dovrebbe innanzitutto essere svolta una rilevazione delle attività e dei costi; non si può certo pensare che il PCA gestisca tutta la casistica! Dovranno essere assegnati al PCA solo i casi in cui è preminente il problema della continuità rispetto a quello della singolarità delle diverse prestazioni. Sarà quindi necessario innanzitutto classificare questi percorsi cercando di individuare delle categorie che abbiano una loro omogeneità sia clinica che economica; se la variabilità all’interno dei percorsi fosse eccessiva, allora il sistema sarebbe impraticabile e quindi più dannoso che utile; si dovrebbe probabilmente iniziare dai percorsi meglio definibili e con una variabilità interna non eccessiva. Dovrebbero poi essere analizzati in modo analitico su un campione abbastanza vasto di pazienti appartenenti ai diversi percorsi assistenziali i costi delle diverse prestazioni da loro utilizzate, evidenziando anche le inappropriatezze e le sovrapposizioni che non dovranno essere conteggiate per stimare i costi complessivi su cui definire i valori tariffari. È chiaro che le tariffe non dovranno assolutamente essere maggiori delle medie dei costi attualmente rilevati, ma sarà anche opportuno che, almeno inizialmente, non siano di molto inferiori. A differenza di quanto si osserva oggi nei singoli ricoveri ospedalieri, la presenza di situazioni outliers potrà essere un problema rilevante da tenere in dovuta considerazione 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 114 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale in quanto potrà modificare notevolmente i costi medi e soprattutto potrà rendere non giustamente remunerative le tariffe predisposte. Peraltro si dovrà evitare che, per aggirare le tariffe, si possa far apparire come outliers un caso che non ne ha le caratteristiche. È probabile che, a differenza di quanto oggi accade nei DRG, la classificazione di un percorso debba avvenire all’accettazione e non alla dimissione, con la possibilità di modificare la classificazione durante il decorso dell’assistenza solo se intervengono eventi oggettivi non dipendenti dalle scelte assistenziali o non prodotti dalle stesse. Il sistema che qui si è disegnato può apparire un po’ macchinoso e di difficile implementazione in una realtà oggi ancora molto lontana da quella che ipotizza una completa attuazione dei meccanismi di continuità assistenziale; sarà perciò importante avere delle realtà sperimentali avanzate in cui si realizzino queste modalità di gestione almeno a livello virtuale. La virtualità non potrà però essere totale in quanto in tal caso difficilmente gli operatori sarebbero effettivamente responsabilizzati a sufficienza e quindi dovranno comunque essere previsti degli incentivi e dei provvedimenti sanzionatori in conseguenza dei risultati clinici ed economici raggiunti. La valutazione globale dell’attività dovrebbe essere una somma ponderata dei risultati clinici in termini di outcome raggiunti e dei costi sostenuti penalizzando in modo cospicuo le situazioni di grave insuccesso clinico. Deve infatti essere chiaro che l’obiettivo principale è quello di riuscire ad ottenere un sistema in cui il malato viene curato ed assistito meglio di quanto attualmente accade e solo successivamente si deve considerare il concomitante obiettivo dell’efficienza economica, problema rilevante ma che non può sopraffare l’efficacia clinica ed il benessere del malato. Questo equilibrio tra risultato clinico e risultato economico è il problema più delicato associato alla definizione di un sistema tariffario. Non si può assolutamente permettere che “per starci dentro nelle tariffe” non si eroghino prestazioni essenziali e necessarie; e neppure che si eroghino 114 N. 179 - 2010 invece prestazioni inappropriate solo per far scattare un’altra categoria della classificazione e quindi una tariffa più conveniente. Parallelamente però è del tutto sconveniente che vengano gonfiati dei consumi per ragioni che non corrispondono all’utilità dei pazienti, ma solo all’equilibrio economico delle strutture erogatrici. Non sono certo le tariffe che potranno risolvere questi reali problemi di gestione della sanità; ma le tariffe possono essere lo strumento che, affiancando le linee guida cliniche, ne favoriscono l’implementazione. Il sistema dei DRG ha evidenziato come la leva economica sia molto importante, quasi troppo, nella gestione dei servizi sanitari, mentre le linee guida trovano molte più difficoltà ad essere accettate dagli operatori. La mentalità odierna, diffusa anche nel governo della sanità, costringe a condizionare quasi tutte le scelte e le decisioni alle conseguenze economiche delle stesse; e se da una parte non si deve favorire in sanità una eccessiva mercantilizzazione dei processi, dall’altra non si può prescindere dal considerare il valore economico delle attività. È probabile che l’introduzione di tariffe per remunerare i percorsi assistenziali incentivi la effettiva realizzazione della continuità assistenziale; certo potrà sembrare in alcuni casi che i malati “ricevano di meno”, come viene percepita dai pazienti in ospedale la riduzione della degenza; ma chi potrebbe negare che la riduzione della degenze, se opportunamente controllata, non sia anche un fattore di crescita della qualità clinica dei trattamenti? E che quindi, se ben gestita, sia del tutto favorevole per gli stessi ricoverati? È questo il taglio da dare all'elaborazione di tariffe per i percorsi assistenziali e non certo quello riduttivo e pericoloso di un semplice modo per risparmiare risorse. Si tenga presente infine che, soprattutto nelle fase di studio e implementazione, un nuovo sistema induce nuovi costi aggiuntivi, ma sicuramente, una volta a regime, un sistema di remunerazione impostato non per prestazione ma per percorso assistenziale risulterà anche molto conveniente sul piano delle risorse economiche necessarie. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 115 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 115 N. 179 - 2010 Gianni Amunni Direttore operativo Istituto toscano tumori O gni ragionamento che ricada sui temi dell’assistenza oncologica assume una particolare complessità non solo per gli aspetti emozionali collegati a questa patologia, ma anche per le dimensioni quantitative e qualitative delle problematiche connesse. I dati di incidenza e di prevalenza insieme all’allungamento della vita media e alla progressiva “cronicizzazione” della malattia neoplastica definiscono una domanda rilevante sul piano numerico destinata a crescere negli anni anche in funzione dei risultati della ricerca scientifica. A questo si aggiunge che l’oncologia si caratterizza per un elevato livello di multidisciplinarietà, per cui il percorso di cura si snoda attraverso numerose competenze e strutture diverse che necessitano sì di forti momenti di integrazioni, ma che spesso si svolgono in sequenze previste da protocolli diagnostico-terapeutici particolarmente articolati. Su tale complessità di percorso si inserisce il fatto che la storia naturale della malattia oncologica si svlolge in parte a livello territoriale (diagnosi, follow-up, terminalità) ed in parte a livello ospedaliero (approfondimenti diagnostici, terapie medica e chirurgi- Il malato oncologico ca) con attivazione di competenze e procedure diverse rispondenti a modelli organizzativi in genere non integrati. In questa situazione complessa e spesso inadeguata, si inserisce invece l’alto livello di dibattito e di coscienza che coinvolge operatori, pazienti e familiari sulla necessità della presa in carico globale del malato oncologico come salto di qualità rispetto alla semplice cura della malattia neoplastica. Le discontinuità del percorso oncologico Appare qui opportuno analizzare nel dettaglio le potenziali”discontinuità” che si possono registrare nel percorso oncologico e partire da queste per ricostruire una sequenza di azioni in grado di recuperare operativamente una effettiva continuità di cura. Tali momenti critici possono essere così individuati: 1. Dallo screening positivo all’inizio del percorso di cura Alla comunicazione della diagnosi che avviene nell’ambito della struttura di prevenzione secondaria non è sempre attivata automaticamente e simultaneamente legata la presa in carico da parte dei servizi di approfondimento e di cure in genere collocati Il superamento delle discontinuità nel percorso di cura in strutture ospedaliere. Non raramente il paziente deve o anche vuole orientarsi, in un offerta molto articolata sotto il peso di una diagnosi inattesa e vissuta come particolarmente drammatica. 2. Dall’approfondimento diagnostico al programma di cura La fase di stadiazione della malattia avviene in ambiti diversi (MMG, specialista d’organo di fiducia, reparto ospedaliero, CORD/accoglienza) e non obbligatoriamente vede coinvolta la struttura o i professionisti che inizieranno la fase di cura e che a loro volta inducono ripetizione di accertamenti e dubbi per il paziente. 3. Il percorso di cura multidisciplinare Questa fase avviene generalmente tutta in ambito ospedaliero, ma attiva secondo sequenze particolari, almeno tre competenze, quali il chirurgo, l’oncologo medico e il radioterapista, con passaggi in cura tra diversi professionisti e collocazioni in diverse strutture, con conseguenti potenziali soluzioni di continuo del percorso assistenziale. 4. Ospedale-territorio I link tra queste due realtà sono molteplici e dislocati in tutto il percorso di diagnosi e cura e risentono non raramente di “diverse titolarità” specie quando sono coinvolte aziende ospedaliere e aziende territoriali. Le situazioni più frequenti sono sia quelle legate dalla gestione a domicilio delle problematiche connesse alle cure ospedaliere, sia quelle legate alla fine del programma di interventi ospedalieri con il passaggio al territorio per il follow-up o per situazioni di terminalità. 5. Consulenze, Second Opinion ecc. Queste situazioni, prevalentemente ma non solo, promosse dal malato o dai familiari, possono attivare percorsi e/o procedure che, se tra loro discordanti, determinano livelli di incertezza negativi per la qualità di vita e la compliance del paziente. 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 116 Le criticità più avvertite C’è ampia letteratura sulle criticità percepite dall’utente in riferimento alla continuità di cura. Anche l’Istituto toscano tumori in collaborazione con il MES dell’Istituto superiore S. Anna di Pisa ha svolto indagini in questo senso, sia con interviste random che con specifici focus group. I risultati che emergono sono in genere concordanti ed esprimono dei bisogni comuni anche a modelli organizzativi diversi: In sintesi queste sembrano essere le problematiche emergenti: 1. Mancanza di un riferimento professionale unico nel percorso assistenziale che sia a conoscenza del caso e che sia in grado di intervenire in situazioni di criticità clinica e/o organizzativa. 2. Scarsa evidenza di una regia unitaria del percorso di cura specie nel programmare la prenotazione della diagnostica. 3. Non sufficiente strutturazione della multidisciplinarietà con elevato rischio di pareri non concordanti o ritardi nei passaggi di cura. 4. Inadeguato coordinamento ospedale/territorio con difficoltà al momento della dimissione di appropriato e tempestivo affidamento ai Servizi territoriali, peraltro considerati quantitativamente insufficienti. Gli attori in gioco È evidente che ogni azione volta a razionalizzare il percorso oncologico nell’ottica della continuità assistenziale deve prevedere un forte livel- 20-04-2010 15:31 Pagina 116 La continuità assistenziale lo di integrazione tra i diversi professionisti e le diverse strutture coinvolte. In Toscana l’ITT si pone come momento di governo unitario di tutti gli attori impegnati nella ricerca, nella cura e nella prevenzione dei tumori, ma occorre tradurre questa affermazione di principio in procedure che determinino una effettiva presa in carico del paziente oncologico e della globalità dei suoi bisogni. Questa azione di integrazione riguarda numerosi attori che oltre a competenze diverse, si presentano con diverse appartenenze amministrative e con “gerarchie” non facilmente integrabili secondo regole condivise. Una elencazione dei diversi profili coinvolti prevede almeno i seguenti: il medico di medicina generale, gli specialisti direttamente impegnati nel percorso di cura (chirurghi, oncologi e radioterapisti), gli specialisti parzialmente coinvolti (anatomopatologi, radiodiagnosti, psicologi, specialisti d’organo ecc.), le unità di cure palliative e gli hospices, l’ISPO e i servizi di screening aziendali, sevizi sociosanitari, il volontariato nelle sue diverse forme e finalità. Tutti questi attori sono formalmente o informalmente coinvolti nei dipartimenti oncologici, ma occorre per ciascuno definire il momento di attivazione, le modalità di interazione, la titolarità di competenze, l’assunzione condivisa di responsabilità. Il MMG come momento unificante Non vi è dubbio che nel nostro Sistema sanitario il MMG N. 179 - 2010 ha una posizione eccellente nell’ottica di individuare una professionalità sanitaria di riferimento costante per il cittadino utente. In effetti se da un lato si assiste ad un continuo succedersi di strutture e professionisti che hanno in carico il paziente oncologico, dall’altro il medico di medicina generale rappresenta una presenza costante ed una figura che oggettivamente è sempre coinvolta nelle diverse fasi di malattia. In questo senso il MMG è il professionista che ha le maggiori potenzialità di raccordo tra specialisti, di sostegno ed informazione per il paziente, di regia (se non altro organizzativa) del percorso di cura. Non è possibile tuttavia limitarsi a queste considerazioni e non affrontare le problematiche che rendono talvolta assai difficile questo ruolo e che sono riconducibili ad alcune criticità particolarmente rilevanti: – Non è attiva al momento una efficace modalità di raccolta di trasmissione dei dati clinici del cittadino come base di una responsabilità “informata” dei singoli casi. – Non esiste al momento una figura di riferimento ospedaliero che sia tale anche per il medico di medicina generale e che contribuisca con quest’ultimo alla gestione integrata dei bisogni del paziente. – Il passaggio di cura se da un lato definisce le competenze nelle varie fasi di malattia, dall’altro non aiuta a creare momenti di concertazione tra professionisti. – Sia il ricovero che la dimissione, come pure l’accesso a particolari indagini, raramente sono il frutto di una decisione concordata e spesso rappresentano momenti di passaggio di responsabilità senza “passaggio di consegne”. L’integrazione dell’oncologia con il territorio Vi sono due momenti in cui l’integrazione con il territorio assume particolare valore nell’ottica della continuità assistenziale ed in cui l’inadeguatezza delle procedure ingenera situazioni di grande criticità. Il primo caso si ha per il paziente ancora in carico alla cura ospedaliera, che nelle fasi di intervallo tra i trattamenti, presenta situazioni di urgenza o più semplicemente fenomeni di tossicità legata alla terapia oncologica. È evidente che in questi casi deve essere previsto un riferimento certo nella struttura ospedaliera, la cui possibilità d’azione è peraltro limitata dal fatto che in molti casi i servizi oncologici non dispongono di ricovero ordinario. Sempre a questo ambito è da ricondurre l’attività di prenotazione di esami diagnostici comunicati come urgenti o comunque indispensabili per tempestive scelte terapeutiche. In questo ambito non è accettabile che la programmazione venga ricercata dall’utente nell’ambito dei Servizi di prenotazione territoriali, che non sono predisposti per adeguarsi alla specificità delle sequenze del percorso di cura. Più opportuna appare la individuazione di una struttura 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 117 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 117 N. 179 - 2010 dedicata nell’ambito del dipartimento oncologico che abbia gli strumenti per un dialogo flessibile ed”intelligente” con i servizi di diagnostica. La seconda situazione è quella che si verifica al termine delle c.d. cure specifiche per il tumore quando il passaggio di cura ospedale-territorio ha le caratteristiche di essere definitivo o comunque con una prospettiva di lungo termine. In questo caso occorre agire con grande attenzione su alcune potenziali criticità: 1. In caso di paziente guarito, la fine del trattamento ospedaliero viene spesso vissuta come la perdita di un controllo stretto e attivo, magari legato a interventi pesanti, ma sempre indicativo di un forte “impegno contro il tumore”. In queste situazioni, in cui talvolta il paziente richiede un ingiustificato followup intensivo, può essere forte il bisogno di relazione e soprattutto deve essere chiara la continuità e la integrazione in sequenze razionali di controlli ospedalieri e territoriali. 2. In caso di paziente in fase avanzata di malattia, quando occorre ricreare la situazione di protezione sanitaria e di “sollievo” per la famiglia, rappresentata dal ricovero ospedaliero in una più opportuna forma di assistenza domiciliare. In queste situazioni è fondamentale che al momento della dimissione sia effettivamente predisposta la modalità di accoglienza territoriale e che questa venga vissuta come una continuità della fase ospedaliera stessa. Il ruolo del volontariato Proprio in questa ultima situazione entra frequentemente in gioco il mondo dell’associazionismo (profit e noprofit) e del volontariato che in oncologia assume dimensioni rilevanti. Non raramente il volontariato svolge una funzione vicariante nei confronti dei servizi pubblici territoriali garantendo quelle prestazioni (infermieristiche, mediche, sociali, psicologiche, logistiche) che stanno alla base di una effettiva continuità assistenziale a livello domiciliare. Le problematiche che si aprono a questo livello sono da ricondurre all’estrema varietà di requisiti professionali di queste associazioni e soprattutto alle modalità di interazione con il Servizio sanitario regionale sulle quali non c’è sempre chiarezza e da cui possono derivare situazioni di disorientamento per l’utente. In maniera molto schematica questo rapporto può essere sinergico (pieno inserimento nelle équipe pubblica) collaborativo (divisione di compiti secondo una comune collaborazione) competitivo (offerta alternativa) e persino conflittuale (prevalenza di logiche di mercato). In un quadro così variegato, pur riconoscendo un ruolo spesso insostituibile di completamento dell’offerta, non è sempre facile avere il polso della situazione per quanto riguarda i temi della appropriatezza e dei diritti dei cittadini. Situazioni critiche, peraltro marginali, spingono a definire modelli organizzativi in cui sia possibile una regia unitaria degli interventi che a partire da un’analisi corretta dei bisogni, definisce un’offerta concertata ed articolata sulle diverse specificità degli attori in gioco. La rete dei servizi per la continuità Il modello organizzativo dell’assistenza oncologica in Toscana ha al suo interno gli strumenti per rispondere, almeno in via teorica, alle necessità della continuità assistenziale o più in generale alla presa in carico globale del paziente e dei suoi bisogni. Le strutture impegnate sono molteplici e per molti aspetti simili a quanto si trova in altre Regioni (cambiando sigle ed acronimi) con particolare riferimento a quelle che hanno privilegiato un modello a rete: – CORD/accoglienza, quale riferimento di accesso ai percorsi oncologici con funzioni di programmazione della diagnostica e della cura. – GOM (gruppo oncologico multidisciplinare), quale strumento per la valutazione integrata di ogni singolo caso. – Dipartimento oncologico, quale coordinamento di tutte le attività impegnate nella diagnosi e cura dei tumori. – CORAT (Centro oncologico di riferimento per l’assistenza territoriale), quale punto di integrazione dei servizi territoriali. A queste strutture si aggiungono servizi con funzioni specifiche quali le Unità di cure palliative, la rete della psiconcologia, il Centro di coordinamento delle sperimentazioni cliniche che sicuramente contribuiscono a rafforzare un sistema di protezione e di garanzia per il paziente oncologico. Questo modello ha tuttavia ottenuto ottimi risultati sulla qualità, l’appropriatezza e l’omogeneità delle cure, ma non sono ancora sufficientemente garantiti gli aspetti legati alla continuità di cura ed appare da rimodulare la modalità di collegamento e di interazione tra i diversi settori che insieme definiscono il percorso complessivo di diagnosi e cura. Proposte operative In un sistema così articolato e potenzialmente efficace possono essere utili alcuni interventi migliorativi in grado di dare risposte alle criticità oggettivamente presenti o anche soltanto percepite dal paziente con forte senso di disagio ed a rischio di produrre atteggiamenti di sfiducia nei confronti della qualità stessa della cura. Seguono alcune proposte, in parte in fase di realizzazione, che a partire dagli attuali assetti possono rappresentare azioni migliorative che in larga misura hanno già precisi riferimenti normativi ancora potenzialmente disattesi: 1. Ascolto Il sistema a rete, pur nei suoi molteplici vantaggi, rischia di perdere in termini di visibilità delle strutture, di orientamento dei percorsi e più in generale di riferimento complessivo del “settore oncologico”. 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 118 La creazione del Call center regionale per l’oncologia con un numero verde a disposizione dei cittadini assolve ad una triplice funzione e cioè di sostegno psicologico al disagio connesso alla malattia, di orientamento nella complessità dei percorsi di diagnosi e cura, di osservazione dei bisogni, delle criticità e delle inefficienze. 2. Accessibilità e semplificazione La complessità l’articolazione dei percorsi ospedalieri e le difficoltà della prenotazione della diagnostica rendono necessario un portale unico per l’oncologia che sia il punto di riferimento unitario per l’utente e sede di programmazione di tutti gli accertamenti. I CORD-Accoglienza devono opportunamente implementare queste funzioni e 20-04-2010 15:31 Pagina 118 La continuità assistenziale rappresentare l’accesso unico a tutti i servizi. 3. Multidiscipliarietà e integrazione di competenze Occorre che la valutazione di più specialisti costituisca un momento unico e strutturato del percorso oncologico in cui si concertano le scelte e si propongono programmi condivisi da tutti i professionisti coinvolti. I GOM hanno questa funzione, ma devono essere più visibili e soprattutto operare sull’intera casistica oncologica ipotizzando ad esempio la obbligatorietà della valutazione GOM per ogni istologia di tipo oncologico. 4. Tutor Si tratta di rendere operativa per l’oncologia una esplicita indicazione del PSR in modo che ogni paziente abbia un riferimen- N. 179 - 2010 to clinico del suo percorso di cura, fisicamente individuato, che sia in relazione anche con il medico di medicina generale e che gestisce le soluzioni di continuo nei passaggi di cura. 5. Comunicazione Appare ormai irrinunciabile un sistema informatizzato in grado di aggiornare e rendere fruibile la storia clinica del paziente nei suoi diversi momenti. La carta sanitaria prevista dal PSR potrebbe assolvere a questa funzione e superare la molteplicità di cartelle cliniche che anche sul piano dell’immagine, negano l’unicità del percorso. 6. Ospedale-territorio Pur nella molteplicità di situazioni che coinvolgono i due ambiti sanitari, fondamentale è dare la priorità ad una concertazione nella dimissione che deve attivare tutte le figure coinvolte (tutor, MMG, responsabile strutture ospedaliere) e che deve avvenire una volta definita e prenotata la successiva modalità assistenziale di tipo domiciliare. 7. Regia del percorso Il dipartimento oncologico ha la potenzialità di ricomprendere al suo interno gran parte delle attività coinvolte e di porsi come interlocutore autorevole nei confronti di partner collocati in altri ambiti e per i quali comunque si rende necessaria una semplificazione organizzativa che in parte può essere svolta dalla Società della salute. Una regia unitaria del percorso oncologico consente di programmare in maniera più razionale gli interventi e di utilizzare in maniera efficace le risorse. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 119 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 119 N. 179 - 2010 Vittorio Boscherini Medico di Medicina generale L o scompenso cardiaco è una sindrome cronica ed è uno dei problemi più importanti che l’assistenza sociosanitaria ha di fronte in tutti i paesi occidentali ed in particolare l’Italia che ha una delle popolazioni più anziane e quindi un più alto numero di cittadini affetti da questa patologia. Lo scompenso cardiaco ha un’alta prevalenza (0,3%-2% della popolazione adulta) ed un’alta incidenza (0,1-0,2 nuovi casi anno) ed è caratterizzato da multiple riospedalizzazioni che assorbono grandi risorse, provoca disabilità e porta spesso alla non autosufficienza determinando quindi costi non solo sanitari ma anche costi sociali che spesso ricadono sulle famiglie. Per l’invecchiamento della popolazione è previsto nei prossimi anni un aumento d’assorbimento delle risorse destinate alla gestione di tale patologia che già adesso costituisce la prima causa d’ospedalizzazione negli over 65 anni. Una corretta ed adeguata gestione di tale patologia determina altresì un miglioramento della qualità di vita dei soggetti affetti da scompenso, qualità che, nella fasi d’instabilità, peggiora notevolmente. Una sindrome cronica nella Lo scompenso cardiaco cui gestione occorre il concorso di tutte le componenti dell’assistenza sanitaria, territoriali, specialistiche ed ospedaliere, ma che soprattutto a livello territoriale necessita dell’intervento dell’assistenza sociale perché spesso le motivazioni che determinano le riacutizzazioni sono, trattandosi molte volte di soggetti anziani che vivono soli, legate alla mancanza d’assistenza familiare e sociale: dieta non adeguata, spesso ipoalimentazione, non corretta assunzione dei farmaci prescritti in terapia cronica e nelle fasi di riacutizzazione, attività di gestione della propria abitazione non adeguate al livello di gravità della patologia in atto, ricorso all’assistenza sanitaria solo quando l’instabilità è già in fase avanzata. Pazienti anziani che spesso sono affetti da più patologie le cui interazioni producono condizioni cliniche complesse che implicano spesso approcci multidisciplinari anche a livello territoriale e che devono prevedere più che un modello di gestione di una singola patologia un modello di gestione degli anziani affetti da cronicità. In Toscana abbiamo scelto il Chronic care model come strumento di gestione delle pato- Organizzazione di un approccio multidisciplinare prevalentemente territoriale logie croniche, quindi anche dello scompenso cardiaco, caratterizzato da numerose innovazioni nel modo di operare della sanità territoriale: creazione di liste di pazienti affetti da malattie croniche, passaggio dalla medicina d’attesa a quella d’iniziativa da parte dell’attività primaria, creazione di team multidisciplinari coordinati professionalmente dal medico di medicina generale, dotazione dei team di personale infermieristico e sociosanitario a loro dedicato ed a tempo pieno, definizione di percorsi assistenziali, sistema di valutazione dei risultati attraverso l’individuazione d’indicatori di processo e d’esito, sistema d’incentivazione per la medicina generale legato ai risultati raggiunti. Tutti elementi che innescheranno quel cambiamento ormai necessario nell’organizzazione e nell’erogazione dei servizi della sanità territoriale. Ma si dovranno affrontare limiti e problematiche, in particolare per la gestione dello scompenso cardiaco, che sono insiti nell’attuale organizzazione dei nostri ser- vizi sociosanitari: mancanza di continuità assistenziale ospedale territorio, inadeguata capacità multifattoriale di rispondere ai bisogni assistenziali a livello territoriale ed in tempi consoni alla gravità del problema, percorsi assistenziali non incentrati sulla persona, tentativi di gerarchizzazione ospedale-territorio, non corretta definizione delle competenze e delle responsabilità fra territorio ed ospedale, non alti livelli d’integrazione sociosanitaria. La mancanza di continuità assistenziale ospedale territorio è basata essenzialmente sul fatto che sia l’ospedale che il territorio implementano servizi sui loro bisogni e non su quelli del cittadino affetto da scompenso cardiaco. L’ospedale per esigenze legate alle necessità di tagliare i tempi di degenza dimette i pazienti affetti da scompenso cardiaco non completamente stabilizzati magari il sabato pomeriggio, quando a livello territoriale, oggi, non è possibile organizzare una reale continuità assistenziale per mancanza del personale infermieristico, d’attrezzature 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 120 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale e di una diagnostica adeguata alla gestione di un paziente ancora bisognoso di terapie intensive, ma soprattutto per l’impossibilità da parte della continuità assistenziale, ex Guardia medica, di gestire tali pazienti perché l’attuale servizio si è totalmente slegato dall’attività primaria ed ha obiettivi ed interessi assolutamente divergenti da chi ha la responsabilità della gestione delle patologie croniche a livello territoriale. Solo la riunificazione delle competenze della medicina generale in un operatore unico a livello territoriale sarà in grado di risolvere tale problema. Nell’ultimo ACN ci sono elementi che potrebbero portare a quest’obiettivo, speriamo che nell’accordo per il biennio 2008-2009 siano inseriti gli strumenti necessari per innescare il cambiamento che porti realmente il territorio a farsi carico dei cittadini utenti sette giorni alla settimana 24 ore al dì. Solo con la prevista creazione delle Aggregazioni funzionali territoriali (AFT) in cui confluiranno i medici ex attività primaria e i medici ex a rapporto orario, si arriverà alla gestione e alla responsabilità globale dei pazienti territoriali in tutte le sue componenti, anche in quella della continuità assistenziale, determinando una totale presa in carico dei pazienti più bisognosi d’assistenza. Non sarà più il singolo medico, sempre nel rispetto del corretto rapporto medico-paziente che da sempre caratterizza l’attività della medicina a ciclo di fiducia, a garantire la continuità assistenziale e la presa in carico del paziente, ma anche l’organizzazione funzionale della medicina generale. Essa potrà intervenire in caso di mancanza del medico titolare, impegnato in altre attività o quando necessiteranno apporti d’altri medici a rapporto orario nelle gestioni di pazienti ad alto impegno professionale anche sfruttando le intrinseche professionalità presenti nella medicina generale, attualmente non valorizzate. Sarà compito del coordinatore dell’AFT concordare con i colleghi ospedalieri tempi e modalità di dimissione dei pazienti la cui gestione territoriale necessita di forme d’assistenza complessa, attrezzature e personale “ad hoc”. Sarà compito del coordinatore dell’AFT nell’ottica di una corretta continuità assistenziale insieme ad un collega ospedaliero che esercita il ruolo di tutor del paziente nel suo percorso ospedaliero o comunque l’interfaccia di quel reparto con il medico di MG, controllare se i criteri di ammissione o dimissione dall’ospedale siano rispettati. Purtroppo spesso tali criteri da ambo le parti non vengono rispettati causando ricoveri impropri e ripetute ospedalizzazioni. L’inadeguata capacità del territorio di rispondere ai bisogni assistenziali in particolare nel momento in cui è in atto una profonda trasformazione dell’ospedale sempre più organizzato per la gestione della fase d’acuzie delle patologie, è determinata anche dal fatto che la medicina generale dà risposte di tipo individuale legate al singolo 120 N. 179 - 2010 Criteri di instabilità/ricovero – Rapida nuova insorgenza di sintomi di scompenso – Evidenza clinica e/o elettrocardiografica di ischemia miocardica acuta – Instabilizzazione del compenso: • Edema polmonare acuto • Frequenza cardiaca > 120 b/min • Pressione arteriosa sistolica< 75 mmHg • Disturbi mentali attribuibili ad ipoperfusione cerebrale • Instabilizzazione concomitante ad acuto peggioramento di co-morbidità extra-cardiache (p.es. malattia polmonare o renale) – Arresto cardiaco – Aritmie sintomatiche – Sincope o pre-sincope – Iposodiemia (Na < 130 mEq/L) – Aumento della creatininemia > 2.5 mg/dl – Anasarca o severi edemi declivi con segni di grave congestione venosa (turgore giugulare, epatomegalia) e/o oligo-anuria – Persistente sintomatologia nonostante ripetuti controlli ed aggiustamenti terapeutici ambulatoriali – Necessità di avviare terapia con ACE-inibitore in regime di ricovero ospedaliero – Impossibilità di adeguata assistenza domiciliare Criteri di stabilità/dimissione – Sintomi di insufficienza cardiaca adeguatamente controllati: • Stabilità del bilancio idrico • Assenza di sintomi di congestione • Pressione arteriosa stabile e > 80 mmHg • Assenza di ipotensione posturale • Adeguata pressione differenziale • Frequenza cardiaca > 50 b/min e < 100 b/min • Assenza di angina o comunque stabilità della soglia ischemica • Assenza di aritmie maggiori sintomatiche • Assenza di sintomi durante la cura della persona – Funzione renale stabile – Risoluzione o stabilizzazione di ogni causa reversibile di co-morbidità – Adeguatezza del supporto sociale, dell’educazione del paziente e del programma di assistenza e di visite di controllo nel tempo. medico mentre il servizio sanitario ha bisogno di certezza di continuità assistenziale per tutti i pazienti gestibili a livello territoriale. Problema che potrà essere risolto solo organizzando la medicina generale nelle aggregazioni funzionali a cui sarà demandata la continuità assistenziale e la responsabilità della presa in carico di tutti i pazienti. Nell’assistenza del paziente affetto da scompenso cardiaco ci sono limiti legati anche alla necessità della medicina generale di farsi carico di compiti e competenze che devono essere riconsegnate, in 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 121 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 121 N. 179 - 2010 un’ottica di profonda trasformazione dell’organizzazione della sanità territoriale, alle figure professionali di competenza, infermieri ed operatori sociali, spostando su livelli professionali più avanzati la medicina generale. Ci sono limiti di tipo professionale: portare in range l’eventuale terapia betabloccante dei pazienti dimessi dall’ospedale, instaurare una terapia in un paziente in fase iniziale e non complicato di scompenso cardiaco; erogare prestazioni secondo quanto previsto dalle linee guida deve essere ed è un compito di tutti i medici di medicina generale a livello territoriale. Il medico di medicina generale deve gestire la maggior parte dei pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico, ma oltre alla cura di tipo tradizionale deve, insieme agli altri operatori ed in particolare agli infermieri, operare per individuare i soggetti a rischio, curare le patologie che portano a tale sindrome ed anche attraverso la promozione d’adeguati stili di vita rimuovere le cause scatenanti questa malattia. La formazione continua della medicina generale deve contribuire alla crescita professionale in questa direzione, una formazione sempre più basata sui reali bisogni e compiti dei medici a livello territoriale. L’apporto alla gestione di tali pazienti da parte degli specialisti territoriali deve essere realmente di II livello e non vicariante funzioni e compiti della medicina generale. Servizi di cardiologia territoriale dovranno essere in grado di offrire almeno un ecocardiogramma di I livello e la disponibilità in tempo reale a recarsi insieme agli altri professionisti del team a domicilio dei pazienti, solo così saranno utili alla gestione delle cronicità a livello territoriale. La gestione di questi pazienti richiede la capacità di dare risposte non solo adeguate professionalmente ma anche in tempi consoni alla gravità della patologia. Di qui l’individuazione di percorsi dedicati per la diagnostica sia di laboratorio che strumentale e, là dove sarà possibile, l’erogazione di prestazioni direttamente sul territorio. È ormai possibile fornire il territorio di diagnostica anche attraverso la tele medicina. L’erogazione di ECG, Holter tele-consulti è un obiettivo raggiungibile che può, anche se in parte, colmare la carenza cronica del territorio di diagnostica strumentale e frenare l’accesso improprio dei pazienti alle strutture ospedaliere. I percorsi assistenziali dovranno essere graduati a seconda della gravità del singolo caso, è chiaro che la gestione di un paziente anziano con pluripatologie che vive solo deve essere diversa dal paziente più giovane inserito in un ambiente familiare; l’anziano deve essere costantemente sorvegliato a domicilio dal personale infermieristico insieme al personale di sostegno sociale ed anche mediante l’attivazione dell’ADI con visite programmate dell’infermiere e del MMG. L’integrazione fra ospedale e territorio deve poggiare su una corretta definizione dei compiti, delle competenze e delle responsabilità degli specialisti e della medicina generale. Un’integrazione basata sulla divisione delle competenze a rete senza gerarchizzazioni dove le singole categorie di professionisti rispondono sulle competenze a loro assegnate. È responsabile del paziente lo specialista durante il ricovero ospedaliero, sarà compito dello specialista la definizione, l’erogazione e la programmazione di tutto quanto è necessario per il paziente durante la fase d’instabilizzazione previa sua attivazione da parte del medico curante; sarà compito dello specialista fornire al paziente tutta la diagnostica, necessaria per il follow-up e per impedire le riacutizzazioni, richiesta dal medico di medicina generale dal territorio. Alla dimissione la responsabilità passerà al medico di medicina generale anche nel caso della creazione di team multidisciplinari ove i singoli professionisti risponderanno dei compiti e delle funzioni a loro assegnate. La continuità assistenziale può essere garantita anche risolvendo il problema dell’insufficiente comunicazione tra i medici degli ospedali, i medici di medicina generale e i medici specialisti territoriali, comunicazione intesa spesso anche come impossibilità a parlarsi in tempo reale per telefono; la semplice creazione di linee telefoniche dedicate risolverebbe il problema, ma la carenza di comunicazione deve essere intesa anche come mancanza di un linguaggio comune, della mancanza di utilizzo di protocolli diagnostici e di linee guida condivise. La continuità assistenziale si garantisce quindi anche attraverso corsi d’aggiornamento in comune fra le diverse professionalità coinvolte ove ognuna apporta le proprie esperienze ed i propri problemi. Un cenno particolare va fatto al ruolo e alle funzioni del personale infermieristico, una figura centrale nella gestione dei pazienti affetti da scompenso cardiaco a livello territoriale. In particolare l’infermiere dovrà essere assegnato in maniera funzionale all’unità di medicina generale ed assumerà autonomia e responsabilità per le funzioni specifiche, attinenti alla gestione del paziente affetto da scompenso cardiaco, individuate in maniera concordata con il medico di medicina generale consentendo a quest’ultimo l’acquisizione di maggior tempo per gli altri compiti di sua reale competenza. In particolare, all’infermiere spetterà il controllo dei pazienti a livello domiciliare per quanto riguarda la corretta assunzione della terapia, il rilievo dei segni o sintomi iniziali di riacutizzazione, l’educazione sanitaria e l’insegnamento all’autocontrollo da parte del paziente della propria patologia, l’educazione rispetto ad una corretta dieta, anche attraverso l’istituzione di ambulatori a ciò dedicati, il controllo e l’eventuale richiamo attivo dei pazienti per i follow-up definiti dai PDT, la collaborazione con il MMG sulla definizione dei parametri per la determinazione del rischio 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 122 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale cardiovascolare o l’inserimento nelle liste dei pazienti affetti da scompenso, l’aggiornamento della terapia diuretica in caso di aumento del peso, la somministrazione di farmaci e.v. prescritti dal medico in caso di riacutizzazione, l’esecuzione di diagnostica di primo livello come l’ECG, l’attivazione del medico di MMG in caso di rilievo di segni d’instabilizzazione. Ma soprattutto rimarrà costantemente in contatto anche telefonico con il paziente. L’infermiere sarà insieme al medico di medicina generale il pilastro dei team multidisciplinari che gestiranno i pazienti affetti da scompenso cardiaco e tutte le altre patologie croniche. Il passaggio da un rapporto medico-paziente di tipo individuale ad uno multidisciplinare ha visto una lunga fase di definizione delle interazioni e delle competenze fra i vari professionisti. La discussione è stata affrontata nel consiglio dei sanitari della Regione Tosca- 122 N. 179 - 2010 na ed in una successiva consensus conference le cui conclusioni sono state riportate in una delibera della Regione Toscana. La gestione dei pazienti affetti da cronicità ed in particolare da scompenso cardiaco necessita di una forte integrazione del sociale con il sanitario, problema fortemente presente in Toscana. L’obiettivo principale della sperimentazione delle Società della salute fu proprio quello di arrivare ad una vera integra- zione sociosanitaria individuando in questo consorzio il gestore unico dei problemi sociali e sanitari. Qualche passo in avanti in questa direzione è già stato fatto: i punti d’accesso unico, la gestione consorziata del sociale da parte delle SDS la dove è stata realizzata, ma tutto questo è sicuramente insufficiente. Obiettivo prioritario è quello dell’uniformazione dei meccanismi d’erogazione delle due assistenze sociale e Elementi costituivi del CCM Ruoli professionali Valutazione dei bisogni della comunità Elaborazione profili di salute; identificazione di gruppi di popolazione/aree a rischio; analisi delle disuguaglianze nella salute e nell’assistenza sanitaria. Medici di comunità (ruolo di coordinamento), medici di famiglia, epidemiologi, ricercatori sociali, rappresentanti delle comunità locali. Risorse della comunità Valorizzazione e sviluppo di gruppi di volontariato, gruppi di auto-aiuto, centri per anziani autogestiti, attività fisica adattata, ecc. Medici di comunità (ruolo di coordinamento), medici di famiglia, infermieri, operatori sociali, rappresentanti delle istituzioni e delle comunità locali. Supporto all’auto-cura Aiutare i pazienti e le loro famiglie ad acquisire conoscenze, abilità e motivazioni nella gestione della malattia, procurando gli strumenti necessari e valutando regolarmente i risultati e i problemi. Prevalente ruolo degli infermieri, dietisti, fisioterapisti, con il supporto di medici di famiglia e specialisti. Proattività degli interventi Le consuete attività cliniche e assistenziali sono integrate e rafforzate da interventi programmati di follow-up con sistemi automatici di allerta e di richiamo. Ricade sul medico di famiglia la responsabilità complessiva nei confronti del paziente in ordine alla diagnosi, la terapia, la prevenzione e la riabilitazione. Il MMG assume il ruolo di coordinatore degli interventi sanitari del team. Nell’ambito delle attività programmate, nel contesto del lavoro di team e sulla base delle linee guida condivise l’infermiere, componente del team, gestisce i sistemi di allerta e di richiamo e svolge le attività di follow-up, ne assume la responsabilità professionale inerente agli atti messi in essere e si relaziona con il MMG. Supporto alle decisioni L’adozione di linee guida basate sull’evidenza forniscono al team gli standard per fornire un’assistenza ottimale ai pazienti cronici. Le linee guida sono rinforzate da un’attività di sessioni di aggiornamento e di audit per tutti i componenti del team. Le linee guida sulla patologie oggetto del CCM vengono elaborate dal Consiglio sanitario regionale con il coinvolgimento di tutte le professioni e saranno successivamente adattate al contesto locale dalle aziende sanitarie. Sistemi informativi I sistemi informativi computerizzati devono funzionare come: 1. Sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie ad attenersi alle linee guida. 2. Feedback per i medici, mostrando i loro livelli di performance nei confronti degli indicatori delle malattie croniche. 3. Registri di patologia per pianificare la cura individuale dei pazienti e per amministrare un’assistenza population-based. 4. Strumenti per il monitoraggio e la valutazione dei progetti e degli interventi. Medici di famiglia, infermieri, epidemiologi, medici di comunità, statistici, economisti sanitari. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 123 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 123 N. 179 - 2010 sanitaria, l’una di tipo universalistico e quasi sempre erogata in tempi consoni alla gravità della patologia, l’altra legata al reddito e con meccanismi che spesso non sono legati all’urgenza del caso. Ad un anziano affetto da scompenso cardiaco che vive solo, dimesso dall’ospedale o in fase d’instabilizzazione, deve essere garantito immediatamente l’approvvigionamento e la somministrazione dei farmaci, una corretta alimentazione, un aiuto alla gestione della propria abitazione e della sua igiene personale; molto spesso dalla presenza o meno di questi interventi di tipo sociale dipende il successo della gestione sanitaria. Per questi motivi le SDS devono essere assolutamente coinvolte nella sperimentazione del Chronic Care Model e le assistenti sociali devono obbligatoriamente far parte dei team assistenziali delle patologie croniche. Le parole chiave di una reale continuità assistenziale nello scompenso cardiaco sono quindi: – Diversa organizzazione della medicina generale. – Continuità assistenziale sette giorni alla settimana 24 ore al dì. – Aumento della sua capacità di presa in carico dei pazienti. – Professionalità e formazione continua. – Team territoriali multidisciplinari. – Medicina d’iniziativa. – Nursing infermieristico. – Percorsi assistenziali dimensionati sulla persona. – Miglioramento dell’offerta di diagnostica a livello territoriale. – Comunicazione ospedale territorio. – Ospedale che eroga prestazioni in base ai bisogni dell’utente. – Presenza dei servizi sociali fortemente integrati con quelli sanitari. Convegno internazionale Ricerca epidemiologica e impegno civile Il percorso scientifico e professionale di Eva Buiatti 29 e 30 giugno 2010 Palazzo Vecchio, Firenze Martedì 29 giugno, ore 15,30-19,30 Lezioni magistrali sull’epidemiologia occupazionale, l’oncologia e la sanità pubblica (è prevista la traduzione simultanea in e dall’inglese) Mercoledì 30 giugno, ore 9,15-18,00 Sessione introduttiva - L’itinerario scientifico e culturale di Eva Buiatti Prima sessione - L’epidemiologia occupazionale Seconda sessione - Epidemiologia e prevenzione dei tumori Terza sessione - Sanità pubblica Scheda di iscrizione online sul sito web ARS: www.ars.toscana.it all’indirizzo: https://www.ars.toscana.it/EVENTI/index.php?evento=epiEpi Informazioni: [email protected] Tel. 055 4624365 - Fax 055 3841465 Il convegno è promosso dall’Agenzia regionale di sanità della Toscana (ARS) 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 124 Domenico Inzitari Dipartimento di Scienze neurologiche e psichiatriche AOU Careggi - SOD Stroke Unit Neurologia, Università di Firenze L’ ictus cerebrale è una delle malattie più frequenti e gravi come mortalità ed esiti invalidanti. In Italia (1), il numero di morti attribuibili alle malattie cerebrovascolari è di circa 69.000 per anno, i casi prevalenti raggiungono quasi il milione di unità, ed i casi incidenti si attestano intorno alle 200.000 unità all’anno. L’handicap che ne residua è causa di costi elevati per le famiglie, il sistema sanitario e la società intera. Il numero di DALY (Disability-Adjusted Life Year), un indicatore che valuta il numero di anni di vita attiva persi a causa di morte prematura e disabilità, è di 4 DALY persi per ictus ogni 1000 abitanti, per un totale di 230.000 DALY persi ogni anno. La spesa annuale per l’assistenza all’ictus cerebrale in Italia è stimata intorno ai 3.5 miliardi di euro. Negli ultimi venti anni si sono accumulate prove scientifiche inequivocabili (2) del fatto che una serie di interventi diagnostici, terapeutici, ed organizzativi possono contribuire a ridurre in modo notevole la frequenza della malattia e la gravità degli esiti e quindi il carico sociale. La serie di questi interventi si articola su tre fasi principali che caratterizzano il percorso 20-04-2010 15:31 Pagina 124 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 Il paziente con ictus cerebrale del paziente a rischio o affetto da ictus cerebrale. La prima è quella della identificazione e del trattamento dei fattori di rischio (prevenzione primaria). La seconda è quella della gestione del paziente colpito da ictus che comprende il precoce riconoscimento dei sintomi di un ictus incipiente, l’avvio urgente in ospedale, l’effettuazione dei trattamenti della fase acuta ed il ricovero in una unità dedicate definita Stroke Unit. A questa fase, segue quella finalizzata al migliore recupero funzionale che, dopo un passaggio attraverso una struttura ospedaliera a specializzazione riabilitativa, deve essere perseguito al domicilio e nel territorio con un costante supporto riabilitativo e psico-sociale. In questa ultima fase viene attuata anche una stretta sorveglianza clinica allo scopo di ridurre il rischio delle recidive (prevenzione secondaria). Si tratta di un arco temporale di decenni, se si considerano la lunga fase della prevenzione primaria, e la fase post acuta nei sopravvissuti. Il percorso è articolato in processi sequenziali, in ciascuno dei quali intervengono più funzioni e strutture organizzative ed attori diversi delle professioni sia sanitarie che L'approccio funzionale e psico-sociale da assicurare permanentemente dopo la dimissione ospedaliera sociali. La adeguata concatenazione dei processi deve essere considerato uno degli elementi più rilevanti in termini di efficacia ed efficienza dell’intera filiera dell’assistenza. L’ictus cerebrale è pertanto una condizione di malattia che può essere considerata emblematica di quella che viene definita continuità dell’assistenza. Fase della prevenzione La prevenzione dell’ictus cerebrale è basata sulle conoscenze, ormai molto avanzate, di una serie di fattori che aumentano in modo definito il rischio della malattia (2). Oltre ai fattori non modificabili, quali l’età, la razza, la familiarità, vi sono fattori acquisiti quali la ipertensione arteriosa, il diabete, la dislipidemia, l’obesità, il fumo, le aritmie cardiache. Molti di questi fattori sono collegati ad un anomalo stile di vita, in termini di abitudini voluttuarie, dieta, ed attività fisica. Alcuni di questi fattori, come ad esempio l’ipertensione arteriosa, rimangono ampiamente sotto diagnosticati ed inappropriatamente trattati in una larga percentuale della popolazione italiana (3). Nel complesso uno degli aspetti maggiormente limitanti, per quanto riguarda la prevenzione, è la incompleta aderenza ai vari trattamenti preventivi dovuta alla scarsa compliance da parte del paziente e alla non appropriatezza dell’intervento del medico rispetto agli obiettivi proposti dalla evidenza scientifica. Per quanto riguarda le abitudini voluttuarie, quali fumo, abuso di alcolici, consumo eccessivo di zuccheri e grassi animali, l’esposizione ha inizio fino dall’età giovanile e pertanto l’intervento è prevalentemente educativo, e deve coinvolgere attori quali la famiglia e la scuola. Nell’età adulta, il ruolo del medico di medicina generale diventa essenziale, in quanto l’identificazione prima, e l’aderenza al trattamento poi, sono prevalentemente a suo carico. La progressione nel tempo della patologia 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 125 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 125 N. 179 - 2010 cardiovascolare predisponente rende ad un certo punto necessario l’intervento di specialisti, internisti, cardiologi, neurologi, nonché quello di centri ospedalieri specializzati (centri antidiabetici, centri per il trattamento dell’ipertensione arteriosa). L’approccio al problema della prevenzione richiede un forte impegno educativo e promozionale da parte del servizio sanitario a livello di macrosistema. Deve far parte della prevenzione dell’ictus la conoscenza dei sintomi che annunciano l’imminente insorgenza di un ictus cerebrale. Alla non conoscenza di questi sintomi è imputabile una serie di ritardi temporali che precludono l’effettuazione di interventi terapeutici atti a curare fin dalla sua presentazione l’ictus cerebrale e le sue conseguenze. In ambito preventivo, una particolare attenzione viene posta negli ultimi anni ad una sintomatologia transitoria definita attacco ischemico transitorio (Transient Ischemic Attack = TIA). Tale sintomatologia predice un rischio elevato di ictus cerebrale addirittura nelle 48 ore successive. Spesso è il medico di famiglia a dovere effettuare la prima diagnosi. Un percorso organizzato che in Pronto soccorso o in un centro ambulatoriale ospedaliero dedicato sia in grado di effettuare rapidamente tutte le indagini necessarie per attivare immediatamente gli interventi di prevenzione secondaria, può prevenire l’ictus in una quota percentualmente rilevante di soggetti che hanno avuto un TIA (4). Fase acuta Negli ultimi quindici anni l’evidenza scientifica (2) ha definitivamente provato l’efficacia nel ridurre la mortalità e la disabilità conseguente ad ictus cerebrale acuto di due tipi di intervento. L’uno è di tipo farmacologico: si tratta della trombolisi con attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), da effettuarsi entro le 3 ore dall’insorgenza dei primi sintomi; l’altro è di tipo organizzativo, la Stroke Unit, una struttura di degenza dedicata, multiprofessionale, esperta e motivata, in grado di gestire nella maniera più appropriata le complicanze della fase acuta ed un approccio riabilitativo precoce. Studi randomizzati e controllati e dati osservazionali hanno inequivocabilmente dimostrato che un paziente trattato in modo appropriato con la trombolisi ha mediamente oltre il 50% di probabilità di essere restituito ad una vita del tutto normale. Il fattore tempo è l’elemento cruciale sia di efficacia che di sicurezza. Se il paziente viene trattato a 60 minuti dalla insorgenza dei sintomi, le probabilità di un esito favorevole sono 4 volte più elevate che se il paziente viene trattato più tardivamente. Pertanto i determinanti del successo sono il precoce riconoscimento dei sintomi da parte del paziente, l’allertamento immediato del servizio di emergenza, l’avvio tempestivo in ospedale, la valutazione in emergenza urgenza da parte di un team di professionisti esperti all’arrivo in Pronto soccorso. La Stroke Unit è una struttura di degenza dedicata alla ge- stione del paziente con ictus cerebrale acuto in cui opera un team multidisciplinare, medici, infermieri, tecnici della riabilitazione adeguatamente formati e continuamente addestrati alla applicazione delle migliori procedure per il monitoraggio clinico, la prevenzione delle complicanze, la riabilitazione precoce e la dimissione guidata di qualsiasi paziente con ictus cerebrale acuto. L’efficacia di questa struttura è ormai inequivocabilmente provata da ampie metanalisi (5) e da studi osservazionali condotti anche in Italia (6). Questi studi hanno dimostrato la riduzione del rischio di morte o disabilità grave del 10% per il paziente con ictus ricoverato in una Stroke Unit, rispetto al paziente gestito in un reparto non specializzato dell’ospedale. Fase post-acuta Una volta dimesso dall’ospedale per acuti, il paziente che esce da un ictus con deficit neurologici funzionalmente invalidanti dovrebbe essere avviato verso una struttura ospedaliera specializzata e ad un percorso che garantisca la intensificazione degli interventi riabilitativi finalizzati al migliore recupero funzionale. Alla fine di questo periodo il paziente viene dimesso al domicilio dove di norma devono essere attivate: la prosecuzione della riabilitazione in forma estensiva, il progressivo adattamento funzionale alle attività della vita quotidiana, il supporto psicologico, il monitoraggio clinico per la prevenzione delle recidive, ed infine il supporto sociale indispensabile per ridurre il disa- gio conseguente all’handicap ed il carico assistenziale e psicologico delle famiglie. Un approccio continuativo di tipo funzionale e psico-sociale deve essere garantito per tutta la vita. La continuità dell’assistenza Tenendo conto di questo assai lungo ed articolato percorso, emerge chiaramente la necessità di concatenare le varie fasi, integrando tra di loro i diversi contesti operativi, le funzioni, le strutture ed infine gli operatori, tenendo ovviamente al centro il paziente e la famiglia. La realtà attuale, pressoché ubiquitaria nel nostro paese, ma analogamente riscontrabile in altri paesi del mondo occidentale, è la frammentazione del sistema in unità distinte e separate, che mancano di un disegno organizzativo comune e di un coordinamento dedicato. Le diverse funzioni operative ed i processi di cura in ciascuna di esse compresi, si sviluppano quindi ed operano in modo indipendente ed eterogeneo. Ciascuno dei processi di cura può essere variamente influenzato dal fatto che all’interno operino professionisti con diversa cultura e motivazione e risente di una eterogenea assegnazione delle risorse. Il paziente e la famiglia si muovono da una fase all’altra spesso privi di un orientamento definito e finalizzato, caricandosi essi stessi (spesso anche economicamente) di scelte che non rientrano in una logica di sistema organizzato e di efficienza clinica e gestionale. Si possono fare numerosi esempi. Riferendosi ad uno 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 126 dei momenti più delicati della prevenzione che è quello della valutazione diagnostica clinica e strumentale in urgenza in un caso di TIA, qualora sia stato definito un percorso formativo specifico ed il medico di famiglia sia stato dotato di strumenti validi di screening, e qualora quest’ultimo non trovi una immediata ed agevole risposta in ospedale con un percorso facilitato per il work-up di laboratorio e strumentale, ecco che il processo diventa inefficiente. Qualora in uno ospedale per acuti venga sviluppata la funzione di un team esperto che garantisce una pronta disponibilità per la valutazione ed il trattamento in emergenza-urgenza dell’ictus acuto, e sia stato organizzato un percorso clinico-diagnostico appropriato, ed invece la maggior parte dei pazienti colpiti da ictus non siano in grado di riconoscere i sintomi precoci dell’ictus, ovvero il sistema dell’emergenza non sia organizzato per prelevare al domicilio e trasportare il paziente in modo veloce ed esperto, la organizzazione del percorso intraospedaliero rimane largamente improduttiva. Ulteriore esempio: qualora alla dimissione da una Stroke Unit, dove, tra le funzioni multidisciplinari, è prevista quella finalizzata alla riabilitazione precoce, assegnata ad un fisioterapista dedicato, il paziente non trovi rapida collocazione in una ulteriore struttura ospedaliera che sia in grado di proseguire la riabilitazione in forma intensiva, i risultati di una organizzazione a tipo Stroke Unit vengono ad essere 20-04-2010 15:31 Pagina 126 La continuità assistenziale in parte vanificati. Infine, qualora alla conclusione della riabilitazione ospedaliera il paziente non venga preso in carico tempestivamente dai servizi territoriali di riabilitazione, il beneficio funzionale ottenuto in ospedale rischia di essere annullato. Nel nostro come in altri paesi dovrebbe essere identificata una funzione di coordinamento regionale o locale o, per quanto riguarda il percorso territoriale post acuto, almeno la figura di un case-manager che abbia il compito di guidare la transizione tra le varie fasi, controllandone i risultati. Il medico di famiglia manca spesso della necessaria formazione culturale, che dovrebbe spaziare dalla corretta gestione degli interventi medici di prevenzione, alla valutazione degli obiettivi e dell’efficacia dei trattamenti riabilitativi. Inoltre egli stesso non ha a disposizione un piano dettagliato dell’offerta, e manca di strumenti di comunicazione adeguati. Strategie per migliorare la continuità dell’assistenza Il problema strategico è stato affrontato all’estero ed ha costituito l’oggetto di alcune revisioni di scopo. Cameron et al. (7) articolano le possibili azioni su tre livelli: sociale, di sistema ed individuale. Questo ultimo livello costituisce un obiettivo minimale: è quello in cui vengono attuati interventi mirati a guidare e supportare il singolo paziente e la sua famiglia. In analogia con esperienze applicate alle problematiche degli anziani, la funzione potrebbe essere svolta da un case-manager, anche N. 179 - 2010 non medico (fisioterapista o infermiere). Le iniziative sociali sono poste in atto dai Governi, nazionale o regionale, ed hanno effetti generali ed allargati a tutta la popolazione. Tale livello comprende le decisioni e le definizioni di piano ed una adeguata attribuzione di risorse. Le azioni possono includere meccanismi di incentivazione per le singole funzioni e strutture. Possono essere comprese in questo livello campagne educative per il pubblico, che, oltre alle informazioni per una corretta prevenzione, diffondano la conoscenza dei sintomi che denunciano un ictus incipiente, le indicazioni per l’allertamento veloce del sistema dell’emergenza, la conoscenza dei moderni trattamenti dell’ictus acuto, il valore della riabilitazione. Gli interventi di sistema sono quelli finalizzati a modificare, adeguando alla migliore evidenza scientifica, le singole funzioni e strutture esistenti in una area geografica (ad esempio attivando in un ospedale per acuti la Stroke Unit), ed implementando percorsi clinici (ad esempio, un percorso intra-ospedaliero dedicato), integrando peraltro queste azioni in un piano organizzativo territorio-ospedale definito (ad esempio assicurando gli opportuni collegamenti tra sistema dell’emergenza, ospedali periferici ed ospedali di riferimento) od ospedale-territorio (collegando in modo appropriato la riabilitazione intra ospedaliera con l’area della riabilitazione territoriale). Essenziale per un efficiente funziona- mento di tali collegamenti è la messa in opera di un adeguato sistema di comunicazioni. In rapporto alla rapida operatività richiesta dagli interventi della fase acuta, possono essere utilizzati collegamenti telematici già validati in altri paesi (8) per il trasferimento rapido di informazioni cliniche ed immagini radiologiche tra ospedale esperto di riferimento ed ospedali periferici. Appare sempre più essenziale supportare l’organizzazione integrata su scala regionale con una funzione di coordinamento dedicata che ne valuti la performance e ne stimoli il miglioramento (9). Tale funzione, per esempio, è stata recentemente implementata in Catalogna (Spagna) con risultati eccellenti (10). Barriere alla implementazione di un sistema integrato di cura Tenendo conto di quanto finora esposto, non c’è dubbio che l’implementazione di un sistema integrato di cura per l’ictus cerebrale debba essere ritenuta una assoluta priorità per il Servizio sanitario sia nazionale che regionale. Invece, sia in altri paesi che in Italia, la visione del problema e le azioni operative conseguenti sono in posizione secondaria rispetto ad altre decisioni e quindi in ritardo. Numerosi ostacoli si oppongono alla operatività gestionale ed organizzativa. La prima è costituita dalla ancora scarsa consapevolezza nella popolazione generale, tra i professionisti, tra gli amministratori e tra i politici 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 127 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 127 N. 179 - 2010 della gravità del problema ictus da un lato, e delle enormi potenzialità di cura esistenti al giorno d’oggi dall’altro lato. Ciò si traduce in una ridotta spinta promozionale da parte dell’opinione pubblica sul livello politicoamministrativo. Nel febbraio 2005, la Conferenza Stato Regioni (11) ha emanato un documento per l’organizzazione dei percorsi di cura per l’ictus cerebrale, da cui emergono in maniera chiara le indicazioni per un sistema integrato di cura. Solo alcuni piani regionali, tra cui quello 2007-2009 della Regione Toscana, lo hanno adottato come riferimento. Dal momento della pianificazione a quello della implementazione e della reale operatività del sistema si frappongono ulteriori ostacoli che comprendono la disorganizzazione e la inefficienza del sistema sanitario in generale (specie in alcune Regioni), la mancata identificazione di precise figure professionale di riferimento, la fisiologica opposizione al cambiamento delle strutture sanitarie e dei professionisti e, non ultimo, la carenza di percorsi formativi specifici. Conclusioni L’ictus cerebrale è una malattia frequente ed importante, con un notevole carico di costi per le famiglie, il Servizio sanitario e la società intera. Il percorso si articola in più fasi, per ciascuna delle quali esistono ad oggi provate possibi- lità di cura. Ciascuna delle fasi prevede un approccio basato su più funzioni, strutture e figure professionali, che devono essere opportunamente integrate. Il sistema deve essere regolato e monitorato con adeguati strumenti di misura della performance. A livello politico-amministrativo l’ictus deve essere considerato una priorità assoluta con conseguente forte impegno istituzionale, adeguata pianificazione e congrua attribuzione di risorse. Bibliografia patients: an observational follow-up study, Lancet, Jan, 27, 369 (9558), pp. 299-305. (1) Di Carlo A., Baldereschi M., Gandolfo C., et al. (2003), ILSA Working Group. Stroke in an elderly population: incidence and impact on survival and daily function, The Italian Longitudinal Study on Aging. Cerebrovasc Dis, 16, pp. 141-50. (7) Cameron J.I., Tsoi C., Marsella A. (2008), Optimizing stroke systems of care by enhancing transitions across care environments, Stroke, 39 (9), pp. 2637-43. (2) SPREAD - Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion (2007), Ictus cerebrale: linee guida italiane di prevenzione e trattamento, Pubblicazioni Catel - Hyperphar Group SpA, Milano; www.spread.it (3) The Italian Longitudinal Study on Aging Working Group (1997), Prevalence of chronic diseases in older Italians: Comparing self-reported and clinical diagnoses, Int J Epidemiol, 26, pp. 995-1002. (8) Schwamm L.H., Holloway R.G., Amarenco P. et al. (2009), American Heart Association Stroke Council; Interdisciplinary Council on Peripheral Vascular Disease. A review of the evidence for the use of telemedicine within stroke systems of care: a scientific statement from the American Heart Association/American Stroke Association, Stroke, 40 (7), pp. 2616-34. (9) Park S., Schwamm L.H. (2008), Organizing regional stroke systems of care, Curr Opin Neurol, 21 (1), pp. 43-55. (4) Luengo-Fernandez R., Gray A.M., Rothwell P.M. (2009), Effect of urgent treatment for transient ischaemic attack and minor stroke on disability and hospital costs (EXPRESS study): a prospective populationbased sequential comparison, Lancet Neurol, 8 (3), pp. 235-43. (10) Abilleira S., Gallofré M., Ribera A., Sánchez E., Tresserras R. (2009), Quality of in-hospital stroke care according to evidence-based performance measures: results from the first audit of stroke, Catalonia, Spain, Stroke, 40 (4), pp. 1433-8. (5) Stroke Unit Trialists’ Collaboration (2007), Organised inpatient (stroke unit) care for stroke, Cochrane Database Syst Rev (4), CD000197. Review. (11) Presidenza del Consiglio dei Ministri (2005), Accordo ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, concernente “Linee di indirizzo per la definizione del percorso assistenziale ai pazienti con ictus cerebrale”, 3 Febbraio. (6) Candelise L., Gattinoni M., Bersano A., Micieli G., Sterzi R., Morabito A. (2007), PROSIT Study Group. Stroke-unit care for acute stroke 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 128 Giovanna Del Giudice Portavoce nazionale Forum Salute mentale, già direttore del Dipartimento di Salute mentale di Cagliari P er collocare il tema della continuità terapeutica ed assistenziale nella salute mentale, all’interno delle attuali culture intorno alla malattia mentale, della legislazione e del sistema dei servizi, riteniamo indispensabile ricordare i passaggi essenziali avvenuti negli ultimi quaranta anni in Italia nell’assistenza psichiatrica. Agli inizi degli anni sessanta, a Gorizia, Franco Basaglia, insieme al suo gruppo di lavoro, nel confronto con la realtà “arcaica” del manicomio e nell’incontro con “quel che resta di un uomo” nell’internamento manicomiale, denuncia con una azione pratica e teorica la funzione repressiva e violenta del manicomio – luogo di custodia più che di cura, di salvaguardia della società più che della persona malata, di controllo della devianza, contenitore della miseria – e l’internamento come processo di negazione di storia, ruolo, po- 20-04-2010 15:31 Pagina 128 La continuità assistenziale N. 179 - 2010 L’assistenza psichiatrica tere e diritti per la persona con sofferenza e di destino certo verso la cronicizzazione e il silenziamento. “Tuttavia il carattere radicale di questa critica del manicomio …non porta gli psichiatri italiani innovatori ad imboccare la strada dell’antipsichiatria. …viene tenuto fermo l’obbiettivo e il compito terapeutico…e nello stesso tempo viene utilizzato il potere, residuale ma insostituibile, [della psichiatria]… come potere di trasformazione”1. La “messa tra parentesi della malattia” che dichiarata da Basaglia “perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento, che va oltre il significato reale della malattia stessa”2, non è certamente da intendersi come negazione della malattia, né tanto meno dell’azione terapeutica e clinica per agire solo una dimensione politica, ma come Il modello organizzativo dei servizi addetti alla cura della sofferenza mentale necessità di “avvicinarsi” al soggetto con sofferenza, riconoscerlo come “escluso” e “senza diritti” 3 , occuparsi della sua miseria e ri-costruire l’accesso ai diritti, primo di tutti quello alla cura. La “negazione del malato come irrecuperabile” e quindi il ruolo degli operatori come “semplici carcerieri”4 colloca il lavoro terapeutico “su un terreno nuovo, tutto da arare”5. Prende così avvio una “azione di rinnovamento e poi di trasformazione assistenziale… e di apertura dell’istituzione”6 tra profonde resistenze e significative attenzioni in particolare da parte degli operatori, dei lavoratori, gli studenti, gli intellettuali che alla fine degli anni sessanta sviluppavano una critica alle “istituzioni totali” e guarda- vano ad un cambiamento nella medicina, e nella psichiatria in particolare. Nel 1971, dopo circa 2 anni di direzione nell’Ospedale psichiatrico di Colorno (Pr), Franco Basaglia viene chiamato a dirigere l’Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste dove, insieme al gruppo di lavoro triestino, opera per il superamento definitivo dello stesso e la costruzione di una rete di “istituzioni inventate”7 nel territorio. Intanto in altre realtà italiane alcuni operatori innovatori portano avanti il lavoro di decostruzione del manicomio, a Nocera Superiore (Salerno), Perugia, Arezzo, Ferrara… L’azione pratica e teorica svolta in tali realtà, e in particolare il concreto superamento a Trieste 8 del manicomio e la F. Rotelli, O. De Leonardis, D. Mauri, Deistituzionalizzazione un’altra via, Ed. per la salute mentale, 1992. F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Einaudi, 1968. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 F. Basaglia e al., La nave che affonda, Savelli, 1978. 7 F. Rotelli, L’istituzione inventata, Ed. “e”, 1992. 8 A gennaio del 1977 in una conferenza stampa F. Basaglia annuncia il progetto di chiusura dell’Ospedale psichiatrico. A quell’epoca il numero dei degenti nell’Ospedale psichiatrico di Trieste è passato da 1260 a 433 “ospiti” – persone che rimangono nel comprensorio ospedaliero solo perché ancora non si sono create le condizioni concrete per una vita nella comunità – e 132 ricoverati; continua a funzionare il reparto di accettazione per il ricovero delle persone in crisi. Ma il processo di decostruzione del manicomio è consolidato e si vuole ratificare l’inconvertibilità del percorso fatto. 1 2 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 129 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 129 N. 179 - 2010 costruzione, tra il 1975 e il 1977, di un circuito di servizi territoriali alternativi allo stesso, diventa base di un cambiamento legislativo, ritenuto ormai dai più improcrastinabile. Il Parlamento italiano all’unanimità il 13 maggio del 1978 approva la legge di riforma dell’assistenza psichiatrica, L.180 9 , assunta poi negli articoli 33, 34, 35 e 64 della legge di riforma sanitaria, L.833 del dicembre 1978. Nel passaggio dalla legge psichiatrica del 190410 – che definiva il malato di mente “pericoloso a sé e agli altri” e “di pubblico scandalo” e intorno a questa pericolosità aveva organizzato l’istituzione manicomio – alla nuova legislazione la persona con malattia mentale entra nella “cittadinanza sociale”, viene negata l’equivalenza malattia mentale-pericolosità sociale e sancito il diritto per la persona alla cura nella comunità, di norma in regime volontario. Se guardiamo, con uno sguardo d’insieme, a questi trent’anni di vita della riforma, certamente possiamo dire che un mutamento epocale è avvenuto in Italia nella cura e presa in carico del malato di mente e dei suoi familiari. Si è passati da una psichiatria asilare, fondata sull’esclusione e l’internamento, ad un lavoro di salute mentale nella comunità fondato sull’inclusione. La psichiatria è entrata nella medicina; è stata soppressa una legge “speciale” e uno statuto di eccezione per il malato di mente costruendo un “altro diritto per il malato di mente”; si è restituito il problema delle persone con sofferenza mentale ad una sanità generale. La “coazione” della cura della precedente legge è stata sostituita dagli “accertamenti e i trattamenti sanitari volontari” nel territorio. Solo eccezionalmente e “nei casi previsti dalla legge possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione…” 11. Le persone quindi mantengono i diritti anche in condizioni di trattamento sanitario obbligatorio. Sul piano operativo, pur con notevoli ritardi e con una accelerazione significativa data solo dalle leggi finanziarie del ’94 e ’96, su tutto il territorio nazionale i manicomi pubblici sono stati definitivamente chiusi e un sistema di servizi di salute mentale è ormai diffuso su tutto il territorio nazionale; l’intervento di cura si è spostato dall’ospedale al territorio. In ogni azienda sanitaria locale è attivo un dipartimento di salute mentale12 costituito da una articolazioni di strutture per la salute mentale, quali quelle previste dal progetto obiettivo nazionale tutela salute mentale 19982000. Il numero attuale delle persone prese in carico dai servizi di sanità pubblica è “di oltre dieci volte superiore a quello del 1978 … Oggi circa un milione di cittadini ricevono assistenza presso i centri di salute mentale e in linea di massima ciò viene fatto da équipe multidisciplinare che garantisce per lo meno livelli di competenza professionale ed etica incomparabili con quelli degli ospedali psichiatrici del 1978”13. Ma tanto più in questi trent’anni sul piano della risposta alla sofferenza mentale, sul piano terapeutico è mutato lo “sguardo” sull’altro. Oggetto della psichiatria non è più la malattia, e la pericolosità ad essa connessa, ma il soggetto e il suo contesto di vita, la sua storia, i bisogni, le aspettative differenziate; non più percorsi “certi” verso la cronicità e l’esclusione, ma percorsi verso la guarigione, l’emancipazione e il protagonismo dei soggetti. Possiamo quindi affermare con forza che significativamente è mutato il destino di migliaia di uomini e donne con sofferenza e dei loro familiari e complessivamente è cambiato l’atteggiamento culturale nei confronti di ogni forma di diversità, evidenziandosi l’illibertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale troppe volte a questa connessa. Dai dati a disposizione 14 si evince che in Italia il numero totale dei dipartimenti di salute mentale è 211; i centri di salute mentale sono 707; i servizi psichiatrici di diagnosi e cura sono 321 con 3.997 posti letto; i centri diurni sono 612 e 1.552 le strutture residenziali con un totale di 17.101 posti residenza. Sono presenti nel paese 8 cliniche psichiatriche universitarie con 162 posti letto, 56 case di cura private con un totale di 3.975 posti letto. Il personale complessivo ammonta a 34.446 operatori, tra cui 5.561 medici e 14.760 infermieri. Per quanto riguarda il modello organizzativo del dipartimento di salute mentale, questo è diverso tra le varie Regioni, e a volte nelle differenti aziende della stessa Regione, e tanto più è differente l’operatività nelle diverse aree. Guardando, invece, da vicino i servizi della salute mentale, non possiamo non riconoscere le grandi difficoltà, e perfino le resistenze, che si evidenziano tuttora in molti territori nell’attuazione della legge di riforma. Ancora molto rimane da fare in relazione alla qualità dei 9 Legge n. 180 sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori” - Gazzetta ufficiale 16 maggio 1978, n. 133. Trattasi di una “legge quadro”, approvata anche sotto la spinta di un referendum, proposto dai radicali per l’abolizione della legislazione in vigore, che avrebbe potuto lasciare il paese senza una legislazione. 10 Legge n. 36 del 14 febbraio 1904 “Legge sui manicomi e sugli alienati, disposizioni e cura degli alienati”. 11 Art. 1 Legge 13 maggio 1978, n. 180. 12 Va ricordato che nella Lombardia il DSM fa capo alla azienda ospedaliera. 13 A. Fioritti, Riportare i servizi di salute a contatto con le sfide dell’oggi, Animazione sociale, dic. 2009. 14 Dati del ministero della Salute del 2001. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 130 Sae l ute Territorio La continuità assistenziale servizi, agli stili operativi, alle pratiche in campo, alla formazione degli operatori. In alcuni servizi persistono pratiche manicomiali, quando non si perpetuano “crimini di pace” nei confronti delle persone con malattia mentale, i centri di salute mentale sono spesso solo “la somma di ambulatori individuali, privati”15; il servizio pubblico “foraggia” cliniche e residenze del privato profit spesso ancora segregative; si fa ricorso a ricoveri a tempo indefinito e senza progetto a volte “deportando” i soggetti lontano dai loro contesti di vita; la maggior parte dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura operano a porte chiuse e fanno ricorso ai mezzi di contenzione. Esistono peraltro in alcune aree del paese centri di salute mentale che garantiscono risposte sulle 24 ore, per 7 giorni e la continuità delle cure, alcuni dotati di posti letto per l’accoglienza diurno-notturna, che contrastano la frammentarietà delle risposte e le pratiche di delega e di neoistituzionalizzazione. Centri di salute mentale a bassa soglia; che hanno la responsabilità della cura di un determinato territorio; accoglienti e qualificati negli habitat; che operano attraverso équipe multidisciplinari; che assicurano sostegno alle persone con sofferenza nella complessità dei loro bisogni e le supportano anche nella vita quotidiana; che sviluppano programmi individuali di presa in carico e di abilitazione, capacitazione, emancipazione sociale, declinando la propria azione nella comunità in sinergia con le sue risorse formali ed informali, in rete con gli altri servizi sociali e sanitari. Esistono servizi psichiatrici di diagnosi e cura, circa il 20%, che operano con le porte aperte e fanno a meno dei mezzi di contenzione. Infine riteniamo necessario evidenziare che negli ultimi anni stiamo assistendo nel campo psichiatrico ad un riduttivo ritorno ad una visione positivistica-biologica della malattia mentale, ad un dominio del modello medicoclinico, ad una focalizzazione sul sintomo dimenticando la persona sofferente, ad una centralità della diagnosi, ad una patologizzazione e medicalizzazione della vita quotidiana, ad una ricerca di certezze tesa sempre più a ridurre la complessità. E insieme si sta sviluppando una psichiatria difensiva che invece della ricerca, la messa in discussione e la critica, l’assunzione della responsabilità e del rischio, si trincera nel ruolo, nella “posizione di garanzia” per giustificare pratiche e stili di lavoro nelle quali sfuma l’interesse e la centralità della persona-con-sofferenza. Complessivamente, lungo continua ad essere il percorso della deistituzionalizzazione che partito dalla decostruzione del manicomio, vuole decostruire la concezione della malattia, vuole essere teoria 130 N. 179 - 2010 e pratica che interroga e si interroga, che pone dubbi su cosa è la psichiatria, su cosa è la salute mentale, sui percorsi della cura, sulle relazioni, sui rapporti di potere, e chiede che esistano servizi “…nella loro versione di arricchimento della normalità e non nella versione di impoverimento della normalità”16. La continuità terapeutica ed assistenziale Porre attenzione e garantire priorità alla continuità assistenziale, in particolare dopo un ricovero ospedaliero, viene oggi considerato essenziale nella gestione dei processi di cura. Viene altresì considerato essenziale dare priorità all’integrazione sociosanitaria, intesa come filosofia di intervento che, partendo dalla visione dell’unitarietà e complessità dei bisogni della persona, diviene modalità di organizzazione dei servizi sociali e sanitari e delle risposte, ma anche valorizzazione delle risorse del soggetto e del suo contesto oltre che dei gruppi formali ed informali della comunità locale. Nel Piano sanitario nazionale 2003-2005 si legge “L’integrazione (interdisciplinare, interprofessionale, intersettoriale) rappresenta un principio/valore ampiamente condiviso e la continuità delle cure, all’interno di un sistema a rete, costituisce l’elemento oggi irrinunciabile di risposte adeguate a bisogni complessi”. I soggetti principalmente in- teressati a questo modello di cura e di assistenza, sempre più numerosi, sono da individuare nelle persone portatrici di malattia di lunga durata ed invalidanti, persone con problemi di salute mentale, anziani non autosufficienti o affetti dalle patologie della vecchiaia, disabili, malati terminali, in ultima analisi persone che, insieme ai loro caregivers, necessitano di essere presi in carico nella complessità dei loro bisogni e supportati per un periodo protratto nel loro ambiente di vita. Nel campo specifico della salute mentale la continuità terapeutica ed assistenziale assume grande rilevanza e si declina come continuità nel progetto di cura e di assistenza non solo tra il servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura e le unità territoriali dei centri di salute mentale17, ma anche tra le diverse unità operative del dipartimento. Definiamo la continuità terapeutico assistenziale come la presa in carico, continuata nel tempo e nello spazio, della persona e del suo contesto socio-familiare, attraverso un progetto terapeutico abilitativo individuale assunto da una microequipe multidisciplinare del centro di salute mentale. Per presa in carico intendiamo l’insieme delle pratiche complesse e su molteplici piani che un’équipe multidisciplinare assume e mette in atto nell’incontro con la persona che si rivolge, 15 Di Munzio et al., Manuale pratico di Psichiatria territoriale, Idelson-Gnocchi, 2009. 16 Intervista a Franco Rotelli a cura di Anna Poma Che tipo di servizi vorresti se andassi fuori di testa, Animazione Sociale, dic. 2009. 17Le unità operative del dipartimento di Salute mentale hanno tutte sede nel territorio, tranne il servizio psichiatrico di diagnosi e cura allocato in un presidio ospedaliero. 03monografia 99:02monografia 75 20-04-2010 15:31 Pagina 131 Sae l ute La continuità assistenziale Territorio 131 N. 179 - 2010 direttamente o indirettamente, al centro di salute mentale e che riguardano la persona nella sua globalità e il suo contesto, e non solo della malattia. La presa in carico, nel linguaggio psichiatrico, fa riferimento per lo più a persone con disturbo mentale severo che necessitano di un intervento complesso e multidisciplinare, mentre di norma si parla di trattamento in riferimento alle prestazioni tecnico-professionali erogate da un singolo operatore o, in un numero minore di casi, da più di un operatore, nei confronti di persone con disagio o disturbo mentale meno rilevante e con una situazione di contesto non significativamente problematica. La presa in carico non è somma di prestazioni specialistiche, spesso frammentate, che segmentano la persona in bisogni separati a cui diversi professionisti forniscono risposte in una logica di causalità lineare, ma il farsi carico, prendere in cura la persona nella sua globalità e il suo contesto attraverso un progetto terapeutico abilitativo individuale, da parte di una microéquipe. Il progetto terapeutico abilitativo individuale, formulato dal gruppo curante con la persona e con i suoi familiari, partendo dai bisogni di salute, è volto a promuovere il raggiungimento di un equilibrio e benessere possibili e, attraverso percorsi di abilitazione individualizzati, l’accesso per il soggetto al pieno diritto di cittadinanza. Sono le aree dell’abitare, le forme e i luoghi dell’abitare, la formazione, la possibilità e capacità di fare, il reddito, il lavoro, la socialità, l’affettività quelle nelle quali attivamente interviene il progetto individuale, quindi i determinanti sociali di salute. Appare utile specificare che le risposte ai differenti bisogni non mettono solo in gioco le competenze e le risorse del servizio di salute mentale, che altrimenti potrebbe quasi assumere una funzione tutoria e di “sequestro”, ma complessivamente quelle dei servizi sociosanitari attraverso progetti integrati, quelle della comunità, ed anche della persona stessa, ancorché residue, della famiglia e della rete sociale. Si investe quindi prima di tutto sul “capitale sociale” di cui ognuno è titolare. Per quanto la continuità terapeutica ed assistenziale possa considerarsi una modalità operativa dei servizi di salute mentale, quando non una filosofia, questa assume particolare rilevanza in riferimento alle persone con disturbo mentale severo, persone che necessitano, insieme al contesto socio-familiare, di essere sostenute, supportate nella quotidianità e per un periodo prolungato, persone quindi a rischio di esclusione dal contratto sociale e che fanno fatica ad accedere ai diritti di cittadinanza. Responsabile della continuità terapeutico assistenziale è il centro di salute mentale, dac- ché “regista” dei percorsi cura, dei progetti di salute individuali dei soggetti nei diversi momenti di una storia – della crisi, della cura, della abilitazione, dell’inclusione, dell’emancipazione, della recovery. Sono gli operatori del centro di salute mentale i referenti/case manager della persona in cura indipendentemente dalla presenza temporanea di questa in una specifica unità operativa del dipartimento. Parliamo di responsabilità nella presa in carico del servizio nel suo complesso, anche se sempre devono essere individuati gli operatori di riferimento per ogni singola persona. Garante della continuità terapeutico assistenziale nel progetto individuale è la microequipe. Ci riferiamo a un sottogruppo multidisciplinare della équipe complessiva del centro di salute mentale che opera in un definito “sottoterritorio” del servizio – può trattarsi di più quartieri, paesi, comuni… a secondo della morfologia del territorio. La suddivisione della équipe del centro in microéquipe permette agli operatori di conoscere con maggiore approfondimento il territorio in cui ogni gruppo opera, le sue risorse, le aree a rischio, di conoscere con maggiore appropriatezza le persone ad alta priorità e di essere riconosciuti. La microéquipe promuove, discute e condivide i progetti individuali, discute le strategie degli interventi più complessi, condivide de- cisioni e responsabilità, può significativamente supportare il momento di fatica di un operatore. La microequipe garantisce continuità nel progetto di cura ed assistenziale, ma anche permette flessibilità; fa sì che l’assenza temporanea, per differenti motivi, di un operatore non determini la sospensione del progetto o ancora più gravemente l’abbandono della persona; può favorire la possibilità che la persona in cura scelga l’operatore di riferimento, con cui sperimentare un rapporto più fiduciario. La continuità terapeutico-assistenziale è presa in carico continuata nel tempo, oltre il momento della crisi, per tutto il tempo di cui una persona necessita per il raggiungimento di un ben-essere, di una indipendenza ed emancipazione possibili. È continuità di presa in carico nello spazio, nei luoghi quindi dove la persona vive o di volta in volta viene a trovarsi: ospedale, carcere, ospedale psichiatrico giudiziario, casa di riposo, ecc… È il territorio, l’ambiente “naturale” di vita delle persone, il luogo elettivo della presa in carico, dell’assistenza e del governo dei percorsi di salute, anche nelle situazioni di crisi. In questa ottica il ricovero nel servizio psichiatrico ospedaliero viene previsto solo nelle situazioni in cui si sono rese inefficaci le risposte messe in atto dal centri di salute mentale per garantire la cura nel territorio18. L’Art. 35 della legge n. 833/78 prevede che una delle tre condizioni per cui è possibile attuare un Trattamento sanitario obbligatorio “in condizioni di degenza ospedaliera” siano le situazioni in cui non è possibile “adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”. 18 03monografia 99:02monografia 75 Sae l ute Territorio 132 L’intervento domiciliare assume così significativa rilevanza. non solo come momento di conoscenza del contesto in cui la persona vive, di valutazione dei determinanti sociali della malattia, di conoscenza delle relazioni familiari ed ambientali, ma come supporto concreto ed intervento terapeutico nei confronti della persona, anche in crisi, e del suo contesto socio-familiare, di mediazione dei conflitti nella famiglia, nel vicinato… e non da ultimo come possibilità di sperimentare e far sperimentale un differente rapporto di potere tra curante e curato. In ogni caso non può solo ridursi ad una prestazione sanitaria, per es. la somministrazione di una terapia depot, ma essere relazione terapeutica che passa anche attraverso una prestazione meramente sanitaria. Nel lavoro psichiatrico si parla comunemente di “visita domiciliare”, ma l’intervento può svolgersi non solo a casa della persona, ma anche nella strada, nel bar, nel luogo di lavoro, ecc… Nell’intervento domiciliare 20-04-2010 15:31 Pagina 132 La continuità assistenziale grande importanza assumono gli operatori non medici, in particolare gli infermieri, ma non si ritiene, come molte volte accade in alcuni dipartimenti, che l’intervento domiciliare del medico possa solo riguardare l’intervento domiciliare in urgenza, ma deve riguardare il progetto di cura in tutte le sue fasi. Da ultimo va sottolineato che la continuità terapeutica ed assistenziale determina la possibilità del riconoscimento precoce delle situazioni che possono determinare il riemergere di una crisi in una persona in carico o lo svilupparsi di disturbi mentali in una persona a rischio. L’avvio di soluzioni per affrontare queste situazioni, in un rapporto di cura continuato può di ridurre la gravità e la durata delle crisi, o delle recidive, quando non lo sviluppo di una situazione di crisi; può diminuire o non rendere necessario il ricorso ricovero e perfino il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio. N. 179 - 2010 Conclusioni Da quanto detto appare evidente che la pratica della continuità assistenziale in salute mentale ha a che vedere prioritariamente con la concezione della sofferenza mentale e della cura, ma anche con il modello organizzativo dei Servizi, con gli stili operativi, con la formazione degli operatori, perché non basta, anche se assume grande valore, garantire alla persona una continuità, ma il problema rilevante è quali sono le direttrici dell’azione terapeutica. Riteniamo che il modello organizzativo – cornice strutturale e gestionale che informa gli stili operativi e le pratiche – che meglio può garantire la continuità terapeutica ed assistenziale in salute mentale è il centro di salute mentale sulle 24 ore, dotato di posti letto per l’accoglienza diurna e notturna. Tale servizio – a bassa soglia, responsabile della salute di un territorio definito, aperto ed attraversato dalla comunità, dotato di una équipe multidisciplinare, integrato con i servizi sociali e sanitari e con i gruppi del territorio – si articola in ambulatori, ma anche in spazi collettivi, per attività e scambi, dove la persona può sviluppare competenze ed aumentare opportunità, dove può trascorrere del tempo in maniera consapevole e con significato, per contrastare l’isolamento, l’abbandono e l’ozio non scelto, ma anche per diminuire il carico familiare. Tale Centro è il luogo nella comunità dove la persona con esperienza di malattia e la sua famiglia possono sperimentare l’incontro, percorsi di ricostruzione di identità, senso e potere in un tempo non scandito dalle necessità del ricovero ospedaliero, in un habitat connotato da una architettura della quotidianità, in un rapporto di contiguità temporale e spaziale con gli operatori di riferimento e in una vicinanza con la propria casa e le proprie relazioni. E contemporaneamente permette agli operatori di sperimentare una conoscenza dell’altro con sofferenza, ma anche del proprio agire terapeutico, fondata sull’incontro con il soggetto nella sua interezza di bisogni e di espressività.