Giugno 2005 - anno VII Comunic @ zione/i NEWSLETTER DELLA CATTEDRA DI DIDATTICA GENERALE MENSILE A CIRCOLAZIONE INTERNA PAUL RICOEUR: LA DIMENSIONE DIALOGICA DELL’INTERPRETAZIONE Direzione e coordinamento Prof.ssa A. Porcheddu Redazione A. Baldi B. De Angelis C. De Angelis R. Di Glionda M. Muzi A. Porcheddu M. Tiriticco Segreteria M. Muzi C. De Angelis Questo numero È stato curato da Paola Greganti Cari studenti, le newsletter di questo e del prossimo mese saranno dedicate a Paul Ricoeur, un filosofo che con la sua riflessione ha segnato la nostra epoca, morto il 20 maggio scorso a Châtenay-Malebry in Francia. Non è facile parlare in poche righe dell’eredità intellettuale che ci ha lasciato il lavoro appassionato di Ricoeur, lavoro che ha contribuito alla riflessione sul linguaggio, sull’etica, sulla storia, sull’arte, sul soggetto e, in definitiva, sull’uomo, con un rigore ed una profondità nonché una levatura culturale non indifferenti. Sembra quasi di compiere un torto tentare di sintetizzare in una manciata di parole il percorso di un intellettuale che nelle sue opere è sempre stato attento ad analizzare ed approfondire le pieghe e le implicazioni delle sue riflessioni, senza sottrarsi al confronto serrato con le diverse teorie filosofiche, linguistiche, semiotiche e non solo, e non lasciando spazio a facili conclusioni o banalizzazioni. Anche per questo l’opera di Ricoeur è diventata un autorevole oggetto di confronto ormai da anni. Come ho accennato, nella sua opera ha voluto attuare un confronto costante con le scienze umane quali la linguistica, la semiotica, la critica letteraria, seguendo un “programma trasversale” di confronto tra le scienze con la convinzione che questa fosse la dimensione propria della cultura: “Dico apposta trasversale, anziché interdisciplinare, in un senso che nell'ambiente universitario rimane, purtroppo, ancora limitato. (…) In realtà, questo programma trasversale percorre le scienze umane, dopo il loro modellarsi sulle scienze naturali, sino al modello secondo il quale vengono concepite nella tradizione ermeneutica. Peraltro, esso non collega soltanto le scienze umane tra loro - la linguistica, la demografia, la storia, eccetera - ma anche le stesse scienze umane alle scienze Cattedra di Didattica generale (P-Z) prof.ssa Alba Porcheddu Via dei Mille, 23, 00185 Roma tel 44703456 Paul Ricoeur: la dimensione dialogica dell’interpretazione email [email protected] della natura.” [email protected] Ricoeur: l’etica è il vocabolario dell’Occidente All’interno: Per approfondire Bibliografia essenziale 1 della natura.”1 Nel orso della sua riflessione decennale sul linguaggio, il costante dialogo di Ricoeur con altre scienze umane è diventato una delle cifre caratteristiche della sua opera, come dimostrano il denso volume La metafora viva che prende le mosse proprio da una serrata riflessione sulle concezioni della linguistica e della semiotica, Dal testo all’azione intessuto del dialogo con la critica letteraria e Dell’interpretazione il volume in cui l’autore svolge una lettura ermeneutica della psicanalisi.2 Nell’opera di Ricoeur proprio la dimensione del dialogo diventa un oggetto privilegiato di indagine nonché un metodo di riflessione, finalizzato a delineare una rigorosa epistemologia ermeneutica centrata sul concetto di interpretazione. Nei primi anni di studio3 Ricoeur tenta di sviluppare una antropologia filosofica fondata sul tentativo di edificare una ontologia, una riflessione sull’Essere così come era nata dalla Fenomenologia. Ma, secondo il filosofo, la strada tracciata da Heidegger era, così come la definisce lui stesso, una via troppo “breve” per tentare di operare un passaggio diretto dalla riflessione sull’uomo alla dimensione ontologica. Ricoeur, invece, propone una strada lunga che passi attraverso il confronto con le scienze umane e, soprattutto, attraverso lo sviluppo di una precisa epistemologia, una epistemologia che per il filosofo francese si incarna in una indagine rigorosa sul concetto di interpretazione e, quindi, in un’epistemologia ermeneutica4. Dunque, la “via lunga” percorsa dalla fenomenologia ermeneutica di Ricoeur si svolge sulla base dell’elucidazione semantica del concetto di interpretazione per indagare la dimensione simbolica del linguaggio e la questione del soggetto intesa come “messa in questione del soggetto”. Del resto, come abbiamo già ripetuto, la sua filosofia, che si pone nella prospettiva ermeneutica pur senza votarsi acriticamente ad una unica linea filosofica*, riflette sul linguaggio e lo usa come strumento nella prospettiva dell’interpretazione dialogica. La centralità del dialogo in Ricoeur viene dimostrata anche nel recente saggio La natura e la regola. Alle radici del pensiero che raccoglie un dialogo sulla natura del pensiero avvenuto tra il filosofo e il celebre neurobiologo Jean-Pierre Changeux. Qui Ricoeur afferma: “è nel conflitto delle interpretazioni che può avvenire uno scambio posto sotto il segno di un'etica della discussione. L'interpretazione, infatti, non è mai un atto solitario, ma sempre dialogico. È un problema morale, oltre che epistemologico: bisogna saper rispettare l'interpretazione degli altri”.5 Un dialogo, un lavoro di interpretazione nonché un confronto tra interpretazioni continua anche in una dimensione transtemporale come ha sintetizzato lo stesso Ricoeur in un’intervista pochi anni fa: Infatti all’intervistatore che chiedeva lumi sul suo lavoro filosofico e sulla prospettiva atemporale Michel Focault appoggiandosi su "Cos'è l'Illuminismo?" di Kant, diceva che il 1 Discorso di Paul Ricoeur tenuto presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. 2 Vd. Bibliografia essenziale. 3 Negli anni giovanili il filosofo si occupa di esistenzialismo e fenomenologia: vicino al movimento Esprit di Emmanuel Mounier, compie i primi studi nel 1947 su Gabriel Marcel e Karl Jasper; nel 1950 pubblica la traduzione francese delle Idee di Husserl. Successivamente l’indagine di Ricoeur si rivolge alla filosofia ermeneutica, in particolare al linguaggio della religione, del mito e della poesia e alla questione dell’interpretazione che essi aprono. I concetti chiave cha caratterizzano “l’antropologia ermeneutica” del filosofo sono: il discorso e l’azione; il sé come soggetto agente; la temporalità dell’azione; il rapporto tra narratività, identità e tempo; la memoria e la storia; la dimensione etica e quella politica. 4 Ricoeur afferma: “ciò contro cui mi oppongo, se volete, è un'ontologia separata che abbia rotto il dialogo con le scienze umane. Ecco, è questo che mi ha colpito in Gadamer. Tra verità e metodo secondo me bisogna cercare un cammino perché la filosofia è sempre morta tutte le volte che ha interrotto il suo dialogo con le scienze”. Nella prospettiva ricoeuriana, dalla correlazione e dal gioco di rinvii che si determina tra testo, azione e storia può scaturire l'idea di una dialettica spiegare/comprendere, cioè la costruzione della teoria “dell'arco ermeneutico”, che Ricoeur esplicita a partire dai saggi degli anni '70 (cfr. P. Ricoeur, Che cos'è un testo?). In questa direzione diventa allora possibile situare “la spiegazione e la comprensione a due stadi diversi di un unico arco ermeneutico”. 5 Paul Ricoeur, La nature et la règle, Odile Jacob, Paris 1998. compito della filosofia era d'identificare il presente. Lei iscrive il. Paul Ricoeur: “Non atemporale, ma transtemporale. Tutti i libri sono aperti sul mio tavolo. Non ce n'è uno che sia più vecchio dell'altro. Un dialogo di Platone è qui, adesso, per me. Pur essendo iscritto nel tempo, esso non è scalfito dal tempo; può essere decontestualizzato e ricontestualizzato. E questa capacità indefinita di contestualizzazione e ricontestualizzazione fa il suo classicismo. I classici del pensiero sono le opere che, per me e altri, resistono alla prova del cambiamento. Io credo a questa specie di strana contemporaneità, di dialogo dei morti, guidato però dai vivi”.6 Concludo questo mio omaggio a Paul Ricoeur citando le parole che il filosofo dedicò all’amico e interlocutore Hans Georg Gadamer, parole che rivelano la profonda riflessione personale del filosofo francese sulla dimensione dialogica della cultura e della storia a cui ciascuno è chiamato a partecipare: “….mi permetterete di richiamare (…) la figura del mio maestro ed amico Hans-Georg Gadamer, morto di recente (…). Nell'annuncio della sua morte, Gadamer ha fatto scrivere che egli “aveva preso congedo”; è questa l’espressione che ha impiegato: ha “preso congedo”, dopo un'esistenza ricca ed intensa, egli semplicemente “ha preso congedo”. Ciò significa che con grande semplicità - quanto più silenziosamente era possibile, io direi - egli è uscito dalla grande conversazione che aveva avuto inizio prima di lui e che proseguirà dopo di lui; come del resto viene chiesto a ciascuno di noi: entrare in una conversazione che è cominciata prima di noi e che continuerà dopo di noi, entrare nello spazio pubblico ed uscirne dignitosamente ed onestamente. Gadamer ha potuto scrivere questa frase, perché possedeva un elevato concetto del “filosofare insieme”. (…) Direi che il titolo di quel grande libro in cui è racchiusa l'intera sua opera, Verità e metodo, (…) dice tutto: il metodo, che si disperde lungo le linee dell'oggettività; la verità che si raccoglie nell'ordine delle scienze umane, ma che soprattutto è accompagnata, inquadrata, dall'estetica, dall'idea del bello, da una parte, e, dall'altra parte, dall'idea della parola che ci unisce tutti, perché essa, ci precede sempre, sempre è stata già detta tra noi, per noi, e in fin dei conti da noi.”7 Alba Porcheddu 6 Fabrizio Coscia, Il tempo, la storia, il perdono. Incontro con P.R. ieri a Napoli per il ciclo “Immagini della critica”, “Il Messaggero”, 30 gennaio 2001. 7 Discorso tenuto da Paul Ricoeur presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici. Ricoeur: l'etica è il vocabolario dell'Occidente Avvenire 3 luglio 2003 È stato il primo a formulare la categoria dei «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche, Freud), e, raggiunti i novant’anni, Paul Ricoeur è oggi, con Jacques Derrida, il maggior filosofo francese ed europeo vivente. Cominciò nel solco dell’esistenzialismo e della fenomenologia occupandosi di Marcel e di Jaspers, e lungo gli anni ha elaborato una teoria dell’interpretazione che pone al centro di tutto la persona. Qual è la cosa più importante che vorrebbe trasmettere ai figli dei suoi allievi? «Citerò il titolo di un mio libro: La critica e la convinzione. Per convinzione intendo al tempo stesso un’argomentazione e una motivazione di cui non si può dar conto. Nelle mie convinzioni c’è sicuramente un elemento non solo intimo e segreto, ma inaccessibile a me stesso. Quando mi dicono: "Ma se lei fosse nato in Cina non avrebbe questa filosofia, e non sarebbe cristiano", rispondo soltanto: "Parlate di uno che non sono io". Quanto all’importanza dello spirito critico, la riassumerò in una formula che non vuole essere uno slogan: casualità trasformata in destino da una continua scelta. Il destino d’essere nato in quella data famiglia che è la mia, in questo Paese, nella tradizione del cristianesimo a cui appartengo, di essere stato subito, per quanto ricordo, uno speculativo; ma anche di appartenere a una cultura occidentale che è l’unica in grado di esercitare non solo una critica permanente nei confronti delle scelte non fatte, ma anche un’autocritica. La forma particolare che assume, per me, il confronto tra convinzione e critica, è dunque la mia appartenenza al cristianesimo di tradizione riformata, in cui rientra però anche l’appartenenza alla grande tradizione greca. Dunque, fonte greca e fonte ebraica. Invecchiando, sono molto più sensibile alle intersezioni e alle interferenze che alle opposizioni e alle rotture. Ad esempio, tra i profeti d’Israele e i tragediografi greci vedo una specie di assonanza, di risonanza profonda». Secondo lei, esiste oggi un indebolimento dello spirito critico e delle convinzioni? E questo fatto non la inquieta? «Da un lato, non vivo nel terrore. Dall’altro, non sono sicuro che le cose stiano davvero così. Sul piano sociale, politico, ideologico, ci troviamo infatti anche in un’epoca di contestazione. Fondamentalmente non mi pare che le risorse critiche siano minacciate. Basta essere andati in Estremo Oriente, in Giappone, in Cina, per vedere che il profilo dell’uomo occidentale non ha il suo doppio altrove, e che davvero rappresentiamo una forza critica. Inoltre, non sono sicuro che si possa giudicare il tempo in cui si vive. Lo si vede da questo: mezzo secolo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ci accorgiamo di avere avuto valutazioni successive e diverse di noi stessi e, alla fine, non sappiamo come ci giudicheranno fra trent’anni. Una società così complessa e contraddittoria non può fare il bilancio di se stessa. Forse bisogna lasciare in sospeso il giudizio di disprezzo, di cui i vecchi debbono diffidare più degli altri». Come possono i filosofi influire sull’attualità? «Penso che occorra fare un lavoro, più che semantico, per un uso corretto dei concetti. Una pulizia del vocabolario. E per obbligarsi reciprocamente a fornire l’argomento migliore. Ad esempio, stamani alla radio ho sentito una discussione sulla questione dell’antiamericanismo e delle manifestazioni pacifiste, dove si mettevano accanto i sostenitori di un pacifismo assoluto – “non combatterò nessuna guerra, di nessun tipo” – e i fautori di una posizione che è invece: “Faremo solo la guerra che avrà l’avallo delle Nazioni Unite”. Non è la stessa cosa. Bisognerebbe allora condurre un’analisi sul non detto, sull’usurpazione della concettualità. Non sacrificare tutto all’antiamericanismo primario che consiste nel dire: dal momento che è americano, può essere solo cattivo… Il ruolo del filosofo è evidentemente anche quello di provare a individuare la posta in gioco. Nella situazione attuale è proprio questo, secondo me, che risulta particolarmente insopportabile: il fatto di non conoscere la posta in gioco». Torniamo a lei. Come vive oggi la notorietà? «Si è detto spesso che ho ottenuto riconoscimenti tardivi e che oggi godo peraltro di grande notorietà, cosa che continua a stupirmi. Personalmente, non ho mai avvertito un mancato riconoscimento, credo per due ragioni: innanzitutto, perché anche se non ero considerato un filosofo importante avevo la stima dei miei studenti ed ero un insegnante felice. Non mi pesava, insomma, non essere considerato alla stregua di Deleuze, Foucault, per citare i due pensatori che ho più ammirato. La seconda ragione è che, quando ho scritto i miei libri, mi sono curato poco dei lettori. Cosa che ha senz’altro degli inconvenienti – il fatto di non rispondere a un dato momento a un’attesa di lettura –, ma che si è rivelata un fattore di durata. Il mio problema era sapere: ho risposto alle mie domande? Ciò mi lasciava non solo poco preoccupato di sapere come sarei stato accolto, ma quasi incurante di come venivo effettivamente accolto». Quali sono state le letture più belle della sua vita? «Per me il blocco greco resta intatto. E mi oppongo risolutamente all’idea di quanti, nei programmi di riforma universitaria, vorrebbero segnare una cesura tra moderni e antichi. Sono molto più sensibile alla grandissima continuità culturale. Quando leggiamo i tragediografi o gli storici greci possiamo ritrovarvi perfettamente noi stessi. Sicuramente perché, nel corso del tempo, poche cose sono cambiate così poco come le passioni politiche, il rapporto con il potere. Chi è abituato a leggermi ha potuto constatare che impiego molto raramente il termine "moderno". Parlo di "contemporaneo", ma non faccio del moderno una categoria con la emme maiuscola di fronte agli antichi. Non so cos’è il moderno. Far coincidere il moderno coi Lumi non era ciò che intendeva Baudelaire quando diceva che il moderno era il tempo dell’effimero e non dell’universale». Come vive i suoi 90 anni? «Tranquillamente. Cosa penso della morte l’ho scritto in La critica e la convinzione. La frase che sempre mi accompagna è: “essere vivo fino alla morte”. I pericoli della terza età sono la tristezza e la noia. La tristezza è legata alla necessità di abbandonare molte cose. Occorre fare un lavoro di rinuncia al possesso. La tristezza non è padroneggiabile, però si può padroneggiare il consenso alla tristezza. Quello che i Padri della Chiesa chiamavano l’akedia, l’accidia. Non bisogna cederle. La reazione alla noia consiste nell’essere attenti e aperti alle novità. Descartes la chiamava ammirazione, che coincide poi con lo stupore. Personalmente, arrivato a quest’età, riesco ancora a stupirmi». (Per gentile concessione del quotidiano “La Croix”. Hanno collaborato Nathalie Crom e Robert Migliorini. Traduzione di Anna Maria Brogi). BIBLIGRAFIA ESSENZIALE: Filosofia della volontà, t. I-II-III (1950)(1955)(1960); Dell'interpretazione. Saggio su Freud (1965); Il conflitto delle interpretazioni (1969); La metafora viva (1975); Tempo e racconto, t.I-II-III (1983)(1984)(1985); Dal testo all'azione (1986); Sé come un altro (1990); Lectures,I-II-III (1991-1994); Il giusto (1995) ; La natura e la regola. Alle radici del pensiero (1998); La critica e la convinzione (1995); La memoria, la storia, l’oblio (2000). ♦ Ricoeur si distingue da altri filosofi del ‘900 in quanto la sua vocazione al dialogo e al confronto intellettuale lo ha portato a non identificarsi totalmente con una corrente filosofica; sebbene la sua riflessione si inserisca nella tradizione e nell’eredità della fenomenologia e dell’ermeneutica, è stato da più parti considerato sui generis, proprio perché il suo pensiero non è riducibile totalmente ad una corrente di pensiero. Del resto possiamo capire dalle stesse parole del filosofo la scelta di questo “stare nel mezzo” causata da uno strenuo tentativo di porre al centro l’indagine sui problemi: “Non ho una mia filosofia personale che dipano di libro in libro. Tutte le mie opere hanno un obiettivo ben preciso. Ho sempre pensato in termini di problemi, che sono discontinui. È solo dopo che cerco di tracciare una linea. Mi sembra che la continuità del mio lavoro sia stata assicurata dai "resti", poiché ogni libro lascia un residuo dal quale, ogni volta, prendo lo slancio”. (Francois Ewald, Paul Ricoeur. Il futuro nasce dalla memoria, “Il Corriere della sera”, 9 settembre 2000). Nonostante ciò lo stesso filosofo dichiara di inserirsi nel processo di pensiero che si sta svolgendo in Europa e che raccoglie l’eredità di grandi pensatori: “Ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica. Riguardo al primo termine - riflessiva -, l'accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l'esteriorizzano rispetto a se stessa. Jean Nabert è il maestro emblematico di questo primo ramo della corrente comune. Il secondo termine - fenomenologica - designa l'ambizione di andare alle 'cose stesse', cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all'esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; quest’intento, diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l'accento sulla dimensione intenzionale della vita teorica, pratica, estetica, ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come 'coscienza di...'. Husserl rimane l'eroe eponimo di questa corrente di pensiero. Riguardo al terzo termine - ermeneutica ereditato dal metodo interpretativo applicato in un primo tempo ai testi religiosi (esegesi), ai testi letterari classici (filologia) e ai testi giuridici (diritto), l'accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell'esperienza umana. Sotto questa terza forma la filosofia mette in questione la pretesa di ogni altra filosofia di essere priva di presupposti. I maestri di questa terza tendenza si chiamano Dilthey, Heidegger, Gadamer”. (Paul Ricoeur, La nature et la règle, 1998). ♦Per approfondire: http://plato.stanford.edu/entries/ricoeur (Sito della Stanford Encyclopedia of Philosophy – in inglese) http://ricoeur.iaf.ac.at (sito accademico curato dal Centre de Phenoménologie et d’Herméneutique des Valeurs – in francese)