La “giapponesizzazione” dell`Italia

La “giapponesizzazione” dell’Italia
La “giapponesizzazione” dell’Italia
Thomas Fazi
A più di sei anni dalla crisi finanziaria del 2008, l’eurozona nel suo insieme è in piena
stagnazione economica e continua a registrare un Pil inferiore a quello del picco pre-crisi, mentre
vari paesi sono ancora in recessione
La situazione disastrosa in cui versa l’Europa è nota, ma spesso si sottovaluta l’entità del
disastro. A più di sei anni dalla crisi finanziaria del 2008, l’eurozona nel suo insieme è in piena
stagnazione economica e continua a registrare un Pil inferiore a quello del picco pre-crisi, mentre
vari paesi sono ancora in recessione. A questo punto, quindi, possiamo dire che, almeno per
quello che riguarda l’Europa, questa non è “la peggiore crisi dai tempi della grande
depressione”, come recita la
vulgata giornalistica; se consideriamo che negli anni trenta l’Europa impiegò all’incirca quattro
anni e mezzo per tornare ai livelli di crescita pre-crisi, possiamo ragionevolmente sostenere che,
perlomeno da un punto di vista macroeconomico,
questa crisi è peggiore di quella del ’29. Soprattutto se consideriamo che,
ceteris paribus, la stagnazione si prospetta “secolare”, come sostengono numerosi esperti.
Tuttavia, guardare alla media europea è fuorviante, poiché sappiamo che uno dei tratti
caratteristici della crisi dell’eurozona è la sua natura profondamente asimmetrica: da un lato,
infatti, abbiamo paesi come la Germania che hanno raggiunto o superato il livello di Pil pre-crisi, e
altri che invece hanno registrato (e continuano a registrare) un crollo del reddito nazionale senza
precedenti nella storia moderna. Dopo la Grecia, l’Italia è senz’altro il caso più esemplare. Si è
parlato molto del fatto che nel secondo trimestre del 2014 l’Italia è “tornata” in recessione, ma
la verità è molto peggiore: di fatto l’Italia è in recessione da sei anni, come si può facilmente
evincere dall’andamento del Pil.
E gli effetti si vedono: produzione industriale al -25%, Pil al -10%, tasso di accumulazione ai
minimi storici, disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e
sociale da cui il nostro paese impiegherà decenni a riprendersi (e comunque solo a patto di un
cambio radicale cambio di rotta), soprattutto considerando i pesanti effetti strutturali che la crisi ha
avuto sul tessuto produttivo del paese. In questo senso è difficile dare torto a un recente studio di
Confindustria, secondo cui i danni provocati dalla crisi sono “commisurabili solo con quelli di una
guerra”. Che, però, aggiungiamo, non ha colpito tutti allo stesso modo.
A cosa è da inputare questa catastrofe? C’è ormai un ampio consenso sul fatto che la causa più
diretta della crisi italiana in particolare ed europea in generale sia da ricercarsi nel crollo della
domanda aggregata e, in particolare, nella riduzione della domanda di beni di consumo. Persino
due accaniti sostenitori dell’
austerity come Francesco Giavazzi (uno dei padri della teoria dell’“austerità espansiva”) e
Guido Tabellini hanno recentemente fatto marcia indietro, dichiarando che “la sfida principale
che ha di fronte l’eurozona è una mancanza di domanda aggregata” e che “questo è molto più
rilevante degli squilibri interni o della mancanza di competitività della periferia”. Questo, a sua
volta, ha determinato una caduta dei prezzi, facendo scivolare l’eurozona sull’orlo della
deflazione (che per alcuni paesi, tra cui l’Italia, è già una realtà). Ci troviamo, in sostanza, di
fronte a una situazione in cui stagnazione (o recessione) dell’economia e caduta dei prezzi si
alimentano vicendevolmente, al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per fare il
verso alla stagflazione degli anni ‘70): come ha scritto Guglielmo Forges Davanzati sulla
Repubblica, “la caduta dei prezzi è, al tempo stesso, sintomo e concausa della recessione…. A
ben vedere, la deflazione è… il principale sintomo di una intensa recessione e, al tempo stesso,
una causa rilevante che può accentuarla”.
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Anche sulle origini del crollo della domanda (e dunque della spirale deflazionistica) in Europa
ormai non ci sono dubbi. Essa è in parte il risultato dell’architettura estremamente disfunzionale
dell’eurozona (che è intrinsecamente recessiva e deflazionistica, e non da ieri ma da quando è
iniziato il processo di “convergenza” verso Maastricht negli anni novanta), e in parte delle scelte
(apparentemente) dissennate fatte dall’establishment politico europeo in seguito alla crisi
finanziaria, che hanno avuto l’effetto di strangolare ulteriormente l’economia, già affamata da
un crollo della spesa privata, per mezzo di drastici tagli alla spesa pubblica, aumenti delle tasse e
compressione dei salari. Questo ormai lo dicono – seppur con modi, toni e soprattutto finalità
politiche diverse – anche organizzazioni internazionali come l’Fmi e giornali d’élite come il
Financial Times. E la migliore dimostrazione di ciò è il fatto che le altri grandi aree monetarie
colpite dalla crisi – Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, che infatti hanno implementato delle
politiche economiche ben diverse dalle nostre (pur con tutti i loro limiti) –, hanno recuperato o
superato il livello del reddito nazionale del 2008, e sono riuscite a ridurre notevolmente il tasso di
disoccupazione.
Eppure, di fronte a un dei più colossali fallimenti di politica economica della storia moderna, le
élite europee e nazionali continuano in buona parte a insistere sulla stessa strada. Basti vedere
la nuova Commissione europea guidata da Juncker, che in materia di politica economica si
presenta in una linea di assoluta continuità con il passato. “Noi abbiamo fatto tutto il possibile,
ora tocca a voi fare il necessario per rilanciare la crescita”: questo sembra essere in sostanza il
messaggio lanciato da Bruxelles e Francoforte ai governi nazionali. L’ha detto chiaramente
Mario Draghi in una recente conferenza stampa: gli stimoli monetari da soli non possono bastare,
e lo spazio di manovra per politiche fiscali espansive non esiste, a causa dell’alto livello del
debito di molti paesi; quello che serve a questo punto sono “ambiziosi, importanti e forti riforme
strutturali”, soprattutto nell’ambito del mercato del lavoro. Qualche giorno prima Draghi era stato
ancora più esplicito, dicendo addirittura che era arrivato il momento di “cedere sovranità”
all’Europa per quanto riguarda le riforme, come già è stato fatto per le politiche di bilancio.
Non è possibile qui entrare nel merito della prima parte del discorso di Draghi, ossia il fatto che la
Bce avrebbe fatto “tutto il possibile” in suo potere per contrastare la crisi. Ci limiteremo a notare
che lo stesso Giavazzi ha indicato che la Bce potrebbe benissimo finanziare una politica di
stimolo fiscale stampando moneta. Ci concentreremo dunque sul punto centrale del discorso di
Draghi: le riforme strutturali. Tra le quali, sottolinea Draghi, la “priorità” spetta alle riforme
strutturali dirette all’eliminazione delle “rigidità del mercato del lavoro”. Una posizione che
rispecchia perfettamente quella di Matteo Renzi (e del suo “Jobs Act”), che difatti si è detto
“assolutamente d’accordo” col presidente della Bce ed ha colto palla al balzo per tornare ad
attaccare l’articolo 18. Ma siamo sicuri che le riforme strutturali – o meglio,
questo tipo di riforme – rappresentino “il motore principale della crescita”, come recita il
documento della presidenza italiana del semestre Ue? La realtà è che vent’anni di ricerche
empiriche hanno dimostrato che non esiste nessuna correlazione positiva tra flessibilizzazione
del mercato del lavoro e crescita economica ed occupazionale. E l’Italia ne è la dimostrazione
evidente: a partire dalla Legge Treu del 1997, sono state approvate nel nostro paese ben nove
riforme del mercato del lavoro,
di cui sette negli ultimi sette anni, col risultato che oggi l’Ocse riconosce all’Italia il pregio di
essere il paese che ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro tra i paesi
industrializzati. Senza che questo sia minimamente riuscito a frenare il tracollo del reddito
nazionale e la vertiginosa crescita della disoccupazione dal 2008 in poi. Possiamo anzi
ragionevolmente ipotizzare che l’abbia peggiorata: se siamo d’accordo che l’Italia soffre
principalmente di un problema di carenza di domanda aggregata, risulta evidente che una
maggiore flessibilità del lavoro, che favorisce contratti precari e peggiora le condizioni di reddito
della forza lavoro, rischia di svolgere una funzione pro-ciclica, deprimendo ulteriormente la
domanda (a tal proposito è opportuno notare che l’Italia è il paese europeo in cui i salari reali
sono cresciuti di meno dai primi anni novanta ad oggi, determinando una consistente riduzione
della quota dei salari sul Pil). Trattasi di un classico caso di “fallacia della composizione”: quella
che può apparire come una scelta razionale per una singola impresa si rivela fallimentare per
l’economia se a farlo sono
tutte le imprese allo stesso tempo.
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Questo è ancor più vero in uno scenario deflazionistico, come insegna l’esempio del Giappone,
che da quindici anni combatte contro la deflazione. Anche lì, a partire dalla metà degli anni
novanta, le imprese hanno reagito al crollo della domanda (e dei prezzi), determinato dallo
scoppio della bolla immobiliare, tagliando i salari. Con l’effetto di provocare un’ulteriore
riduzione della domanda e dando il via a quella spirale negativa che il Giappone sta ancora oggi
cercando di invertire. La buona notizia è che il paese sembra aver finalmente imparato la lezione.
Proprio alla recente conferenza dei banchieri centrali di Jackson Hole, mentre Draghi cantava le
lodi delle riforme strutturali, il governatore della banca centrale giapponese auspicava l’esatto
opposto, chiedendo una mano visibile che aiuti ad aumentare i salari: senza un aumento dei
salari – ha spiegato – la domanda interna non può crescere, le imprese non sentono il bisogno
di investire e il paese stenta ad uscire dalla deflazione.
In realtà, lo stesso Draghi ammette che queste riforme, proprio perché riducono la domanda,
sono destinate nel breve-medio periodo ad aggravare le prospettive di crescita e di occupazione.
E allora come spiegare l’insistenza sulle riforme del mercato del lavoro? Trattasi semplicemente
di un caso di cecità ideologica? O dietro alle misure proposte si nasconde un disegno politico
preciso? Come ha ipotizzato di recente Gad Lerner sulla
Repubblica, “sulla riforma del mercato del lavoro italiano grava il sospetto che si tratti di un
passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori” e più
precisamente “a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente”, all’interno di
un più ampio “ridisegno complessivo del nostro sistema economico”. Un “ridisegno” che
probabilmente val bene anche la definitiva “giapponesizzazione” dell’Italia.
Sì
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