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L'economia europea di domani
Author : Federico Stoppa
Categories : Europa
Date : feb 18, 2014
Secondo le previsioni dell’ultimo rapporto della Commissione Europea (Quartely Report on the
Euro area, dicembre 2013) il Pil pro capite potenziale dell’Eurozona, in assenza di interventi
strutturali, crescerà meno dell’1% nel prossimo decennio, circa la metà di quanto fatto
registrare durante il periodo pre-crisi 1998-2007. Il gap con gli Stati uniti, così, si accentuerebbe:
il prodotto pro capite dell’Eurozona scivolerebbe, nel 2023, al 60% di quello statunitense,
invertendo un trend di convergenza che, partito nel secondo dopoguerra, sembrava concluso a
metà anni Novanta. Secondo la Commissione, le cause della deludente performance di lungo
periodo dell’economia europea non sono riconducibili esclusivamente all’attuale congiuntura
economica, ma si devono piuttosto a fattori strutturali come il basso tasso di crescita della
produttività del lavoro e l’invecchiamento demografico.
La preoccupante diagnosi del Rapporto può essere compendiata come segue. Il valore del Pil
pro capite, nel lungo termine, dipende dalla produttività media del lavoro (calcolata come valore
aggiunto per ora lavorata) e dalla partecipazione al mercato del lavoro (il rapporto tra
popolazione in età lavorativa e popolazione totale). Nel contesto europeo, la crescita della
produttività del lavoro è influenzata negativamente dalla scarsa performance, in media, della
produttività totale dei fattori (TFP), una misura dell’efficienza organizzativa delle produzioni e
del progresso tecnico; mentre la bassa natalità e l’invecchiamento della popolazione
comprimono l’offerta di lavoro. La conclusione del ragionamento è che, “under a no policychange scenario”, il tasso di crescita del Pil per abitante declinerà.
L’apparente pessimismo della Commissione non sfocia però nella rassegnazione: l’Eurozona
potrà salvaguardare benessere e competitività se gli Stati porranno in essere le riforme
strutturali necessarie. L’obiettivo è quello di aumentare produttività e partecipazione al mercato
del lavoro. Allo scopo, la Commissione presenta alcune proposte, già presenti, in nuce, nella
Agenda di Lisbona (2000) e in quella “Europe 2020” (2010) :
Liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi. In questo modo, la maggior facilità di
accesso ai mercati alimenterà la concorrenza, riducendo gli extra profitti dei produttori e
calmierando i prezzi. Si avranno vantaggi tangibili per i consumatori e per la
competitività internazionale dei Paesi;
Aumento dell’offerta di lavoro, con l’allungamento dell’età pensionabile e le facilitazioni
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sulle assunzioni di donne, giovani, lavoratori low-skilled. Per incentivare la
partecipazione femminile si prevede il potenziamento delle strutture di asili nido;
Lotta alla disoccupazione, favorendo l’incontro (matching)tra domanda e offerta sul
mercato del lavoro. Le proposte contemplano la riduzione dei sussidi di disoccupazione
(il cosiddetto salario di riserva) e il miglioramento delle politiche attive di riqualificazione
professionale. Incentivi fiscali appropriati per le imprese completano il quadro;
Riforme fiscali, che spostino il carico fiscale dall’imposizione diretta su lavoro e impresa
a quella indiretta sui consumi. La misura favorisce in particolare le imprese esportatrici,
che non sono gravate dalla maggior IVA, ma sfruttano il beneficio degli sgravi sul costo
del lavoro;
Interventi sulla formazione scolastica per accrescere il livello del capitale umano;
Sostengo alla produttività e all’innovazione tecnologica, con il ricorso a strumenti quali il
credito d’imposta sulle spesa privata per Ricerca e Sviluppo.
Secondo le previsioni, l‘attuazione di questo pacchetto di riforme da parte di ciascun paese
incrementerebbe il Pil aggregato dell’eurozona del 6% alla fine del prossimo decennio. Si
avrebbero effetti di ricaduta (spill overs) su redditi, domanda interna e competitività
internazionale. Deficit e debito pubblico rientrerebbero su sentieri di sostenibilità, e gli squilibri di
bilancia commerciale tra paesi core e periferici si attenuerebbero. Unico caveat: siccome le
riforme daranno i loro frutti dopo alcuni anni, è cruciale che i tutti i paesi le introducano il prima
possibile, superando le resistenze corporative all’interno dei vari paesi.
Pur condividendo le preoccupazioni sul futuro dell’Unione, e la necessità di prendere
tempestive misure correttive della rotta dell’Europa, abbiamo forti dubbi circa l’efficacia
riformista dell’agenda della Commissione. Quello che non convince è l’impianto complessivo
delle riforme, tutto sbilanciato su provvedimenti dal lato dell’offerta, come detassazioni,
incentivi fiscali, liberalizzazioni, riduzioni degli ammortizzatori sociali e della spesa
previdenziale. Le riforme supply side si basano sull’assunto che il mercato, attraverso il
sistema dei prezzi, permetta di allocare al meglio i fattori produttivi, massimizzando benessere e
occupazione generale. Quando ciò non avviene, e si creano per esempio disoccupazione o
riduzioni del Pil, è perché esistono rigidità- da imputare a fattori esterni - che non consentono ai
prezzi (e ai salari) di aggiustarsi liberamente. È il caso di sussidi di disoccupazione troppo
generosi, che farebbero scendere l’offerta di lavoro, o di norme restrittive sui licenziamenti, che
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scoraggerebbero le assunzioni da parte delle imprese. Il compito della politica economica
sarebbe quello di eliminare tali distorsioni.
Questa visione non ha alcun riscontro empirico. Nel periodo 2008 - 2013, il numero dei senza
lavoro è salito di 4 punti percentuali nell’Eurozona (fonte: Eurostat), nonostante i paesi periferici
abbiano introdotto massicce dosi di flessibilità sul mercato del lavoro, ridotto protezioni, sussidi,
costo di lavoro per unità di prodotto, e implementato riforme importanti per allungare l’età
pensionabile. Lungi dal dipendere dalle condizioni dell’offerta, l’esplosione della
disoccupazione si deve all’insufficienza di domanda di beni di consumo e d’investimento da
parte di imprese e famiglie, provocata a sua volta dalle brutali politiche di consolidamento
fiscale (taglio di spese e aumento della pressione fiscale) imposte dalle istituzioni europee ai
paesi membri. È chiaro che senza un mutamento radicale, copernicano, nella politica
economica, l’Europa rischia di frantumarsi definitivamente.
Il nuovo motore di crescita dell’Unione dovrà provenire soprattutto dalla domanda interna,
ridimensionando l’incidenza delle esportazioni. Servono, per questo, politiche (della domanda)
che da un lato mettano fine all’intollerabile sofferenza sociale dei popoli, dall’altro indirizzino lo
sviluppo economico di lungo periodo su sentieri di sostenibilità ambientale, giustizia sociale,
benessere materiale. Sono gli investimenti pubblici che andrebbero sollecitati, poiché hanno
effetti moltiplicativi immediati su reddito e occupazione; e se canalizzati verso settori specifici,
dalla ricerca alle infrastrutture materiali e immateriali, alla tutela dell’ambiente, possono
migliorare qualitativamente anche l’offerta produttiva di medio lungo termine.
Le risorse da mobilitare per questo grande piano d’investimenti sono ingenti, ma le fonti di
finanziamento non mancano: Eurobonds, tasse ambientali e sulle transazioni finanziarie,
potenziamento dei fondi strutturali, e una banca centrale europea profondamente riformata, che
abbia come target la piena occupazione oltre che la stabilità dei prezzi.
Gli ostacoli al cambiamento sono tutti di natura politica (e ideologica); vedremo se alle
imminenti elezioni di maggio le idee di rinnovamento prevarranno, finalmente, sugli interessi
costituiti.
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