Incontri biblici Parrocchia s. Ugo 2012-13
“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
5° incontro – giovedì 10 gennaio 2013
DAMMI LA FEDE
Serafino Falvo
Mio Dio, com'è assurda la mia vita senza il dono della fede!
Una candela fumigante è la mia intelligenza.
Un braciere colmo di cenere è il mio cuore.
Una fredda e breve giornata d'inverno è la mia esistenza.
Dammi la fede!
Una fede che dia senso al mio vivere,
forza al mio cammino,
significato al mio sacrificio,
certezza ai miei dubbi,
speranza alle mie delusioni,
coraggio alle mie paure,
vigore alle mie stanchezze,
sentieri ai mie smarrimenti,
luce alle notti del mio spirito,
riposo e pace alle ansie del cuore.
Continuiamo con il nostro testo.
20 Per fede, Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù anche in vista di beni futuri.
Questo episodio è narrato in Gen 27. Nella versione anticotestamentaria originale esso è un vero e proprio
dramma, anzi per Isacco una tragedia interiore quando si rende conto di aver benedetto come primogenito
Giacobbe anziché quello che lui considerava il primo e cioè Esaù, consegnando così l’eredità dell’alleanza
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
del padre Abramo alla persona da lui ritenuta sbagliata. In questo caso, come peraltro in quello che
precede le sue nozze, in cui è il servo che le combina recandosi al pozzo per attingere acqua cercando
moglie al posto suo (Gen 24), Isacco non fa propriamente una splendida figura, mostrando di non capire
quanto invece fosse proprio Giacobbe il più adeguato a portare avanti l’alleanza con il Signore e le
promesse verso il suo popolo e l’umanità. Questo lo ha compreso bene invece la moglie Rebecca, ben più
consapevole di lui, che infatti si rende parte attiva, in qualche modo complice di Giacobbe, nell’organizzare
il tranello della pelliccia in modo che Isacco benedica Giacobbe per primo. Non appare lungimirante Isacco,
ma semplicemente uno strumento passivo. Consolante è per noi e per la nostra spesso povera fede vedere
come all’essere strumento di Dio per Isacco basti così: egli è il figlio della promessa, il suo nome Isaac
significa “Dio ride” e la sua identità è dunque il riso di Dio verso l’umanità Sua alleata. Il suo unico momento
di vero protagonismo a fianco del padre è quando insieme salgono al monte Moria per il suo sacrificio e
accanto al padre, considerato dalla tradizione rabbinica già un trentenne per la sua maturità, resta per noi il
segno permanente di quella frase decisiva per ogni esperienza di fede: “Sul monte il Signore vede” e anche:
“Sul monte il Signore si fa vedere” (Gen 22,14). Tanto basta per la vocazione di Isacco, che in tal modo
ognuno di noi può trovarsi accanto ogni volta che la vita chiama a salire un monte Moria che sembra
assurdo. Forse per questo l’autore della lettera agli Ebrei non ha voluto insistere sui particolari della
disperazione di Isacco quando si rende conto che ha benedetto Giacobbe; non ha voluto contrapporre
Isacco a Rebecca;
non ha voluto neppure differenziare la benedizione a Giacobbe, data come a
primogenito che eredita alleanza e promesse, da quella data ad Esaù. In questo contesto all’autore
interessa che Isacco ha benedetto entrambi e tramite questa benedizione Dio ha continuato a ridere
insieme all’umanità e l’umanità ha continuato la sua storia di alleanza con il suo Dio.
Questo particolare ci dà molta speranza perché, come abbiamo letto anche in questa settimana nella
liturgia feriale nel brano della moltiplicazione dei pani, al Signore basta che diamo quel poco che è dentro di
noi. Che, per essere fedele, a Isacco basta poco, basta addirittura e in modo paradossale l’esercizio di una
inconsapevolezza, e questo significa che la garanzia della fedeltà dell’alleanza col Signore sta veramente in
mano Sua, proprio come si è reso visibile nel rito di alleanza con gli animali spezzati nella storia di Abramo
(Gen 15).
Su questa indicazione spirituale mi permetto di suggerire caldamente la lettura di un libretto di spiritualità
pubblicato da poco, che personalmente considero fra le cose migliori lette in tal senso. Si tratta del testo di
UN EREMITA che non ha voluto essere maggiormente identificato, riprendendo così la consuetudine
dell’anonimato degli autori biblici, dal titolo: Introduzione all’orazione mistica, Edizioni Effatà (che sta
pubblicando belle cose), Torino 2012 (già in terza edizione, la prima è del 2008). Questo eremita, che ha
scelto di ripercorrere tutte le tappe della vita di unione al Signore attraverso la preghiera, cosa di cui si
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parla fin troppo poco nelle comunità di fede, e introduce ogni capitolo con un passo di una poesia di David
Maria Turoldo, ispira tutta la sua proposta al percorso di cosiddetta unione passiva, quella cioè in cui è il
Signore che opera l’unione e la santificazione in noi ed essa non è frutto di un lavoro di volontà personale;
da parte nostra, bisogna soltanto (non è certo poco e richiede comunque un impegno, una “determinata
determinazione” teresiana) essere fedeli alla preghiera soprattutto come quel silenzioso incontro di sguardi
a tu per tu, “dialogo di amicizia con Colui dal quale ci sappiamo amati” (s. Teresa di Gesù) che viene
proposto soprattutto dalla tradizione monastica e poi dai due grandi mistici carmelitani Teresa d’Avila e
Giovanni della Croce. E’ un percorso che è disponibile a qualunque cristiano desideri in qualunque stato di
vita, purché desideroso e disposto a porsi in questo atteggiamento. Ecco, la via della fede di Isacco mi pare
possa incoraggiarci a intraprendere questo cammino della via cosiddetta passiva di unione al Signore e di
santificazione.
21 Per fede, Giacobbe, morente, benedisse ciascuno dei figli di Giuseppe e si prostrò,
appoggiandosi sull’estremità del bastone.
Di Giacobbe in questo caso l’autore sacro ricorda la benedizione da lui data a ciascuno dei suoi figli (Gen
49): in quel tempo e luogo la benedizione patriarcale veniva concepita come rito efficace perché si
realizzasse ciò che le parole di benedizione contenevano. Lo abbiamo visto con Isacco: nel momento in cui
Isacco ha benedetto Giacobbe per primo, il benedicente è consapevole che la benedizione è divenuta
efficace, per il solo fatto di essere stata pronunciata. Ricordiamo che nella visione ebraica della vita la
parola (dabar) crea (bara) e Dio infatti crea nella e con la Parola. E’ interessante dunque, per chi lo volesse,
andarsi a leggere queste benedizioni date ai dodici figli, in cui sono contenute e custodite le dodici tribù.
Interessante per esempio, soprattutto per noi discepoli di Gesù, la benedizione a Giuda e dunque alla sua
tribù regale (Gen 49,9-12).
Un altro risvolto possibile, per chi desideri percorrerlo, è quello della benedizione come strettamente
associata alla vita di fede: coltivare ed effondere pensieri benedicenti è anche un’ecologia dell’anima e
dello spirito, lasciare spazio alla grazia perché ripulisca i pensieri negativi. Uno psicologo spagnolo, Luis
Adauto Muner, ha sviluppato molto questo aspetto di trasformazione dei pensieri negativi e perciò stesso
letteralmente dia-bolici (che creano disgregazione interiore e separazione) in pensieri benedicenti, detti
angelici, che ricompattano corpo, anima, spirito di chi li pensa e creano comunione. E’ un lavoro da fare,
secondo lo stile teresiano proposto dall’eremita, non con sforzo di volontà, ma lasciando operare la grazia,
dedicando spazio e tempo (è il “trova il tempo” di madre Teresa di Calcutta) a lasciar passare come nuvole
in cielo, come “farfalle” (secondo l’immagine di Teresa d’Avila) i pensieri negativi, lasciarli andare, salutarli,
per far posto poco a poco ai pensieri benedicenti.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
Come vedete dalla Parola di Dio scaturiscono molteplici torrenti per dissetarci e nutrirci: come sempre il
mio suggerimento è che ognuno inizi da ciò che avverte più intensamente come chiamata dello Spirito
dentro di sé, lasciando aperta la porta poi per gli altri.
Torniamo alla benedizione di Giacobbe ai figli che poi sono anche le tribù. Sì, perché come abbiamo visto
con la benedizione di Dio stesso ad Abramo, nella quale il Signore rivela che in lui si diranno benedetti tutti i
popoli della terra (Gen 12,3), ogni persona biblica è allo stesso tempo se stessa e tutto il popolo, tutta
l’umanità. Proprio in Giacobbe vediamo realizzarsi questo nel cambiamento del nome, analogamente a
come abbiamo visto nel cambiamento del nome ad Abràm:
“Tu non ti chiamerai più Abràm (padre eccelso), ma Abraham (padre di moltitudini)” (Gen 17,5).
Nella visione biblica questo secondo nome nuovo è più grande del primo, che pur contiene un elemento di
grandezza assente nel primo; ma è di più essere padre di moltitudini, essere “svuotato” (Fil 2,6ss.)
nell’umanità piuttosto che essere eccelso in se stesso. “Cristo Gesù non considerò un tesoro geloso l’essere
uguale a Dio, ma spogliò se stesso …”.
E a Giacobbe: “Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele” (Gen 32,29).
Da questo cambiamento di nome l’umanità di Giacobbe, ripronunciata da Dio, esce come ampliata, dilatata
su orizzonti smisurati e nuovi. Così dev’essere anche il nome nuovo scritto sulla pietruzza bianca dato da
Gesù al vincitore della lotta interiore, perseverante nella fede, che soltanto chi lo riceve conosce (Ap 2,17).
Ricordiamo ancora di Giacobbe alcuni quadri: il sogno della scala che discende dal cielo e su cui lui può
salire accompagnato da angeli (Gen 28,10-22) e la lotta con Dio, contesto nel quale avviene il cambiamento
del nome (Gen 32,23-39).
Nel sogno della scala che giunge fino a terra, ma la cui cima si perde nel cielo e vi salgono e scendono
angeli, a Giacobbe il Signore conferma la promessa fatta ad Abramo e Isacco: egli si presenta proprio così,
come il Dio di Abramo e il Dio di Isacco, che ora quindi diviene anche Dio suo a cui viene confermata e come
prolungata la promessa. Il “Dio di” lo ritroveremo tra poco con Mosè. Per ora qui sottolineiamo appunto
l’iniziativa assoluta di Dio, che si manifesta infatti nel sogno, quando Giacobbe è passivo, proprio come nel
torpore (tardemahGen 2,21; 15,12) lo sono Adàm e Abràm. Ricordiamo che noi siamo figli di questi nostri
padri nella fede, come ci attesta il brano della lettera agli Ebrei da cui partiamo, e che dunque questa scala
su cui saliscendono gli angeli perché congiunge terra e cielo, è scala lanciata anche per ognuno di noi e per
tutti noi.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
Il brano della lotta con Dio è in parte oscuro: si narra che nel suo cammino costellato di costruzioni di stele
proprio come aveva già fatto il nonno Abràm-Abraham, in uno spostamento notturno di lui con tutta la sua
famiglia (mogli, schiave e figli), a un certo punto rimane solo oltre il torrente Iabbok e un misterioso uomo
si avvicina a lui: i due lottano corpo a corpo tutta la notte e alla fine Giacobbe ha la meglio, nel senso che
può pretendere dall’uomo la benedizione pena il non mollarlo. Perché Giacobbe chiede a questo assalitore
la benedizione? Cosa ha percepito? Il suo fiuto, il suo senso interno gli rivela che quell’uomo spuntato dal
nulla che lo ha sfiancato e gli ha slogato l’anca, è Dio stesso; proprio come Abramo ha saputo subito con
chiarezza interiore inequivocabile che quei tre giunti presso le sue tende alle querce di Mamre erano Dio
(Gen 18). Alla richiesta di Giacobbe di essere benedetto, l’uomo gli chiede come si chiama e quando
Giacobbe gli risponde che si chiama appunto Giacobbe, a questo punto gli cambia il nome in Israele.
Giacobbe chiede a loro a sua volta il nome all’assalitore e qui appare subito una asimmetria: Giacobbe ha
vinto la lotta eppure l’uomo apparentemente perdente sta al di sopra di Giacobbe perché può permettersi
di non rivelare il nome, anzi di chiedere: Perché mi chiedi il nome? Ed è a questo punto che lo benedisse.
L’uomo non rivela il suo nome, ma risponde alla richiesta del nome con la benedizione richiesta da
Giacobbe, a cui prima ha chiesto il nome e glielo ha cambiato in Israele, dilatando la sua identità personale
verso l’identità di padre di un popolo intero che viene nuovamente benedetto in lui. A questo punto
Giacobbe-Israele, benedetto che pur da subito ha fiutato che quell’uomo era speciale e per questo gli ha
chiesto la benedizione prima di mollarne la presa, esprime la certezza, che per noi ha il valore di una
confessione di fede: Ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva.
Oltre alla grazia per così dire “passiva” – dato che ci stiamo abituando a questo linguaggio della vita mistica,
desiderando farla rientrare nella nostra quotidianità e occuparcene come cosa per noi non solo possibile,
ma direi inevitabile se si vuol vivere una piena vita cristiana – di sentirci benedetti in Giacobbe, possiamo
anche imparare da questo nostro padre la dimensione della lotta con Dio. Forse ci possono essere sere e
notti oscure nella nostra vita, in cui avvertiamo di dover passare il guado di un torrente e iniziare una lotta
con Dio, senza mollarlo fin quando non ci abbia benedetti ancora una volta. Non resistiamo a questa lotta,
facciamola e pretendiamo la benedizione: il Signore desidera questo per noi e con noi. Pretendere la
benedizione e riceverla non è atto egoistico perché non significa chiedere un sigillo che ci risparmi i dolori,
al contrario significa chiedere la grazia di essere strumenti Suoi trasparenti, essere pieni di grazia, pieni di
Spirito Santo per essere davvero specchi del Suo amore nel mondo. “Dammi solo il tuo amore e la tua
grazia e questo mi basta”: è la frase di s. Ignazio di Loyola con cui abbiamo concluso nella preghiera
l’incontro precedente.
22 Per fede, Giuseppe, alla fine della vita, si ricordò dell’esodo dei figli d’Israele e diede
disposizioni circa le proprie ossa.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
Il ciclo di Giuseppe si distende nel libro di Genesi dal cap. 37 al cap. 45.
Egli è nella tradizione cristiana figura del giusto perseguitato e dunque figura di Cristo, tanto che l’episodio
del suo essere venduto dai fratelli invidiosi lo si legge nella liturgia di quaresima dove egli viene
esplicitamente posto come figura di Cristo (Mt 21,33-46).
In lui vediamo la capacità di sfondare gli orizzonti della visibilità per cogliere una realtà ulteriore rivelata a
lui mediante sogni che egli è capace di interpretare con precisione e sarà ciò che lo renderà prospero in
terra d’Egitto, terra d’esilio, ma anche per lui di benedizione.
Vediamo anche in lui la persecuzione del giusto innocente proprio realmente, ma anche simbolicamente,
da parte dei fratelli, che lo perseguitano e vendono per invidia, dopo che anzi Ruben, uno dei fratelli, riesce
a sventare il fratricidio. L’invidia è mostrata quindi sempre come veleno del mondo fin da Adàm e Hawwah,
da Caino e Abele.
Vediamo infine il rovesciamento delle sorti, tema biblico forte e per noi soprattutto presente nel vangelo di
Luca.
Vediamo attuarsi il perdono gratuitamente donato ai fratelli che lo hanno tradito, rinnegato, esposto alla
persecuzione (Gen 42; 45,4-8). E’ stupenda tutta la dinamica del riconoscimento dei fratelli da parte di
Giuseppe, il suo pianto a singhiozzi e grida quando li vede e li riconosce e poi il suo rivelarsi a loro; e poi
quella con cui egli si rivela a loro, rassicurandoli, perché – egli dice – è Dio stesso, non siete stati voi, che mi
ha condotto qui. C’è una indicibile profondità umano divina in questi capitoli, che suggerisco di leggere
personalmente, esponendovi al rischio emozionale di farlo: l’umanità di Giuseppe, pulsante nel suo pianto
che rivela affetti e quindi anche ferite vive; la sua parte divina, capace di perdonare l’imperdonabile: come
si possono perdonare dei fratelli, miei fratelli, che volevano farmi fuori e poi mi hanno venduto,
consentendo che io piccolo e senza difese venissi portato via da una carovana in un terra sconosciuta e che
non si sapesse più nulla di me e che nostro padre, ingannato, piangesse per anni la mia morte? Eppure egli
li perdona! E come li perdona? Leggiamo direttamente il passo:
[1] Allora Giuseppe non potè più contenersi dinanzi ai circostanti e gridò: "Fate uscire
tutti dalla mia presenza!". Così non restò nessuno presso di lui, mentre Giuseppe si
faceva conoscere ai suoi fratelli.
[2] Ma diede in un grido di pianto e tutti gli Egiziani lo sentirono e la cosa fu risaputa
nella casa del faraone.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
[3] Giuseppe disse ai fratelli: "Io sono Giuseppe! Vive ancora mio padre?". Ma i suoi
fratelli non potevano rispondergli, perché atterriti dalla sua presenza.
[4] Allora Giuseppe disse ai fratelli: "Avvicinatevi a me!". Si avvicinarono e disse loro:
"Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che voi avete venduto per l'Egitto.
[5] Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio
mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita.
[6] Perché già da due anni vi è la carestia nel paese e ancora per cinque anni non vi sarà
né aratura né mietitura.
[7] Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e
per salvare in voi la vita di molta gente.
[8] Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per
il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto.
[9] Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: Dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha
stabilito signore di tutto l'Egitto. Vieni quaggiù presso di me e non tardare.
[10] Abiterai nel paese di Gosen e starai vicino a me tu, i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, i
tuoi greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi.
[11] Là io ti darò sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non
cadrai nell'indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
[12] Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è
la mia bocca che vi parla!
[13] Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete visto;
affrettatevi a condurre quaggiù mio padre".
[14] Allora egli si gettò al collo di Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva
stretto al suo collo.
[15] Poi baciò tutti i fratelli e pianse stringendoli a sé. Dopo, i suoi fratelli si misero a
conversare con lui.
Il brano è di notevole intensità, ancor più da gustare se si legge tutta la storia e soprattutto il capitolo 42,
nel quale Giuseppe riconosce i fratelli senza ancora farsi a sua volta riconoscere da loro. E’ notevole per noi
vedere come avviene, nell’interiorità di Giuseppe, il processo del perdono: egli può perdonare i fratelli
perché compie un percorso di riconciliazione con la sua storia. Vedete che Giuseppe dice: non vi rattristate,
perché è Dio che mi ha condotto fin qui e non siete stati voi. Li assolve dalla colpa di averlo scaricato, egli
doveva arrivare fin lì per divenire strumento di salvezza per se stesso e per tutti ed è Dio stesso che ha
messo le cose in modo tale che egli giungesse fin lì. Si badi che lui lì ha conosciuto prosperità e piena
realizzazione della sua vocazione, impiego fruttuoso dei suoi doni interiori, del suo essere profondo. Quindi
non è stato un sacrificio in pura perdita, ma lui per primo ha conosciuto realizzazione di sé, anche se nella
prima fase ha vissuto nell’oscurità più totale.
E’ quando noi riconosciamo che tutto il nostro percorso, anche nei passaggi più oscuri e dolorosi, era in
realtà guidato dal Signore che voleva condurci fino a un certo punto, in una certa situazione esteriore e
soprattutto interiore per consentirci di dare più frutto e quindi di essere più gioiosi e pieni realizzando noi
stessi e poi divenire strumenti di salvezza anche per i nostri fratelli … è allora che noi possiamo perdonare
chi ci ha fatto del male, perché scorgiamo che in quel farci male il Signore agiva comunque, per via indiretta
(perché non è mai Lui a fare il male), ma non per questo meno piena e luminosa. Per te le tenebre sono
come luce e la notte è chiara come il giorno (Sal 139,12).
Sono tutti aspetti della storia di Giuseppe su cui fruttuosamente e con grande libertà ci possiamo fermare.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
Penso che possiamo fermarci per questa sera: mi pare che la Parola ci abbia già regalato abbondante
nutrimento e il Signore ci si è rivelato nel Suo volto amabilissimo come Dio di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe. Proprio per questo, come Dio di ciascuno di noi.
La prossima volta ci incontreremo finalmente con l’atteso Mosè. Propongo di concludere l’incontro
pregando proprio l’intero salmo 139, bellissima confessione di fede, alla quale ho fatto riferimento qui al
termine della storia di Giuseppe.
Salmo 139
1
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3
4
5
Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, gia la conosci tutta.
Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.
7
Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
8
Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
9
Se prendo le ali dell’aurora
per abitare all’estremità del mare,
10
anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
11
Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte»;
12
nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
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“Per FEDE anche noi corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su GESU’ (Eb 12,1-2)
Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15
Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17
Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18
se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.
13
Se Dio sopprimesse i peccatori!
Allontanatevi da me, uomini sanguinari.
20
Essi parlano contro di te con inganno:
contro di te insorgono con frode.
21
Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano
e non detesto i tuoi nemici?
22
Li detesto con odio implacabile
come se fossero miei nemici.
23
Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
24
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.
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