VII Con Hegel si chiude la modernità filosofica. Il sapere si dà nel

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VII
LA REAZIONE ESISTENZIALISTA AL “SISTEMA” HEGELIANO
ARTHUR SCHOPENHAUER; SØREN KIERKEGAARD
Con Hegel si chiude la modernità filosofica. Il sapere si dà nel divenire e produce come risultato
l’essere che si completa nello sviluppo storico: tutto è portato alla coerenza dal divenire, che porta
in piena coincidenza pensiero ed essere. Hegel è il più ateo dei filosofi perché immanentizza il
divino nella soggettività trascendentale. Tutto si gioca secondo necessità in un divenire
ontologicamente forte in quanto determinato dalla necessità. Lo spirito giunge all’assoluto secondo
necessità, nel movimento triadico dialettico. La libertà ne risulta pietrificata.
Da Hegel discende un ventaglio di posizioni filosofiche (destra, sinistra, centro). Il contraccolpo
polemico è una reazione esistenzialista, che esprime, ai massimi livelli, due autori di segno opposto.
Arthur Schopenhauer (1788-1860)
- Die Welt als Wille und Vorstellung (1818-1819; 1844)
- Über den Willen in der Natur (1836)
- Über die Freiheit des menschlichen Willens (1839)
- Über die Grundlage der Moral (1840)
In una posizione di romanticismo antidealistico, Schopenhauer riprende la distinzione kantiana tra fenomeno e
noumeno, tra coscienza ed estraneità dell’oggetto pensato, e chiama il fenomeno rappresentazione e il noumeno
volontà. Attesta il non senso dell’esistenza, una tragicità cosmica, per cui tutto è irrazionale, in contrapposizione al
razionalismo assoluto di Hegel.
• La rappresentazione. Il fenomeno originario (rappresentazione) esiste solo per il soggetto. La causalità si
manifesta in 4 radici della rappresentazione: il divenire, il conoscere, l’essere e l’agire, mezzi della rappresentazione,
nodi del principio della ragion sufficiente.
• La volontà. Si annuncia nel corpo, che è conoscenza a priori. La realtà noumenica è espressa dalla volontà come
cieca pulsione irrazionale, cosmica, che alimenta ogni forma di vita e anche il conflitto, frutto della lotta tra le
soggettività individuali. L’individuo soccombe e l’uomo comprende l’assurda tragicità dell’esistenza e vive in perenne
oscillazione tra il dolore e la noia. La concezione della realtà e dell’esistenza è nettamente pessimistica.
Per liberarsi dalla volontà di vita, per sottrarsi all’illusione del principio di individuazione l’uomo può percorrere
alcune vie.
- L’Arte, in cui la coscienza si fa assoluta nel suo atto contemplativo;
- La Simpatia, o compassione universale, che annulla gli interessi particolari nel comune patire;
- L’Ascesi (non in senso cristiano), consistente nel sottrarsi alla catena perversa di bisogni-soddisfazioni (volontà) e
che approda alla nolontà, contro la volontà: è la rinuncia alla propria individualità, assenza di volontà e individualità e
abbandono dell’attaccamento alla terra.
Estetica ed etica concorrono nel liberare l’uomo, concepito come forma del divenire.
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Søren Aabye Kierkegaard (1806-1873)
- Enten-Eller [Aut-aut] (1843)
- Frygt og Baeven [Timore e Tremore] (1843)
- Philosophiske Smuler eller En Smule Philosophie [Briciole di filosofia] (1844)
- Om Begrebet Angest [Concetto dell’angoscia] (1844)
- Kjerlighedens Gjerninger [Atti dell’Amore] (1847)
- Sygdommen til döden [La malattia mortale (1849)
L’esistenza umana è ricondotta alla categoria di possibilità, sia nella positività che nella negatività (possibilità del
non), sotto la minaccia del nulla.
L’esistenza umana è sospesa al punto “zero” tra il qualcosa e il nulla e condanna l’uomo all’equilibrio instabile
permanente: è una tensione paralizzante nell’indecisione permanente tra possibilità contrapposte.
All’unità dialettica dello sviluppo della ragione che anima la storia (Hegel), Kierkegaard oppone il Singolo,
l’esistente come tale. La stessa verità è una verità-per-me (nel senso non relativista, ma della verità che mi investe,
nella sua oggettività), è autenticità esistenziale per la vita, è un fatto relazionale.
Una realtà è tale solo se feconda la mia esistenza, se la rende autentica (e Kierkegaard non va considerato
antimetafisico, ma più propriamente extrametafisico).
Il singolo accosta la verità come processo di appropriazione, riflessione soggettiva contro quella oggettiva di Hegel.
Nel genere umano il Singolo è superiore al genere. Il Cristianesimo ha mostrato questa grandezza della singolarità
della persona [interessante il possibile accostamento a Rosmini, che spinge il valore della Singolarità personale fino ad
affermare – contro ogni “socialismo” positivista – lo Stato a servizio del singolo, non mai viceversa].
In Aut Aut la vita è una scelta tra possibili forme di esistenza, in tre stadi (il cui senso è tutt’altra cosa che in Comte):
1) Stadio estetico
Forma di vita che esiste nell’attimo, poeticamente, appagandosi delle esperienze estetiche (il seduttore), dove
l’ebbrezza – intellettuale, emotiva – è il punto 0.
L’esteta, il seduttore, si tiene nello stato di pura possibilità (angoscia del nulla, possibilità anche del non). Tale
stadio manifesta insieme anche la sua superabilità, perché presto si tramuta in noia, segno dell’insufficienza estetica.
L’esteta si pasce del gusto estetico del bello e del buono, ma in questo vive sempre l’attimo, per cui, passando di attimo
in attimo non riesce a uscire dalla contingenza della sua esistenza. È, quindi, la sua, un’esistenza disperata, nell’ansia di
una vita diversa, che sorge quando si esce dal vivere puntiforme [altro possibile interessante accostamento col
divertissment, la dissipazione-dispersione denunciata da Pascal].
Sorge dunque l’esigenza di uno scarto qualitativo che porta allo stadio etico.
2) Stadio etico
La tragicità dello stadio estetico preme per il passaggio, per il salto alla stabilità e continuità. È lo stadio del
continuum, della stabilità e fedeltà a se stesso. È pure il dominio della libertà: l’uomo è fedele a se stesso se diviene ciò
che diviene. Il divenire non puntiforme è il positivo e il qualificante. Ma è un divenire. La vita estetica è superata in
quanto il seduttore è superato dal marito. Il matrimonio è l’espressione dell’eticità.
La persona etica vive del lavoro. Caratteristica della vita etica è la scelta, determinazione della libertà che fa scoprire
la ricchezza dell’esistenza come storia (> divenire) dove si sviluppa la sua identità.
Non è più sospensione, ma è frutto della decisione e conferimento di progettualità all’esistenza, dove il Singolo
riconosce come propri anche gli aspetti negativi e dolorosi della propria esistenza e si pente. Ma nel pentimento si sente
ancora in uno stato insufficiente.
Kierkegaard stesso vive in prima persona questa situazione: la storia sentimentale con Regina Olsen si interrompe
prima di approdare al matrimonio.
3) Stadio religioso
Quando coglie la negatività l’uomo si pente, prova dolore, dolore per il peccato. Nel pentimento la vita etica è
insufficiente e trapassa nel religioso. E’ uno stadio meta-razionale, che cade, cioè, totalmente fuori dal razionale. È un
balzo in avanti radicale. Ritrovarsi con Dio significa, in fondo, scegliere autenticamente se stesso.
Questa sospensione di campo è paragonabile alla situazione di Abramo: nell’atto di fede cieco e assoluto si annulla
lo stato etico. Abramo è così un simbolo, contro la famiglia stessa, di un superamento con il campo di senso dato dalle
relazioni affettive e dagli impegni che ne derivano.
Kierkegaard critica sarcasticamente i predicatori protestanti che banalizzano il dramma di Abramo con risposte
facili: Abramo già sapeva come sarebbero andate le cose, ecc. Abramo ci mette, invece, di fronte allo scandalo della
fede, che impone una scelta radicale.
La fede è un rapporto privato con Dio, dominio della solitudine. La fede è paradosso e scandalo e Cristo è segno
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concreto di ciò. La fede si sceglie, ma l’iniziativa è preclusa, e questa contraddizione rivela come il Cristianesimo sia
manifestazione della condizione dell’esistenza umana.
Quello di Kierkegaard è un grande impianto apologetico, da cui si coglie il Cristianesimo come modello più
adeguato in risposta vera (Realtà) ed efficace (Salvezza) alla condizione antropologica, come già, similmente per molti
aspetti, in Pascal.
La libertà, se mantenuta ai due primi stadi, genera angoscia. L’angoscia è una condizione di coscienza generata
nell’uomo dalla possibilità di essere e non essere.
Nell’avvenire, il poter essere e il poter non essere lo espone al potere corrosivo del nulla. Nell’angoscia si manifesta
però l’umanità di Gesù. L’apparente “onnipotenza” delle possibilità (tutto può accader(mi)) educa l’uomo a riposare
nella Provvidenza come ciò che impedisce il potere corrosivo del nulla.
Il passaggio dei tre stadi non accade di necessità: esso può darsi e non darsi, anche se è naturale che si dia.
Il possibile come relazione al mondo (voler o non voler essere se stesso) genera angoscia e se lo pongo in relazione
a me stesso addirittura disperazione. Nella certezza che tutto è possibile, Dio troverà sempre una possibilità per me e
quindi avrò speranza. Così posso pregare.
La disperazione è l’opposto della fede, che elimina la disperazione e il peccato.
La storia è il dominio del possibile e il divenire include la possibilità di avere la possibilità di divenire. Non
devo pensarla con la categoria della necessità, ma della possibilità del divenire (contro Hegel). Così neppure il passato è
sotto il dominio della necessità.
Il rapporto tra l’uomo e Dio non si verifica nella storia come manifestazione di Dio. Dio non è storia (Hegel), ma è
l’istante che irrompe nella vita (l’incontro con Cristo).
L’uomo vive nell’oscurità del peccato. Si tratta allora di farlo rinascere da zero con i Sacramenti.
I vari stadi sono in rottura tra di loro. L’istante è l’inserzione dell’eterno nel tempo, l’Incarnazione di Cristo. La vera
consolazione allora è l’essere conficcati nella croce, con i dolori, le disgrazie e le sventure. Il paradosso del
Cristianesimo è la venuta di Dio nel mondo, che entra in esso, vi irrompe.
Con la consegna a Cristo, nella fede, consegna interamente esistenziale, l’uomo riconosce la sua profonda
dipendenza da Dio. L’esistenza è consegna, ammissione di dipendenza radicale da Dio.
Abbiamo così quel dato che insiste su una componente importante del pensiero cristiano. Ricordiamo che in esso si esprimono sempre
due tendenze, che non vanno mai dimenticate: il Cristianesimo si regge, in forma anche paradossale, tra questi due poli antitetici ma
complementari, quello della continuità e quello della rottura.
In ragione della continuità noi sosteniamo che il Cristianesimo è il vero destino dell’uomo, la sua vera realizzazione, per cui ciò che è
cristiano è anche autenticamente umano, nella misura appunto in cui è cristiano. Il Cristianesimo non è stravolgimento, rottura, distruzione
della natura dell’uomo: è la sua pienezza. Pienamente umano, perciò cristiano; pienamente cristiano, perciò umano. Questo giustifica
l’affermazione di Gesù che garantisce la salvezza anche a coloro che senza rendersene conto hanno operato il bene - “Quando mai abbiamo
fatto ciò?...”.
Assolutizzare questo principio finirebbe però col vanificare l’economia salvifica della Redenzione di Cristo, giacché tutto si risolverebbe
nella continuità di natura, e nessun novum sarebbe riconoscibile nella Grazia che irrompe nella Storia.
In ragione della rottura si tiene presente che Cristo irrompe come evento e realizza, con la sua Grazia, una condizione radicalmente
nuova. Sorprende, porta ciò che è altro rispetto alla natura, l’inedito, il nuovo, qualcosa che rompe e rovescia gli schemi. Porta la fede fino
alla consumazione estrema del sacrificio, rendendola scarto totale e incommensurabile rispetto a quanto presenta e offre il piano di natura.
Ma, ancora, totalizzare questo principio significherebbe ridurre la fede all’assurdità, all’irrazionalità: nello scarto di incommensurabilità
non si salverebbe nulla di ciò che l’uomo dispone nell’immanenza, nell’esperienza di quanto vive. Si finirebbe così, per il motivo opposto,
col vanificare ancora l’Incarnazione di Cristo, perché nell’assolutizzazione del novum il Figlio non avrebbe dovuto accogliere nulla
dell’esistente, e perciò neppure essere “apparso in forma umana” (Fil 2).
Il cristianesimo si tiene in equilibrio tra queste due polarità antinomiche di continuità e rottura, come tra le due linee della comprensione
antropologica, risalenti alle due alternative prospettive orfico-pitagorico-platonica (dualista e pessimistica quanto all’immanenza - il corpo
come prigione (onticamente negativa) dell’anima (positiva)) e olimpico-aristotelica (naturalistica e ottimistica quanto all’immanenza, dove la
corporeità è riconosciuta nella sua positività ontica).
Il Cristianesimo non può assumere absolute nessuna di queste due posizioni, ma è il contemperamento di entrambe, così come è
sacerdozio (continuità, memoria e conservazione) e profezia (rottura, novità e proiezione escatologica) che si completano e integrano a
vicenda, luogo della storia.
Ora, la tradizione protestante, insistendo sull’assolutezza della Grazia (sola gratia) e della Fede come salto, paradossale e
incommensurabile rispetto a qualsiasi forma di esperienza (sola fides) e dell’immediatezza del proprio rapporto con Dio, rescisse tutte le
comunicazioni anche nell’orizzonte dell’empirico e tutte le forme di mediazione per consegnare il rapporto alla sola personale relazione alle
Fonti della Rivelazione (sola Scriptura), ha esaltato l’aspetto di discontinuità e rottura, col che è affermata la non razionalità della scelta di
fede, e una sorta di eroica e incomunicabile assunzione libera di una scelta di non continuità rispetto alla vita.
Kierkegaard, che esalta la natura di paradosso della fede, vi riconosce il puro esistenziale, ciò che rompe tutti gli
schemi e cade fuori ogni pensabilità razionale (e qui, obiettivamente, non lo possiamo più seguire).
Considerato, però, nel suo contesto, Kierkegaard è un sano e utile antidoto all’imborghesimento della fede, perché
l’esasperazione della tendenza ottimistica e naturalistica porta al compromesso col mondo fino all’indiscernibilità del
profilo di vita cristiano dal pagano, tanto quanto la tendenza spiritualista tende all’irresponsabilità esistenziale, cioè, alla
lunga, alla rimozione dal campo di interesse delle cose di ordine pratico e materiale.
La fede come atto sarebbe, così, oltre la ragione ed oltre ogni possibilità di comprensione, quindi sarebbe assurdità,
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paradosso, scandalo, per cui si entra in una zona minata in cui non è più possibile accostare Kierkegaard a Pascal,
perché per Pascal la fede è sopra la ragione, non contro, mentre in Kierkegaard sembra che i termini del rapporto siano
in antitesi, anche se questi non arriva mai a porre la fede propriamente contro la ragione, ma fuori, in zona franca,
sottratta ad ogni interazione costruttiva, il che ci par già troppo.
La storia è il dominio delle possibilità e il divenire include una possibilità di divenire all’interno del proprio
divenire. Quindi è il divenire esposto all’ennesima potenza, come luogo della storia (la possibilità) che si effettua in
virtù di una libertà di azione relativa, una libertà che è un divenire all’interno di questo divenire come possibilità, un
vortice all’interno di uno stato in divenire.
Il passato, per essersi realizzato, non è divenuto per questo necessario: il fatto che il passato si sia realizzato ha
semplicemente cristallizzato il contingente che come tale si è determinato, per cui il fatto che si sia determinato non
permette di predicarne la necessità. Quindi ogni atto posto liberamente non è necessario neppure una volta che si sia
determinato, giacché è accaduto non per necessità. Così, tutto il passato, per essersi realizzato non è perciò divenuto
necessario. La possibilità quindi resta anche accanto al passato, come condizione dalla quale è risultato il possibile che
è divenuto reale: c’è un possibile che si è concretizzato. La vera realtà del passato, quindi, è la sua possibilità e l’organo
per la conoscenza della storia è la fede, perché implica l’abolizione dell’incertezza che lancia il divenire nella sua
dimensione pura.
La fede è quindi decisione (de-caedo), ed esclude radicalmente il dubbio. E il rapporto tra l’uomo e Dio non si
verifica nella storia come continuità del divenire umano, ma nell’istante, come subitanea inserzione della verità divina
nell’uomo. Ecco che di qui deriva tutta la carica dell’evento Cristo come rottura.
Vi sono pagine splendide del Diario in cui Kierkegaard rileva come con Cristo sia intervenuta una rotazione di
prospettiva sugli stessi valori dell’umano. Se nell’Antico Testamento la prosperità è condizione di Grazia di Dio, con
Cristo e dopo Cristo il segno di elezione è, all’opposto, la difficoltà e l’avversione che pone il fedele nella sequela
Christi a sua volta come segno di contraddizione. Così, ciò che era positivo si rovescia in negativo. Ecco l’esaltazione
della fede e del suo depositum come piano di discontinuità rispetto a quello che un semplice umanesimo sarebbe in
grado di esprimere, e questo ha la sua parte – e importante e irrinunciabile – di verità, perché la Grazia in qualche modo
irrompe e trasforma.
L’idea che dobbiamo avere, però, è quella di una trasformazione dell’esistente, non di una cancellazione e sostituzione dell’esistente.
Una vera e propria rigenerazione, una trasformazione paragonabile anche ad una conversione morale, dove la percezione di essere
veramente un uomo nuovo non dimentica, umanamente parlando, di essere pur sempre se stesso (è l’esperienza delle grandi conversioni, cfr.
Agostino).
Il rapporto tra l’uomo e Dio non si verifica nella storia come continuità. L’uomo per suo conto vive nella non verità e nel peccato, per cui
va fatto rinascere. Da solo gli è impossibile elevarsi alla conoscenza di Dio, e qui vi è l’esaltazione della Grazia, con un anti-pelagianesimo
che è netto e innegabile.
A fasi alterne la storia della civiltà occidentale è stata proprio questa oscillazione tra la tentazione di un pelagianesimo che ha rotto i
limiti fino a tradursi in deismo e, ancora oltre, in ateismo materialista, e la tentazione di un’esaltazione della Grazia a detrimento della libertà
spintasi fino alle posizioni del luteranesimo e, ancora oltre, alle forme, vecchie e nuove, di gnosi dualista.
La storia della teologia è la storia della mediazione, a tratti oscillante, tra queste tendenze di segno opposto, ad un’ottimizzazione
naturalistica dell’esistenziale concreto ed empirico o, al contrario, ad una sua negativizzazione antinaturalistica.
L’istante è l’inserzione paradossale e incomprensibile nell’eternità del tempo e realizza il paradosso del
Cristianesimo: la venuta di Dio nel mondo si compie nell’istante, istante che mi trascina e mi salva.
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