GIORGIO ISRAEL Occhio alla metafisica travestita da scienza È perfettamente comprensibile che i passati tumultuosi rapporti tra scienza e fede – in buona sostanza il “caso Galileo” – inducano alla prudenza e al desiderio di non aprire nuovi conflitti e anzi di stabilire un terreno di concordia. Ma spesso si dimentica che quei conflitti furono tali soprattutto per motivi d’intolleranza nei confronti del libero pensiero, mentre, nella sostanza, le posizioni di fondo che si confrontavano erano perfettamente legittime. Il timore che nascano nuove accuse d’intolleranza – nel contesto dell’ostilità diffusa in occidente nei confronti del “proprio” pensiero religioso – non può però indurre ad accettare come “verità scientifiche” indiscutibili, da prendere per buone come tali e da “conciliare” con la fede, quelle che sono soltanto credenze metafisiche contrabbandate come fatti oggettivi sperimentalmente accertati. Le neuroscienze contemporanee hanno aperto terreni nuovi di ricerca e permettono di approfondire tanti aspetti del funzionamento del cervello prima inaccessibili e di descrivere, in prima approssimazione, ciò che accade nel cervello quando si pensa. Ma è assolutamente arbitrario sostenere che le neuroscienze stiano chiarendo (o addirittura abbiano chiarito) la formazione del pensiero e abbiano dissolto il concetto “metafisico-teologico” di anima in quello oggettivo-naturalistico di mente-cervello. Al contrario, la transizione senza soluzione di continuità dalle neuroscienze alle neurofilosofie, facendo credere che le seconde siano la logica conseguenza delle prime, è indebita e rappresenta un modo inelegante di far passare per verità oggettive basate sul metodo sperimentale una vecchia metafisica materialistica che ha le sue origini nella rilettura unilaterale del cartesianesimo da parte di Lamettrie, d’Holbach, Cabanis, Hélvetius e altri. Non a caso, anche i riduzionisti più radicali ma attenti a un approccio serio, come JeanPierre Changeux, si guardano dal ricorrere a terminologie del tipo «il cervello pensa», ammettendo con Paul Ricoeur trattarsi di un vero e proprio ossimoro. Sono ancor oggi perfettamente appropriate le parole scritte quasi un secolo fa da Henri Bergson: «È comprensibile che degli scienziati che filosofeggiano oggi sulla relazione tra fisico e psichico si schierino con l’ipotesi parallelista: i metafisici non hanno fornito loro nient’altro. Ammetto pure che preferiscano la dottrina parallelista a tutte quelle che si potrebbero ottenere con lo stesso metodo di costruzione a priori: trovano in questa filosofia un incoraggiamento ad andare avanti. Ma se qualcuno di loro ci verrà a dire che questa è scienza, che è l’esperienza che ci rivela un parallelismo rigoroso e completo tra vita cerebrale e mentale, ah no!, lo fermeremo e gli risponderemo: potete senz’altro, voi scienziato, sostenere questa tesi, come la sostiene il metafisico, ma non è più lo scienziato che parla in voi, è il metafisico. Ci restituite semplicemente quel che vi abbiamo prestato. La dottrina che ci offrite la conosciamo: esce dalle nostre botteghe, siamo noi filosofi ad averla fabbricata; ed è merce vecchia, molto vecchia. Non per questo vale di meno, ma neppure per questo è migliore. Datela per quel che è, e non fatela passare per un risultato della scienza, per una teoria modellata sui fatti e capace di rimodellarsi su di essi: una dottrina che ha potuto assumere, prima che si sviluppasse la nostra fisiologia e la nostra psicologia, la forma perfetta e definitiva in cui si riconosce una costruzione metafisica». Una lettura intellettualmente libera delle ricerche e dei risultati delle neuroscienze contemporanee deve saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche. Tanto per fare un solo esempio, la dimostrazione di Changeux che, mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti mediante una rotazione, lo stesso fenomeno geometrico accade in ambito neuronale, è di grande interesse ma non costituisce (come si pretende) una dimostrazione dell’ipotesi parallelista mediante la descrizione di come si producano nel cervello le rappresentazioni. Difatti, la rappresentazione scelta è del tutto particolare e la “dimostrazione” non contraddice, anzi è coerente con l’idea bergsoniana che gli stati cerebrali descrivano soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale. Si conferma la difficoltà di descrivere la formazione di pensieri non riconducibili a fenomeni spazio-temporali rappresentabili nei termini della spazio-temporalità matematica. Né alcuno sa indicare come superarla se non attraverso la semplice affermazione apodittica della riducibilità di ogni aspetto della realtà a relazioni quantitative. Ma questa è una mera ipotesi metafisica. Il punto è che non appena si accetta l’ideologia naturalistica, non vi è più “dialogo”: la conciliazione tra scienza e fede avviene per sparizione del secondo “dialogante”. Nessun pensiero religioso vivo può convivere con il naturalismo, che ne costituisce la negazione radicale. Il naturalismo ha come progetto la riduzione del pensiero e dell’anima a mere manifestazioni di processi fisico-chimici. Entro questa riduzione i temi della libertà, della finalità, della morale si dissolvono. Ma – ripeto – opporsi risolutamente al naturalismo non significa opporsi alla scienza. Al contrario. Significa opporsi a qualcos’altro: alla pretesa ontologica, ovvero di costruire una scienza oggettiva dell’essere. Questa filosofia si è impantanata nella diatriba tra dualismo e monismo che non poteva non condurre al prevalere di quest’ultimo in versione materialistica: ne fa testo la facilità con cui il cartesianesimo è stato riletto in chiave materialistica e, come tale, è stato sussunto a filosofia fondativa della scienza. Chi ha cuore i temi che sono al centro dell’esperienza e del pensiero religiosi non dovrebbe dialogare con le neurofilosofie, bensì, da un lato guardare alla scienza (alla neuroscienza) nei precisi confini in cui essa ha un valore indiscutibile e, dall’altro, dialogare (e far dialogare la teologia) con le filosofie che hanno tentato nel corso del Novecento di superare le aporie dei grandi sistemi ontologici. Penso in particolare a filosofi come Bergson e Husserl che hanno affrontato questo obbiettivo, in modi assai diversi ma con una preoccupazione comune, come ha ben messo in luce Emmanuel Lévinas.