Baudelaire è libero di essere se stesso? Intorno a un saggio di

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Baudelaire è libero di essere se stesso? Intorno a un saggio di
Georges Blin
> di Gianluca Valle*
L’essenziale è invisibile agli occhi
A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe
Dopo qualche mese dalla pubblicazione di Un certo consenso al
dolore, è ora disponibile per il lettore italiano, sempre grazie all’editore
Solfanelli e all’attenta cura di Giuseppe Grasso, un secondo saggio di
Georges Blin. Si tratta del testo pubblicato nel 1948 con cui il critico
letterario francese – ben prima di diventare accademico al Collège de France
– intervenne in difesa di Baudelaire, prendendo posizione contro quanto
Sartre scrisse nel nella sua lunga introduzione agli Écrits intimes del poeta.
Il lavoro di Sartre, pubblicato per la prima volta nel 1946, e poi come
volume a sé nel 1947, costituisce un classico della storiografia letteraria su
Baudelaire che ha fatto epoca. La replica di Blin ha il merito di ridefinire la
“situazione di Baudelaire” restituendole la verità che il filosofo aveva
indebitamente piegato ai propri scopi.
Nella prima parte del suo saggio, Blin ricostruisce i passaggi più
significativi della “psicoanalisi esistenziale” attuata da Sartre su Baudelaire,
basandosi esclusivamente sui suoi testi autobiografici, senza tenere
minimamente in conto la sua produzione poetica o i saggi di critica d’arte. Il
filosofo de L’Essere e il nulla si proponeva lo scopo di individuare il
«progetto fondamentale» (Blin 2016, p. 24) che informa tutte le scelte e i
comportamenti empirici dell’uomo Baudelaire. Com’è noto, per Sartre,
esistere equivale a scegliersi: siamo “condannati ad essere liberi”, e cioè a
prendere sempre posizione, persino rispetto a ciò che non abbiamo voluto.
Sartre accusa Baudelaire di avere paura della libertà e di avere condotto
un’esistenza inautentica: ha esaltato la potenza creativa del Male, ma ha
aderito alla morale borghese e al cattolicesimo; è stato narcisisticamente
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chino su se stesso, ha rifiutato il mondo e gli altri, esaltando la solitudine
dell’artista ma era solito sfoggiare comportamenti civettuoli e dandy, che
esigono l’attenzione degli altri; ha cercato se stesso, ma in fondo al suo
essere ha trovato solo “un umore insipido e cristallino, privo di consistenza
che non può né osservare né giudicare”; si è inflitto castighi, autopunizioni,
ma non ha mai sofferto veramente; si è attribuito vizi e falsità ridicole solo
per accrescere la sua tensione morale e spirituale. Secondo Sartre, in
definitiva, Baudelaire avrebbe cercato di affermare se stesso, negandosi;
avrebbe giocato con il male non perché lo volesse intimamente, ma perché
aveva scelto “di non scegliere il proprio Bene”. In questo quadro, il suo
passatismo (l’esaltazione del passato per sfuggire alla responsabilità del
futuro), il suo antinaturalismo, il suo spiritualismo, il suo estetismo sono per
Sartre solo di facciata e servono ad alleggerire l’insostenibile pesantezza
dell’essere. Nella sua lettura, Baudelaire è l’emblema dell’uomo in malafede
perché vive in fuga da se stesso, incapace di darsi una forma, una
personalità definita, un engagement nel mondo: «la malafede esige che io
non sia ciò che sono [...] ma essa non si limita a rifiutare le qualità che
possiedo, a non vedere l’essere che sono. Tenta anche di attribuirmi un
essere che non sono» (Sartre 2002, p. 103).
Dopo avere riassunto la posizione di Sartre, nella terza parte del
saggio Blin si domanda se «il metodo messo qui in opera tenda solo a
individuare la scelta originaria di un individuo o se debba portare a
condannare tutte le scelte non in sintonia con quelle dello psicoanalista. Si
tratta di un mezzo di investigazione scientifica o dell’inchiesta di un
procuratore?» (Blin 2016, p. 46). Le argomentazioni con cui Blin smonta
punto per punto – testi alla mano – l’impietosa requisitoria di Sartre contro
Baudelaire sono così incisive da mettere in luce i limiti della sua stessa
concezione della libertà. Gli interventi di studiosi (quali Bataille, Blanchot,
Orlando, Sabot, Kushner, Peronaci) raccolti da Giuseppe Grasso
nell’antologia critica posta alla fine del volume non solo mettono in
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evidenza i limiti della lettura che Sartre fa di Baudelaire, ma si soffermano
su alcuni aspetti della poetica baudelairiana che Sartre avrebbe
appositamente omesso pur di sostenere la sua tesi, comportandosi da uomo
in malafede, e cioè macchiandosi della stessa colpa che attribuisce a
Baudelaire. A nostro parere, Sartre ha compiuto nei confronti di Baudelaire
lo stesso errore del prefetto della Lettera rubata, il racconto poliziesco di
Edgar Allan Poe, autore tanto amato e tradotto dal poeta francese. Com’è
noto, il prefetto fallisce quando fa cercare la lettera rubata nell’appartamento
del ministro per restituirla al legittimo destinatario. Ciò è dovuto al fatto che
egli la fa cercare dove chiunque avrebbe potuto nasconderla (cassetti,
armadi, sotto al letto, ecc.). Il signor Dupin, invece, attraverso «un processo
di identificazione del suo intelletto con quello del suo avversario» (Poe
2003, p. 103) riesce a scovarla. L’espediente usato dal Ministro era il più
ingegnoso che si potesse concepire: quello di «non tentare affatto di
nasconderla» (Ivi, p. 110), ben sapendo come avrebbe potuto agire il
prefetto, uomo assai rigido e schematico. Potremmo dire che Sartre è il
prefetto e Dupin, invece, è Blin: il primo cerca la lettera rubata (cioè
Baudelaire) dove (lui) non è; il secondo invece vede ciò che ha davanti agli
occhi, cerca la lettera laddove deve essere, il portacarte, cioè il luogo della
scrittura. «L’esperienza di un uomo – dichiara Blin – resta inseparabile dai
termini in cui ne ha dato conto» (Blin 2016, p. 59): non si può fare il critico
senza attenersi alla “lettera” che si ha davanti agli occhi; o come direbbe
Lacan (cfr. J. Lacan 1966, pp. 7-58), senza partire dal significante, dalle
parole che Baudelaire ha usato per definirsi.
A questo punto, Blin elenca alcuni errori interpretativi di Sartre. In
primo luogo, il critico francese contesta che i valori convenzionali e
borghesi scelti da Baudelaire siano posticci o esteriori, asserendo invece che
sono il frutto della sua libertà decisionale. Se Baudelaire avesse continuato a
sposare gli ideali socialisti e rivoluzionari, cui pure per un breve periodo
della sua vita aveva aderito, sarebbe stato in malafede. Del resto, non è
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Sartre stesso a dire che essere in malafede equivale a scegliersi in ciò che
non si è?
Inoltre, Blin si domanda: perché Sartre accusa Baudelaire di avere
paura della libertà? Forse perché aderendo alla morale convenzionale, al
giansenismo e al manicheismo avrebbe abdicato all’esercizio della libertà?
Se l’esercizio della libertà costituisce l’atto fondamentale della coscienza
umana, ciò deve esser vero sempre: dunque, le nostre scelte sono tutte
innocenti e non è possibile condannare qualcuno perché ha optato per dei
valori diversi dai nostri. Saremmo davvero liberi di scegliere, se dovessimo
sempre scegliere la libertà come valore assoluto? Per Blin, Baudelaire ha
affermato la sua libertà proprio negandole qualsiasi valore, ovvero
scegliendo di uniformarsi ai principi dell’ordine costituito e respingendo
l’opzione rivoluzionaria.
Un altro aspetto non adeguatamente colto da Sartre riguarda il valore
che l’arte ricopre nell’esistenza di Baudelaire. Quest’ultimo sarebbe stato in
malafede se si fosse comportato diversamente, assumendo l’impegno
politico come progetto di vita, e quindi rinnegandosi come artista. Sartre
non vede – o non vuole vedere! – che Baudelaire appartiene alla scuola
dell’Art pour l’Art e che ha ereditato da Gautier e da Poe il credo in base al
quale “la poesia è una pura attività di gioco”. L’inutilità della poesia è
deliberatamente ricercata da Baudelaire e non è, come invece sostiene
Sartre, segno della sua incapacità di vivere, né della derelizione di una
coscienza priva di scopo e di giustificazione. Essere dandy per gioco o
credere nella dignità morale della poesia equivale forse ad avere paura della
libertà? L’uomo non è forse libero di scegliere che cosa scegliere? Che cosa
c’è di più libero del gesto poetico? Leggero, giocoso, disinteressato, gratuito
come ogni «“fare” che, mentre fa, inventa il “modo di fare”» (cfr. Luigi
Pareyson 1988, p. 18 ss.).
A detta di Blin, la miopia ermeneutica di Sartre emerge ancora di più
quando non riesce a comprendere altri due fondamentali postulati
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dell’estetica baudelairiana. Innanzitutto, Sartre mette in dubbio la sincerità
con cui Baudelaire aderisce alla dottrina del peccato originale e la collega
alla sua noia esistenziale, al suo rifiuto di essere proiettato nel futuro. In
realtà, Baudelaire contestava l’ottimismo umanistico dei positivisti e il loro
ideale del progresso, respingeva la possibilità per l’uomo di un destino
migliore, provava un autentico senso di colpa che lo incatenava al passato e
alla paura sempre incombente di fallire. Ciò non significa però che la sua
personalità non abbia conosciuto cambiamenti né che non abbia esaltato
“l’eroismo della vita moderna”, e dunque le dimensioni temporali del
presente e del futuro. Come osserva il critico francese, Baudelaire non è
riuscito a trovare “modo migliore di conoscere l’animo umano se non
sondandone i bassifondi”, ovvero scommettendo sistematicamente contro se
stesso.
Per di più, Sartre ritiene che il platonismo e l’antinaturalismo di
Baudelaire siano una posa o una dottrina poco chiara; così facendo però
fraintende uno degli elementi qualificanti della sua poetica. Le sue poesie
parlano di suoni, profumi, ricordi, sensazioni tattili, ecc. non perché tema la
realtà concreta delle cose o voglia fuggire da essa verso paradisi artificiali,
ma perché per lui l’artista ha il compito di pensare gli oggetti nel momento
stesso in cui li percepiamo, predisponendoci così a cogliere la loro legge
espressiva, le loro qualità interiori: «Ogni idea è di per se stessa dotata di
vita immortale, come una persona. Ogni forma creata, sia pure dall’uomo, è
immortale. Perché la forma è indipendente dalla materia, e non sono le
molecole che costituiscono la forma» (Baudelaire 1998, p. 1445: Il mio
cuore messo a nudo, 79).
E veniamo all’ultimo punto: la questione della libertà. Per Sartre, essa
è la condizione fondamentale della coscienza (il per-sé), la spinta a
trascendersi
continuamente
verso
altro,
alla
ricerca
del
proprio
completamento, senza mai appagarsi nell’in-sé, ossia nelle cose e nella loro
presenza bruta. La libertà genera angoscia di fronte al possibile, che è
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indeterminato. Da qui emerge la tendenza a evadere dalla propria libertà: in
ciò consiste la malafede con cui l’uomo costruisce un’immagine fittizia di
sé e recita una parte. In tal senso, come asserisce Sartre, la malafede
rappresenta la minaccia permanente a cui risulta esposta la coscienza
umana: «la coscienza nasconde nel suo essere un rischio permanente di
malafede. E l’origine del rischio è che la coscienza, nel suo essere e
contemporaneamente, è ciò che non è, e non è ciò che è» (Sartre 2002, p.
107).
Blin muove a Sartre due obiezioni ben fondate, che assumono una
valenza filosofica generale. La prima: se la malafede è la minaccia che
incombe su ogni progetto umano, perché Baudelaire doveva esserne esente?
Ogni uomo, come dice Sartre, è un “Dio mancato” o “una passione inutile”
perché progetta di conciliare in-sé e per-sé, e cioè aspira ad una totalità non
raggiungibile. Ogni uomo afferma la sua libertà cercando di trascendere il
mondo nel quale vive, di non appiattirsi sull’in-sé, di non diventare cosa, ma
al tempo stesso non è mai pienamente per-sé, perché è sempre nulla o
mancanza di qualcosa, coscienza intenzionale e dunque oltre se stesso. Non
si vede perché Baudelaire debba sfuggire a questo destino squisitamente
umano: anche lui cerca di diventare Dio, e cioè di diventare un in-sé per-sé,
senza mai riuscirci. Rimane in bilico tra l’essere e l’esistere, tra lo Spleen e
l’Idéal, tra l’essere una cosa, dotata di una precisa collocazione in un ordine
costituito, e l’elevazione spirituale da tutte le situazioni verso l’Assoluto.
In secondo luogo, «Sartre rimprovera a Baudelaire di aver
disconosciuto che la libertà è limitata da se stessa» (Blin 2016, p. 64). Ma
siamo davvero certi, si chiede Blin, che l’unico limite della libertà sia la
libertà stessa? Ogni uomo è sì libero, ma sempre all’interno di una
situazione data, e cioè a partire da un insieme di alternative possibili e da
quel modo di essere che è il suo. Blin parla di “vocazione”, Freud lo
chiamerebbe “inconscio”, Jaspers ha coniato il concetto di “situazionelimite” (Grenzsituation), in base al quale l’uomo è sempre in situazione, non
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può uscire da una situazione senza entrare in un’altra. Anche Baudelaire,
dunque, ha operato le sue scelte a partire dal contesto e dalle situazionilimite che erano i suoi (quella madre, quel padre, quel tempo storico, quelle
opzioni estetiche, ecc.): per questo motivo, va assolto dall’imputazione di
non voler esercitare la propria libertà. Blin sembra essere in sintonia con la
più concreta analisi della libertà offerta qualche anno più tardi da Maurice
Merleau-Ponty, ex-normalien, amico e poi antagonista di Sartre: « Io
non
posso più fingere di essere un nulla e di scegliermi continuamente a partire
da nulla. Se il nulla appare nel mondo grazie alla soggettività, si può anche
dire che il nulla viene ad essere grazie al mondo. [...] È vero che in ogni
istante io posso interrompere i miei progetti. Ma che cos’è questo potere? È
il potere di cominciare qualcosa d’altro, giacché noi non rimaniamo mai in
sospeso nel nulla. Noi siamo sempre nella pienezza, nell’essere, così come
un volto, anche in riposo, anche morto, è sempre condannato a esprimere
qualcosa (ci sono morti stupefatti, sereni, discreti) e come il silenzio è
ancora una modalità del mondo sonoro» (Merleau-Ponty 2003, pp. 576577).
Blin concorda con Merleau-Ponty nel mettere in discussione
l’assoluta libertà del per-sé e contesta a Sartre il fatto di reputare l’uomo in
generale, e dunque anche Baudelaire, più volontario e più consapevole di
quanto non sia, non riconoscendo l’importanza che spetta al caso e
all’inerzia delle situazioni. Per non ridurre la coscienza a cosa fra le cose,
Sartre la caratterizza come un nulla assoluto, ma quando nella nostra
esistenza dobbiamo compiere concretamente delle scelte non disponiamo
mai di questo potere di nullificazione davanti alle cose: «La nostra libertà –
dichiara Merleau-Ponty – non distrugge la nostra situazione, ma si innesta
su di essa: in quanto noi viviamo, la nostra situazione è aperta; ciò implica
che essa sollecita modi di soluzione privilegiati e in pari tempo che, di per
se stessa, non può procurarne nessuno» (Ivi, p. 565).
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Parlare di un poeta è una sfida impossibile. Il poeta è il maestro della
parola; la cosa più giusta sarebbe lasciarlo parlare. Se, come asserisce
Heidegger, citando una poesia di Hölderlin, «noi uomini siamo un
colloquio» (Heidegger 1988, p. 47), allora prima di parlare di qualcosa con
qualcuno bisognerebbe saperlo ascoltare. In questo splendido saggio, Blin ci
mostra come Sartre non abbia voluto – o non abbia saputo! – mettersi
davvero in ascolto di Baudelaire. Basti pensare a Élévation, uno dei più
suggestivi sonetti contenuti nelle Fleurs du Mal (cfr. Baudelaire 1998, pp.
30-33). Chiediamoci se il senso di libertà espresso in quelle parole non sia la
più evidente attestazione che Baudelaire non la tema affatto né fugga da
essa, ma la metta costantemente in opera nella sua poesia. In fondo, quando
Sartre definisce la libertà come la condizione essenziale della coscienza, che
consiste nel non coincidere con l’essere massiccio e nauseabondo delle cose,
non sta forse parlando della stessa spinta ad elevarsi di Baudelaire?
Bibliografia
Charles Baudelaire, Opere, a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe
Montesano, Mondadori, Milano, 1998.
Georges Blin, Di un certo consenso al dolore, trad. it. a cura di
Giuseppe Grasso, Solfanelli, Chieti, 2015.
Georges Blin, Da Sartre a Baudelaire, trad. it. a cura di Giuseppe
Grasso, Solfanelli, Chieti, 2016.
Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, ed. it. a cura di Leonardo
Amoroso, Adelphi, Milano, 1988.
Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”, in Scritti, trad. it.
di Giacomo Contri, Einaudi, Torino, 1966.
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. di
A. Bonomi, Bompiani, Milano, 2003.
Luigi Pareyson, Estetica, Bompiani, Milano, 1988.
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Edgar Allan Poe, La lettera rubata, trad. it. di Gabriele Baldini, in
Racconti, Garzanti, Milano, 2003, pp. 92-113.
Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Net,
Milano, 2002.
*Gianluca Valle, nato nel 1971, è docente di Filosofia e Scienze Umane presso il
Liceo “G. Caetani” di Roma. Ha conseguito la laurea in Filosofia presso l’Università degli
studi di Pisa e il dottorato di ricerca in Filosofia presso la Scuola Internazionale di Alti
Studi “Scienze della Cultura” del Collegio San Carlo di Modena. È autore di numerosi
saggi di estetica e fenomenologia, del volume La vita individuale. Etica ed estetica in
Georg Simmel (FUP 2008). Di recente ha curato una nuova edizione italiana dell’Elogio
della filosofia di Merleau-Ponty (Solfanelli 2014). Svolge attività di consulenza editoriale
per opere scolastiche di ambito filosofico. È traduttore dal francese di testi saggistici
(filosofia, storia, sociologia, critica letteraria).
Filosofia e nuovi sentieri/ISSN 2282-5711
http://filosofiaenuovisentieri.it/2016/03/06/baudelaire-e-libero-di-essere-se-stesso-intorno-a-un-saggio-digeorges-blin/
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