STUDI E DOCUMENTI CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SULL

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ST U D I E D O C UM ENTI
CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SULL’IMPERIALISMO
Da oltre una ventina di anni le teorie marxiste deU’imperialismo sono
oggetto di critiche radicali da parte di studiosi occidentali, soprattutto
inglesi, i quali estremizzano taluni punti di vista già affermatisi nel periodo
fra le due guerre mondiali e negano validità allo schema che vede nell’imperialismo una interelazione di spinte economiche e di spinte politiche.
Sebbene alla base di questi studi ci sia spesso un movente di carattere
polemico, ciò non toglie valore a molti dei loro risultati. Gli studiosi
marxisti, d’altra parte, hanno dato vari contribuiti al modello economico
dell’imperialismo, soprattutto riferito a quello odierno degli Stati Uniti,
ma, avendo in genere trascurato (almeno quelli occidentali) le concrete
ricerche storiche, tradiscono un certo impaccio di fronte a quelle critiche.
Ne è una conferma l’utile volume di Kemp 1 il quale, con onestà intellet­
tuale, riconosce fondate e plausibili molte di quelle critiche; sicché al
lettore resta l’impressione di una certa sfasatura tra il modello leninista,
di cui viene riaffermata la piena validità sul piano generale, e la ricono­
sciuta mutevolezza delle forme con cui l’imperialismo si presenta in molti
dei suoi singoli casi concreti.
Il
contributo più importante sul piano del metodo dato dagli studiosi
occidentali non marxisti resta forse a tu tt’oggi un vecchio articolo degli
inglesi Robinson e Gallagher ’. Per primi essi hanno fatto largo uso della
distinzione tra impero « formale » e impero « informale », cioè fra le
colonie vere e proprie e quei territori che, politicamente indipendenti, sono
tuttavia sotto l’influenza economica di una delle grandi potenze. Mentre la
conquista da parte dell’Inghilterra (che già possedeva, cosa da non dimen­
ticare, un grande impero territoriale) del suo impero informale nel secolo
antecedente il 1880 avrebbe obbedito a spinte di natura prevalentemente
economica e avrebbe liberato, nello stesso tempo, le energie progressive
delle nazioni con cui entrò in contatto, la vera e propria espansione colo­
niale dei decenni successivi avrebbe obbedito a spinte di natura politica e
strategica, che talora si servirono dell’economia come di uno strumento, e,
da forza dinamica quale sarebbe stato l’imperialismo informale, divenne
forza statica, volta ad appoggiare gli elementi reazionari dei paesi conqui-1
1
T. K e m p . Teorie dell’imperialismo. Da Marx a oggi, Torino, 1969. L’ed. inglese
è del 1967.
s
J. G allagher - R. R obinson, The Imperialism of Tree Trade, in The Economic
History Review, agosto 1953, pp. 1-15.
4
Giampiero Carocci
stati. La conquista dell’impero informale da parte dell’Inghilterra, possiamo
aggiungere, corrispose all’età in cui la borghesia fu una forza progressiva;
così come la conquista delle colonie corrispose all’età del ripiegamento
conservatore della borghesia stessa, all’interno della quale andarono pren­
dendo maggior peso elementi sociali e modi di comportamento precapita­
listici, mentre nell’economia si affermarono le concentrazioni monopoli­
stiche 3.
La distinzione tra impero formale e informale, che Robinson e Galla­
gher hanno, se non introdotto, certo riccamente articolato, è importante;
così come è importante il fatto di aver sottolineato la continuità dell’im­
perialismo inglese tra la sua prima fase « informale » e la seconda fase
« formale », e l’affermazione che l’impero diventa intelligibile solo se con­
siderato lungo tutto l’arco del secolo XIX e non solamente a partire dai
suoi due ultimi decenni *.
*
Cfr. P. Sm it h , Disraelian Conservatism and Social Reform, London-Toronto, 1967,
pp. 319 sgg., il quale conclude che, dopo la riforma elettorale del 1867, i conservatori
ricevettero sempre più l’appoggio della borghesia industriale e commerciale. Anche in
Inghilterra, insomma (come in tutti i paesi sviluppati), andò delineandosi un blocco
conservatore, ben diverso, peraltro, dall’analogo blocco tedesco. Sulle analogie e diver­
sità fra queste alleanze nei singoli paesi, cfr. B. M oore jr ., Le origini sociali della
dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo mo­
derno, Torino, 1969. L’ed. americana è del 1966.
Come è noto, Schumpeter ha creduto di individuare le radici deH’imperialismo
in taluni aspetti arcaici, non capitalistici o precapitalistici, presenti nella vita moderna
ma del tutto alieni dallo spirito borghese. L’affermazione, però, che questi aspetti arcaici
siano alieni dallo spirito borghese presuppone un capitalismo e una borghesia allo
stato puro, che esistono come schema teorico ma non nella realtà. Lo stesso Schumpeter
ha sottolineato la necessità della presenza di elementi non capitalistici (ma non di
quelli generatori dell’imperialismo) nel capitalismo (cfr. Capitalismo socialismo e demo­
crazia, Milano, 1955, pp. 126-131, 146-153).
*
Purtroppo Robinson e Gallagher hanno malamente utilizzato il loro articolo in
un successivo volume il quale, nonostante l’importanza di alcune conclusioni (figlie
dell’articolo del 1953), è deformato dall’assunto fazioso, che gli autori ritengono di
avere dimostrato, che « la cosiddetta età dell’imperialismo » in realtà non sarebbe mai
esistita (R. R obinson - J. G allagher, Africa and the Victorians. The Climax of
Imperialism, New York, 1968, nuova ed. La prima ed. è del 1961). Tanto l’articolo
è ricco di comprensione per l’imperialismo quanto ne è povero il libro. Alla radice
di questa incomprensione sta il fatto che mentre i giudizi dell’articolo si riferiscono
a problemi del lungo periodo (come sono infatti i problemi fondamentali dell’impe­
rialismo), i giudizi del libro si riferiscono a problemi del breve periodo, e gli autori
applicano meccanicamente al libro i giudizi dell’articolo senza tener presenti le neces­
sarie distinzioni. Il libro ha avuto un critico acuto in A. P. Thornton, che lo ha
definito « an advocate’s brief », una storia scritta dal limitato punto di vista dei
politici e dei funzionari della « late-Victorian generation » (A. P. T hornton, For the
File on Empire. Essays and Reviews, London, 1968, pp. 257 e 252). Thornton costi­
tuisce, mi pare, una eccezione nella tendenza oggi prevalente fra gli studiosi anglosassoni
di imperialismo. Benché lontanissimo da ogni ispirazione marxista o forse, anzi, proprio
perchè sensibile al fascino di fattori storici quali « potenza » e « impero » è uno
storico che sa dare tutto il suo peso all’imperialismo, che ne sa vedere l’esistenza
indipendentemente dalla coscienza che i protagonisti potevano o non potevano averne;
cosa rara, quest’ultima, in uno storico di formazione universitaria inglese. Cfr. di lui,
oltre al voi. cit., il più impegnativo The Imperial Idea and its Enemies. A Study in
British Power, New York, 1968, nuova ed. La prima ed. è del 1959.
Contributo alla discussione sull’imperialismo
5
Certo, la conquista del mercato mondiale da parte dell’Inghilterra nel
secolo anteriore al 1880 non fu accompagnata da una ideologia imperia­
lista. Ma ciò non fa che confermare il carattere strutturale e la vitalità del­
l’espansione inglese, la quale non aveva bisogno, per affermarsi vittoriosa,
della sanzione ideologica. Spesso le ideologie imperialiste (come quelle na­
zionaliste) sono espressione non tanto di interessi reali quanto di aspi­
razioni.
Certo, solo nei decenni successivi al 1880 si afferma pienamente lo
sfruttamento imperialistico, il fatto cioè che la potenza dominante rompe
l’equilibrio tradizionale del paese dominato e impedisce il nascere di un
nuovo equilibrio, provoca l’esigenza dello sviluppo e ne blocca ogni pos­
sibilità. Ma sarebbe errato, d’altra parte, sottolineare in misura eccessiva
gli aspetti positivi, liberali dell’espansione commerciale nella prima metà
del secolo XIX. È lecito avanzare l’ipotesi che in vari casi questa non
appare, allo studioso occidentale, con i caratteri oppressivi dell’imperialismo semplicemente perchè i commercianti occidentali non entravano in
rapporto diretto con le popolazioni dei paesi arretrati — oggetto dello
sfruttamento — ma solo con gli intermediari di questi paesi: in Africa,
con le tribù costiere detentrici del monopolio del commercio con l’interno;
nei paesi a un livello meno arretrato, con i compradores. Con questo
naturalmente non si vuole negare che il trauma e lo sfruttamento siano
stati di gran lunga maggiori durante l’età dell’imperialismo formale.
Certo, il rapporto imperialistico è grandemente agevolato quando la
economia della potenza dominante ha raggiunto un carattere monopoli­
stico. Occorre però tener presente che l’imperialismo informale ha un
carattere liberista solo se c’è concorrenza commerciale fra le potenze; ma
che di norma anche l’imperialismo informale ha un carattere monopolistico
perchè la potenza dominante detiene di fatto il monopolio della domanda e
dell’offerta nei confronti del paese arretrato. Nella prima metà del secolo
XIX il monopolio fu assicurato all’Inghilterra dalla sua egemonia mondiale.
Nella seconda metà del secolo fu assicurato dall’esportazione di capitali, che
creava delle aree preferenziali per le merci della potenza imperialista.
L’Inghilterra rimase fedele al liberismo non solo perchè nella sua economia
gli interessi finanziari e commerciali ebbero sempre la prevalenza su quelli
industriali ma probabilmente anche perchè la forte esportazione di capitali
creava alle sue merci delle aree privilegiate più ampie di quanto avrebbe
potuto fare la tariffa doganale.
Per comprendere l’imperialismo è essenziale aver presente che esso
è un fenomeno unitario ma, insieme, articolato e complesso L’imperia-5
5
L’articolo di A. L oria, Les deux notions de l’impérialisme, in Revue économique
internationale, 1907 (III), pp. 459-477, che è una mediocre riflessione sul libro di
Hobson, ha tuttavia il merito di aver avvertito — credo per la prima volta — quanto
meno l’esigenza di considerare l’imperialismo come un fenomeno articolato in due tipi
di manifestazioni: quella principale, rivolta a conquistare nuove colonie, e quella
6
Giampiero Carocci
lismo comprende non solo i decenni successivi al 1880 ma, con caratteri
diversi, anche quelli precedenti; i suoi aspetti « formali » sono diversi da
quelli « informali »; quello dell’Inghilterra è diverso da quello dei secondi
venuti nell’agone mondiale; quelli dei secondi venuti sono diversi fra di
loro; infine talune sue manifestazioni dopo il 1914 e dopo il 1945 hanno
caratteri ancora diversi. Schematizzando ancora più, l’imperialismo si articola
in quattro manifestazioni fondamentali, spesso legate fra loro, come preci­
seremo più avanti, in un rapporto di struttura e sovrastruttura: l’impe­
rialismo informale e quello formale (inteso, quest’ultimo, sia come conqui­
sta di nuovi territori che come maggior sfruttamento dei territori già pos­
seduti), l’industria di guerra e il contrasto politico fra le potenze. Una
osservazione da fare alle teorie marxiste dell’imperialismo è di sottova­
lutarne il carattere articolato0 e di porre un nesso spesso meccanico e
quasi sempre troppo diretto tra le sue manifestazioni economiche e quelle
politiche, ovvero, se si preferisce, di non integrare sempre in misura suffi­
ciente le prime nelle seconde.
Mi sembra opportuno, in primo luogo, rifarsi all’articolo del 1953
di Robinson e Gallagher, riprendere l’osservazione specifica che uno stu­
dioso americano ha mosso a Hobson e Lenin di aver limitato l’imperialismo
al periodo successivo al 1870, sganciandolo dall’età precedente \ e tentare
di applicare il modello marxista a un periodo secolare che va dal 1814 al
1914: un periodo la cui prima metà è costituita dalla conquista, da parte
della economia inglese, del mercato mondiale, e la seconda metà è costituita
dal completamento o dalla conquista, da parte dello stato inglese e delle
altre grandi potenze, degli imperi. Nella prima metà del periodo secolare
l’elemento dominante è l’economia, nella seconda metà l’elemento domi­
nante è la politica. Ma la conquista delle colonie e lo scontro politico sul
piano mondiale fra le potenze possono avvenire in quanto, nei decenni
precedenti, il mondo ha subito un processo di unificazione come mercato
della economia inglese.
La distinzione tra imperialismo informale e formale non ha soltanto
un carattere cronologico — prima e dopo il 1880 — ; i due tipi di impe­
rialismo sono sempre coesistiti, sia prima, sia, soprattutto, dopo il 1880.
Fra i due tipi di imperialismo c’è una continuità cronologica e un nesso
subordinata, rivolta a organizzare e meglio sfruttare gli imperi già costituiti (per
esempio, il tentativo di J. Chamberlain con l’impero inglese).
'
Se non erro, Lenin pensava soprattutto all’Inghilterra quando affermava che
l’imperialismo corrispondeva ad un imputridimento del capitalismo. D’altra parte,
come ha osservato T. K em p , op. cit., pp. 127 e 128, l’imperialismo che Lenin descrive
è essenzialmente quello tedesco. Il fatto che le diverse « fonti » da cui Lenin ha
attinto per il suo studio non siano da lui sempre specificate può essere causa di
equivoci e può indurre il lettore poco attento a impoverire la complessità dell’impe­
rialismo.
7
D. K. F ieldhouse, « Imperialism »: An Historiographical Revision, in The
Economic History Review, dicembre 1961, pp. 187-209.
Contributo alla discussione sull’imperialismo
7
(analogo, quest’ultimo, al rapporto fra struttura e sovrastruttura). Una
continuità cronologica, per cui l’imperialismo formale dopo il 1880 è la
« risposta » (qui Toynbee è appropriato) che i second-comers (e con loro
la stessa Inghilterra) danno, con la forza dello stato, alla « sfida » lanciata
dall’Inghilterra con la forza della sua economia. Un nesso, per cui l’occu­
pazione di colonie, considerata nel lungo periodo, costituirebbe, in termini
economici, il costo che è stato necessario pagare per consentire alle singole
potenze i guadagni ricavati dai loro imperi informali. Solo l’imperialismo
informale, come hanno ben visto Robinson e Gallagher, avrebbe un carat­
tere dinamico, mentre l’occupazione di colonie e di punti strategici, fatta
spesso al solo scopo di impedirla a una potenza rivale, costituirebbe, in
linea generale, l’aspetto difensivo dell’imperialismo stesso8; aspetto di­
fensivo, occorre però aggiungere, che, legato come è alla politica di arma­
menti, spinge verso la guerra.
La tendenza del capitalismo verso forme monopolistiche, immanente
al sistema, fu anche uno strumento per favorire o consentire alle potenze
l’espansione economica mondiale in una età in cui l’espansione stessa non
era più un monopolio di fatto dell’Inghilterra. Una analoga considerazione
vale per spiegare il prevalere della politica sulla economia nella seconda
fase del periodo secolare. In una età in cui l’espansione mondiale era
dominata dal contrasto fra le potenze non solo l’economia fece appello
allo stato ma, più spesso, questo agì in modo autonomo per i suoi fini di
potenza, usando, quando possibile, l’economia come principale e decisivo
strumento di questa.
La concentrazione monopolistica e la prevalenza della politica furono
i due strumenti tipici dei second-comers per affermare il loro imperialismo.
La prevalenza della politica fu assai scarsa negli Stati Uniti, paese ricco,
con un grande mercato interno e, fuori dei suoi confini, aree di espansione
relativamente libere. La prevalenza della politica fu invece, per antica tra­
dizione, nettissima nell’imperialismo francese, che ebbe l’altro suo stru­
mento non tanto nella concentrazione monopolistica quanto — come l’In­
ghilterra — nella esportazione di capitali. Il nesso tra concentrazione
monopolistica e prevalenza della politica è tipico dell’imperialismo tedesco
e di quello giapponese.
Accennavo alla prevalenza della politica, tipica dell’imperialismo for­
male. Tuttavia in singoli casi l’economia continua ad avere un peso deter­
minante: sia nell’acquisto di colonie ricche di materie prime; sia, soprat­
tutto, nella misura in cui l’imperialismo è un fatto non solo di politica
estera ma anche di politica interna (quella delle potenze dominanti e,*
*
Per questo, credo, Kautzky osservava che la politica coloniale « è un ben misero
affare per tutti gli Stati, eccettuata l’Inghilterra»; eccettuata, cioè, la potenza che più
aveva dilatato l’impero informale col commercio mondiale. Cfr. K. K autzky, La via al
potere. Considerazioni politiche sulla maturazione della rivoluzione, Bari, 1969, p. 31.
8
Giampiero Carocci
ancor più, quella dei paesi dominati) inserita nel mercato capitalistico
mondiale. Non sono però questi gli aspetti più importanti del persistente
legame tra economia e imperialismo. C’è anche un nesso di carattere ge­
nerale fra l’economia e l’imperialismo posteriore al 1870. Questo nesso è
costituito dalla crisi nella fattispecie dalla cosiddetta grande depressione
del 1873-1896. Durante questi anni gli investimenti esteri dell’Inghilterra
si indirizzarono soprattutto verso l’impero formale (in specie il Canada
e l’Australasia), mentre nel periodo successivo, con la ripresa dell’economia
e del commercio mondiale, si indirizzarono soprattutto verso le aree svi­
luppate e verso l’impero informale, negli Stati Uniti e nell’America meri­
dionale 1". Mentre nei periodi di benessere l’impero informale e i paesi
sviluppati avevano una importanza maggiore dell’impero vero e proprio,
nei periodi di crisi avveniva il contrario 11.
Questo vale per l’Inghilterra, che negli anni ’70 già possedeva un
grande impero territoriale. Diverso è il caso della Francia e della Ger­
mania. In questi due paesi la crisi economica agì da spinta non già o non
tanto all’interno dei rispettivi imperi (insufficienti o inesistenti) quanto
verso la conquista di nuovi territori e di nuovi mercati, e, passata la crisi
economica, si trasformò poi nei contrasti politici internazionali da cui nacque
la guerra mondiale. Mentre l’impero ebbe per l’Inghilterra una funzione
frenante dello sviluppo economico e insieme riequilibratrice (torneremo
su questo aspetto), in Germania (il ruolo della Francia sembra meno tipico)
l’imperialismo fu più strettamente associato, almeno nelle intenzioni, allo
sviluppo.
Possiamo estendere l’osservazione al diverso modo di concepire il
rapporto fra madrepatria e colonie. Gli inglesi miravano, più che a svilup­
pare e sfruttare economicamente le colonie, ad amministrarle, con metodi
indirizzati verso la indirect rule12, che risultavano positivi, credo, essen­
zialmente là dove, come in India, la struttura civile del paese aveva un
certo livello preesistente la conquista. Invece nelle colonie tedesche, e anche
in quelle francesi, prevaleva la tendenza ad accentuare l’azione di governo
della madrepatria, producendo più intense trasformazioni economiche e
“
Il nesso fra imperialismo e crisi economica è stato particolarmente sottolineato da
F. Sternberg, Kapitalismus und Sozialismus vor dem Weltgericht, Hamburg, 1952.
10 Cfr. la tabella in R. R obinson - J. G allagher, Africa and the Victorians, cit.,
p. 6, n. 6, che ne traggono argomento di polemica contro le teorie marxiste dell’impe­
rialismo. Per i due autori, e non solamente per loro, imperialismo è solo conquista
di nuovi mercati, non anche più intenso sfruttamento di quelli già posseduti.
11 Per quanto riguarda invece le merci, anche dopo il 1896 la percentuale del
commercio nell’ambito dei territori dell’impero continuò a crescere sul totale del
commercio estero inglese. Cfr. D. K. F ieldhouse , op. cit., p. 190, che cita A. K. Cairncross, Home and Foreign Investment 1870-1940, Cambridge, 1953, p. 189.
” Cfr. J. D. F age, British and German Colonial Rule: A Synthesis and Summary,
in Britain and Germany in Africa, Yale University Press, 1967, pp. 695 sgg. Cfr.
anche nello stesso vol., il contributo, assai bello, di P rosser G ifford sulla Indirect
Rule.
Contributo alla discussione sull’imperialismo
9
sociali, una più elevata produttività e una maggiore oppressione. Mentre
gli inglesi, forti del loro impero informale, sembravano accettare il fatto
che le colonie, nel loro complesso, erano economicamente un costo, che
si trattava solo di rendere il meno gravoso possibile, i tedeschi si sforzarono
di renderle redditizie. Ma, last not least, occorre osservare che, sotto il
profilo strettamente economico, la Germania, a differenza dell’Inghilterra,
reagì alla grande depressione non tanto con l’imperialismo coloniale quanto
con lo sviluppo del suo apparato industriale e con l’imperialismo inteso
come conquista di mercati ricchi per i prodotti finiti.
È probabile che le differenze fra l’Inghilterra e la Germania di fronte
all’imperialismo e alla grande depressione affondassero le radici nella diffe­
rente struttura dei rispettivi sistemi capitalistici, cioè nel fatto che, come
tra gli altri ha osservato, forse con qualche esagerazione, Semmel, in
Inghilterra non si sarebbe avuta la fusione della banca con l’industria, tipica
del capitalismo finanziario e della concentrazione monopolistica18. Ed è
probabile che la scarsa consistenza del capitale finanziario (nella accezione
di Hilferding) sia stata la causa dello scarso rinnovamento tecnologico della
industria inglese negli anni successivi al 1870.
Riprendendo una osservazione fatta sopra, l’impero ebbe un duplice
effetto sulla economia inglese durante la grande depressione: per un verso
frenò gli investimenti industriali, cioè diminuì ulteriormente il tasso della
espansione economica; per un altro verso agì da elemento stabilizzatore,
in quanto difesa contro le difficoltà del commercio mondiale. Ma quando
il ciclo economico tornò nella fase ascendente, le esportazioni di capitale
tornarono a indirizzarsi prevalentemente fuori dell’impero formale, il favore
per l’ideologia imperialista andò declinando anche come reazione alla guerra
boera, e, in sostanza, l’impero informale tornò ad avere la tradizionale
prevalenza su quello formale.
Il
tentativo fatto da J. Chamberlain ai primi del secolo di introdurre
il protezionismo nell’impero 14 fallì, fra l’altro, perchè le esportazioni inglesi,
dopo il declino del 1872-1899, ripresero con vigore; fallì perchè per
l’economia inglese il mercato mondiale continuava ad essere più impor­
tante di quello imperiale, nonostante la crescente importanza di quest’ul­
timo. Liberisti erano i costruttori e gli armatori navali, i cotonieri, le banche
e le società assicuratrici; protezionisti erano gli industriali metallurgici1S.
Protezionista, cioè, era il settore che più risentiva il problema del rinno­
vamento tecnologico, che era più debole e più esposto alla concorrenza
estera. A differenza della Germania, dove il protezionismo univa in un
B. Sem m el , Imperialism and Social Reform. English Social-Imperial Thought
1895-1914, New York, 1968, nuova ed. (prima ed. del 1960), p. 134. L’osservazione
è ripresa da Schumpeter [ibid., p. 135).
11 Sul quale cfr. D. L. J udd, Balfour and the British Empire. A Study in Imperiai
Evolution 1874-1932, New York, 1968, pp. 102-138.
11 B. Sem m el , op. cit., pp. 130-138.
1!
10
Giampiero Carocci
blocco tutti gli interessi dominanti ed esprimeva la spinta dinamica del­
l’imperialismo, in Inghilterra il protezionismo era l’espressione più com­
piuta del carattere difensivo dell’imperialismo stesso, della tendenza ri­
volta non già alla conquista di nuovi mercati bensì allo sfruttamento di
quelli esistenti dentro la cerchia dell’impero politico. Ma le richieste pro­
tezionistiche di una parte degli industriali inglesi, anche se non esaudite,
non miravano che ad accentuare una situazione di fatto già esistente. Ab­
biamo visto che, dopo il 1896, l’impero informale tornò ad avere maggiore
importanza di quello formale solo per le esportazioni di capitali ma non
per quelle di merci. L’industria inglese era diventata meno competitiva e
preferiva la routine dei vecchi mercati imperiali anziché la conquista di
nuovi.
Mentre caratteristica della banca inglese fu l’investimento oltremare,
caratteristica della banca tedesca fu l’investimento industriale. Naturalmente
ciò non significa che la banca tedesca non facesse anche investimenti al­
l’estero e che la banca inglese non facesse anche investimenti industriali.
Ma l’esportazione di capitali inglese fu essenzialmente un fatto finanziariocommerciale, mentre l’esportazione di capitali tedesca fu più spesso legata
a interessi industriali. Bismarck si indusse alla politica coloniale per motivi
generali di potenza e, sotto il profilo economico, per tipici motivi di im­
perialismo commerciale: avere delle aree proprie per fronteggiare il pe­
ricolo che la libertà del commercio mondiale, cui l’industria tedesca era
particolarmente interessata, fosse sottoposta a limitazioni. Ma differenti
e più complessi furono i motivi del successivo imperialismo guglielmino,
basato sulla gara navale con l’Inghilterra, cioè basato, sotto il profilo eco­
nomico, non più solo su motivi commerciali ma anche sull’industria di
guerra.
La Germania era più « moderna » dell’Inghilterra non solo per il suo
apparato industriale ma anche per il suo imperialismo. Con la seconda
ondata della industrializzazione, quella successiva al 1870, l’interscambio
tra i paesi sviluppati ebbe più importanza dei mercati poveri, che erano
stati invece sufficienti per l’industria tessile della prima fase della indu­
strializzazione. L’imperialismo economico non fu più tanto la ricerca di
nuovi mercati nelle aree povere del mondo quanto un paracadute contro
le crisi, come dimostrava l’Inghilterra, o un sostegno dell’industria tramite
la penetrazione in mercati ricchi e tramite la produzione di guerra, come
dimostrava la Germania guglielmina e come soprattutto avrebbe dimostrato
il futuro. È facile dire che fra politica imperialistica e sviluppo della indu­
stria di guerra c’era una reciproca interelazione. Ma è un problema ancora
aperto appurare concretamente quale dei due termini della interelazione
fosse dominante, se il secondo o non piuttosto il primo; così come è un
problema ancora aperto appurare se l’industria di guerra costituisse, allora,
un freno o piuttosto un sostegno allo sviluppo.
Contributo alla discussione sull’imperialismo
11
Gli aspetti nuovi dell’imperialismo fra le due guerre mondiali, messi
in evidenza rispettivamente da Hallgarten e da Dobb 16, sono entrambi di
marca fascista e nazista: l’esistenza di strati di ceto medio declassati che
fornirono la base di massa della politica estera aggressiva; e la tendenza a
organizzare e sfruttare delle aree in Europa, conquistate con la forza. Ma
questi caratteri peculiari dell’imperialismo fra le due guerre si collegano
ai problemi dell’imperialismo classico.
Infatti nel periodo fra le due guerre, dominato dalla crisi economica,
l’imperialismo, per molti aspetti, mantenne ed accentuò i due caratteri
fondamentali che aveva avuto nel periodo 1880-1914: l’aspetto difensivo,
volto a creare un mercato imperiale protetto, che era stato tipico del­
l’imperialismo inglese durante la grande depressione degli ultimi decenni
dell’ ’800 e che si affermò compiutamente nel 1932 con l’introduzione della
tariffa doganale imperiale; l’aspetto dinamico, volto alla conquista di nuovi
mercati e soprattutto a una politica aggressiva che implicava un forte
impulso alle industrie di guerra, che era stato tipico dell’imperialismo
guglielmino e che si affermò compiutamente con Hitler. È tipico dell’im­
perialismo inglese fra le due guerre il fatto che il fascista Mosley fosse
protezionista e contrario alle esportazioni di capitale, che aumentavano
la disoccupazione17. Anche in Italia molti fascisti erano contrari, per gli
stessi motivi, alla esportazione di capitali; ma contrapponevano a questa
l’esportazione di prodotti industriali, che era da favorire per la ricerca
di nuovi mercati.
Sebbene durante gli anni ’20 continuassero forti esportazioni di capi­
tale da parte degli Stati Uniti e anche dell’Inghilterra e della Francia, il
problema dominante diventò quello delle esportazioni di merci, con sistemi
neomercantilistici che esasperavano quelli dell’imperialismo anteriore al
1914, come conseguenza degli squilibri prodotti dalla guerra e poi come
conseguenza della crisi economica mondiale. Fino al 1914 l’Europa era
stata esportatrice di capitali ed importatrice di merci, ed aveva pagato
le seconde con i primi, mentre gli Stati Uniti erano stati, all’opposto, im­
portatori di capitali ed esportatori di merci. Dopo la guerra la situazione
si capovolse. L’Europa divenne importatrice di capitali, per pagare i quali
dovette forzare l’esportazione di merci. Ma questa era resa più difficile dal
latto che gli Stati Uniti, pur essendo diventati esportatori di capitali, ave­
vano anche continuato ad essere esportatori di merci. Il rapporto fra gli
Stati Uniti e l’Europa, soprattutto la Germania, durante gli anni ’20 si
configura come un nuovo tipo di rapporto imperialistico, oggi ancor più
diffuso, nel quale sia il paese dominante (gli Stati Uniti) che quello domi­
nato (la Germania) sono potenze imperialistiche.18
18 G. W. F. H allgarten, Das Schicksal des Imperialisms im 20. Jahrhundert, Frank­
furt am Main, 1969, pp. 137-160; M. D obb, Problemi di storia del capitalismo, con
introduzione di R. Zangheri, Roma, 1970, I II ed., pp. 418-420.
17 T. K em p , op. cit., p. 246.
12
Giampiero Carocci
Durante gli anni ’20 in Germania e in Italia il problema di esportare
merci fu particolarmente grave, in parte per le riparazioni di guerra imposte
alla Germania e che potevano essere pagate da questa solo esportando i suoi
prodotti industriali, e soprattutto perchè in questi due paesi più acuto era
10 squilibrio tra l’apparato industriale, sviluppato durante la guerra, e
l’insufficienza del capitale bancario. La polemica fascista e nazista contro
11 cosiddetto capitalismo parassitario esprimerebbe, in modo demagogico
propagandistico, questo squilibrio, considerato dal punto di vista degli
interessi industriali. Il contrasto fra banca e industria, che sarebbe stato
tipico dell’economia inglese e che qui si manifestò negli anni ’20 come
contrasto fra i sostenitori della sterlina e i sostenitori di una moderata
inflazione per promuovere lo sviluppo industriale e l’occupazione, si ma­
nifestò anche in Germania e in Italia; ma si manifestò non già e non tanto
come contrasto fra i due settori quanto come contrasto, sfruttato dal fa­
scismo e dal nazismo, fra l’industria nazionale e la finanza estera.
Tuttavia il carattere fondamentale dell’imperialismo fascista e nazista
non consiste in questi aspetti economici bensì nel fatto che esso accentuò
la preminenza della politica sulla economia che era stata tipica dell’imperia­
lismo 1870-1914 e che era tipica dello stato totalitario, in tutte le sue ma­
nifestazioni ls; al punto che, limitatamente al fascismo e al nazismo, l’astra­
zione di Schumpeter che la causa dell’imperialismo sarebbe una carenza di
capitalismo10 diventa, se non esatta, un utile strumento di interpretazione.
Con l’avvertenza, però, che l’importanza del fattore economico è data non
solo dalla presenza del fattore stesso ma, talora, anche dalla sua assenza.
Per fare un esempio, l’importanza del fattore economico nelPimperialismo
fascista è data anche dall’intensità con cui i dirigenti la politica estera
sentivano la sua mancanza.
È un fatto tuttavia che non sempre, soprattutto inizialmente, gli espo­
nenti economici in Germania e in Italia gradirono la politica estera preco­
nizzata o attuata dal nazismo e dal fascismo 18*20. Alcuni industriali e soprat­
tutto molti banchieri tedeschi fino al 1932 mirarono a superare la crisi
economica puntando sulla collaborazione con la finanza francese. Gli indu­
18 « Una forte situazione economica non garantisce di per se stessa l’avvenire di un
popolo, bensì un forte nazionalismo può proteggere l’economia e dare al popolo la
libertà di esistenza e di sviluppo ». Sono parole dette da Hitler nel maggio del 1929
(I Documenti diplomatici italiani, serie V II: 1922-1935, voi. V II: 24 settembre 192812 settembre 1929, Roma, 1970, p. 415).
18 È merito del saggio di Schumpeter sull’imperialismo, pubblicato nel 1919, aver
intuito taluni caratteri irrazionali di quello che sarebbe stato l’imperialismo nazista
e fascista. Mi riferisco alla traduzione inglese del saggio, ed. in J. A. Schumpeter ,
Imperialism and Social Classes, introduzione di P. M. Sweezy, New York, 1951.
20 È da tenere presente l’osservazione di L. I raci, Dall’opulenza al benessere, Torino,
1970, pp. 83-84, che — ci sembra — riprende e modifica la tesi di Schumpeter: il
fascismo « esprimeva un imperialismo a base di massa nei miti demoniaci di un
irrazionalismo esasperato (e che perciò andava ben oltre i ’veri’ interessi imperialistici
della classe dominante) ».
Contributo alla discussione sull’imperialismo
13
striali italiani, a parte alcune eccezioni, auspicarono relazioni politiche ami­
chevoli con la Francia (la cui industria, a differenza della tedesca, non ci
faceva concorrenza) e con la vicina Jugoslavia, la miglior fornitrice di mate­
rie prime e derrate alimentari per la nostra economia. Gli industriali ita­
liani, insomma, come Sforza nel 1920-21, miravano a stabilire con la
Jugoslavia un rapporto di imperialismo informale: il tipo di rapporto che,
anteriormente al 1914, si era stabilito fra una potenza e un paese econo­
micamente arretrato ma dotato di una compagine statale moderna (tale era
la Jugoslavia fra le due guerre). Il fascismo invece mirò, pur con oscilla­
zioni, a stabilire con la Jugoslavia un rapporto di imperialismo formale:
il tipo di rapporto che, anteriormente al 1914, una potenza riservava alle
aree arretrate non solo economicamente ma anche politicamente. Gli am­
bienti economici erano nella linea tradizionale del tipico imperialismo ita­
liano: Pimperialismo di un paese industrializzato ma povero (in capitali e
in capacità di assorbimento del mercato interno), con ampissime zone di
sottosviluppo; un imperialismo debole, basato sulla esportazione di merci,
cui faceva da drammatico contrappunto una ancor maggiore esportazione di
uomini
Un’altra divergenza di vedute fra gli ambienti economici e quelli po­
litici dell’Italia fascista riguardava l’espansione in Etiopia. Gli ambienti
economici, mentre avevano fatto e facevano esportazioni non solo di merci
ma anche di capitali in Jugoslavia e nei Balcani, non dimostravano nessun
interesse per l’Etiopia. Il ministero degli Esteri si sforzò durante gli anni
’20 di promuovere una esportazione di capitali in quel lontano paese.
Poiché gli sforzi si rivelarono inutili il ministero degli Esteri si convinse
che l’unico modo per dominare l’Etiopia era la conquista militare, mettere
da parte l’imperialismo informale e puntare su quello formale. Questa
propensione per l’azione affidata alla politica, allo stato — tipico Contrap­
punto e conseguenza dei limiti e delle insufficienze delle forze economiche
finanziarie — trovò un incentivo decisivo nelle crescenti difficoltà del com­
mercio internazionale, che impedivano o limitavano le due tradizionali
esportazioni italiane, uomini e merci. La risposta fascista a queste difficoltà
fu la politica economica di guerra imboccata nel 1934-35, sulla cui base
trovarono composizione le divergenze di vedute fra gli ambienti economici
e quelli politici.
È forse possibile, con cautela, allargare questa osservazione a taluni
caratteri generali dell’imperialismo in Europa fra le due guerre mondiali e
-collegarli, precisando meglio a quanto detto prima, a taluni caratteri del­
l’imperialismo anteriore al 1914. Abbiamo visto che durante la grande
depressione del 1873-96 si affermò l’imperialismo come conquista di mer-1 Di « via italiana all’imperialismo » ha parlato, a questo proposito, G. Sabbatucci,
Il problema dell’irredentismo e le origini del movimento nazionalista in Italia, in
.Storia contemporanea, settembre 1970, p. 486.
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Giampiero Carocci
cati privilegiati delle singole potenze; e abbiamo accennato al fatto che,
passata la crisi economica, Timperialismo si affermò compiutamente sotto
forma di contrasto politico e di prevalente importanza, nel campo econo­
mico, dell’industria di guerra. Analogamente, durante gli anni ’20 e, ancor
più, durante la crisi economica acuta del 1929-32, Timperialismo si manife­
stò soprattutto come esasperata ricerca di mercati privilegiati: attenuatasi
la crisi economica, Timperialismo si affermò compiutamente sotto forma
di esasperato contrasto politico e di prevalenza, nel campo economico, del­
l’industria di guerra (oltre, naturalmente, alla ricerca di mercati privilegiati).
Nel periodo fra le due guerre mondiali, infine, cominciò ad affermarsi
un nuovo tipo di imperialismo, quello americano, basato su una sempre
più incontrastata egemonia finanziaria nel mondo capitalistico, tanto mate­
riato di interessi economici quanto povero di ideologia, proteso alla con­
quista di nuovi mercati senza che a questa seguisse la sanzione della occu­
pazione politica: un imperialismo informale, insomma, che dopo l’ultima
guerra è diventato un impero informale. Ma c’era la crisi economica, dalla
quale gli Stati Uniti uscirono solo con la guerra. E c’erano la rivoluzione
di Ottobre e l’Unione Sovietica, che per un verso inducevano ancor più
all’imperialismo informale ma che, per un altro verso, ne insidiavano la
stabilità. Per questi motivi, quello americano di oggi è per metà un impe­
rialismo informale inglese e per metà — quella decisiva, garante della
prima — è un imperialismo basato sulla dilatazione dell’industria di guerra,
per sostenere lo sviluppo economico e fronteggiare il sistema mondiale
antagonista del capitalismo 22.
G iam piero Carocci
*’ Dopo la guerra si è manifestato anche un imperialismo sovietico sui paesi socialisti
dell’Europa centrale e orientale. Mi limito a questo accenno in nota, dato che sul
problema non esistono ancora, a quanto conosco, lavori che oltrepassino il livello della
pubblicistica.
Sotto il profilo tecnico questo imperialismo sembra talora riprendere, in forma
attenuata, gli aspetti deH’imperialismo nazista rivolti a organizzare e sfruttare econo­
micamente delle aree europee. Sotto il profilo storico, invece, le differenze sono
radicali. Mentre l’imperialismo nazista mirava solo a sfruttare e saccheggiare le aree
dominate, l’URSS non solo vi ha introdotto una rivoluzione sociale ma ha mirato
anche a forzare la loro industrializzazione. Mentre l’imperialismo nazista era aggressivo,
quello sovietico è difensivo, generato da una preoccupazione di classica natura strategico-militare, quella di allontanare le basi di partenza di un eventuale aggressore.
L’imperialismo sovietico sembra configurarsi come una alternativa difensiva, che acqui­
sta importanza nella misura in cui l’URSS rinuncia a quella che avrebbe dovuto essere
la sua politica estera « aggressiva », cioè l’appoggio alla rivoluzione nel mondo.
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