23 1. COMUNIONE E CONDOMINIO

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COMUNIONE E CONDOMINIO
1. COMUNIONE E CONDOMINIO 1.1. La comunione.
L’istituto della comunione è disciplinato dal Titolo VII del Libro terzo del codice civile. Il
Capo I (artt. 1100-1116 c.c.) si occupa della comunione in generale; il Capo II (artt. 1117-1139
c.c.) del condominio negli edifici.
Per comunione si intende quella particolare situazione nella quale la proprietà o altro diritto
reale (quindi, su cose) “spetta in comune a più soggetti” (cfr. AA. VV., Trattato del condominio,
ed. Cedam, 2008, 5).
La comunione è volontaria, quando si costituisce per volontà delle parti, che, d’accordo,
acquistano o mettono in comune la proprietà della cosa; è incidentale, quand’essa sorge per
volontà della legge (per es.: comunione forzosa del muro; comunione delle parti comuni di un
edificio quali scale, pianerottoli, ecc.). Una particolare specie di comunione, che non dipende
soltanto dalla legge o dalla volontà del defunto, ma anche dall’accettazione degli eredi, è la comunione ereditaria (cfr. A. Torrente e P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffré editore,
1995, 335). 1.2. I diritti e gli obblighi dei comunisti.
La comunione è regolata anzitutto dal titolo (es.: contratto). In mancanza, si applicano i
principii dettati dal codice civile.
Da tanto deriva che, salvo diversa convenzione, ciascun partecipante alla comunione può
servirsi della cosa purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti
di farne parimenti uso secondo il loro diritto (art. 1102 c.c.); può disporre della sua quota (che
si presume uguale a quella degli altri comunisti) alienandola o ipotecandola (art. 1103 c.c.) e
deve contribuire alle spese in proporzione ad essa, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia
al suo diritto (c.d.: abbandono liberatorio ex art. 1104 c.c.); ha diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune (art. 1105 c.c.) e di essere rimborsato delle spese sostenute per la
conservazione della stessa, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell’amministratore
(art. 1110 c.c.).
Per quanto riguarda, poi, la gestione del bene in comunione, il codice civile dà rilievo alla
volontà della maggioranza dei comunisti, le cui deliberazioni vincolano anche i dissenzienti.
La maggioranza è calcolata esclusivamente in base al valore delle quote: per gli atti di ordinaria
amministrazione (art. 1105 c.c.), così come per la formazione del regolamento della comunione (nonché per delegare ad uno o più partecipanti, o anche ad un estraneo, la funzione
amministrativa), è sufficiente una delibera adottata a maggioranza delle quote (art. 1106 c.c.).
Per le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il
godimento (purché non rechino pregiudizio ad alcuno dei partecipanti e non importino una
spesa eccessivamente onerosa) occorre, invece, che la relativa deliberazione venga assunta dalla
maggioranza dei comunisti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa
comune (art. 1108, primo comma, c.c.). Stesso discorso per gli atti che eccedono l’ordinaria
amministrazione (sempreché, anch’essi, non risultino pregiudizievoli all’interesse degli altri
partecipanti) (art. 1108, secondo comma, c.c.). Contro gli abusi della maggioranza è attribuito,
comunque, a ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente la facoltà di impugnazione
davanti all’autorità giudiziaria (art. 1109 c.c.).
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Esulano, invece, dalla sfera dei poteri della maggioranza gli atti che non si riferiscono al godimento della cosa comune, ma investono il diritto stesso di ciascun comunista, come gli atti di
alienazione o di costituzione di diritti reali sulla cosa comune e le locazioni di durata superiore
a nove anni: per essi occorre il consenso di tutti i partecipanti (art. 1108, terzo comma, c.c.).
La comunione, infine, cessa con la divisione, che può, di norma, essere richiesta in ogni
momento da ciascuno dei partecipanti (artt. 1111-1116 c.c.). 1.3. Il condominio.
Nell’alveo dell’istituto della comunione si colloca il condominio negli edifici, disciplinato
dagli artt. 1117- 1138 c.c. e – per tutto quanto non espressamente previsto da queste norme –
dalle stesse disposizioni previste per la comunione in generale (art. 1139 c.c.).
La disciplina del condominio presuppone la coesistenza, nell’ambito d’un unico edificio, di
unità immobiliari in proprietà esclusiva e di parti comuni, queste ultime poste al servizio delle
prime, secondo una relazione d’accessorietà e complementarità.
In questa prospettiva, in giurisprudenza si è osservato che si verte in tema di comunione
quando, su un bene determinato, spetta congiuntamente a più persone il diritto di proprietà od
altro diritto reale, mentre si verte in tema di condominio, quando la comunione di più persone
su talune parti dell’edificio coesiste con la proprietà esclusiva delle varie unità immobiliari (cfr.
Cass. sent. n. 2233 del 21.6.1969).
Discende da quanto precede, pertanto, che il godimento delle cose comuni, nel condominio, non è fine a sé stesso, servendo a rendere possibile o comodo il godimento di altre cose
di proprietà singola dei condòmini, delle quali sono parti o accessori (cfr. R. Triola, Il nuovo
condominio, Giappichelli editore, 2013, 5).
La singolarità di questa speciale forma di comunione può essere, dunque, subito avvertita:
le parti comuni sono in tale rapporto di dipendenza con l’edificio che la comunione stessa,
almeno di regola (e cioè laddove non ricorra il caso che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e che tale divisione abbia il consenso
di tutti i condòmini: cfr. art. 1119 c.c.) non è soggetta a scioglimento: si parla, non a caso, di
uno stato di comunione forzosa (cfr. A. Torrente e P. Schlesinger, Manuale di diritto privato,
Giuffré editore, 1995, 337). Peculiarità, quest’ultima, che costituisce un principio fondamentale
del condominio (assieme a quello che il regolamento – pur avendo carattere sussidiario – è la
vera legge del condominio) e da cui deriva anche il motivo della preminenza, in ambito condominiale, degli interessi collettivi su quelli individuali: mentre nella comunione la maggioranza – come abbiamo visto – viene calcolata in base esclusivamente al valore delle quote ed
è ammesso l’abbandono liberatorio per sottrarsi ai contributi per la conservazione della cosa,
nel condominio, invece, il valore delle quote non costituisce l’unico elemento su cui calcolare
la maggioranza (art. 1136 c.c.) e il condomino non può rinunziare al suo diritto né sottrarsi
all’obbligo di contribuire alle spese (art. 1118, secondo e terzo comma, c.c.). 1.4. Quando nasce il condominio.
In ossequio ai principi richiamati e al carattere necessario della disciplina del condominio in
presenza di parti comuni e di proprietà esclusive nello stesso stabile, in giurisprudenza è stato
chiarito che la costituzione del condominio avviene da sé (ex se) e di diritto (ope iuris) e quindi
senza un formale atto. Semplicemente con il frazionamento – da parte dell’unico proprietario – di
un edificio, i cui piani o porzioni di piano siano attribuiti a più soggetti in proprietà esclusiva (cfr.,
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fra le altre, Cass. sent. n. 18226 del 10.9.2004). La giurisprudenza non annovera tra i requisiti del
condominio neppure il rilascio del certificato di agibilità né la nomina dell’amministratore, che,
al pari della formazione delle tabelle millesimali e del regolamento condominiale, involge unicamente l’aspetto della gestione delle cose comuni (cfr. Cass. sent. n. 510 del 26.1.1982).
Tra i requisiti non v’è neanche la necessità che il numero dei partecipanti sia superiore a due.
In proposito, le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito, infatti, che la disciplina dettata dal
codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti. E ciò, anche con riguardo al funzionamento dell’assemblea, visto che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un
principio diverso da quello maggioritario, nella specie all’unanimità. In mancanza di accordo,
naturalmente, sarà necessario ricorrere all’autorità giudiziaria (Cass. sent. n. 2046 del 31.1.2006). 1.5. La natura giuridica del condominio.
La legge di riforma dell’istituto condominiale (l. n. 220 del 11.12.2012) – entrata in vigore il
18.6.2013 – ha mancato un obiettivo importante: di attribuire al condominio – in linea con le
normative vigenti in altri Paesi dell’Unione Europea – la capacità giuridica; di fare, cioè, del condominio un soggetto di diritto autonomo, distinto dai singoli condòmini, dotato di una propria
soggettività, sia pur limitata in relazione agli atti di gestione delle parti comuni e ai rapporti con
i terzi creditori e fornitori. Mancanza ancor più grave se sol si pensa che la giurisprudenza, dopo
aver per anni qualificato il condominio come un ente di gestione, ha negato, nel 2008, anche tale
qualificazione, con la sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 9148.
Allo stato, dunque, non può essere data una definizione giuridica di condominio. Non si
può fare altro, pertanto, che continuare a trattare l’argomento condominiale, come sempre
fatto finora, partendo dall’elencazione operata dall’art. 1117 c.c. dei beni che sono oggetto di
proprietà comune; beni, di cui tratteremo nel capitolo che segue, unitamente alle condizioni
che ciascun condomino deve rispettare per il loro utilizzo. 1.6. La disciplina giuridica del condominio.
Il condominio è regolato dal codice civile, dalle disposizioni per la sua attuazione e da diverse leggi speciali. È altresì regolato da una disciplina particolare che può, con una certa approssimazione, qualificarsi come “integrativa e delegata dal codice civile”, e che è rappresentata
dai regolamenti di condominio (cfr. F. Tamborrino, Come si amministra un condominio, ed. Il
Sole 24Ore, 2004, 55).
Centrali, nell’ambito del condominio, sono l’assemblea dei condòmini e l’amministratore.
Quest’ultimo è l’organo esecutivo del condominio, giacché la legge gli affida, tra l’altro, i compiti di eseguire le delibere, di applicare il regolamento, di esigere i contributi dei condòmini. È
inoltre anche l’organo rappresentativo del condominio, giacché rappresenta (sulla base di un
rapporto di mandato ex artt. 1703-1730 c.c., così come espressamente precisato dalla legge di
riforma) i condòmini, nel loro complesso, di fronte ai terzi.
L’assemblea può essere definita, invece, l’organo “normativo” del condominio: ad essa, infatti, è attribuito il potere di disciplinare e gestire la vita condominiale entro, comunque, limiti
ben definiti, primo fra tutti quello della competenza.
Nel prosieguo ci occuperemo tanto della figura dell’amministratore quanto dell’organo assembleare. Trattando dell’assemblea, peraltro, esamineremo anche due forme particolari di
condominio: il condominio parziale e il supercondominio. TJ_705_ManualeCorsiFormazioneInizialeAmministratoriCondominio_2015_1.indb 25
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2. BENI COMUNI E LORO USO 2.1. Individuazione dei beni comuni.
I beni comuni sono elencati nell’art. 1117 c.c., a tenor del quale sono oggetto di proprietà
comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a
godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:
1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio,
le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;
2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria,
incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come
gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione
ai locali di proprietà individuale dei singoli condòmini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino
al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
Rispetto al testo della norma vigente prima della legge di riforma sono, ora, stati espressamente inseriti i pilastri, le travi portanti, le facciate, le aree destinate a parcheggio, i sottotetti, gli
impianti per il condizionamento dell’aria, gli impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo.
Continua a trattarsi, tuttavia, di una elencazione meramente esemplificativa di beni che si
presumono comuni salvo prova contraria. Prova, che può essere fornita da un “titolo” come
l’atto di compravendita (Cass. sent. n. 12340 del 22.8.2002) o un regolamento condominiale di
origine contrattuale, cioè un regolamento formato con il consenso unanime di tutti i condòmini ovvero predisposto dal costruttore e accettato dagli stessi condòmini nei loro atti di acquisto
(Cass. sent. n. 2984 del 6.5.1980) (cfr. cap. VI “Il regolamento di condominio”). 2.2. Uso dei beni comuni e relativi problemi.
Nei condominii gli spazi privati sono di norma limitati, sicché è frequente che i condòmini
utilizzino le parti comuni per fini personali. E questo, indipendentemente dal consenso degli
altri condòmini che anzi, il più delle volte, e non sempre con motivazioni valide, si oppongono ad iniziative del genere. Inutile dire che chi svolge l’attività di amministratore è chiamato costantemente a confrontarsi con questa realtà. È di fondamentale importanza, pertanto,
che l’amministratore abbia compiuta conoscenza dei limiti che incontra il singolo condomino
nell’uso delle parti comuni.
Per chiarire quali siano questi limiti occorre prendere l’avvio dall’art. 1102 c.c., dettato –
come abbiamo visto – in tema di comunione in genere, ma che la giurisprudenza ha ritenuto
applicabile anche alla materia condominiale (cfr., fra le altre, Cass. sent. n. 2117del 6.4.1982).
Tale disposizione prevede, in particolare, che “ciascun partecipe può servirsi della cosa comune,
purché non ne alteri la destinazione e non impedisca ad altri partecipanti di farne parimenti
uso”. L’esame di questi due divieti si pone, quindi, come condizione imprescindibile per i fini
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di cui trattasi e, in tal senso, si rivela assai utile quanto affermato sia dalla dottrina sia dalla
giurisprudenza in argomento.
• I limiti previsti dall’art. 1102 c.c.
1) Divieto di alterazione della destinazione
In ordine al primo dei due limiti posti dall’art. 1102 c.c., giudici ed interpreti si sono soffermati, in particolare, sui concetti di “alterazione” e “destinazione” cui la norma fa espresso
riferimento, arrivando alle conclusioni che di seguito brevemente illustriamo.
a) Concetto di alterazione
Secondo la giurisprudenza sussiste ‘“alterazione” dei beni comuni solo allorché le modificazioni apportate a tali beni rendano impossibile o comunque pregiudichino apprezzabilmente
la loro funzione originaria, e non già quando l’utilità tratta dal singolo condomino si aggiunga
a quella originaria, cioè quando il godimento del singolo condomino, pur potenziato e reso
più comodo, lasci immutata la consistenza e la destinazione originaria (in tal senso, cfr., fra le
altre, Cass. sent. 11936 del 23.10.1999).
Sul punto la dottrina ha anche sottolineato come non sia indispensabile che la cosa sia
attualmente in funzione, in relazione alla sua destinazione, qualora persista la possibilità di
ripristinarne l’originaria funzionalità. In questa ipotesi, infatti, il mutamento di destinazione
lederebbe la facoltà, spettante agli altri condòmini, di ritrarre dalla cosa l’utilità pratica per la
quale essa fu creata e che la stessa, se debitamente restaurata, sarebbe ancora in grado di fornire
(cfr. AA. VV., Trattato del condominio, ed. Cedam, 2008, 184).
b) Concetto di destinazione
Secondo i giudici la “destinazione” che ciascun partecipe non può alterare deve essere determinata attraverso elementi economici, giuridici e di fatto (Cass. sent. n. 4397 del 22.11.1976).
In argomento la dottrina ha tenuto a precisare come non possa ragionarsi in astratto della
destinazione della cosa, per sindacarne l’uso fattone dai condòmini, occorrendo, invece, vedere
quale destinazione, in concreto, i condòmini le abbiano riconosciuta ed impressa. In particolare è stato osservato come questi, d’accordo tra di loro, possano sempre validamente imprimere alle parti comuni una destinazione specifica, anche non conforme alla normale funzione
economico-sociale della cosa, e come ogni condomino, allorché ciò accada, abbia diritto di fare
uso della cosa comune in conformità ad essa (cfr. AA. VV., Trattato del condominio, ed. Cedam,
2008, 183).
2) Divieto di impedire l’altrui pari uso
L’altro limite posto dall’art. 1102 c.c. al singolo condomino è – come detto – costituito dal
divieto di impedire agli altri comproprietari di fare parimenti uso della cosa comune.
Al riguardo occorre precisare come il termine “impedire” possa intendersi in senso lato (nel
senso di diminuire o limitare), ovvero stretto (secondo il significato letterale, nel senso di proibire o rendere impossibile).
Dall’accoglimento dell’una o dell’altra interpretazione derivano importanti conseguenze sul
piano pratico. La prima porta ad una notevole restrizione dei poteri del singolo condomino, vietando l’uso o il godimento che semplicemente limita il godimento altrui. La seconda permette,
invece, di aumentare i poteri del singolo, proibendo soltanto il godimento che rende impossibile
il pari uso degli altri partecipanti (cfr. R. Triola, Il condominio, Giuffré editore, 2007, 138).
La giurisprudenza ha mostrato da tempo di preferire questa seconda interpretazione.
Secondo la Cassazione, infatti, “la nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l’art. 1102 c.c. non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritener-
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si conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa
comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli
altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà il quale richiede un
costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione” (sent.
n. 1499 del 12.2.1998). Sicché – ha precisato ancora la Suprema Corte in una sentenza successiva – per applicare la regola stabilita dall’art. 1102 c.c., occorre accertare (in base all’esame
della destinazione attuale della cosa comune, nonché delle ragionevoli prospettive offerte dalla
sua oggettiva struttura e destinazione rispetto alle proprietà individuali e tenendo conto delle
aspettative, desumibili dall’uso che ciascun condomino faccia della cosa stessa e della sua proprietà, o dei probabili mutamenti) se siano prevedibili modificazioni della cosa comune uguali
o analoghe da parte degli altri condòmini e se queste sarebbero pregiudicate dalle modifiche
attuate o in via di attuazione (in tal senso, sent. n. 11268 del 9.11.1998).
Gli stessi concetti sono stati ribaditi dalla Cassazione anche in altre occasioni (sent. n. 8808
del 30.2.2003 e sent. n. 4617 del 27.2.2007). Così come, sulla scorta dei principii sopra esposti,
la Cassazione ha ribadito più volte il concetto secondo cui l’uso della cosa comune da parte
del singolo condomino prescinde dal valore della sua quota di proprietà (in tal senso, sent. n.
26226 del 7.12.2006).
• I limiti previsti dall’art. 1120 c.c.
Chiarita la portata dei due divieti previsti dall’art. 1102 c.c. (i quali, peraltro, non debbono
necessariamente coesistere: cfr., fra le altre, Cass. sent. n. 7752 del 15.7.1995), va pure precisato,
però, che l’uso della cosa comune da parte del singolo condomino trova un ulteriore limite,
oltre che nella (ovvia e) fondamentale esigenza di non pregiudicare i diritti degli altri comproprietari su beni di loro esclusivo godimento (si pensi, ad esempio, alla installazione di un
manufatto che tolga aria o luce ad un appartamento o ne comprometta la veduta), anche nel
disposto dell’art. 1120 c.c., il quale al quarto comma (prima della riforma, invece, il comma
di interesse era il secondo) vieta gli interventi che possano “recare pregiudizio alla stabilità o
alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti
comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino”.
Rinviando per un’analisi di questi divieti al capitolo VIII (“Le innovazioni, la sopraelevazione e la ricostruzione dell’edificio”), interessa in questa sede segnalare, comunque, l’indicativa sentenza della Cassazione n. 10592 dell’11.10.1995, che così testualmente recita: “Perché il
condomino possa, nell’esercizio del diritto di comproprietà, apportare modifiche dirette a una
migliore e più conveniente utilizzazione della cosa comune è necessario che non si verifichino
alterazioni della consistenza e della destinazione della cosa stessa, che manchi ogni pregiudizio
del diritto di uso e godimento da parte degli altri condòmini e, per quanto attiene, in particolare, agli edifici in condominio, che non derivi compromissione della sicurezza e della stabilità
del fabbricato e non si alteri il decoro architettonico dello stesso”.
• I limiti previsti dal regolamento di condominio
Appurato che l’utilizzazione da parte del singolo condomino delle cose comuni deve ritenersi legittima, e quindi evidentemente non può essere ostacolata dagli altri condòmini, se
rispetta le condizioni che abbiamo indicato, rimane da interrogarsi sull’efficacia di eventuali
clausole contenute in un regolamento di condominio che prevedano limiti più restrittivi di
quelli finora esaminati.
Sul punto, tuttavia, per la giurisprudenza non ci sono dubbi: clausole del genere sono valide, ma solo se hanno “carattere convenzionale”, vale a dire che, “se costituite dall’esterno, cioè
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precostituite dal costruttore o dall’originario unico proprietario dell’intero edificio”, siano “accettate dai condòmini nei contratti di acquisto o con separati atti esprimenti la loro volontà
di accettare; se predisposte dall’interno, cioè deliberate dall’assemblea dei condòmini”, siano
“approvate all’unanimità” (cfr., fra le altre, Cass. sent. n. 1091 del 10.4.1968 e, più di recente,
Cass. sent. n. 26468 del 14.12.2007).
È chiaro, quindi, che se le disposizioni regolamentari che limitano i diritti dei singoli condòmini sulla cosa comune avessero, nel caso concreto, questo genere di carattere, al condomino
che intendesse fare un uso particolare del bene condominiale non resterebbe altra scelta che
adeguarsi. Pena: la riduzione in pristino e l’eventuale risarcimento del danno.
• Considerazioni conclusive
Alla luce dei principii che precedono, sono allora da considerarsi senz’altro illegittimi tutta
una serie di comportamenti posti in essere da un singolo condomino, dai quali possa conseguire un mutamento di destinazione d’uso o, comunque, un’occupazione stabile degli spazi
comuni (trasformazione del tetto condominiale in terrazza ad uso esclusivo, apposizione di un
cancelletto all’ingresso di un’area condominiale, accorpamento del pianerottolo ecc.).
Verso questi comportamenti – così come nei confronti di quegli interventi vietati, ai sensi
dell’art. 1120, quarto comma, c.c., perché pregiudizievoli per la stabilità, la sicurezza, il decoro
architettonico dell’edificio o per l’altrui uso delle parti comuni – è importante aver presente
che il combinato disposto degli artt. 1130, n. 4, e 1131, primo comma, c.c. attribuisce all’amministratore il potere-dovere di intervenire, anche promuovendo un apposito giudizio. E ciò,
secondo la giurisprudenza (Cass. sent. n. 6494 del 6.11.1986), senza necessità di specifica autorizzazione assembleare (opportuna, tuttavia, ove manchi l’urgenza). 2.3. Tutela delle destinazioni d’uso delle parti comuni (art. 1117 quater c.c.)
e installazione di impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di
produzione di energia da fonti rinnovabili (art. 1122 bis c.c.).
Il tema dell’uso dei beni comuni da parte dei singoli condòmini non potrebbe dirsi esaurito se non ci soffermassimo, brevemente, su due norme introdotte dalla legge di riforma. Si
tratta degli artt. 1117-quater c.c. e 1122-bis c.c. La prima disposizione tratta della tutela delle
destinazioni d’uso delle parti comuni. La seconda degli impianti non centralizzati di ricezione
radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili.
• Tutela delle destinazioni d’uso delle parti comuni (art. 1117-quater c.c.)
L’art. 1117-quater c.c. dispone che, in caso di attività che incidano “negativamente e in modo
sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni”, l’amministratore o i condòmini, anche
singolarmente, possano diffidare l’esecutore e chiedere la convocazione dell’assemblea per far
cessare la violazione, pure mediante azioni giudiziarie. L’assemblea delibererà in merito alla
cessazione di tali attività con la maggioranza di cui all’art. 1136, secondo comma, c.c. Vale a
dire con un quorum deliberativo, in prima e seconda convocazione, costituito da un numero di
voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio
(fermo restando il quorum costitutivo formato – ai sensi dell’art. 1136, primo e terzo comma,
c.c. – da tanti condòmini che rappresentino: in prima convocazione, la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell’edificio; in seconda convocazione, un terzo
dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio).
In argomento c’è solo da precisare che la norma nulla aggiunge a ciò che già prima della
riforma si riteneva nella possibilità così dei condòmini come dell’amministratore. In dottrina è
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stato, anzi, sottolineato come sia difficilmente comprensibile la suddetta previsione dell’obbligo
per l’amministratore (a seguito di richiesta di un solo condomino, in deroga al disposto dell’art.
66, primo comma, disp. att. c.c.) di convocare un’assemblea che deliberi sulle azioni giudiziarie
da intraprendere a tutela della destinazione delle parti comuni quando chi amministra sarebbe
comunque legittimato ad esperire tali azioni in base al combinato disposto degli artt. 1130,
primo comma, n. 4, e 1131, primo comma, c.c. (vertendosi in tema di atti conservativi a tutela
dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio). Per giustificare la previsione in questione si è
arrivati così ad ipotizzare che questa sia stata dettata dall’“evanescenza” della nozione di attività che incidono “negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso”; il che avrebbe
portato il legislatore a ritenere opportuno il coinvolgimento dell’assemblea condominiale (cfr.
R. Triola, Il nuovo condominio, Giappichelli editore, 2013, 154).
• Impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili (art. 1122-bis c.c.)
L’art. 1122-bis c.c. reca – come dicevamo – disposizioni su impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili.
In particolare, il primo comma prevede che le installazioni di impianti non centralizzati per
la ricezione radiotelevisiva (e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche
da satellite o via cavo), e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione per le singole utenze
siano realizzati in modo da recare il minor pregiudizio alle parti comuni e alle unità immobiliari
di proprietà individuale, preservando in ogni caso il decoro architettonico dell’edificio.
Il secondo comma dispone che “è consentita l’installazione di impianti per la produzione
di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico
solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell’interessato”.
Il terzo comma stabilisce che, “qualora si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni”, l’interessato ne dia “comunicazione all’amministratore indicando il contenuto specifico
e le modalità di esecuzione degli interventi”; inoltre, che l’assemblea possa “prescrivere, con la
maggioranza di cui al quinto comma dell’art. 1136 c.c., adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell’edificio”, nonché “subordinare l’esecuzione alla prestazione, da parte dell’interessato, di
idonea garanzia per i danni eventuali"; infine, che sempre l’assemblea, ai fini dell’installazione
degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, provveda, “a richiesta degli
interessati, a ripartire l’uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le
diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto”.
Il quarto comma prescrive, da ultimo, che l’accesso alle unità immobiliari di proprietà individuale debba “essere consentito ove necessario per la progettazione e per l’esecuzione delle
opere”, aggiungendo che “non sono soggetti ad autorizzazione gli impianti destinati alle singole
unità abitative”.
La norma non richiede particolari illustrazioni, al di là della necessaria sottolineatura
dell’importanza di quanto stabilito – ove l’installazione degli apparati in questione interessi
parti comuni, potendo la stessa in difetto avvenire senza interpello dell’assemblea (cfr. C. Sforza
Fogliani, Codice del nuovo condominio dopo la riforma, ed. La Tribuna, III edizione, 2015, 107)
– al terzo comma, e cioè che “qualora si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni”, l’organo assembleare è chiamato ad attivarsi nel senso indicato nella stessa disposizione.
Allo scopo occorrerà un quorum deliberativo, in prima e seconda convocazione, costituito da
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PARTE PRIMA: DIDATTICA
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un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del
valore dell’edificio (fermo restando i già indicati quorum costitutivi di cui all’art. 1136, primo
e terzo comma, c.c.). Ove non si raggiunga il quorum previsto, si ritiene che l’interessato possa
comunque procedere all’esecuzione dell’intervento, nel rispetto ovviamente dei limiti – più sopra ampiamente illustrati – stabiliti per l’uso dei beni comuni da parte del singolo condomino. 2.4. Adeguamento degli impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva (art. 155 bis disp. trans. c.c.).
Per completezza occorre segnalare che strettamente collegata all’art. 1122-bis c.c. è la previsione dell’art. 155-bis delle disposizioni transitorie al codice civile; norma che il legislatore
della riforma ha introdotto ad integrazione delle norme transitorie del codice civile. Essa così
testualmente recita: “L’assemblea, ai fini dell’adeguamento degli impianti non centralizzati di
cui all’articolo 1122-bis c.c., primo comma, del codice, già esistenti alla data di entrata in vigore del predetto articolo, adotta le necessarie prescrizioni con le maggioranze di cui all’articolo
1136, commi primo, secondo e terzo, del codice” civile.
È evidente che il primo aspetto da chiarire per interpretare la disposizione in questione è
il riferimento al citato art. 1122-bis c.c.– entrato in vigore il 18.6.2013, come anzidetto – e, in
particolare, al suo primo comma, il quale – come pure anzidetto – stabilisce che “le installazioni
di impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro
genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto
di diramazione per le singole utenze” debbano essere realizzati “in modo da recare il minor pregiudizio alle parti comuni e alle unità immobiliari di proprietà individuale, preservando in ogni
caso il decoro architettonico dell’edificio, salvo quanto previsto in materia di reti pubbliche”.
Gli impianti cui fa riferimento l’art. 155-bis sono, dunque, quelli non centralizzati “per la
ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo”. Impianti che, se di nuova installazione, trovano la loro disciplina nell’art. 1122-bis; mentre, se già
esistenti, sono regolati, ai fini del loro adeguamento, dal predetto art. 155-bis.
Tuttavia – come correttamente osservato in dottrina – è da ritenersi che il richiamo al primo
comma del più volte citato art. 1122-bis c.c. sia stato operato non solo allo scopo di individuare il tipo di impianti interessati dalla disposizione, ma anche per richiamare le condizioni
(indicate, come abbiamo visto, nel medesimo primo comma) che le installazioni in parola debbono rispettare in tema di pregiudizio alle parti comuni e alle unità immobiliari di proprietà
esclusiva, oltre che di lesione del decoro architettonico (cfr. C. Sforza Fogliani, Codice del nuovo
condominio dopo la riforma, ed. La Tribuna, III edizione, 2015, 226).
Discende da quanto precede, allora, l’ulteriore considerazione che bisogna tener conto, per
una corretta lettura dell’art. 155-bis, anche di ciò che prevede l’art. 1122-bis al fine di prevenire
eventuali pregiudizi ai beni condominiali. La materia è trattata al terzo comma di tale disposizione, dove si stabilisce – ricordiamo – che qualora l’installazione degli impianti in questione
renda “necessarie modificazioni alle parti comuni”, l’assemblea possa, da un lato, “prescrivere,
con la maggioranza di cui al quinto comma dell’articolo 1136, adeguate modalità alternative
di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell’edificio”; dall’altro, sempre “con la medesima maggioranza, subordinare l’esecuzione alla prestazione, da parte dell’interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali”.
Il richiamo alle “maggioranze di cui all’articolo 1136, commi primo, secondo e terzo, del
codice”, contenuto nell’art. 155-bis, può essere spiegato, quindi, nel senso che il legislatore ha
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BENI COMUNI E LORO USO
inteso fissare, per l’ipotesi in cui l’adeguamento degli impianti esistenti alla data di entrata in
vigore della riforma del condominio rechi “modificazioni alle parti comuni”, quorum più bassi
rispetto a quelli previsti dall’art. 1122-bis c.c. per le “modificazioni” causate dall’installazione
di nuovi impianti.
In altre parole, per l’adozione delle “necessarie prescrizioni” in relazione agli impianti in
essere alla suddetta data di entrata in vigore della riforma (prescrizioni, che, per quanto detto,
risultano essere appunto quelle di cui al terzo comma del più volte citato art. 1122-bis c.c.)
non sarà necessario il ricorso, sia in prima sia in seconda convocazione, ad un numero di voti
che rappresenti la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno i due terzi del valore
dell’edificio (art. 1136, quinto comma, c.c., fermi i quorum costitutivi di cui al primo e terzo
comma dello stesso art. 1136 c.c.). Saranno sufficienti, piuttosto, gli ordinari quorum costitutivi
e deliberativi previsti, in prima convocazione, dal primo e secondo comma dell’art. 1136 c.c.;
in seconda convocazione, dal terzo comma dello stesso art. 1136 c.c. Dunque (fermi sempre i
quorum costitutivi appena indicati) un quorum deliberativo costituito da un numero di voti che
rappresenti: in prima convocazione, la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno
la metà del valore dell’edificio; in seconda convocazione, la maggioranza degli intervenuti in
assemblea e almeno un terzo del valore dell’edificio.
Lo scopo di tutto questo è rinvenibile – presumibilmente – nel fatto che il legislatore ha
ritenuto gli interventi di adeguamento di impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva esistenti al 18.6.2013 operazioni molto più frequenti rispetto alle nuove installazioni. Ha
dunque considerato che tali interventi necessitassero di un più agile e facile controllo da parte
dell’organo assembleare, che per questo, come detto, ha la possibilità di assumere le determinazioni del caso con maggioranze inferiori rispetto a quelle prescritte dall’art. 1122-bis c.c. in
relazione alle nuove installazioni che rechino modificazioni alle parti comuni. TJ_705_ManualeCorsiFormazioneInizialeAmministratoriCondominio_2015_1.indb 33
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