Università degli Studi di Cagliari
Facoltà di Ingegneria e Architettura
Laurea in Ingegneria Elettrica, Elettronica ed Informatica – anno accademico 2016/2017
INTRODUZIONE ALLA FISICA MODERNA
Luciano Colombo
Dipartimento di Fisica - Università degli Studi di Cagliari
Cittadella Universitaria, 09042 Monserrato (Ca)
Email: [email protected]
Website: people.unica.it/lucianocolombo
La riproduzione, anche parziale, di questa dispensa in qualsivoglia formato cartaceo, elettronico o multimediale è severamente vietata.
Eventuali richieste di autorizzazione all’uso di questa Dispensa vanno indirizzate direttamente all’Autore,
scrivendo al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected]
Presentazione
Questa dispensa descrive a grandi linee e in forma semplificata il quadro fenomenologico che ha portato
allo sviluppo della Meccanica Quantistica. In aggiunta a quanto brevemente discusso a lezione, si introducono numerosi problemi di fisica atomica e, tramite la discussione di alcuni esperimenti di paradigmatica
importanza, si mette in luce quel complesso di problemi che è stato spesso chiamato “la crisi della fisica
classica”.
È doveroso sottolineare che questa dispensa non rappresenta un trattato di meccanica quantistica o
di fisica atomica; piuttosto, essa è da intendere come un semplice ausilio didattico offerto allo Studente
come guida per approfondimenti personali. Lo stile di scrittura è molto conciso e le dimostrazioni sono
spesso solo schematicamente illustrate, lasciando alla cura dello Studente la ricostruzione dettagliata di
tutti i passaggi.
Una trattazione più completa degli argomenti discussi in questa dispensa (con rimandi, esempi ed
esercizi svolti in dettaglio) è riportata nei seguenti testi:
1. M. Alonso, E. J. Finn, Fundamental University Physics vol.III (Addison-Wesley Publishing Co.,
1968)
2. R. Eisberg, R. Resnick, Quantum physics of atoms, molecules, solids, nuclei, and particles (John
Wiley & Sons, 1974)
3. W. Demtröder, Atoms, Molecules, and Photons (Springer, 2006)
4. P. A. Cox, Introduction to Quantum Theory and Atomic Structure, (Oxford Science Publications,
2011)
2
Indice
Costanti fisiche
4
1 La crisi della fisica classica
1.1 Il calore specifico dei gas e dei solidi . . . . . . . . .
1.1.1 Teoria cinetica dei gas . . . . . . . . . . . . .
1.1.2 Energia interna di un gas monoatomico ideale
ed equipartizione dell’energia . . . . . . . . .
1.1.3 Calori specifici di gas mono– e bi–atomici . .
1.1.4 Calori specifici dei solidi . . . . . . . . . . . .
1.2 Lo spettro del corpo nero . . . . . . . . . . . . . . .
1.2.1 Gli esperimenti e la teoria classica . . . . . .
1.2.2 La teoria quantistica di Planck . . . . . . . .
1.3 L’effetto fotoelettrico . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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10
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20
2 Sviluppo fenomenologico della fisica quantistica
2.1 Spettri atomici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.2 Il modello di Bohr per l’atomo di idrogeno . . . . . .
2.3 Estensioni del modello di Bohr . . . . . . . . . . . .
2.4 L’ipotesi di de Broglie e il dualismo onda–corpuscolo
2.5 Il principio di indeterminazione di Heisenberg . . . .
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24
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31
31
34
3 Elementi di meccanica quantistica
3.1 I postulati fondamentali . . . . . .
3.2 Alcune semplici applicazioni . . . .
3.2.1 La particella libera . . . . .
3.2.2 La particella confinata . . .
3.2.3 L’oscillatore armonico . . .
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43
4 Fisica atomica
4.1 L’atomo di idrogeno . . . . . . . . . . . . . . .
4.1.1 Gli autovalori dell’energia . . . . . . . .
4.1.2 La parte radiale della funzione d’onda .
4.1.3 La parte angolare della funzione d’onda
4.1.4 Gli orbitali atomici . . . . . . . . . . . .
4.2 Effetto Zeeman . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.3 Lo spin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.4 Atomi a più elettroni. Il principio di Pauli . . .
4.5 La tabella periodica degli elementi . . . . . . .
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Costanti fisiche
Simbolo
Grandezza
Valore
R
NA
KB
KB T
me
mp
e
e/m
h
~
c
σ
R
µB
costante universale dei gas
numero di Avogadro
costante di Boltzmann
a temperatura T=293K
massa elettrone
massa protone
carica elettrone
rapporto carica/massa elettrone
costante di Planck
h/2π
velocità della luce nel vuoto
costante di Stefan
costante di Rydberg
magnetone di Bohr
8.314 J K−1
6.022×1023
1.3807×10−23 J K−1
4.05×10−21 J
9.11×10−31 Kg
1.67×10−27 Kg
1.60×10−19 C
1.76×1011 C Kg−1
6.62×10−34 J s
1.05×10−34 J s
3.00×108 m s−1
5.67×10−8 W m−2 K−4
109677 cm−1
9.27×10−24 J T−1
4
Capitolo 1
La crisi della fisica classica
Verso la fine del XIX secolo la fisica aveva raggiunto un soddisfacente livello di sviluppo teorico e sperimentale. Essa permetteva di rendere conto di praticamente tutti i fenomeni naturali allora conosciuti. La
meccanica era stata completamente compresa e nella sua formulazione lagrangiana e hamiltoniana aveva
raggiunto un assoluto livello di rigore matematico. La derivazione delle quattro equazioni di Maxwell
aveva, invece, riconciliato in un’unica teoria di campo elettromagnetico la vastissima fenomenologia di
effetti elettrici e magnetici scoperta e investigata negli ultimi cento anni. Parallelamente, l’ottica (sia
geometrica che fisica) aveva spiegato tutti i principali fenomeni ondulatori (sia di tipo luminoso che non).
Infine, la termodinamica aveva permesso di capire in profondità le leggi che governano la generazione, lo
scambio e la trasformazione di energia nella forma di calore. Cosa importantissima, le conoscenze teoriche avevano una vivace controparte sperimentale che aveva favorito, a sua volta, un impetuoso sviluppo
tecnologico.
Questo quadro confortante era destinato a essere sconvolto nel giro di pochissimi anni nella transizione
tra i secoli XIX e XX. Stava, infatti, per offrirsi all’attenzione dei fisici una ricca serie di nuovi fenomeni
che sfuggivano ad ogni tentativo di interpretazione basato sulla meccanica, elettromagnetismo, ottica o
termodinamica classica. In un modo o nell’altro, essi risultarono tutti riconducibili alle proprietà fisiche
del mondo microscopico.
La risposta che la comunità internazionale dei fisici diede a questa sfida rappresentò probabilmente
il momento di più grande fertilità intellettuale di questa disciplina scientifica. Essa, infatti, condusse
alla elaborazione della meccanica quantistica ed alla sua applicazione sistematica ai nuovi fenomeni. La
meccanica quantistica rappresenta il modo più completo, sofisticato e quantitativo sin qui elaborato per
spiegare in modo predittivo i fenomeni naturali su scala microscopica. Questa rivoluzione rappresenta, inoltre, un esempio estremamente significativo di come il metodo scientifico è capace di superare e
trasformare i propri postulati di base.
In questo capitolo verranno presentate e discusse diverse fenomenologie microscopiche che risultano
non spiegabili in base alla fisica classica. Verrà, quindi, introdotto il rivoluzionario concetto di quanto di
energia che sta alla base degli sviluppi teorici dei prossimi capitoli.
1.1
1.1.1
Il calore specifico dei gas e dei solidi
Teoria cinetica dei gas
La teoria cinetica dei gas si prefigge di calcolare le proprietà macroscopiche dei gas in base all’ipotesi che
essi siano formati da costituenti elementari quali atomi o molecole. L’idea chiave alla base della teoria
consiste nella rinuncia a calcolare esplicitamente in modo esatto le proprietà di particella singola (obiettivo praticamente irrealizzabile, visto che una mole di sostanza contiene dell’ordine di 1023 atomi), ma
piuttosto di ragionare in termini di grandezze medie, ovvero di grandezze valutate come media sull’intera
popolazione di atomi costituenti il gas.
Per semplicità noi svilupperemo la teoria cinetica nel caso di un gas monoatomico ideale. In altre
parole, assumeremo che: (i) il sistema sia costituito da una sola specie chimica in forma atomica; (ii) siano
trascurabili le interazioni atomo–atomo. Ognuno di essi, dunque, si muoverà liberamente (cioè, in base
alle leggi della meccanica classica, di moto rettilineo uniforme) fino a quando non urti occasionalmente
con un altro atomo, o con una delle pareti del recipiente contenente il gas. In quest’occasione, l’atomo
6
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
7
Figura 1.1: Rappresentazione schematica del moto casuale di un atomo secondo la teoria cinetica dei gas.
subirà un urto che, sempre per semplicità, considereremo perfettamente elastico. Ne risulta, dunque, un
moto casuale a zig–zag come quello schematicamente rappresentato nella figura 1.1.
Descrivere, come sopra suggerito, in media le proprietà di questo moto, equivale a sostituire il concetto
di traiettoria esatta di ogni singola particella con quello di libero cammino medio λ. Supponiamo che gli
atomi siano sfere di raggio d: due di essi si urteranno quando la loro distanza sarà pari a 2d. Possiamo,
quindi, descrivere il moto del generico atomo del gas come quello di una particella di dimensioni 2d che
si muove, con velocità media pari a v̄, contro un insieme di particelle fisse e puntuali. Il numero di urti
sperimentato nell’unità di tempo risulta pari a 4πd2 v̄n, dove n è il numero di atomi per unità di volume
(densità di particelle). Abbiamo, cioè contato il numero di particelle contenute, nell’unità di tempo, in
un cilindro di raggio 2d e altezza v̄. Secondo una definizione proposta originalmente da Maxwell, il libero
cammino medio λ della particella è pari a
λ=
spazio percorso nel tempo unitario
v̄
1
=
=
2
numero urti nel tempo unitario
4πd v̄n
4πd2 n
(1.1)
Questa espressione, che quantifica in media il moto di una particella di un gas, è in accordo con il senso
comune: più denso è il materiale (maggiore è la sua densità n), minore è il libero cammino medio delle
sue particelle costituenti. Ugualmente: maggiore è la dimensione atomica d, minore risulta λ. In tabella
(1.1) riportiamo il valore delle grandezze cinetiche tipiche per alcuni gas.
Consideriamo, dunque, un’assemblea di N atomi contenuta entro un recipiente cubico di lato l disposto, rispetto agli assi cartesiani, come indicato in figura 1.2. Sia v il vettore che rappresenta la velocità di
un certo atomo, di componenti vx , vy e vz . Quando esso urta contro la parete posta a x = l subirà, come
detto, un urto elastico che non altera le componenti y e z della velocità, mentre fa variare la componente
x dal valore iniziale vx al valore finale −vx . In altre parole, l’atomo varia la sua quantità di moto (o
momento lineare) di un valore pari a 2mvx , essendo m la sua massa.
Tabella 1.1: Libero cammino medio λ, dimensioni lineari d e velocità per alcuni gas molecolari. I dati si
riferiscono alla temperatura T = 293 K e alla pressione di una atmosfera
Gas
aria
O2
N2
H2
λ (cm)
6.08 × 10−6
6.47 × 10−6
5.99 × 10−6
1.12 × 10−5
d (cm)
1.80 × 10−8
1.87 × 10−8
1.38 × 10−8
√
v̄ 2 (cm/s)
4.60 × 104
4.90 × 104
1.85 × 105
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
8
Figura 1.2: Cinematica del singolo urto elastico atomo–parete.
Tra questo urto e il successivo - contro questa stessa parete - deve passare, in media, un tempo pari a
2l/vx (questo, infatti, è il tempo necessario per attraversare l’intero recipente da x = l a x = 0 e tornare
indietro da x = 0 a x = l).
Durante un certo intervallo di tempo ∆t si osserveranno dunque un numero di urti contro la parete
pari a ∆t/(2l/vx ) in modo tale che la corrispondente variazione di quantità di moto risulta pari a
variaz.tot.quant.moto = (num.tot.urti) × (variaz.quant.moto per urto)
(1.2)
ovvero:
mvx2
∆t × (2mvx ) =
∆t
(1.3)
2l
l
Secondo la meccanica classica, possiamo uguagliare tale variazione di quantità di moto all’impulso che la
particella ha esercitato in quell’intervallo di tempo sulla parete1 e scrivere
variaz.tot.quant.moto =
v
fx ∆t =
x
mvx2
∆t
l
(1.4)
da cui ricaviamo il valore medio della forza fx esercitata dall’atomo sulla parete:
fx =
mvx2
l
(1.5)
Questo ragionamento può essere esteso alle altre due componenti cartesiane (ovvero agli urti contro
le pareti y = l e z = l) e a tutte le altre particelle costituenti il gas, in modo che la forza totale media F
esercitata sulle pareti sarà:
PN 2
Fx = ml
vx,i
Pi=1
N
m
2
Fy = l
i=1 vy,i
P
N
2
Fz = ml
(1.6)
i=1 vz,i
Se il gas è all’equilibrio non ci sono differenze macroscopiche tra le tre componenti cartesiane della forza
totale media e, quindi, possiamo calcolare la pressione P su una qualunque delle facce del recipiente
cubico:
Fx
Fy
Fz
P = 2 = 2 = 2
(1.7)
l
l
l
1 Ricordiamo
che l’impulso di una forza F che agisce per un tempo ∆t è semplicemente il prodotto F∆t.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
9
Possiamo, inoltre, scrivere che in media:
2
2
2
vx,i
= vy,i
= vz,i
=
1 2
v̄
3
(1.8)
per ogni particella i del gas, dove abbiamo introdotto la grandezza velocità quadratica media (v. tabella
(1.1))
N
1 X 2
v
(1.9)
v̄ 2 =
N i=1 i
2
2
2
dove vi2 = vx,i
+vy,i
+vz,i
rappresenta il modulo quadro della velocità della i–esima particella. Finalmente,
combinando le espressioni appena derivate, possiamo scrivere che la pressione vale
P =
1 m 2
N v̄
3 l3
(1.10)
ovvero
1
N mv̄ 2
3
dove abbiamo fatto uso del fatto che per il recipiente considerato V = l3 .
PV =
1.1.2
(1.11)
Energia interna di un gas monoatomico ideale
ed equipartizione dell’energia
Consideriamo ora una mole di gas in modo che N = NA = 6.022 × 1023 sia il numero di Avogadro e,
quindi, il prodotto M = NA m rappresenti la massa di una mole. Ricordando l’equazione di stato dei
gas perfetti P V = RT (ricordiamo che la costante universale dei gas R vale R = 8.314 J/K) possiamo
scrivere
1
P V = M v̄ 2 = RT
(1.12)
3
dove T è la temperatura del gas. Ne segue immediatamente una relazione di fondamenale importanza:
r
3RT
v̄ =
(1.13)
M
Essa sancisce, a meno di costanti, l’equivalenza tra la grandezza fisica macroscopica temperatura (quella
grandezza legata alla esperienza fisiologica del “caldo” e “freddo”) e una grandezza fisica che descrive
una proprietà microscopica dei costituenti elementari della materia: la velocità quadratica media degli
atomi. Abbiamo, quindi, attribuito un chiaro significato fisico al concetto empirico di caldo e freddo: più
veloce è il moto di agitazione termica a livello atomico, maggiore è la temperatura del corpo. In modo
più quantitativo, possiamo legare l’energia cinetica media degli atomi alla temperatura:
1
3 R
3
mv̄ 2 =
T = KB T
2
2 NA
2
(1.14)
avendo introdotto la costante di Boltzmann
KB =
R
= 1.3807 × 10−23 J/K
NA
(1.15)
Osserviamo che questa relazione è valida all’equilibrio termodinamico quando, cioè, sia possibile definire
la temperatura di un sistema. Per esempio, se consideriamo un gas formato da idrogeno o da ossigeno
√
alla temperatura di 273 Kelvin (cioè allo zero gradi Celsius) otteniamo dei valori di velocità medie v̄ 2
pari a 1840 ms−1 e 460 ms−1 , rispettivamente.
Torniamo a considerare la generica particella del gas libera di muoversi nello spazio. Possiamo affermare che essa possiede tre gradi di libertà. La particella, infatti, ha una componente di moto per ciascuno
dei tre assi cartesiani. In modo alternativo, si può dire che una siffatta particella ha tre gradi di libertà
perchè ci vogliono tre coordinate cartesiane per definire in modo univoco la sua posizione nello spazio. La
equazione (1.14) stabilisce un risultato importantissimo: dato un gas monoatomico ideale all’equilibrio
termodinamico a temperatura T , a ogni sua particella compete, in media, una energia pari a 12 KB T per
ogni grado di libertà. Questo risultato costituisce il principio di equipartizione dell’energia, cosı̀ come
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
10
Figura 1.3: Legge di distribuzione delle velocità molecolari per un gas di ossigeno a T = 80 K e T = 800
K.
formulato da Maxwell e Boltzmann. In base a questo principio, è immediato scrivere l’espressione per
l’energia interna U di una mole di gas monoatomico ideale2 :
U=
3
RT
2
(1.16)
Sulla base di questi risultati, è possibile sviluppare un calcolo che permetta di ricavare la legge di
distribuzione delle velocità molecolari di una gas all’equilibrio termico. Con questo intendiamo una legge
capace di prevedere il numero Nv di particelle di un dato gas (all’equilibrio termico alla temperatura T )
che possiedono velocità compresa, in modulo, tra v e v+dv. Per brevità noi ricorderemo solo il risultato
finale che è dovuto a Maxwell:
32
m
mv 2
2
Nv = 4πN
(1.17)
v exp −
2πKB T
2KB T
dove N è il numero totale di particelle formanti il gas. È importante ricordare che questa legge, riportata
in forma grafica nella figura 1.3, è stata verificata sperimentalmente in modo molto accurato. Questo
risultato costituisce una delle più convincenti prove di validità della teoria cinetica dei gas.
1.1.3
Calori specifici di gas mono– e bi–atomici
Ricordiamo che, secondo la termodinamica classica, il calore specifico di una certa sostanza a temperatura
T rappresenta il calore che è necessario somministrare a una massa unitaria di quella sostanza per
aumentare la sua temperatura di un grado Kelvin. Quando questo processo è eseguito in condizioni
di volume costante, si parla di calore specifico a volume costante CV . La quantità di calore scambiata Q,
la variazione di temperatura ∆T e il calore specifico sono legati dalla semplice relazione:
Q = CV ∆T
(1.18)
La termodinamica, poi, ci insegna che il calore scambiato Q tra un sistema e l’ambiente esterno, il
lavoro prodotto dal sistema W e la variazione della sua energia interna ∆U sono legati dalla relazione
Q = W + ∆U
(1.19)
2 L’energia interna, infatti, è solo di tipo cinetico, essendo il gas ideale caratterizzato dalla assoluta assenza di energie
potenziali di interazione atomo–atomo.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
11
Figura 1.4: Rappresentazione schematica del bilancio energetico tra calore, lavoro ed energia interna.
nota come primo principio della termodinamica. Esso, in sostanza, sancisce la conservazione dell’energia
per processi termodinamici e può essere postulato su base sperimentale. Il modo più semplice per illustrarlo consiste nel considerare un gas contenuto in un recipiente a pareti fisse, sormontato da un pistone
mobile, come illustrato nella figura 1.4. Somministrando del calore Q al gas, esso: (i) si scalda o, equivalentemente, aumenta la sua energia interna secondo la equazione (1.16); (ii) scaldandosi, si espande
muovendo verso l’alto il pistone compiendo lavoro meccanico W . Se il pistone viene mantenuto fisso,
non sarà più possibile compiere lavoro esterno e, in base al primo principio della termodinamica, tutto il
calore assorbito dal sistema andrà in aumento di energia interna.
Questo fenomeno può essere quantificato in base ai risultati della teoria cinetica dei gas. Per una mole
di un gas monoatomico ideale, infatti, si ha che:
Q = CV ∆T = ∆U =
3
R∆T
2
(1.20)
da cui risulta immediatamente che
CV =
3
R
2
gas monoatomico ideale
(1.21)
Questo risultato è in buon accordo con il dato sperimentale e la cosa va considerata come un ulteriore
lusinghiero successo della teoria cinetica dei gas, nonostante le drastiche approssimazioni che abbiamo
adottato per svilupparla analiticamente.
Proviamo ora a estendere i risultati fino a qui ottenuti al caso di un gas biatomico. In questo caso, i suoi
costituenti elementari sono molecole biatomiche formate da due atomi legati chimicamente. Cominciamo
col considerare queste molecole biatomiche come entità rigide. In altre parole, assumiamo che i due atomi
rimangano a una distanza fissa. Un tale oggetto può, ovviamente, traslare nello spazio. Possiederà, quindi,
3 gradi di libertà traslazionali. Inoltre, la molecola biatomica può ruotare attorno alle due direzioni
perpendicolari al suo asse molecolare, come illustrato nella figura 1.5.
Dovremo, cosı̀ aggiungere due gradi di libertà rotazionali, che portano ad un totale di 5 gradi di libertà
complessivi per molecola. In base al principio di equipartizione dell’energia, all’equilibrio termodinamico
a temperatura T ogni molecola possiederà in media una energia pari a 52 KB T e, quindi, il calore specifico
a volume costante risulterà essere
CV =
5
R
2
gas biatomico (molecole rigide)
(1.22)
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
12
Figura 1.5: Rappresentazione dei due gradi di libertà rotazionali di una molecola biatomica rigida.
Questa volta l’accordo con i dati sperimentali è insoddisfacente. I valori misurati di CV , infatti, approssimano quello teorico soltanto in un limitato intervallo di temperature. La situazione è illustrata nella
figura 1.6.
Appare evidente che la predizione teorica risulta questa volta inadeguata sia alle basse, che alle alte
temperature. In particolare si osserva che:
• alle basse temperature il gas biatomico sembra comportarsi come un gas monoatomico; in altre
parole, sembra che i gradi di libertà rotazionali siano stati “congelati” e che non debbano essere
inclusi nella applicazione del principio di equipartizione dell’energia;
• alle alte temperature il gas biatomico sembra acquisire due nuovi gradi di libertà che portano il
valore di CV a 72 R.
L’unico modo possibile per riconciliare teoria cinetica e dato sperimentale è ammettere che al progressivo
aumentare della temperatura, vengano “accesi” sempre più gradi di libertà. Alle basse temperature, la
molecola è animata solo da moto traslatorio; a temperature intermedie vengono innescati anche i modi di
rotazione; infine, alle alte temperature i due atomi non possono più essere considerati fissi, ma acquistano
ciascuno un grado di libertà vibrazionale lungo l’asse molecolare3 . In altre parole, cioè, la molecola non
può più essere vista come una unità rigida. Questa interpretazione trova solo una giustificazione euristica;
non vi è modo di spiegare, tuttavia, il perchè debba esistere una tale dipendenza dalla temperatura del
numero e tipo di gradi di libertà molecolari attivi. Questa difficoltà rappresenta il primo importante
fallimento della teoria cinetica dei gas.
1.1.4
Calori specifici dei solidi
Da un punto di vista strutturale, possiamo descrivere un solido come una distribuzione ordinata e periodica di atomi. L’insieme di posizioni nello spazio occupate dagli atomi viene chiamato reticolo cristallino. Per esempio, nella figura 1.7 vengono riportati tre diversi modi di realizzare strutture cristalline a
simmetria cubica.
La differenza fondamentale tra un solido e un gas è che, mentre in quest’ultimo gli atomi (o molecole)
sono liberi di muoversi nello spazio, in un solido (per temperature inferiori a quella di fusione) gli atomi
sono vincolati ai siti reticolari. Essi, al più, possono oscillare attorno alla loro posizione di equilibrio, con
ampiezza variabile in funzione della temperatura. Affinchè, tuttavia, un atomo possa essere confinato
in prossimità di un sito anche a temperatura finita, è necessario che su di esso agisca un potenziale
3 Questo modo di giustificare i due nuovi gradi di libertà vibrazionali non è rigoroso, come verrà discusso più avanti a
proposito del calore specifico dei solidi. Tuttavia esso rappresenta un semplice e efficace modo per visualizzare il fenomeno
dell’ “accensione” dei moti di vibrazione molecolare.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
13
Figura 1.6: Andamento del calore specifico CV a volume costante per il gas biatomico H2 in funzione
della temperatura, riportata in ascissa in scala logaritmica.
“confinante”, ovvero che esista una forza di richiamo che impedisca all’atomo il definitivo allontanamento.
È chiaro, dunque, che nel caso di un solido non potremo applicare banalmente la teoria cinetica del gas
ideale dove, invece, si erano escluse a priori azioni di forza su/tra gli atomi.
Per poter procedere, abbiamo bisogno di specificare la natura del potenziale “confinante” che ciascun
atomo di un solido sperimenta. Un ottimo modello approssimato (che risulta efficace nel descrivere
moltissime proprietà della materia allo stato solido) consiste nell’assumere che ogni atomo oscilli sul
fondo di una buca di potenziale di tipo armonico. In altre parole, possiamo assumere che ogni atomo sia
vincolato alla propria posizione di equilibrio da un potenziale elastico di tipo armonico. Ciò equivale a
ammettere l’esistenza di una forza di richiamo del tipo F = −kr, dove r rappresenta il vettore spostamento
dal sito reticolare e k la costante elastica della “molla efficace” di richiamo all’equilibrio. Poichè ciascun
atomo può oscillare nelle tre dimensioni, possiamo facilmente scrivere la sua energia totale ET :
ET
= 12 mvx2 + 21 mvy2 + 12 mvz2 +
1
1
1
2
2
2
2 kx + 2 ky + 2 kz
(1.23)
avendo, per semplicità, assunto che la costante di forza k sia la stessa nelle tre direzioni e che il vettore
spostamento r abbia componenti (x, y, z).
La differenza fondamentale tra un atomo di un gas ideale e quello di un cristallo armonico consiste
nella presenza di tre contributi di energia potenziale elastica nell’energia totale di quest’ultimo. Notiamo, però, che esiste una caratteristica comune ai contributi cinetici e potenziali nell’espressione di ET :
entrambi sono quadratici. I termini cinetici, infatti, dipendono dal quadrato della velocità, mentre quelli
potenziali dal quadrato dello spostamento. Questa analogia formale ci consente di giustificare una estensione importante del principio di equipartizione dell’energia: assumeremo che per un sistema all’equilibrio
termodinamico a temperatura T competa, in media, un’energia pari a 21 KB T a ogni grado di libertà che
introduca un termine quadratico nelle posizioni o nelle velocità nell’espressione dell’energia totale. Questa formulazione generale del principio può essere dimostrata rigorosamente con i metodi della meccanica
statistica.
Considerando un solido costituito da N atomi e supponendo che sia all’equilibrio a temperatura T
possiamo immediatamente scrivere la sua energia interna come U = 3N KB T e, per una mole di sostanza
(cioè N = NA ), ricavare il calore specifico:
CV = 3R
solido cristallino armonico
(1.24)
Questo risultato è noto come legge di Dulong e Petit e è verificato in buona approssimazione da moltissimi
solidi a temperature sufficientemente alte. Quando, tuttavia, si scende in temperatura, le risultanze
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
14
Figura 1.7: Celle convenzionali per il cristallo cubico semplice (alto), cubico a corpo centrato (basso,
sinistra) e cubico a facce centrate (basso, destra). I pallini neri rappresentano i siti reticolari, cioè le
posizioni degli atomi. Replicando periodicamente lungo i tre assi cartesiani queste celle convenzionali si
ottiene il reticolo cristallino completo.
sperimentali evidenziano forti deviazioni dalla legge di Dulong e Petit fino a dimostrare che CV si annulla
a temperatura zero. Questo risultato è illustrato in figura 1.8.
L’incapacità di spiegare il calore specifico dei solidi alle basse temperature costitisce un nuovo importante fallimento della fisica classica. Per riconciliare teoria e esperimento bisognerà, infatti, sostituire la
descrizione di un atomo cristallino come oscillatore classico, con quella più rigorosa di un oscillatore che
obbedisce alle regole della fisica quantistica.
1.2
Lo spettro del corpo nero
È esperienza comune che un corpo a temperatura sufficientemente alta irradia calore, facilmente percepibile anche senza strumenti sofisticati (si pensi al termosifone o alla stufa usati per riscaldamento
domestico). Questo fatto rappresenta una manifestazione del fenomeno dell’irraggiamento termico: ogni
corpo che si trovi a una temperatura superiore allo zero assoluto emette radiazione elettromagnetica. Tale
radiazione (che, spesso, è indicata come radiazione termica per ricordare lo stretto legame con la temperatura) è distribuita su tutto lo spettro delle frequenze (vedi figura 1.9) e la sua intensità aumenta con
l’aumentare della temperatura. La distribuzione spettrale della radiazione termica manifesta un massimo
in corrispondenza di una frequenza νmax che aumenta all’aumentare della temperatura del corpo. Anche
questo fenomeno rientra nella nostra esperienza quotidiana: limitandosi, per esempio, a quella porzione
dello spettro elettromagnetico che corrisponde alla luce visibile (cioè a quella parte dello spettro che può
essere rivelata dall’occhio umano) è noto che scaldando sempre più un pezzo di metallo, il suo colore
passa dal rosso, all’arancio, al bianco. Il massimo di emissione di radiazione da parte del metallo avviene,
cioè, a frequenze sempre maggiori.
In generale, caratterizziamo la radiazione termica emessa da un corpo qualunque tramite il suo potere
emissivo spettrale eν (detto anche brillanza spettrale) che rappresenta la quantità di energia elettromagnetica emessa nell’unità di tempo dall’unità di superficie nell’intervallo di frequenze [ν, ν + dν]. Il potere
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
15
Figura 1.8: Confronto tra la legge di Dulong e Petit (curva tratteggiata) e i dati sperimentali (curva
continua) per il calore specifico a volume costante di un solido di argento.
Figura 1.9: Lo spettro della radiazione elettromagnetica.
emissivo spettrale è legato da una semplice relazione alla densità di energia elettromagnetica uν emessa4 :
eν =
c
uν
4
(1.25)
dove c è la velocità della luce.
Naturalmente, un corpo può anche assorbire radiazione elettromagnetica (infatti, stando al sole ci si
scalda ...). Possiamo quantificare il processo di assorbimento tramite il potere assorbente spettrale aν (o
assorbanza spettrale), definito come la quantità di energia elettromagnetica assorbita nell’unità di tempo
dall’unità di superficie nell’intervallo di frequenze [ν, ν +dν]. È naturale aspettarsi che eν e aν dipendano,
presi singolarmente, dalla natura chimico–fisica del corpo che stiamo considerando (un pezzo di metallo
esposto all’irraggiamento solare si scalda diversamente da un pezzo di plastica) e dalle caratteristiche della
sua superficie (un corpo di superficie lucida assorbe meno radiazione di un corpo di uguale natura, ma
con superficie opaca). Tuttavia è possibile dimostrare sperimentalmente che, per ogni fissata frequenza
ν, il loro rapporto è una funzione universale della sola temperatura. In altre parole, vale la seguente legge
4 Ricordiamo che u rappresenta la quantità di energia elettromagnetica per unità di volume ed è proporzionale al modulo
ν
quadro del vettore campo elettrico e al modulo quadro del vettore campo magnetico che definiscono l’onda elettromagnetica
di frequenza ν che stiamo considerando.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
16
Figura 1.10: Rappresentazione schematica di un corpo nero come cavità.
di Kirchhoff
Σν (T ) =
eν
aν
(1.26)
dove Σν (T ) rappresenta tale funzione universale, che non dipenderà più in alcun modo dallo specifico
corpo considerato, ma solo dalla sua temperatura.
È utile introdurre a questo punto il concetto di corpo nero, come quel corpo capace di assorbire tutta la
radiazione elettromagnatica su di esso incidente, per qualunque frequenza e per qualunque temperatura. In
altre parole, un corpo nero è un oggetto che non riflette (nè trasmette) radiazione. Il concetto di corpo nero
è un’astrazione, ma possiamo citare diversi esempi pratici in cui un oggetto si comporta quasi esattamente
come un corpo nero. Si pensi, per esempio, a una cavità ricavata dentro a un oggetto come rappresentata
nella figura 1.10. La radiazione elettromagnetica può penetrare entro la cavità (caratterizzata da pareti
riflettenti) attraverso una piccola apertura. Una volta entrata nella cavità, la radiazione rimane ivi
“intrappolata”, perchè è molto poco probabile che riesca a fuoriscire attraverso la piccola fenditura. In
altre parole, la cavità assorbe praticamente tutta la radiazione che riceve. È, quindi, un corpo nero a
tutti gli effetti pratici.
Segue immediatamente dalla definizione data che un corpo nero ha potere assorbente spettrale unitario
a qualunque frequenza: aν (corpo nero) = 1. La legge di Kirchhoff, dunque, può essere interpretata come
segue: il rapporto tra potere emissivo e potere assorbente di un corpo qualsiasi a un certa frequenza
e temperatura è sempre uguale al potere emissivo del corpo nero a quella frequenza e temperatura.
Da questa semplice deduzione, discende l’enorme importanza concettuale che ha il corpo nero per quel
capitolo della fisica che si occupa di termodinamica della radiazione. Se conosciamo lo spettro di emissione
del corpo nero, siamo in grado di risalire, tramite la legge di Kirchhoff, alle caratteristiche di assorbimento
e emissione di un qualsiasi altro oggetto. Per questo motivo, il corpo nero fu dettagliatamente studiato
negli ultimi tre decenni del XIX secolo.
1.2.1
Gli esperimenti e la teoria classica
Il tipico apparato sperimentale per lo studio dello spettro di emissione del corpo nero è schematicamente
rappresentato nella figura 1.11: la cavità C rappresenta il corpo nero le cui pareti vengono portate a
temperatura desiderata tramite accoppiamento con il termostato T . La materia che forma queste pareti
emette radiazione termica che rimane intrappolata nella cavità5 . Se pratichiamo un orefizio O attraverso
5 Più rigorosamente, diremo che la radiazione emessa dalle pareti della cavità rimane ivi confinata dando origine a un
sistema di onde elettromagnetiche stazionarie.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
17
Figura 1.11: Apparato sperimentale per la rivelazione dello spettro di corpo nero.
una parete, la radiazione termica può fuoriuscire, ovvero viene emesso lo spettro di corpo nero che è infine
raccolto e analizzato (sia in intensità, che in distribuzione spettrale) dal rivelatore R.
Il risultato sperimentale è descritto nella figura 1.12 dove viene riportata la densità di energia elettromagnetica uν emessa da un corpo nero a diverse temperature, in funzione della frequenza ν. L’analisi
quantitativa delle curve sperimentali ha permesso di stabilire alcune leggi fenomenologiche:
• legge di Stefan (1879): la densità totale di energia elettromagnetica u (graficamente: l’area della
curva sottesa dalla funzione uν ) è proporzionale alla quarta potenza della temperatura T del corpo
nero:
Z
+∞
uν dν = σT 4
u=
(1.27)
0
dove σ = 5.67 × 10−8 Wm−2 K−4 è detta costante di Stefan;
• legge di Wien (1893): la frequenza νmax alla quale si ha il massimo della densità spettrale della
radiazione di corpo nero dipende in modo direttamente proporzionale dalla temperatura:
νmax
= costante
T
(1.28)
(questa legge è anche nota come legge dello spostamento).
Il tentativo classico di spiegazione di queste risultanze sperimentali e delle corrispondenti leggi fenomenologiche fu elaborato come segue. Quando la radiazione di corpo nero presente nella cavità è in
equilibrio termico con la materia che costituisce le pareti di quest’ultima, allora deve esserci corrispondenza tra la distribuzione di energia della radiazione e quella degli atomi che formano il materiale delle
pareti6 . Calcoliamo quella relativa agli atomi. Abbiamo già visto nel paragrafo 1.1.4 come si possa assumere che tali atomi, animati da moti di oscillazione termica, funzionino come oscillatori armonici. Dalla
meccanica classica sappiamo che un oscillatore armonico di massa m, frequenza propria ν e ampiezza di
oscillazione R possiede energia
Eoscillatore
armonico classico
= 2π 2 mν 2 R2
(1.29)
ovvero può possedere qualunque valore continuo di energia (purchè la frequenza e l’ampiezza di oscillazione
abbiano valori opportuni). Classicamente, dunque, la radiazione di corpo nero è descritta come un insieme
6 Se
cosı̀ non fosse, si osserverebbe un flusso di energia tra parete e radiazione, o viceversa. Possiamo, perciò calcolare
indifferentemente la distribuzione di energia degli atomi o della radiazione, a seconda della nostra convenienza: le due
distribuzioni sono uguali in virtù di questo equilibrio.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
18
Figura 1.12: Lo spettro di corpo nero raccolto sperimentalmente a diverse temperature (linee continue).
La linea tratteggiata rappresenta la legge classica di Rayleigh–Jeans.
di onde stazionarie confinate nella cavità con distribuzione continua di frequenze. È possibile calcolare
che il numero dnν di onde per unità di volume con frequenza compresa nell’intervallo [ν, ν + dν] è
dnν =
8π 2
ν dν
c3
(1.30)
cui, a temperatura T , corrisponde una energia media per unità di volume e per intervallo spettrale
[ν, ν + dν] pari a:
uν dν = Em dnν = KB T dnν
(1.31)
dove abbiamo fatto uso del principio di equipartizione dell’energia, imponendo che l’energia media Em
degli oscillatori armonici valga all’equilibrio termico KB T . Segue immediatamente che per la densità di
energia uν vale la seguente espressione
8π
uν = 3 ν 2 KB T
(1.32)
c
nota come legge di Rayleigh–Jeans. Il confronto tra i risultati sperimentali e il modello teorico che abbiamo fin qui sviluppato è riassunto nella figura 1.12. Come si vede possiamo ritenere buono tale accordo
nel limite di piccole frequenze, mentre esso risulta assolutamente insoddisfacente alle alte frequenze. Il
modello di Rayleigh–Jeans, infatti, non prevede l’esistenza di un massimo per uν che, addirittura, cresce
in modo monotono fino a divergere per frequenze elevate. La conseguenza di ciò è importante: integrando
l’espressione (1.32) su tutto lo spettro, si ottiene un risultato infinito. Questo risultato negativo fu chiamato catastrofe ultravioletta per indicare il fallimento della teoria alle alte frequenze. Il risultato trovato
è particolarmente insoddisfacente perchè: (i) contrasta con il principio di conservazione dell’energia7 ;
(ii) non permette di spiegare la legge di Stefan; (iii) non consente di giustificare il valore numerico della
costante di Stefan σ.
In conclusione, la fisica classica non riesce a spiegare lo spettro di emissione di un corpo nero.
1.2.2
La teoria quantistica di Planck
L’enigma dello spettro di corpo nero fu risolto da Planck nel 1900 con l’introduzione di una ipotesi
rivoluzionaria. Planck, infatti, assunse che ciascun oscillatore armonico radiativo potesse emettere (e,
7 Basterebbe scaldare un corpo nero a una qualunque temperatura maggiore di zero per emettere una quantità infinita
di energia.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
19
equivalentemente, assorbire) energia solo in quantità proporzionali alla sua frequenza ν. Questa ipotesi corrisponde a ammettere che l’energia di un oscillatore atomico sia quantizzata8 . Questa condizione
è in totale discontinuità con la teoria elettromagnetica classica che, invece, prevede che energia emessa (o assorbita) e frequenza di oscillazione siano direttamente proporzionali e variabili con continuità.
Operativamente, Planck sostituı̀ l’equazione (1.29) con la seguente espressione
Eoscillatore
armonico quantistico
= nhν
(1.33)
dove n = 1, 2, 3, · · · è un numero intero qualunque e h è una opportuna costante di proporzionalità il cui
valore deve essere ancora determinato.
Planck ripercorse il ragionamento che abbiamo già schematicamente sviluppato nelle equazioni (1.29,
1.30, 1.31), utilizzando la nuova espressione per l’energia di oscillatore. Il risultato ottenuto è rappresentato dalla espressione
ν3
8πh
(1.34)
uν = 3
c exp hν − 1
KB T
nota come legge di Planck per il corpo nero. Questa formula è in ottimo accordo con i dati sperimentali
di figura 1.12. Infatti:
• il limite per frequenze infinite è zero;
• il limite per frequenza nulla è zero;
• il limite per frequenze piccole è uν ∼ ν 2 , in accordo con la teoria di Rayleigh–Jeans;
• la (1.34) ammette un massimo per una certa frequenza νmax che dipende linearmente dalla temperatura;
• il grafico della (1.34) per ogni data temperatura è indistinguibile dalle curve sperimentali su tutto
lo spettro di frequenze.
Il valore di h, chiamata costante di Planck, fu ottenuta per calibrazione sulle curve sperimentali. Ad essa
è assegnato il valore numerico
h = 6.62 × 10−34 J s
(1.35)
L’ipotesi di quantizzazione delle energie introdotta da Planck ebbe, nonostante il suo carattere rivoluzionario, grande eco in virtù dell’eccellente accordo teoria–esperimento che essa forniva. Essa fu
immediatamente adottata da Einstein per tentare di risolvere il problema ancora aperto del calore specifico dei solidi. Considerando, dunque, gli N atomi di un reticolo cristallino come oscillatori armonici
quantizzati tridimensionali, Einstein ricavò una nuova espressione per l’energia interna U di un solido,
ottenendo:
hν
solido cristallino armonico quantizzato
(1.36)
U = 3N
exp Khν
−
1
BT
Nel caso di volume costante, il primo principio della termodinamica consente di scrivere9 per una
variazione finita ∆T di temperatura:
∆U
CV =
(1.37)
∆T
Estendendo questa espressione al caso di trasformazioni infinitesime a volume costante otteniamo immediatamente che

2
hν
dU
hν
 exp
KB T CV =
= 3R 
(1.38)
dT
KB T
exp Khν
−
1
BT
dove, in analogia alla (1.24) abbiamo considerato una mole di sostanza per la quale N = NA . Considerando questa nuova espressione per il calore specifico di un solido, è facile dimostrare che:
• il limite per temperatura nulla è zero;
8 L’aggettivo quantizzata significa che tale energia non è più una funzione continua della frequenza, ma diventa una
grandezza discreta.
9 Si vedano le equazioni (1.19) e (1.20), facendo uso del fatto che W = 0.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
20
Figura 1.13: Schema dell’apparato sperimentale per l’osservazione dell’effetto fotoelettrico.
• il limite per temperatura infinita è 3R.
Inoltre, la rappresentazione grafica della (1.38) riproduce quasi esattamente l’andamento sperimentale di
figura 1.8 per tutti i materiali considerati10 .
I due casi fin qui discussi dimostrano in modo chiaro come le leggi della fisica classica debbano
essere modificate quando si consideri il mondo microscopico. In particolare, l’ipotesi di quantizzazione
delle energie si rivelerà essere particolarmente profonda e efficace per spiegare tanti altri effetti su scala
atomica. Essa, dunque, rappresenta la base fenomenologica per lo sviluppo di quella nuova branca della
fisica chiamata meccanica quantistica.
1.3
L’effetto fotoelettrico
Prima di chiudere il capitolo, discutiamo un altro effetto la cui interpretazione corretta è basata sull’ipotesi
di quantizzazione dell’energia. Si consideri l’apparato sperimentale di figura 1.13 dove due armature
metalliche A (anodo) e C (catodo) sono inserite in un tubo a vuoto. Le due armature sono collegate a
un generatore V di differenza di potenziale e il circuito è completato da un misuratore di intensità di
corrente elettrica G. In condizioni normali, ovviamente, il misuratore G non registra il passaggio di alcuna
corrente. Tuttavia, qualora il catodo C venga illuminato da una radiazione elettromagnetica opportuna,
si osserva passaggio di corrente nel circuito. Questo fenomeno, scoperto e analizzato in due fasi distinte
da Hertz e da Hallwachs e Lenard, fu chiamato effetto fotoelelettrico.
La cosa importante da sottolineare in modo particolare è che si osserva passaggio di corrente solo se la
radiazione incidente ha frequenza opportuna. Per esempio, se le due armature C e A sono di tipo metallico,
si osserva effetto fotoelettrico solo se la frequenza è maggiore o uguale a quella della luce ultravioletta.
Per frequenze inferiori, non si osserverà mai il fenomeno, neanche aumentando di molto l’intensità della
radiazione. In condizioni di opportuna illuminazione (cioè fissando la frequenza della luce a un valore
opportuno), si osserva tra anodo e catodo una corrente elettrica I il cui andamento in funzione della
differenza di potenziale V tra C e A è illustrato nella figura 1.14. Questa curva sperimentale ha alcune
caratteristiche importanti:
10 È
possibile migliorare ulteriormente l’accordo con il dato sperimentale, ammettendo che gli N atomi di un cristallo
possano oscillare a frequenze diverse. Esisteranno, quindi, per ciascun materiale considerato delle frequenze proprie di
oscillazione su ciascuna delle quali si può ripetere il ragionamento di Einstein, pervenendo a una formula solo leggermente
diversa, ma in eccellente accordo con gli esperimenti. Il fatto che gli atomi di un cristallo possano oscillare a diverse
frequenze è conseguenza diretta delle loro interazioni reciproche. Questo miglioramento della teoria di Einstein fu dovuto
al fisico Debye.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
21
Figura 1.14: Andamento sperimentale della corrente I prodotta per effetto fotoelettrico in funzione della
d.d.p. erogata dal generatore V.
• I è diversa da zero anche quando V = 0;
• I satura a un valore massimo, oltre il quale non si riesce a andare, neanche aumentando arbitrariamente la differenza di potenziale;
• esiste un valore di differenza di potenziale negativo (cioè corrispondende a una situazione di inversione di polarità della V) in corrispondenza del quale I si annulla;
• mantenendo la frequenza della luce costante a un valore opportuno, ma aumentando l’intensità
della stessa, la corrente satura a un valore di intensità maggiore.
L’interpretazione teorica dell’effetto fotoelettrico fu offerta per la prima volta da Einstein nel 1905.
Innanzitutto va osservato che affinchè circoli corrente nel circuito di figura 1.13 è necessario ammettere
che dei portatori di carica (elettroni, in questo caso) siano emessi da catodo. Essi, accelerati dalla
tensione generata da V, verranno raccolti sull’anodo e, quindi, rivelati da G. Bisogna, quindi, ammettere
che la radiazione elettromagnetica abbia, in opportune condizioni, la capacità di estrarre elettroni dalla
superficie metallica del catodo. Einstein, utilizzando il concetto di quantizzazione di Planck, ipotizzò
che una radiazione di frequenza ν fosse rappresentabile come pacchetti di luce, ciascuno avente energia
pari a hν. Questi pacchetti furono chiamati fotoni o quanti di luce. In altre parole Einstein sostituı̀
la descrizione tradizionale della luce come fenomeno ondulatorio, con una descrizione corpuscolare: un
raggio luminoso di frequenza ν è un flusso di fotoni di energia hν. Ciascun fotone incidente sul catodo
può interagire con gli elettroni di conduzione e trasmettere a uno di essi tutta la sua energia. In altre
parole, il meccanismo di interazione radiazione–materia tra luce e catodo è descritto come una serie di
interazioni tra corpuscoli (elettroni e fotoni) che scambiano energia. La geniale ipotesi di Einstein, che
gli valse il premio Nobel per la fisica, anticipò in concetto di dualismo onda–corpuscolo che sottointende
tutta la fisica quantistica. Secondo questo concetto, ogni fenomeno naturale può efficacemente essere
descritto come un’onda o come un corpuscolo, a seconda della specifica situazione considerata. Esistono,
poi, precise regole di corrispondenza tra la natura ondulatoria e corpuscolare dello stesso fenomeno o
oggetto. La luce, quindi, è descritta in modo impeccabile come un’onda quando se ne considerino le
modalità di propagazione, riflessione, rifrazione, interferenza. In modo parimenti efficace e veritiero, la
luce è descrivibile come un flusso di corpuscoli, i fotoni, quando interagisce con l’insieme degli elettroni
di conduzione di un metallo.
Un elettrone che acquista energia hν da un fotone fuoriesce dalla superficie metallica solo se la sua
energia cinetica Ecin è maggiore o al più uguale al lavoro di estrazione W del metallo. Ricordiamo che il
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
22
lavoro di estrazione di un metallo rappresenta la minima quantità di energia che è necessario trasmettere
a un elettrone immerso in un metallo affinchè venga rotto il suo legame col metallo stesso. Questa
grandezza assume un valore caratteristico tipica per ciascun metallo. Tipicamente W ha il valore di
alcuni elettronvolt (eV) per i metalli più noti. Ricordiamo che l’elettronvolt rappresenta una unità di
misura di energia definita cosı̀ : 1 eV è l’energia cinetica acquistata da un elettrone accelerato da una
differenza di potenziale pari a 1 volt. Quindi, poichè si ha che
Ecin = hν − W
(1.39)
la condizione minima per osservare estrazione di elettroni, ovvero per misurare corrente nel circuito,
risulta essere:
hν > W
(1.40)
L’ipotesi di esistenza del fotone spiega, quindi, in modo naturale perchè la manifestazione dell’effetto
fotoelettrico dipenda dalla frequenza della radiazione usata. Possiamo, poi, aggiungere una stima quantitativa per la cosidetta frequenza di soglia ν0 al di sotto della quale non si osserverà mai fotoemissione
di elettroni:
W
(1.41)
ν0 =
h
che corrisponde, per i metalli, a una frequenza ultravioletta.
Figura 1.15: Analisi grafica qualitativa delle traiettorie degli elettroni fotoemessi dal catodo e accelerati
dal campo elettrico esistente tra catodo ed anodo.
L’ipotesi di Einstein consente anche di spiegare l’andamento della corrente in funzione della tensione
applicata. Il generico elettrone fotoemesso fuoriesce dalla superficie del catodo con una vettore velocità
orientato a caso. Tale velocità iniziale, quindi, possiede una componente orizzontale e una verticale.
Poichè tra le due armature esiste un campo elettrico costante e uniforme, l’elettrone subisce l’azione di
una forza costante diretta orizzontalmente, cosı̀ come indicato nella figura 1.15. Il moto risultante è descritto da un arco di parabola, la cui curvatura dipende dal modulo e dalla direzione della velocità iniziale
dell’elettrone fotoemesso, cosı̀ come dal valore della differenza di potenziale elettrostatico applicata tra
catodo ed anodo. In generale, non tutte le traiettorie hanno una curvatura tale per cui l’elettrone possa
venire raccolto sull’anodo. Tuttavia, se aumentiamo la differenza di potenziale, riusciremo a curvare
sempre più le traiettorie, fino a raggiungere il valore in corrispondenza del quale tutti gli elettroni fotoemessi dal catodo vengono raccolti sull’anodo: questa condizione corrisponde alla condizione di corrente di
saturazione.
Al contrario, se invertiamo la polarità del generatore V, otteniamo l’effetto di curvare le traiettore
degli elettroni emessi in direzione opposta, cioè faremo deflettere gli elettroni uscenti verso il catodo.
CAPITOLO 1. LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA
23
Quando la differenza di potenziale negativa raggiunge un certo valore, allora tutti gli elettroni emessi
tornano sul catodo e la corrente si annulla. Questo valore di differenza di potenziale negativa si chiama
potenziale di arresto Varresto .
Infine, i diversi valori di corrente di saturazione che si osservano al variare della intensità della radiazione, sono anch’essi spiegabili in base a questa interpretazione corpuscolare della luce. Aumentare
l’intensità di un fascio luminoso, infatti, significa aumentare il numero di fotoni contenuti nel fascio.
Un fascio più intenso (di opportuna frequenza), dunque, depositerà un maggior numero di fotoni sulla
superficie del catodo e conseguentemente farà emettere un maggior numero di elettroni. Ciò equivale a
raggiungere correnti di maggior intensità.
In conclusione, possiamo affermare che per la terza volta (calori specifici, spettro del corpo nero e
effetto fotoelettrico) l’introduzione di una ipotesi di quantizzazione ha riconciliato i dati sperimentali con
l’interpretazione teorica. Appare, quindi, evidente che le leggi della Natura sulla scala microscopica non
possono più essere quelle della fisica classica, cui è estraneo ogni concetto di discretizzazione (quantizzazione). Fino a ora, tuttavia, il concetto di quanto è stato introdotto per pura convenienza, senza alcuna
giustificazione formale, se non quella euristica: cosı̀ facendo si mettono a posto le cose ... Appare evidente,
quindi, la necessità di sviluppare un nuovo capitolo della fisica dove i fenomeni di quantizzazione risultino
come naturale conseguenza dei principi di base. Questa parte della fisica si chiama meccanica quantistica
e sarà l’oggetto dei capitoli seguenti.
Capitolo 2
Sviluppo fenomenologico della fisica
quantistica
Questo capitolo si apre con la discussione di una serie di risultanze sperimentali emerse agli inizi del XX secolo a riguardo degli spettri di emissione e assorbimento di radiazione elettromagnetica da parte di sistemi
atomici. Ancora una volta, le misure risultarono sconcertanti perchè non giustificabili classicamente.
La prima risposta organica al nuovo enigma fu elaborata da Bohr e condusse alla formulazione del
primo modello teorico per la struttura dell’atomo, descritto nel secondo e terzo paragrafo di questo
capitolo. La teoria di Bohr ha la notevole caratteristica di essere fondata su una ipotesi di partenza di
tipo quantistico.
Il capitolo termina con la discussione del concetto di dualismo onda–corpuscolo, concetto che sta alla
base della moderna teoria quantistica.
2.1
Spettri atomici
Riferiamoci, per semplicità, all’atomo di idrogeno che, come noto, è formato da un elettrone legato
a un nucleo positivo formato da un solo protone. Se si misura sperimentalmente la frequenza della
radiazione elettromagnetica emessa da questo atomo, si ottiene il risultato rappresentato nella figura
2.1 da cui si evince una cosa importantissima: la radiazione emessa da un atomo possiede solamente
alcune lunghezze d’onda determinate (o, analogalmente, alcune frequenze determinate). In altre parole,
lo spettro di emissione è discreto. Tali lunghezze d’onda si raggruppano inoltre in sequenze di righe. Più
in dettaglio, possiamo dire che le diverse righe spettrali si raggruppano in sequenze regolari chiamate
serie.
Le lunghezze d’onda λ delle diverse righe formanti una serie soddisfano la seguente regola empirica
scoperta da Rydberg:
1
1
1
=R
− 2
(2.1)
λ
n21
n2
dove la costante R (costante di Rydberg) vale 109677 cm−1 . I numeri n1 e n2 sono numeri interi positivi
che individuano le diverse serie secondo le seguenti relazioni
n1
n1
n1
n1
n1
=1
=2
=3
=4
=5
e
e
e
e
e
n2
n2
n2
n2
n2
= 2, 3, 4, · · ·
= 3, 4, 5, · · ·
= 4, 5, 6, · · ·
= 5, 6, 7, · · ·
= 6, 7, 8, · · ·
serie
serie
serie
serie
serie
di
di
di
di
di
Lyman
Balmer
Paschen
Brackett
Pfund
(2.2)
Le serie hanno preso il nome dallo sperimentatore che per primo le ha risolte spettroscopicamente. È
importante notare che gli spettri di assorbimento presentano esattamente le stesse caratteristiche. La
radiazione elettromagnetica è anch’essa assorbita da un atomo di idrogeno (o da un qualunque altro atomo) a lunghezze d’onda date dalla legge di Rydberg. Le lunghezze d’onda (e le frequenze) di
assorbimento/emissione sono esattamente coincidenti.
24
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
25
Figura 2.1: Spettro di emissione/assorbimento dell’atomo di idrogeno.
L’interpretazione delle misure sperimentali sugli spettri atomici richiede l’utilizzo di un adeguato
modello di struttura atomica. L’ipotesi allora più accreditata era basata sul modello atomico di Thomson, secondo il quale un atomo all’equilibrio è formato da una distribuzione continua di carica elettrica
positiva1 nella quale sono presenti cariche elettriche negative puntiformi (gli elettroni) in numero sufficiente a assicurare la neutralità di carica dell’atomo nel suo complesso. Era stato però dimostrato da
Earnshaw che, in base alla elettrostatica classica, una siffatta distribuzione di cariche positive e negative
compenetrantesi non è stabile. Inoltre, questa struttura atomica non era compatibile con le risultanze
spettroscopiche.
Il modello di Thomson fu sostituito dal modello planetario di Rutherford, elaborato nel 1911 a seguito
di esperimenti di diffusione di un fascio di particelle α attraverso una sottile lamina metallica2 . L’analisi
delle traiettorie delle particelle diffuse dimostrava che si davano tre casi possibili, come indicato nella
figura 2.2:
• alcune particelle venivano solo leggermente deviate durante l’attraversamento della lamina (traiettoria 1);
• altre particelle invece venivano deviate fortemente rispetto alla traiettoria di avvicinamento (traiettoria 2);
• infine alcune particelle venivano addirittura retrodiffuse (traiettoria 3).
L’unica possibilità che spieghi quanto osservato consiste nell’ipotizzare che ogni atomo formante la
lamina metallica sia costituito da un nucleo massivo, caricato positivamente e praticamente puntiforme,
attorno al quale ruotino gli elettroni su orbite che, per semplicità, possiamo considerare perfettamente
circolari. Ne risulta il modello di atomo nucleare o planetario illustrato nella figura 2.3.
Riferendoci di nuovo all’atomo di idrogeno, l’intrepretazione degli spettri atomici nell’ambito del
modello di Rutherford passa attraverso il calcolo della radiazione emessa da un elettrone in orbita circolare
attorno a un nucleo e soggetto alla forza elettrostatica di attrazione data dalla legge di Coulomb:
Felettrone−nucleo = −
1 e2
4π0 r2
(2.3)
dove abbiamo indicato con e = 1.6 × 10−19 C la carica elettrica (positiva) del protone formante il nucleo
e dell’elettrone (negativa); r indica il raggio dell’orbita circolare percorsa da quest’ultimo durante il suo
1 Per semplicità, possiamo immaginarla come una sfera carica con densità di carica spaziale data da una certa funzione
ρ(x, y, z).
2 Ricordiamo che una particella α è costituita dal nucleo di un atomo di elio; essa, quindi, è una particelle di carica
elettrica positiva.
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
26
Figura 2.2: Traiettorie di diffusione di particelle α come osservate nell’esperimento di Rutherford.
Figura 2.3: La struttura dell’atomo planetario (o nucleare) di Rutherford (alto). Giustificazione della
deviazione di traiettoria per una parlicella α nei tre casi descritti nel testo (basso).
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
27
Figura 2.4: Traiettoria a spirale seguita da un elettrone in orbita attorno al nucleo atomico secondo la
fisica classica.
moto di rivoluzione. Poichè la (2.3) rappresenta una forza radiale di tipo centrale, il moto dell’elettrone
sarà di tipo circolare uniforme, come studiato in meccanica classica. Se assumiano (la dimostrazione è
rimandata al prossimo paragrafo) che r = 0.529 Å= 0.529 ×10−8 cm, allora ne segue che i moduli della
velocità di rotazione v e della corrispondente accelerazione a valgono rispettivamente:
p
e2 /4π0 me r = 2.19 × 106 m s−1
v=
a=
v 2 /r = 9.02 × 1022 m s−2
(2.4)
dove me = 9.11 × 10−31 kg è la massa dell’elettrone. In generale, la potenza P irraggiata (cioè la quantità
di energia elettromagnetica emessa nell’unità di tempo) da una particella di carica e che si muove con
accelerazione a è data dalla espressione
e2 a2
P =
(2.5)
6π0 c3
nota come formula di Larmor3 . Sostituendo tutti i valori numerici noti, otteniamo che la potenza PH
irraggiata classicamente da un atomo di idrogeno vale
PH = 4.72 × 1011 eV s−1
(2.6)
Dalla chimica è noto come l’energia di ionizzazione di un atomo di idrogeno (nello stato fondamentale)
sia pari a 13.6 eV. In altre parole, bisogna spendere un lavoro pari a 13.6 eV per strappare l’elettrone dal
suo nucleo e portarlo a distanza infinita. La quantità 13.6 eV rappresenta, dunque, la quantità di energia
immagazzinata in un atomo di idrogeno nello stato fondamentale sotto forma di interazione elettrostatica.
Se essa viene dissipata nel tempo secondo la potenza PH che abbiamo calcolato, allora un atomo di
idrogeno perde tutta la sua energia in un tempo dell’ordine di 10−11 s. Il risultato è stupefacente: secondo
la fisica classica, un atomo di idrogeno perde tutta la sua energia in poco più che un centomiliardesimo
di secondo. “Perdere energia” significa dire che l’elettrone diminuisce la sua velocità di rotazione e,
conseguentemente, vede diminuire il suo raggio orbitale. In una parola: secondo la fisica classica un
elettrone precipita sul nucleo in un tempo dell’ordine di 10−11 s. La materia, cosı̀ come noi la conosciamo,
non dovrebbe essere stabile!
Il quadro è già abbastanza sconfortante, ma, putroppo, le cose vanno ancor peggio di cosı̀. Infatti,
un elettrone che irraggia e, quindi, rallenta cadendo sul nucleo, si muove di un moto a spirale, piuttosto
complicato, ma schematicamente illustrato nella figura 2.4. Durante questo moto, il suo raggio r(t) varia
1
nel tempo con continuità secondo una legge del tipo: r(t) = r0 − At 3 , con r0 pari al valore iniziale
3 Questa equazione è ricavata esplicitamente nel paragrafo 13.7 del libro R. Mazzoldi, M. Nigro e C. Voci, Fisica - vol.
II - Elettromagnetismo e onde (EdiSES).
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
28
della distanza elettrone–nucleo e A costante opportuna. Durante questo moto di rivoluzione, l’elettrone
dovrebbe emettere radiazione elettromagnetica con frequenza variabile con continuità. In altre parole:
classicamente gli spettri dovrebbero essere continui.
Il punto a cui siamo arrivati è sconsolante: secondo la fisica classica gli atomi (e dunque la materia)
non dovrebbero essere stabili e dovrebbero emettere spettri continui. Invece, la materia esiste stabilmente
e gli spettri atomici sono discreti. C’è qualcosa di qualitativamente sbagliato nel modello atomico che fu
sviluppato da Rutherford.
2.2
Il modello di Bohr per l’atomo di idrogeno
L’impasse cui si era pervenuti indusse Bohr a formulare nel 1913 un modello per l’atomo di idrogeno
basato su due postulati nei quali veniva introdotto il concetto di discretizzazione (quantizzazione) delle
orbite elettroniche.
Col primo postulato si assume che l’elettrone percorra solo quelle orbite circolari per le quali il suo
momento angolare l = r × me v ha modulo dato da un multiplo intero di h/2π (poichè l’orbita circolare
è piana e la forza agente è centrale, la direzione e il verso di l sono perfettemante determinate). In altre
parole, Bohr impose che
h
= n~
(2.7)
l = me vr = n
2π
dove n = 1, 2, 3, · · · è detto numero quantico. Bohr impose poi che l’elettrone accomodato su una
tale orbita non irraggiasse energia elettromagnetica. Per quasto motivo, esse furono chiamate orbite
stazionarie e i corrispondenti stati furono detti stati stazionari.
Quando un elettrone si trova su un’orbita stazionaria permessa, esiste perfetto bilanciamento tra la
forza centrifuga legata alla sua rotazione e la forza di attrazione elettrostatica
me v 2
1 e2
=
r
4π0 r2
(2.8)
Combinando questa equazione con la regola di quantizzazione del momento angolare data dalla equazione
(2.7), si ottiene immediatamente l’espressione per il raggio delle orbite stazionarie:
r=
h2 0 2
n = a0 n2
πme e2
(2.9)
h2 0
= 0.529 Å
πme e2
(2.10)
dove abbiamo posto
a0 =
detto raggio di Bohr. Questo risultato dimostra in modo naturale che, come conseguenza del primo
postulato, le orbite elettroniche sono quantizzate per quanto riguarda il loro raggio, a0 essendo il valore
di tale raggio nello stato n = 1. Questo particolare stato stazionario è chiamato stato fondamentale.
Tutti gli altri stati, cioè quelli corripondenti a n > 1, sono chiamati stati eccitati. La condizione limite di
n → +∞ corrisponde allo stato non legato: l’atomo di idrogeno è stato ionizzato, ovvero l’elettrone e il
protone sono stati portati a distanza infinita.
Il primo postulato determina un’altra importante regola di quantizzazione: quella sull’energia dell’atomo. Calcoliamo, infatti, l’energia totale ET elettronica come somma di un contributo cinetico Ecin e
uno potenziale Epot :
1
1 e2
ET = Ecin + Epot = me v 2 −
(2.11)
2
4π0 r
dove il segno negativo dell’energia potenziale elettrostatica tiene conto del fatto che elettrone e nucleo
hanno carica opposta. Ricavando il valore di v dalla (2.7) e utilizzando l’espressione quantizzata per r
otteniamo
1
me e4 1
(2.12)
ET = − 2 2 2 = −13.6 eV 2
80 h n
n
Questo risultato è di fondamentale importanza: seguendo il modello di Bohr abbiamo dimostrato in modo
ovvio che le energie degli stati stazionari sono distribuite discretamente. In particolare, l’energia dello
stato fondamentale risulta essere pari a −13.6 eV (corrispondente al valore n = 1), in eccellente accordo
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
29
Figura 2.5: Struttura dei livelli energetici degli stati stazionari dell’atomo di idrogeno secondo il modello
di Bohr.
con i dati sperimentali: essa, infatti, coincide con l’energia di ionizzazione dell’atomo di idrogeno. La
struttura dei livelli energetici è rappresentata nella figura 2.5.
Il modello è completato dal secondo postulato: la radiazione elettromagnetica viene emessa o assorbita
da un atomo di idrogeno solo quando l’elettrone compie una transizione da uno stato stazionario a un’altro.
Inoltre, la frequenza ν della radiazione è legata alle energie elettroniche nello stato iniziale Ei e finale Ef
secondo la semplice relazione:
|Ei − Ef |
ν=
(2.13)
h
Ovviamente, risulta che:
• se Ei > Ef si ha emissione di radiazione,
• se Ei < Ef si ha assorbimento di radiazione.
Seguendo il concetto di quanto di luce introdotto da Einstein, diremo che ogni transizione elettronica tra
due stati stazionari comporta l’emissione o l’assorbimento di un fotone di energia pari alla differenza tra
le energie degli stati coinvolti nella transizione. Tenuto conto che tali energie sono negative (perchè
corrispondono a stati legati), allora si ha emissione di un fotone quando si passa da uno stato più
eccitato a uno meno eccitato. Il viceversa vale per l’assorbimento di radiazione. La figura 2.6 rappresenta
schematicamente i due casi.
Se facciamo uso della (2.12) possiamo quantificare in modo esplicito la lunghezza d’onda λ dei fotoni
emessi o assorbiti:
ν
Ei − Ef
me e4
1
1
1
= =
= 2 3
− 2
(2.14)
λ
c
ch
80 h c n2f
ni
dove ni e nf sono i numeri quantici che definiscono, rispettivamente, lo stato stazionario iniziale e finale
coinvolti nella transizione elettronica.
Questo risultato è notevole per due ragioni: (i) esso fornisce una giustificazione formale per la legge
empirica di Rydberg; (ii) il valore della costante è
me e4
= 109737 cm−1
820 h3 c
(2.15)
in ottimo accordo con il valore sperimentale della costante di Rydberg R. In altre parole, il modello di
Bohr non solo spiega qualitativamente il meccanismo di emissione/assorbimento di radiazione da parte di
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
30
Figura 2.6: Transizioni tra stati stazionari che comportano emissione (a sinistra) o assorbimento (a destra)
di un fotone.
Figura 2.7: Orbite stazionarie, livelli energetici e transizioni permesse (emissione) per l’atomo di idrogeno
secondo il modello di Bohr.
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
31
un atomo, giustificando pienamente la natura discreta degli spettri atomici, ma prevede quantitativamente
in modo esatto la posizione delle righe spettrali delle diverse serie di Lyman (nf = 1), Balmer (nf =
2), Paschen (nf = 3), Brackett (nf = 4) e Pfund (nf = 5). Il quadro concettuale che abbiamo fin qui
sviluppato è graficamente riassunto nella figura 2.7.
2.3
Estensioni del modello di Bohr
Il modello di Bohr si presta a due semplici estensioni che lo rendono idoneo a spiegare gli spettri atomici
di atomi più complessi dell’idrogeno e a migliorare l’accordo con i dati sperimentali sulla costante di
Rydberg.
Consideriamo, infatti, quella classe di atomi detti idrogenoidi. Essi sono, come l’atomo di idrogeno,
formati da un solo elettrone in orbita attorno ad un nucleo di carica atomica +Ze, con Z > 1. Con
riferimento alla tabella periodica degli elementi è facile convincersi che gli ioni He+ , Li++ , ... rientrano
in questa definizione. Per gli atomi idrogenoidi il problema dell’interazione elettrone–nucleo può essere
trattato in maniera analoga a quanto fatto nel precedente paragrafo, con l’unica accortezza di considerare
la carica nucleare +Ze. Ne segue immediatamente che le formule per i raggi delle orbite stazionarie e per
le relative energie sono dati, rispettivamente, da:
r=
a0 n2
Z
(2.16)
e
Z2
(2.17)
n2
All’aumentare, quindi, del numero atomico Z le orbite stazionarie risultano sempre più “strette” (a parità
di numero quantico n) e di maggior energia di legame. Ciò indica che, fissato n, più il nucleo è carico,
più fortemente è legato l’elettrone, come è ragionevole aspettarsi.
L’ipotesi fino a ora implicitamente assunta è che la massa del nucleo (sia per l’atomo di idrogeno, che
per gli atomi idrogenoidi) fosse talmente maggiore di quella dell’elettrone, da poter essere considerata
a tutti gli effetti pratici infinita. Un’analisi più rigorosa, invece, attribuisce al nucleo una massa pari a
Amp , dove A è il numero di massa per l’atomo considerato, mentre mp = 1.67 × 10−27 Kg rappresenta la
massa del protone. In questo caso, il moto di rivoluzione dell’elettrone non è più quello di una particella
in orbita attorno a un centro fisso. Piuttosto, come previsto dalla meccanica classica, si deve parlare del
moto di rotazione di nucleo e elettrone attorno al centro di massa del sistema atomico. È relativamente
facile dimostrare che in questo caso la costante di Rydberg data nelle equazioni (2.14) e (2.13) deve essere
riscritta come:
me e4
1
R= 2 3
(2.18)
me
80 h c 1 + Am
p
ET = −13.6 eV
Se consideriamo l’atomo di idrogeno (cioè A = 1), allora otteniamo per la costante di Rydberg il valore
di 109678 cm−1 in praticamente perfetto accordo col dato sperimentale di eq. (2.1).
2.4
L’ipotesi di de Broglie e il dualismo onda–corpuscolo
Riprendiamo il concetto di dualismo onda–corpuscolo già anticipato nel paragrafo 1.3 a proposito dell’effetto fotoelettrico. L’introduzione dell’ipotesi di fotone permise a Einstein di spiegare mirabilmente le
risultanze sperimentali e introdusse un importante concetto: la radiazione elettromagnetica può essere
equivalentemente descritta in termini ondulatori (elettromagnetismo classico) od in termini corpuscolari
(fotoni) a seconda della specifica fenomenologia che si consideri. Tutto il capitolo della spettroscopia atomica è, per esempio, sotteso dal concetto di fotone che diventa la particella scambiata durante l’interazione
tra la radiazione e la materia.
Questa idea di dualità è davvero molto suggestiva e efficace e fu ripresa da L. de Broglie nel 1924 che
la estese anche alle particelle materiali. L’idea di base fu semplice: se la luce può manifestarsi come onda
(in accordo alla nostra esperienza quotidiana) o come corpuscolo (come in fisica atomica), perchè questa
cosa non potrebbe essere vera anche per una particella? In altre parole, possiamo ammettere che a una
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
32
Figura 2.8: Schema dell’apparato sperimentale di Davisson e Germer per la diffrazione di un fascio di
elettroni da parte di un cristallo.
particella di quantità di moto p e energia E sia possibile associare una lunghezza d’onda di de Broglie λ
data dalla
h
(2.19)
λ=
p
cui corrisponde una frequenza
E
(2.20)
h
Un modo alternativo di esprimere queste due relazioni è quello che fa uso del vettor d’onda k = 2π/λ e
della frequenza angolare (o pulsazione) ω = 2πν:
ν=
p = ~k
E = ~ω
(2.21)
In questo contesto spesso si parla di onde di materia associate a una certa particella.
L’ipotesi di de Broglie fu confermata da un esperimento condotto da Davisson e Germer secondo lo
schema illustrato nella figura 2.8.
Un fascio di particelle (elettroni) viene emesso da un’opportuna sorgente e collimato su un bersaglio
costituito da un pezzo di cristallo. Il fascio diffratto viene, invece, raccolto da un rivelatore posto simmetricamente alla sorgente. Le risultanze sperimentali dimostrarono che il fascio diffratto presentava una
serie di massimi di intensità quando fosse verificata la seguente relazione tra la lunghezza d’onda di de
Broglie λ degli elettroni e la separazione d tra i diversi piani reticolari del cristallo:
2dsinθ = nλ
(2.22)
dove θ è l’angolo formato dal fascio di elettroni e la superficie del cristallo, mentre n è un numero intero.
La spiegazione di questo esperimento risulta semplice se si considera cosa avviene a livello microscopico
quando il fascio di elettroni interagisce col cristallo. La situazione, illustrata nella figura 2.9, corrisponde
a un fascio di particelle che, riflesse dai diversi piani reticolari, finiscono col creare un fenomeno di interferenza sul rivelatore. Come noto dall’ottica, quando due fasci luminosi emessi da due sorgenti coerenti
(cioè a differenza di fase costante e stessa lunghezza d’onda) compiono, per arrivare a un rivelatore, dei
cammini ottici che differiscono per un numero intero di lunghezze d’onda, allora si manifesta il fenomeno
di interferenza costruttiva. Sul rivelatore, cioè, si osservano dei massimi di diffrazione4 . Analizzando il
cammino ottico percorso dai diversi fasci di elettroni (si veda la figura 2.9) si deduce immediatamente che
la condizione di massimo fascio diffratto osservata nell’esperimento di Davisson e Germer corrisponde
4 La discussione del fenomeno di interferenza costruttiva tra onde luminose è descritto, ad esempio, nel libro di R.
Mazzoldi, M. Nigro e C. Voci, Fisica II - Elettromagnetismo e onde (EdiSES).
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
33
Figura 2.9: Spiegazione della condizione di interferenza costruttiva per il fascio di elettroni diffratto
(condizione di Bragg).
proprio a quella di interferenza costruttiva nota in ottica (condizione di Bragg). In altre parole, l’esperimento in questione dimostra che un fascio di particelle (elettroni) si comporta esattamente come un’onda
luminosa, di lunghezza λ data dalla relazione di de Broglie. Questo esperimento, quindi, è la migliore
dimostrazione pratica che l’ipotesi ondulatoria espressa anche a proposito di particelle materiali è vera.
In conclusione, sommando l’ipotesi di Einstein sui fotoni (dimostrata dall’effetto fotoelettrico) e quella
di de Broglie sulle onde materiali (dimostrata dalla diffrazione di elettroni) possiamo enunciare compiutamente il concetto di dualismo onda–corpuscolo: ogni fenomeno naturale si manifesta, a seconda dei
casi, o in modo ondulatorio, o in modo corpuscolare. Nel mondo macroscopico (quello legato alla nostra
esperienza quotidiana) le particelle massive sono ben descritte da corpuscoli che seguono la meccanica
classica, mentre i fenomeni di propagazione del campo elettromagnetico sono efficacemente descritti dalle
leggi dell’ottica (geometrica o fisica). Al contrario, spesso il mondo microscopico (che sfugge alla nostra
diretta esperienza sensoriale) si manifesta in modo opposto: la radiazione elettromagnetica è efficacemente descritta come fascio di corpuscoli o fotoni, mentre le particelle obbediscono alle leggi tipiche delle onde
(come, ad esempio, la diffrazione). La descrizione della natura duale dei fenomeni naturali fu completata
da Bohr con l’enunciazione del principio di complementarietà che sancisce l’impossibilità di mettere in
evidenza con un unico esperimento le due nature ondulatoria e corpuscolare contemporaneamente. La
verifica empirica con esperimenti di laboratorio ha sin qui pienamente confermato la validità di questo
principio, ma sono comunque in corso ricerche di sue possibili violazioni.
Il dualismo onda-corpuscolo oggettivamente va contro la nostra esperienza soggettiva e, dunque, contro
il buon senso che su di essa poggia. In fondo, nella esperienza sensibile di ogni giorno noi percepiamo i
fenomeni come chiaramente ondulatori oppure corpuscolari, senza ambiguità. Dunque, come riconciliare
questa legge di Natura con la nostra intuizione? Sono stati scritti fiumi di inchiostro su questo problema
che, per molti aspetti, è ancora oggetto di riflessione epistemologica. Forse la risposta data dal fisico S.
Hawking è tra le migliori (avendo parecchi pregi, tra cui quelli dell’umiltà e del buon senso): perchè mai
la Natura dovrebbe comportarsi in un modo che a noi risulti intuitivamente facile da capire?
Al fine di renderci conto di come solo su scala microscopica le particelle massive manifestino apprezzabilmente il loro carattere ondulatorio, consideriamo un fascio di elettroni accelerato dentro a un tubo
catodico di una televisione. In questo caso la tipica differenza di potenziale elettrostatico V che agisce
sugli elettroni è di circa 104 volt. L’energia cinetica acquistata da ciascun elettrone si ricava facilmente
come
p2
= eV
(2.23)
2me
per cui la quantità di moto elettronica risulta essere
p
p = 2me eV
(2.24)
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
34
Figura 2.10: Rappresentazione uno-dimensionale dell’onda materiale associata a una particella libera
(sinistra) e a una particella confinata nella regione di spazio ∆x (destra).
cui corrisponde una lunghezza d’onda di de Broglie
λ= √
h
= 1.23 × 10−11 metri
2me eV
(2.25)
È evidente che una tale lunghezza d’onda non è significativa se riferita alla nostra esperienza sensibile,
mentre rappresenta una lunghezza tipica del mondo microscopico (basti pensare, per esempio, che la
tipica distanza tra due atomi dentro un reticolo cristallino è dell’ordine di 1 Å cioè di 10−10 metri).
2.5
Il principio di indeterminazione di Heisenberg
Una volta introdotto il concetto di dualismo onda-corpuscolo e quello di onda di materia, possiamo
chiederci che tipo di onda rappresenti matematicamente una certa particella. La risposta è semplice e
immediata nel caso di una particella libera: in questo caso l’onda materiale a essa associata sarà un’onda
piana di tipo armonico5 che, in una dimensione, è rappresentata nella figura 2.10 (sinistra).
Un’onda piana ha ampiezza costante. Essa correttamente descrive un’onda di materia (associata a
una particella libera) che deve essere simile in tutti i punti dello spazio. Ciò è consistente col fatto che,
essendo la particella libera, non esiste un potenziale di interazione il quale, agendo sulla particella, possa
distorcerne l’onda associata.
Più complesso, ma molto più interessante, è il caso di una particella confinata in una regione di spazio.
Tratteremo il caso uno–dimensionale in cui la regione di confinamento ha spessore ∆x. Questo modello
rappresenta il caso di una particella confinata in una buca di potenziale. L’onda di materia che descrive
una tale sitazione non potrà avere in questo caso ampiezza costante: è ovvio, infatti, che nella regione ∆x
l’intensità dell’onda (che, ricordiamolo, è legata al quadrato della sua ampiezza) sarà massima perchè ivi
è localizzata la particella. Al contrario, fuori da tale regione l’onda dovrà avere ampiezza molto minore e,
nel limite di distanza infinita o di profondità infinita della buca di potenziale, trascurabilmente piccola.
Una buona rappresentazione matematica di questa onda è data nella figura 2.10 a destra. Questo profilo
di onda materiale è chiamato pacchetto d’onda di ampiezza ∆x.
Il numero di lunghezze d’onda λ del pacchetto sarà ovviamente legato allo spessore ∆x della zona di
confinamento della particella e, quindi, potremo scrivere
∆x ∼ λ
5 Ricordiamo
(2.26)
che un’onda si dice piana quando il suo fronte d’onda - cioè il luogo geometrico dei punti nello spazio che
vengono investiti allo stesso istante dall’onda che avanza - è rappresentato da un piano. Il carattere armonico di un’onda,
invece, è legato alla legge matematica che esprime la variazione dell’ampiezza dell’onda nel tempo: quando tale legge è
espressa da una funzione trigonometrica seno o coseno, allora l’onda è armonica.
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
35
Ricordando la relazione esistente tra la lunghezza d’onda λ e il numero d’onda k possiamo riformulare la
precedente relazione come
∆x∆k ∼ 2π
(2.27)
dove abbiamo introdotto anche un intervallo finito ∆k per il numero d’onda in accordo all’analisi di
Fourier6 . La relazione di de Broglie consente di riscrivere questo risultato nella forma
∆x∆p ∼ h
(2.28)
In generale, tuttavia, noi conosciamo la regione di localizzazione di un’onda materiale con ancor minore
accuratezza di quanto assunto in questo ragionamento. Conseguentemente la precedente equazione non
può rappresentare altro che un limite superiore di precisione nella determinazione delle incertezze ∆x e
∆p sulla posizione e sulla quantità di moto della particella. In generale, quindi, dovremo ammettere che
∆x∆p ≥ h
(2.29)
Questo risultato di importanza fondamentale è noto come principio di indeterminazione di Heisenberg.
Le sue conseguenze concettuali sono molto profonde e scavano un ulteriore solco tra i concetti della fisica
classica e quelli della fisica quantistica: a livello microscopico, infatti, risulta impossibile determinare
contemporaneamente con precisione assoluta (cioè con incertezza nulla) la posizione e la quantità di moto
di una particella. Questo risultato, che discende direttamente dal dualismo onda-corpuscolo, impedisce
quindi che una certa misura sperimentale determini con assoluta accuratezza contemporaneamente la
posizione e la velocità di un corpuscolo. Al più, infatti, potremmo misurare l’una e l’altra con un certo
margine di errore per ciascuna grandezza, essendo gli errori di misura legati dalla relazione di cui sopra.
Alternativamente, potremmo determinare precisamente l’una (incertezza nulla) senza tuttavia poter fare
previsione alcuna sull’altra (incertezza infinita).
È importante sottolineare che il principio di indeterminazione non è legato alla precisione degli strumenti di misura. In altre parole, esso non è dovuto al fatto che ogni misura sperimentale è in varia
maniera afflitta da errore. Al contrario, l’indeterminazione che lega posizione e quantità di moto è la
manifestazione di proprietà fondamentali della materia legate alla sua duale natura onda-corpuscolo.
Il principio di indeterminazione ha numerose evidenze sperimentali, alcune delle quali molto spettacolari. Consideriamo, infatti, un sistema costituito da atomi di elio. È stato sperimentalmente dimostrato
che, anche raffreddando questo sistema a una temperatura assoluta praticamente nulla, esso non solidifica. L’interpretazione di questo strano fatto è offerta dalla equazione (2.29). Se, infatti, il sistema
solidificasse a T = 0 K noi potremmo conoscere con assoluta certezza e contemporaneamente la velocità
di ciascun atomo di elio (che risulterebbe nulla) e la sua posizione nel sistema solidificato. Ciò violerebbe
il principio di indeterminazione. È necessario, quindi, che anche a T = 0 K gli atomi siano animati da un
flebile moto di vibrazione (detto moto di punto zero) che non ha analogo classico in teoria cinetica dei
gas, ma che assicura quella indispensabile incertezza su posizione e velocità tale da rispettare l’equazione
(2.29). Questo flebile moto di agitazione è sufficiente, nel caso dell’elio, a impedire la solidificazione. In
altre parole, la temperatura cinetica associata a esso è superiore alla temperatura di fusione dell’elio.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg può essere esteso anche ad un’altra coppia di grandezze
fisiche: l’energia E e il tempo t. In particolare, si può dimostrare che
∆E∆t ≥ h
(2.30)
estendendo anche a questa coppia tutte le considerazioni sviluppate per posizione e quantità di moto.
Anche questa seconda versione del principio ha una convincente verifica sperimentale legata alla spettro
di assorbimento di un atomo. In base alle considerazioni del paragrafo 2.2 noi associamo l’assorbimento
di un fotone da parte di un atomo alla transizione tra due stati stazionari di energia, rispettivamente,
E1 (stato iniziale) e E2 (stato eccitato finale). Una misura spettroscopica segnala l’avvenuta transizione
tramite una riga nello spettro di assorbimento alla frequenza ν definita dalla relazione ν = (E2 − E1 )/h.
Quando la misura è condotta in condizioni di altissima risoluzione si osserva che la riga spettrale ha una
struttura: in particolare, essa ha la forma rappresentata schematicamente nella figura 2.11 (destra).
6 In altre parole, secondo l’analisi di Fourier noi possiamo rappresentare il pacchetto d’onda di figura 2.10 (destra) tramite
un’opportuna sovrapposizione di onde sinusoidali semplici (cioè di onde armoniche). Un pacchetto d’onda di ampiezza ∆x
richiede la sovrapposizione di tutte quelle onde armoniche il cui numero d’onda cada nell’intervallo ∆k definito dall’equazione
(2.27).
CAPITOLO 2. SVILUPPO FENOMENOLOGICO DELLA FISICA QUANTISTICA
36
Figura 2.11: Rappresentazione schematica di una riga spettrale di assorbimento in alta risoluzione.
La larghezza finita della riga corrisponde a un certo intervallo di frequenze ∆ν il cui inverso ∆t è
interpretato come il tempo di vita medio dello stato eccitato. Se questo tempo di vita è finito, allora ci deve
essere una corrispondente incertezza ∆E2 sull’energia dello stato eccitato raggiunto durante la transizione.
Lo schema di Bohr per i livelli energetici degli stati stazionari è conseguentemente modificato come
illustrato a sinistra nella figura 2.11. Misure a alta risoluzione hanno effettivamente confermato questa
interpretazione, fornendo una stima del tempo di vita di uno stato eccitato e del corrispondente intervallo
di energie associate a uno stato stazionario perfettamente in accordo con il principio di indeterminazione
di Heisenberg.
In conclusione di questo capitolo possiamo definire quale debba essere la prospettiva concettuale per
lo sviluppo di quel nuovo capitolo della Fisica - che chiameremo Meccanica Quantistica - da indirizzare
verso la scoperta delle leggi fondamentali del mondo microscopico. Lo sviluppo di una teoria quantistica
completa e soddisfacente dovrà basarsi in modo naturale su due pilastri: (i) il concetto di quantizzazione;
(ii) l’uso di un formalismo ondulatorio.
Capitolo 3
Elementi di meccanica quantistica
In questo capitolo discuteremo le basi concettuali e formali della meccanica quantistica abbandonando
l’approccio storico seguito fino a ora. Essa, infatti, sarà presentata in modo assiomatico: la fondatezza
dei postulati enunciati sarà provata euristicamente tramite la loro applicazione a specifici problemi di
fisica atomica discussi nel prossimo capitolo.
Il formalismo matematico è sviluppato deliberatamente a un livello elementare, senza tuttavia perdere in rigore. In particolare, eviteremo di addentrarci nella teoria degli operatori quantistici e nella
formulazione matriciale della meccanica quantistica.
Una trattazione più approfondita è riportata nella dispensa intitolata “Struttura formale della Meccanica Quantistica”.
3.1
I postulati fondamentali
Consideriamo un sistema fisico (un atomo, una molecola, un solido, ...) descritto da f gradi di libertà
associati alle coordinate {x1 , x2 , · · · , y1 , y2 , · · · , z1 , z2 , · · · } delle particelle che lo compongono. Senza
perdere di generalità possiamo per il momento supporre di riferirci a coordinate cartesiane.
1. Primo postulato: la funzione d’onda. Lo stato fisico del sistema1 è descritto da una funzione
Ψ = Ψ(x1 , x2 , · · · , y1 , y2 , · · · , z1 , z2 , · · · ; t)
(3.1)
che dipende da tutte le coordinate associate ai diversi gradi di libertà e dal tempo. Questa funzione è chiamata funzione d’onda o funzione di stato del sistema considerato. La funzione d’onda
Ψ(x1 , x2 , · · · ; t) è una funzione a valore complesso e, pertanto, indicheremo con Ψ∗ (x1 , x2 , · · · ; t) la
sua complessa coniugata.
La funzione d’onda ha la proprietà che il prodotto
ΨΨ∗ dτ = |Ψ|2 dτ
(3.2)
rappresenta la probabilità di trovare al tempo t il sistema fisico in questione con valori delle sue
coordinate comprese, rispettivamente, negli intervalli: (xi , xi + dxi ), (yi , yi + dyi ), (zi , zi + dzi ) con
i = 1, 2, 3, · · · . Abbiamo indicato con dτ l’elemento infinitesimo di volume che contiene il sistema.
Il significato della equazione (3.2) può essere precisato anche come segue: la grandezza |Ψ|2 dτ
rappresenta la probabilità di trovare al tempo t il sistema entro l’elemento di volume dτ .
L’attribuzione di questo significato probabilistico a Ψ - dovuta al fisico M. Born - ne determina
immediatamente alcune proprietà matematiche importanti. Innanzitutto, visto che |Ψ|2 dτ rappresenta una probabilità di presenza, è necessario che |Ψ|2 sia una funzione a un solo valore reale,
continua e tale per cui
Z
|Ψ|2 dτ = 1
(3.3)
tutto lo spazio
1 Con la locuzione “stato fisico di un sistema” noi intendiamo quell’insieme di informazioni che ne caratterizzano la
posizione, velocità, energia, momento angolare, ..., cioè la totalità delle grandezze fisiche associate al sistema.
37
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
38
Questa relazione costituisce la condizione di normalizzazione della funzione d’onda e ha un preciso
significato fisico: essa impone che la probabilità di trovare il nostro sistema in un punto qualsiasi
di tutto lo spazio disponibile è ovviamente pari alla certezza, che matematicamente è rappresentata
dal numero 1. Ciò implica immediatamente che se si considera una porzione limitata di tutto lo
spazio disponibile, la probabilità di ivi trovare il sistema fisico è sempre minore di uno. In altre
parole, secondo la meccanica quantistica non si può più dire:
la particella occupa l’esatta posizione P ,
ma bisognerà, invece, dire:
la particella è contenuta entro un volume dτ - centrato attorno a P - con una probabilità pari a
|Ψ|2 dτ .
Abbiamo, quindi, introdotto un linguaggio di tipo probabilistico, intimamente legato all’oggetto
fondamentale della teoria quantistica: la funzione d’onda.
2. Secondo postulato: gli operatori quantistici. Ad ogni grandezza fisica misurabile (cioè a
ogni osservabile fisica: posizione, velocità, quantità di moto, momento angolare, energia ,· · · ) viene
associato un operatore quantistico secondo la seguente regola: (i) si scriva l’espressione classica per
la grandezza fisica in termini di coordinate posizionali, di momenti lineari (quantità di moto) e
del tempo; (ii) a questo punto si costruisca il corrispondente operatore quantistico in modo che
le coordinate posizionali e il tempo intervengano come operatori di moltiplicazione, mentre a ogni
componente del momento lineare lungo una certa direzione sia associato l’operatore −i~∂/∂q (dove
q = x, y, z rappresenta la direzione relativa alla componente considerata).
Lo schema di costruzione di un operatore quantistico è riportanto in tabella (3.1).
Tabella 3.1: Schema di costruzione
osservabile classica
posizione: componente x
posizione: componente y
posizione: componente z
tempo t
momento lineare: componente x
momento lineare: componente y
momento lineare: componente z
degli operatori quantistici
operatore quantistico
moltiplicazione per x
moltiplicazione per y
moltiplicazione per z
moltiplicazione per t
esecuzione di −i~∂/∂x
esecuzione di −i~∂/∂y
esecuzione di −i~∂/∂z
Consideriamo, per esempio, la osservabile fisica energia cinetica Ecin di una particella di massa m
e velocità v = (vx , vy , vz ). Classicamente la sua espressione è
Ecin =
p2x + p2y + p2z
1
p2
mv 2 =
=
2
2m
2m
(3.4)
dove abbiamo naturalmente posto p = mv. Utilizzando la regola suddetta risulta immediato
scrivere l’espressione per l’operatore quantistico energia cinetica come:
Ecin = −
dove ∇2 =
∂2
∂x2
+
∂2
∂y 2
+
~2 2
∇
2m
(3.5)
∂2
∂z 2 .
Analogalmente, se consideriamo l’osservabile fisica classica energia potenziale elettrostratica Epot di
interazione nucleo–elettrone nell’ atomo di idrogeno
Epot = −
1 e2
4π0 r
(3.6)
1 e2
4π0 r
(3.7)
allora il corrispondente operatore quantistico è
Epot = −
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
39
cioè risulta essere formalmente
p identico alla espressione classica. In entrambe le espressioni va
naturalmente inteso: r = x2 + y 2 + z 2 se (x, y, z) rappresentano le componenti cartesiane del
vettore posizione dell’elettrone rispetto a di un sistema di riferimento centrato sul nucleo.
Combinando questi due risultati siamo in grado di scrivere anche l’operatore quantistico associato
alla energia totale ET di un elettrone nell’ atomo di idrogeno. Infatti, se classicamente abbiamo che
ET = Ecin + Epot =
p2
1 e2
−
2me
4π0 r
(3.8)
allora l’operatore energia totale H, chiamato operatore hamiltoniano, si scrive immediatamente
come:
1 e2
~2 2
∇ −
(3.9)
Hatomo idrogeno = −
2me
4π0 r
È utile riportare qui l’espressione per l’operatore momento angolare L che classicamente è dato
dalla
L=r×p
(3.10)
mentre quantisticamente risulta associato a
L = −i~ r × ∇
(3.11)
dove, con ovvio significato dei simboli, abbiamo posto
∇=
∂
∂
∂
i+
j+
k
∂x
∂y
∂z
(3.12)
essendo i, j, k i versori dei tre assi cartesiani. È immediato constatare che in meccanica quantistica
il momento angolare si misura in unità di costanti di Planck ~.
Più avanti avremo bisogno degli operatori associati al quadrato del momento angolare L2 e alla
componente z del momento angolare Lz di una particella. È facile ricavarne le espressioni in
coordinate cartesiane:
L2 =
L2x + L2y + L2z
∂
∂
Lz = −i~ x ∂y
− y ∂x
(3.13)
3. Terzo postulato: valori di aspettazione. Quando un sistema fisico si trova al tempo t in uno
stato quantistico descritto dalla funzione d’onda Ψ(x1 , x2 , · · · ; t), allora tutti i valori r che può
assume una certa osservabile descritta dall’operatore R sono dati dalla equazione
RΨ = rΨ
(3.14)
Questa relazione si chiama equazione agli autovalori per l’operatore R. I numeri r rappresentano
valori di aspettazione per l’osservabile fisica associata a R. Possiamo adesso apprezzare il ruolo
chiave della funzione d’onda Ψ: essa, infatti, non solo permette di valutare con che probabilità il
nostro sistema si trovi in un certo punto dello spazio, ma permette anche di calcolare il valore di tutte
le grandezze fisiche di cui sia noto il corrispondente operatore. Questa equazione, quindi, si legge
come segue: il numero (reale) r rappresenta il valore misurabile sperimentalmente per la grandezza
fisica associata all’operatore R quando il sistema su cui si esegue la misura è descritto dalla funzione
d’onda Ψ. Quando è verificata l’equazione (3.14) allora si dice che Ψ è una autofunzione di R e che
r è un autovalore di R. In breve: l’osservabile R ha il valore r.
Da un punto di vista matematico, l’equazione (3.14) è un’equazione differenziale che andrà di
volta in volta risolta tenendo conto delle specifiche condizioni al contorno che definiscono il nostro
problema fisico. Può accadere che l’equazione (3.14) abbia più soluzioni (cioè l’osservabile associata
ad R ha più valori possibili), oppure nessuna soluzione. In questo secondo caso diremo che lo stato
del sistema non è un autostato dell’operatore associato alla osservabile di nostro interesse.
Esiste una importante conseguenza concettuale di questo postulato. Supponiamo che il sistema
sia descritto dalla funzione d’onda Ψ che, a sua volta, sia una autofunzione di R di autovalore r.
Consideriamo una seconda osservabile associata a un nuovo operatore N . Si danno due soli casi
possibili:
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
40
• Ψ risulta essere un’autofunzione anche di N (cioè l’equazione agli autovalori N Ψ = nΨ
ammette soluzioni per la stessa Ψ che soddisfa anche l’eq. (3.14));
• Ψ risulta non essere un’autofunzione di N (cioè il problema agli autovalori N Ψ = nΨ non
ammette soluzioni).
Nel primo caso diremo che lo stato Ψ è contemporaneamente un autostato di R e di N , ovvero che le
corrispondenti osservabili fisiche hanno simultaneamente dei valori ben definiti pari, rispettivamente,
a r e n. In termini pratici: si può eseguire una misura contemporanea delle due osservabili sul
sistema descritto dall’unica funzione d’onda Ψ e trovare i due valori r e n. Nel secondo caso, al
contrario, la osservabile fisica associata a N non ha un valore ben determinato, quando lo stato del
sistema è descritto da Ψ, autofunzione di R. In termini pratici: una misura contemporanea delle
due osservabili produce un valore preciso pari a r per la prima osservabile, mentre non fornisce
alcun valore preciso per l’osservabile associata a N .
Questo importante risultato è profondamente diverso da ciò che ci ha insegnato la fisica classica ove
è, in linea di principio, sempre possibile misurare più osservabili fisiche contemporaneamente sullo
stesso sistema. Al contrario, i fenomeni regolati dalla meccanica quantistica sono, in un certo senso,
più sfuggenti: esistono stati fisici che sono autostati di alcuni operatori, ma non di altri. Ovvero:
esistono stati fisici in cui alcune osservabili sono misurabili (hanno un valore ben determinato),
mentre altre non lo sono (non hanno un valore ben determinato).
4. Quarto postulato: l’equazione di Schrödinger. L’evoluzione temporale della funzione d’onda
(cioè: l’evoluzione temporale dello stato fisico di un sistema descritto da Ψ(x1 , x2 , · · · ; t)) è data
dalla seguente equazione:
∂Ψ
= HΨ
(3.15)
i~
∂t
dove H è l’operatore hamiltoniano, cioè l’operatore quantistico assegnato alla espressione classica
dell’energia totale del sistema considerato. Questa espressione si chiama equazione di Schrödinger
e rappresenta l’equazione fondamentale della meccanica quantistica.
L’equazione di Schrödinger può essere manipolata in un modo molto conveniente qualora si considerino sistemi conservativi, sistemi cioè in cui l’energia totale è costante nel tempo2 . Se questo
è vero, allora anche l’operatore hamiltoniano H non dipende dal tempo; i due termini a sinistra e
destra dell’uguaglianza (3.15) comportano, dunque, solo derivate rispetto al tempo o rispetto allo
spazio, rispettivamente. È naturale, quindi, separare la dipendenza di Ψ dalle coordinate spaziali e
dal tempo come segue:
Ψ(x1 , x2 , · · · , y1 , y2 , · · · , z1 , z2 , · · · ; t) =
ψ(x1 , x2 , · · · , y1 , y2 , · · · , z1 , z2 , · · · ) ξ(t)
(3.16)
dove, quindi, la funzione ψ descrive la parte spaziale della funzione d’onda totale, mentre ξ descrive
la sua parte temporale. Questo modo di procedere è del tutto generale e verrà ampiamente utilizzato
più avanti: ogni qual volta il problema fisico presenta una simmetria tale che consenta di separare le
variabili in gruppi, allora la funzione d’onda totale è data da un prodotto di funzioni che dipendono
ciascuna da un solo gruppo di variabili.
Tornando al caso della dipendenza spaziale e temporale, possiamo facilmente verificare (per sostituzione diretta nella (3.15)) che la funzione
Ψ = ψξ = ψ e−iEt/~
(3.17)
soddisfa l’equazione di Schrödinger, purchè valga che
Hψ = Eψ
(3.18)
dove, naturalmente, E rappresenta l’energia totale (che non dipende dal tempo) del sistema fisico
descritto dalla funzione d’onda ψ.
L’equazione (3.18), quindi, rappresenta l’equazione agli autovalori per l’operatore hamiltoniano
(energia) del sistema: i suoi autovalori rapprestano le possibili energie del sistema e le sue autofunzioni descrivono i corrispondenti stati fisici.
2 Noi
considereremo sempre e solo sistemi conservativi.
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
41
È doveroso osservare che i quattro postulati fin qui enunciati non esauriscono in modo completo
l’edificio concettuale della meccanica quantistica. Tuttavia essi rappresentano gli aspetti di gran lunga
più importanti del formalismo quantistico e risultano del tutto sufficienti a sviluppare le applicazioni di
nostro interesse.
3.2
Alcune semplici applicazioni
In questo paragrafo discuteremo tre semplici applicazioni della meccanica quantistica: la particella libera,
la particella in una buca di potenziale e l’oscillatore armonico. Questi tre esempi sono stati scelti,
tra i tanti possibili, perchè si agganciano direttamente ad argomenti discussi nel testo. In tutti i casi
svilupperemo il formalismo nel caso unidimensionale al fine di semplificare la trattazione. Naturalmente
tutti i risultati sono facilmente estendibili alla tre dimensioni.
3.2.1
La particella libera
Nel caso di una particella libera di massa m l’energia potenziale è nulla e l’equazione agli autovalori per
l’energia risulta essere particolarmente semplice:
~2 d2 ψ(x)
+ Eψ(x) = 0
2m dx2
(3.19)
dove l’energia E, contenente il solo contributo cinetico, è positiva. La funzione d’onda ψ(x) deve essere
rappresentata matematicamente da una funzione che, a meno del segno, sia uguale alla sua derivata
seconda. Possiamo, dunque, ipotizzare una forma del tipo
ψ(x) = A cos(kx)
(3.20)
dove A e k sono costanti da definire. Per sostituzione diretta della (3.20) nella (3.19) otteniamo
−
~2 k 2
+E =0
2m
ovvero
√
k=
2mE
~
(3.21)
(3.22)
Ricordando che per la particella libera E = p2 /2m il risultato espresso dalla (3.22) rappresenta nient’altro
che la relazione di de Broglie per il vettore d’onda di un’onda materiale piana (e armonica).
L’ipotesi (3.20) non è l’unica possibile. Infatti, anche la soluzione
ψ(x) = B sin(kx)
(3.23)
soddisfa a tutte le condizioni richieste e riproduce il risultato di de Broglie. Ne segue che la più generale
soluzione della equazione di Schödinger per la particella libera è rappresentata da una combinazione
lineare delle due soluzioni particolari trovate:
ψ(x) = A cos(kx) + B sin(kx)
(3.24)
Questo risultato dimostra in modo rigoroso il risultato anticipato nel paragrafo 2.5 sulla base dell’intuito
fisico: la funzione d’onda di una particella libera (o, equivalentemente, l’onda materiale associata alla
particella libera) è rappresentata da un’onda piana ad ampiezza costante in tutto lo spazio. Per dimostrare
ciò basta porre, in accordo al primo postulato che definisce la funzione d’onda come funzione a valori
complessi, che: A = 1 e B = i. In questo modo risulta immediatamente:
ψ(x) = cos(kx) + i sin(kx) = eikx
(3.25)
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
42
Figura 3.1: Andamento del potenziale V (x) per una particella in una scatola (sinistra) e corrispondente
diagramma dei livelli di energia ammessi (destra).
3.2.2
La particella confinata
Consideriamo ora un caso leggermente più complesso: quello di una particella di massa m non soggetta
a forze, ma confinata entro una regione di spazio ∆x = L. Matematicamente, la situazione è descritta da
un potenziale di confinamento V (x) tale che: V = 0 per 0 < x < L, mentre V = +∞ per x ≤ 0 o x ≥ L.
La figura 3.1 (sinistra) riassume la situazione. Questo problema è noto in letteratura come il problema
della “particella in una scatola” o come il problema di una “particella in una buca di potenziale” (a pareti
infinitamente alte).
La forma del potenziale V (x) suggerisce che la funzione d’onda ψ(x) descrivente lo stato della particella debba essere nulla sia per x ≤ 0 che per x ≥ L. A queste regioni, infatti, la particella non può
avere accesso: coerentemente con il significato di probabilità di presenza associato alla funzione d’onda,
dobbiamo quindi dire che sarà nulla la probabilità di ivi trovare la particella. Consideriamo ora la regione
0 < x < L. Dentro la buca di potenziale non agiscono, come detto, forze: la particella è dunque libera e
la sua funzione d’onda è data dalla (3.24). In questo caso, tuttavia, esistono delle condizioni al contorno
ben definite che ci consentono di determinare il valore delle costanti A e B. Ricordando che la ψ(x)
deve essere continua (primo postulato), dobbiamo avere che ψ(x = 0) = ψ(x = L) = 0. Per sostituzione
diretta nella (3.24) si dimostra facilmente che la condizione al contorno ψ(x = 0) = 0 impone che sia
A = 0, mentre la condizione ψ(x = L) = 0 impone che sia
sin(kL) = 0
ovvero che l’argomento della funzione seno sia un multiplo intero n di π:
√
2mEn
kL =
L = nπ
~
(3.26)
(3.27)
dove abbiamo indicato con En l’energia della particella confinata nella buca. Questo risultato equivale a
affermare che le uniche energie permesse ad una particella confinata in una regione di spessore L sono:
En =
π 2 ~2 2
n
2mL2
(3.28)
dove n = 1, 2, 3, · · · . Questo risultato è molto importate perchè rappresenta una condizione di discretizzazione dello spettro di energie di un sistema fisico che non dipende da assunzioni ad hoc, ma che discende
coerentemente da un ben definito schema concettuale: quello della meccanica quantistica. In figura 3.1 è
rappresentato lo schema dei livelli energetici per la particella nella scatola di larghezza L.
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
43
Figura 3.2: Le prime tre funzioni d’onda di particella libera confinata in una scatola (sinistra) e
corrispondenti ampiezze di probabilità (sinistra). Caso 1–dimensionale.
Le forme delle onde materiali associate ai diversi livelli energetici En si ottengono facilmente per
sostituzione della (3.27) nella (3.24) (ricordando che A = 0). Esse sono rappresentate dall’equazione
nπ x
(3.29)
ψ(x) = B sin
L
e corrispondono a onde stazionarie; le uniche funzioni d’onda ammissibili sono dunque quelle tali per cui
nella scatola sono contenute esattamente un numero intero di mezze lunghezze d’onda
λ=
h
h
2L
=√
=
p
n
2mEn
(3.30)
La figura 3.2 illustra l’andamento delle prime tre funzioni d’onda (sinistra) e le corrispondenti ampiezze
di probabilità (destra).
3.2.3
L’oscillatore armonico
La terza applicazione che discuteremo riguarda un sistema fisico di massa m che oscilla armonicamente
attorno a una posizione di equilibrio posta a x = 0, verso la quale è richiamata da una forza elastica
F = −kx (k rappresenta la costante di forza della “molla” di richiamo). Un tale sistema è soggetto al
potenziale V (x) = 21 kx2 e l’espressione classica per l’energia totale è
E=
p2
1
+ kx2
2m 2
(3.31)
Il corrispondente operatore hamiltoniano si scrive come segue:
H=−
~2 d2
1
+ kx2
2m dx2
2
(3.32)
e l’equazione agli autovalori dell’energia a esso associata è
−
~2 d2 ψ(x) 1 2
+ kx ψ(x) = Eψ(x)
2m dx2
2
(3.33)
La soluzione di questa equazione differenziale al secondo ordine non è immediata come nei due casi
precedenti. La sua matematica, infatti, è decisamente più complessa e va oltre il livello di trattazione
che stiamo sviluppando. Tuttavia noi riportiamo il risultato finale per le energie di oscillatore armonico
CAPITOLO 3. ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
44
che, anche in questo caso, risultano quantizzate secondo i valori interi di un numero quantico vibrazionale
v = 0, 1, 2, 3, · · · . In dettaglio, si ottiene che lo spettro degli autovalori Ev dell’energia per l’equazione
(3.33) è
1
Ev = v +
hν
(3.34)
2
dove ν è la frequenza normale di vibrazione dell’oscillatore legata, alla massa e alla costante di forza dalla
relazione
r
k
1
(3.35)
ν=
2π m
Un primo risultato interessante della (3.34) è che anche quando il numero quantico vibrazionale assume
il valore minimo v = 0, l’oscillatore armonico quantistico possiede una energia non nulla pari a 21 hν. Tale
energia è detta energia di punto zero e non ha analogo classico. Questo risultato, infatti, è strettamente
legato al principio di indeterminazione di Heisenberg: lo stato quantistico v = 0 corrisponde, infatti, a
quello di vibrazione nulla in cui la particella occupa (classicamente) la posizione di equilibrio a x = 0. Se
non vi fosse alcun moto di punto zero, noi finiremmo per conoscere con assoluta certezza sia la posizione
x = 0 dell’oscillatore che il suo momento p = 0. L’esistenza, al contrario, di una energia di punto zero
(a cui è ovviamente associata una sia pur minima oscillazione della particella) garantisce il rispetto della
condizione minima ∆x∆p = h.
L’equazione (3.34) costituisce, inoltre, la più convincente dimostrazione dell’assunzione fatta da Planck
per spiegare lo spettro di corpo nero e successivamente applicata da Einstein per giustificare la legge di
Doulong–Petit per i calori specifici dei solidi (v. paragrafo 1.2.2). In quel contesto la quantizzazione delle
energie di oscillatore armonico era stata introdotta come ipotesi arbitraria e non giustificata (se non per
la correttezza delle sue previsioni). Ora, invece, essa discende come conseguenza matematica necessaria
della equazione di Schrödinger.
Capitolo 4
Fisica atomica
Questo capitolo è dedicato allo studio dettagliato della struttura elettronica dell’atomo di idrogeno, anche
in presenza di campi esterni.
Questo semplice sistema fisico ha importanza paradigmatica per sviluppare numerosi concetti di grande importanza anche in altri contesti. Introdurremo, infatti, importanti nuovi concetti che non hanno
analogo classico, quali lo spin elettronico e il principio di esclusione di Pauli.
Completeremo questa parte con brevi cenni alla struttura elettronica di atomi più complessi e discuteremo in modo semi–quantitativo la costruzione teorica della tabella periodica degli elementi.
4.1
L’atomo di idrogeno
Siamo finalmente pronti a applicare il formalismo della meccanica quantistica a sistemi fisici reali e di
nostro interesse. Consideriamo dunque il modello planetario dell’atomo di idrogeno, già discusso nell’ambito della teoria di Bohr. L’equazione di Schrödinger per le autofunzioni e gli autovalori dell’operatore
hamiltoniano elettronico si scrive come1
1 e2
~2 2
∇ −
ψ(x, y, z) = Eψ(x, y, z)
(4.1)
−
2me
4π0 r
dove, ovviamente, r rappresenta il modulo del raggio vettore r = (x, y, z) che individua la posizione
dell’elettrone in un sistema di riferimento cartesiano centrato sul nucleo.
Il problema che stiamo considerando ha una ovvia e evidente simmetria: quella sferica. Il potenziale
sentito dall’elettrone, infatti, è di tipo centrale e, dunque, l’unica variabile da cui dipende è la distanza
radiale dal nucleo. In queste condizioni è molto vantaggioso (cioè semplificherà moltissimo il problema
matematico) passare da coordinate cartesiane (x, y, z) a coordinate polari sferiche (r, θ, φ). Esse sono
rappresentate nella figura 4.1.
Il passaggio al nuovo sistema di coordinate implica che la dipendenza spaziale della ψ sia ora data
come segue:
coord. cartesiane : ψ(x, y, z) → coord. polari : ψ(r, θ, φ)
(4.2)
L’utilizzo di coordinate polari, permette di sfruttare utilmente la simmetria radiale del nostro problema
fisico: è infatti possibile dimostrare2 che la dipendenza di ψ dalla coordinata radiale r e dalle coordinate
angolari (θ, φ) viene separata in:
ψ(r, θ, φ) = Rn,l (r)Yl,m (θ, φ)
(4.3)
dove n, l, m sono numeri interi le cui proprietà saranno discusse nel seguito. Con ovvio significato,
chiameremo Rn,l (r) la parte radiale della funzione d’onda e Yl,m (θ, φ) la parte angolare della funzione
d’onda.
Le due funzioni Rn,l (r) e Yl,m (θ, φ) sono, rispettivamente, soluzioni di due distinte equazioni differenziali, ottenute dalla equazione di Schrödinger per separazione della parte radiale da quella angolare. La
1 Lavoreremo
nell’approssimazione di massa nucleare infinita.
non riportiamo questo calcolo che, tuttavia, non è particolarmente difficile. Chi fosse interessato ad approfondire
questo aspetto, può consultare i primi tre paragrafi del capitolo 7 del libro di R. Eisberg, R. Resnick, Quantum Physics of
atoms, molecules, solids, nuclei, and particles (John Wiley & Sons).
2 Noi
45
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
46
Figura 4.1: Introduzione delle coordinate polari sferiche per l’atomo di idrogeno.
soluzione di queste due equazioni rappresenta un problema complesso che va oltre la trattazione sviluppata in questo testo. Noi ci limiteremo a discutere le conseguenze fisiche e le proprietà delle due parti
radiale e angolare della funzione d’onda.
4.1.1
Gli autovalori dell’energia
Si dimostra che l’equazione di Schrödinger per l’atomo di idrogeno ammette i seguenti autovalori
En = −
me e4 1
820 h2 n2
con n = 1, 2, 3, ... numero intero
(4.4)
che rappresentano, secondo i postulati della meccanica quantistica, tutte e sole le possibili energie degli
stati legati elettrone–nucleo. Misure sperimentali di livelli energetici elettronici forniranno, dunque,
valori espressi dalla equazione (4.4). È immediato constatare come le energie degli autostati quantistici
dell’atomo di idrogeno corripondano esattamente a quelle già fornite dal modello di Bohr per gli stati
stazionari, cosı̀ come epressi dalla equazione (2.12). Ne segue, quindi, che a partire dalla equazione (4.4)
può essere sviluppata una identica trattazione per gli spettri di emissione/assorbimento di radiazione
elettromagnetica. In altre parole, alla luce della equazione (4.4) la formula empirica di Rydberg viene
pienamente giustificata dalla meccanica quantistica.
In un certo senso potrebbe sembrare che abbiamo fatto poca strada: in fondo, abbiamo ritrovato, in un
modo apparentemente molto più complesso, gli stessi risultati della teoria semi–empirica di Bohr. Esiste,
tuttavia, una duplice, profonda differenza concettuale: (i) innanzitutto, abbiamo ottenuto la corretta
equazione per le energie degli stati elettronici senza introdurre ipotesi di quantizzazione ad hoc; (ii) la
trattazione quantistica non si limita alla predizione dei livelli di energie, ma fornisce - come discusso
nei due prossimi paragrafi - una completa caratterizzazione dello stato fisico in cui si trova l’elettrone,
attraverso il computo della sua funzione d’onda.
Vale, forse, la pena di insistere ancora su questo concetto. Il risultato espresso dalla equazione (4.4),
cioè la quantizzazione dei livelli di energia dell’atomo di idrogeno, è la naturale conseguenza matematica
di una certa equazione differenziale - l’equazione di Schrödinger - che sta alla base della teoria quantistica. Questa equazione, di validità e applicabilità universale, è stata da noi risolta nel caso particolare
dell’atomo di idrogeno, ottenendo la suddetta espressione per le energie elettroniche. Al contrario, la
quantizzazione dello spettro energetico fornita dal modello di Bohr rappresenta una “ricetta” scelta solo
per convenienza e senza giustificazione formale. Essa, poi, è valida solo e soltanto per lo specifico atomo
di idrogeno (o, al più, per atomi idrogenoidi) e non consente la sua applicazione a sistemi diversi. In
aggiunta, il modello di Bohr non è in grado di fornire informazioni sullo stato dell’elettrone, cioè sul modo
in cui esso si dispone attorno al nucleo per i diversi livelli energetici.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
4.1.2
47
La parte radiale della funzione d’onda
La parte radiale Rn,l (r) della funzione d’onda rappresenta la soluzione della equazione differenziale ottenuta a partire dall’equazione di Schrödinger per separazione della variabile r. Ne riportiamo per completezza
(ma senza dimostrazione, vista l’estrema complessità del problema matematico associato) l’espressione
esplicita:
2
e2
~2 1 d
~ l(l + 1)
2 dRn,l (r)
−
Rn,l (r) = ERn,l (r)
(4.5)
−
r
+
2me r2 dr
dr
2me r2
4π0 r2
Questa equazione ammette soluzioni diverse che dipendono dal numero intero n (detto numero quantico
principale) e dal numero intero l (detto numero quantico secondario o angolare). Essi possono assumere
solo i seguenti valori:
numero quantico principale :
n = 1, 2, 3, 4, · · ·
numero quantico secondario : l = 0, 1, 2, · · · , n − 1
(4.6)
In altre parole, una vola fissato il valore di n (numero intero positivo), si possono scegliere per l tutti i
valori interi positivi tra 0 (compreso) e n − 1 (compreso).
Il valore n = 1 corrisponde allo stato fondamentale per l’atomo di idrogeno. La sua energia è proprio
di −13.6 eV. In questo stato è ammesso un solo valore per il numero quantico secondario: l = 0. Al
contrario, per il primo stato eccitato n = 2, è possibile selezionare due valori di l, cioè: l = 0 e l = 1.
Poichè, tuttavia, l’espressione (4.4) per le energie non dipende da l, ne segue che i due possibili stati
associati ai due valori diversi del numero quantico secondario hanno la stessa energia. Si dice in questo
caso che i due livelli energetici sono degeneri. In maniera analoga, nel secondo stato eccitato n = 3 il
numero quantico l può assumere i tre valori l = 0, l = 1 e l = 2, ma tuttavia essi corripondono alla stessa
energia.
È importante una precisazione: affermare che due o più stati sono degeneri in energia non significa
affermare che essi rappresentano lo stesso stato fisico. Come vedremo fra poco, stati elettronici individuati
dalla coppia di numeri quantici (n, l) e (n, l0 ) con l 6= l0 corripondono a stati quantistici di uguale energia,
ma diversa funzione d’onda. Inoltre, la degenerazione di un livello n non è associata unicamente ai diversi
valori del numero quantico l. Nel prossimo paragrafo, infatti, introdurremo una seconda degenerazione
associata al un terzo numero quantico m.
Le funzioni Rn,l (r) corrispondenti a diversi (n, l) sono riportate in tabella (4.1) per i primi tre valori
possibili del numero quantico principale.
Tabella 4.1: Funzioni d’onda radiali per l’atomo di idrogeno per n = 1, 2, 3 (a0 = 0.529 Å rappresenta il
raggio di Bohr)
n
l
1
0
2
0
2
1
3
0
3
1
3
2
Rn,l (r)
3/2
2 a10
exp[− ar0 ]
3/2 1
r
r
2
−
2a0
a0 exp[− 2a0 ]
3/2 1
r
r
√1
a0 exp[− 2a0 ]
3 2a0
3/2 2
1
2r 2
3 − a2r0 + 9a
exp[− 3ar 0 ]
2
3 3a0
0
3/2 √ 2 2
1
2r
r2
r
9
3a0
a0 − 3a20 exp[− 3a0 ]
3/2 2 1
r
4
√
exp[− 3ar 0 ]
a2
27 10 3a0
0
Come si vede, l’espressione analitica della parte radiale della funzione d’onda è piuttosto complicata
e non si presta a una immediata interpretazione fisica. Per facilitare la descrizione dello stato fisico in
cui si trova l’elettrone è quindi conveniente introdurre un nuovo concetto. A questo scopo noi faremo
esplicito uso del significato probabilistico associato alla funzione d’onda: esso ci consente di rappresentare
l’elettrone come una nuvola di carica elettrica negativa distribuita attorno al nucleo con una certa densità.
La densità di questa nuvola elettronica è rappresentabile tramite la funzione d’onda. Poichè già sappiamo
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
48
Figura 4.2: Andamento della densità radiale di presenza per l’elettrone nell’atomo di idrogeno.
che il nostro problema ha simmetria sferica, possiamo facilmente prevedere che questa nuvola elettronica
avrà una densità spaziale con la stessa simmetria: in ogni punto distante r dal nucleo la nuvola di carica
elettronica ha la stessa densità. Introduciamo quindi la grandezza: probabilità radiale di presenza P (r)dr
dell’elettrone a distanza r dal nucleo, definita come
P (r)dr = 4πr2 |Rn,l (r)|2 dr
(4.7)
Essa descrive la probabilità di trovare l’elettrone in un punto qualunque della crosta sferica centrata sul
nucleo, di raggio r e spessore dr. La funzione P (r) rappresenta la densità di probabilità e il suo grafico
visualizza in modo molto efficace come sia distribuita radialmente la nuvola di carica elettronica attorno
al nucleo.
La figura 4.2 è di fondamentale importanza perchè ci fa capire molte cose a proposito della distribuzione
radiale della nuvola elettronica:
• Innanzitutto, è evidente come sia possibile avere stati degeneri in energia, ma pur tuttavia fisicamente diversi. Considerando i due stati degeneri (n = 2, l = 0) e (n = 2, l = 1) è infatti evidente che
essi sono descritti da diverse distribuzioni radiali di presenza dell’elettrone. La nuvola elettronica è
diversa nei due casi.
• In secondo luogo è possibile affermare che nello stato fondamentale n = 1 la probabilità di trovare
l’elettrone a distanza r dal nucleo è massima quando r = a0 . Abbiamo, cioè recuperato in senso
probabilistico lo stesso risultato ottenuto nel modello di Bohr. Tuttavia, mentre nell’ambito di quel
modello si diceva che l’elettrone ruotasse su un’orbita circolare proprio di raggio r = a0 , in meccanica
quantistica dobbiamo più correttamente limitarci a dire che a quella distanza semplicemente è
massima la probabilità di trovare l’elettrone. La sua funzione d’onda è diversa da zero anche altrove:
ovvero, anche altrove può essere trovato l’elettrone (anche se con bassa probabilità).
• Infine, la meccanica quantistica prevede che la massima probabilità radiale di presenza dell’elettrone
si sposti a distanze sempre maggiori dal nucleo, man mano che aumenta n. In una parola: più lo
stato è eccitato, più l’atomo di idrogeno è “grosso”. Questo risultato avrà implicazioni importanti
nello studio della struttura elettronica dei solidi: elettroni in stati eccitati sono mediamente molto
distanti dai relativi nuclei, a essi poco legati e delocalizzati in grandi regioni di spazio.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
4.1.3
49
La parte angolare della funzione d’onda
La parte angolare Yl,m (θ, φ) della funzione d’onda rappresenta la soluzione della equazione differenziale ottenuta a partire dall’equazione di Schrödinger per separazione delle variabili (θ, φ). È possibile
dimostrare che le funzioni Yl,m (θ, φ), chiamate armoniche sferiche, sono simultaneamente autofunzioni
dell’operatore L2 e dell’operatore Lz per l’elettrone. In altre parole, è verificato che:
L2 Yl,m (θ, φ) =
Lz Yl,m (θ, φ) =
l(l + 1)~2 Yl,m (θ, φ)
m~ Yl,m (θ, φ)
(4.8)
dove il modulo quadro del momento angolare elettronico è dato dagli autovalori l(l + 1)~2 , mentre il
numero quantico m rappresenta (in unità di ~) il valore della componente z di quel momento angolare.
Il numero quantico m è detto numero quantico magnetico o azimutale e, una volta assegnato il valore di
l, può assumere solo i seguenti valori discreti3 :
m = −l, −l + 1, −l + 2, · · · , l − 2, l − 1, l
(4.9)
Il significato di questi risultati sulla quantizzazione del momento angolare elettronico è efficacemente
illustrato dal cosidetto modello vettoriale dell’atomo. Supponiamo di considerate uno stato quantistico
per l’elettrone dell’atomo di idrogeno caratterizzato dal numero quantico secondario l. A questo stato
si
p può associare in virtù delle equazione (4.8) un vettore momento angolare elettronico di modulo L =
l(l + 1)~. Questo vettore non può essere orientato a piacere nello spazio: le stesse equazione (4.8)
impongono infatti che la sua componente lungo una qualunque direzione z possa assumere solo 2l + 1
valori discreti. Se, ad esempio, poniamo l = 2, allora il vettore momento angolare L può assumere rispetto
alla direzione z le sole cinque orientazioni illustrate in figura 4.3.
Figura 4.3: Schema di quantizzazione del momento angolare elettronico, secondo il modello vettoriale
dell’atomo.
Nulla si può dire, invece, a proposito delle componenti x e y, cioè le componenti normali alla direzione
prescelta z. Questo risultato discende direttamente dal fatto che le funzioni armoniche sferiche Yl,m (θ, φ)
non sono contemporaneamente anche autofunzioni degli operatori Lx e Ly . In altre parole, una misura
sperimentale del momento angolare dell’elettrone potrà fornire unicamente il valore del suo modulo e della
sua componente nella direzione lungo la quale è stata eseguita la misura. Le altre due componenti non
sono misurabili.
L’espressione analitica di alcune funzioni armoniche sferiche Yl,m (θ, φ) è riportata in tabella (4.3).
3 Ancora
una volta sottolineiamo che la natura discreta dei valori possibili di m e il loro valore specifico sono risultati
matematici delle equazioni (3.43). In altre parole, la discretizzazione dei valori possibili di m non è conseguenza di nessuna
ipotesi ad hoc introdotta per convenienza.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
50
Tabella 4.2: Funzioni armoniche sferiche per l = 0, 1, 2 e m = 0, ±1, ±2
l
0
1
1
1
2
2
2
2
2
m
0
−1
0
+1
−2
−1
0
+1
+2
Yl,m
√(θ, φ)
1/
p 4π
p3/8π sin θ exp[−iφ]
3/4π cos θ
p
−p 3/8π sin θ exp[+iφ]
1
15/2π sin2 θ exp[−2iφ]
4
p
15/8π sin θ cos θ exp[−iφ]
p
1
2
2 p5/4π 3 cos θ − 1
−p 15/8π sin θ cos θ exp[+iφ]
1
15/2π sin2 θ exp[+2iφ]
4
Tabella 4.3: Classificazione degli stati elettronici n=1, 2, 3 per l’atomo di idrogeno
n
1
2
2
2
2
3
3
3
3
3
3
3
3
3
l
0
0
1
1
1
0
1
1
1
2
2
2
2
2
m
0
0
−1
0
1
0
−1
0
1
−2
−1
0
1
2
simbolo
1s
2s
2p−1
2p0
2p+1
3s
3p−1
3p0
3p+1
3d−2
3d−1
3d0
3d+1
3d+2
energia
−13.6 eV
−13.6/4 eV
−13.6/4 eV
−13.6/4 eV
−13.6/4 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
−13.6/9 eV
Riassumendo, abbiamo ottenuto un importante risultato: negli stati dell’atomo di idrogeno descritti
dalla funzione d’onda ψn,l,m (r, θ, φ) = Rn,l (r)Yl,m (θ, φ) sono definiti simultaneamente (cioè hanno valore
ben definito, ovvero possono essere misurati contemporaneamente): (i) l’energia, (ii) il modulo del momento angolare e (iii) la componente lungo una data direzione del momento angolare. Tuttavia, fissato
n abbiamo un solo valore possibile dell’energia dato dalla equazione (4.4), ma n valori possibili per il
modulo del momento angolare; in corrispondenza di ciascuno di essi possiamo selezionare 2l + 1 valori
diversi di componente z di momento angolare. In totale, quindi, ogni livello corripondente al numero
quantico principale n è esattamente
n−1
X
(2l + 1) = n2
(4.10)
l=0
volte degenere.
4.1.4
Gli orbitali atomici
La meccanica quantistica fornisce un quadro di quantizzazione per le osservabili fisiche molto più complesso che non il modello di Bohr. A parità di energia possiamo trovare una molteplicità di stati fisici
diversi. La tabella (4.3) riassume sinotticamente questi risultati, tramite l’introduzione della notazione
spettroscopica per la classificazione dei diversi stati:
l = 0: stati s l = 1: stati p l = 2: stati d l = 3: stati f .
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
51
Figura 4.4: Orbitali atomici per l’atomo di idrogeno corrispondenti agli stati l = 0, l=1 e l=2.
In analogia a quanto già fatto per la parte radiale, possiamo mettere in luce le differenze fisiche tra i
diversi stati degeneri in l e m studiando l’andamento spaziale della funzione d’onda. Infatti, poichè ora
conosciamo anche l’andamendo angolare della ψn,l,m (r, θ, φ), possiamo raffigurare la nuvola elettronica
totale tramite il calcolo di una superficie tale che:
• su di essa |ψn,l,m (r, θ, φ)|2 = costante
• racchiuda al suo interno una frazione pari al 90% della carica elettronica4 .
Questa superficie rappresenta in forma grafica la funzione d’onda atomica totale e viene chiamata orbitale
atomico. Il suo signifato è molto intuitivo e sta alla base di moltissimi considerazioni chimico–fisiche:
un orbitale atomico fornisce la rappresentazione tridimensionale - sia in termini di distribuzione spaziale,
che in termini di estensione - della nuvola elettronica associata a un certo stato quantistico.
In figura 4.4 vengono rappresentati gli orbitali corrispondenti agli stati elettronici di tabella (4.3).
Gli stati s sono distinti da un corripondente orbitale di forma sferica. Ciò vale per tutti gli orbitali a
l = 0; ciò che cambia variando n è semplicemente il raggio dell’orbitale atomico corripondente. Il caso
degli orpbitali p corrispondenti a l = 1 è più complesso. La forma è quella di due lobi simmetrici, separati
da un punto nodale e orientati sungo una ben determinata direzione. A dire il vero, nella figura 4.4
non vengono rappresentati direttamente gli orbitali p−1 , p0 e p+1 : in ossequio a una convenzione ormai
4 La
scelta della frazione pari al 90% è puramente convenzionale, ma ormai universalmente accettata.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
52
affermata, si rappresentano piuttosto delle loro combinazioni lineari, in modo che siano messe in maggior
risalto le simmetrie della funzione d’onda rispetto alle direzioni cartesiane. Nel caso specifico della figura,
per gli orbitali p vengono definite le tre seguenti combinazioni indipendenti:
ψ2pz =
ψ2px =
ψ2py =
ψ2p0
√
(ψ2p+1 + ψ2p−1 )/ 2
√
−i(ψ2p+1 − ψ2p−1 )/ 2
(4.11)
Anche per gli orbitali corripondenti a valori di l > 1 si segue un analogo criterio di combinazione
lineare. In figura sono rappresentate direttamente tali combinazioni per il caso l = 2 (orbitali d).
Ricordiamo, infine, che secondo la nomenclatura standard viene definito shell elettronica l’insieme
di tutti gli stati quantici distinti dai diversi valori di l e m, ma tutti corripondenti allo stesso numero
quantico principale n.
4.2
Effetto Zeeman
Consideriamo, per il momento in termini classici, il moto di rivoluzione di un elettrone attorno al nucleo
atomico di un atomo di idrogeno. Poichè l’elettrone porta una carica −e, possiamo idealmente associare
a tale moto una corrente i = −eω/2π, dove abbiamo introdotto la velocità angolare di rotazione ω. Come
noto dalla teoria classica dell’elettromagnetismo, possiamo associare a questa corrente (che idealmente
fluisce lungo un’orbita elettronica di raggio r) un momento di dipolo magnetico5 definito come segue:
ML = −e
1
ω 2
πr = − eωr2
2π
2
(4.12)
Ricordando che classicamente il momento angolare vale in modulo L = mωr2 , possiamo riscrivere
l’espressione (4.12) in forma vettoriale:
e
ML = −
L
(4.13)
2me
Questa relazione che lega il momento angolare orbitale elettronico al suo momento magnetico è valida
anche quantisticamente, purchè si intenda di utilizzare l’espressione operatoriale di L. Conseguentemente, le regole di quantizzazione già discusse per il momento angolare si applicano esattamente anche al
momento magnetico ML . In altre parole, se noi applichiamo un campo magnetico B = (0, 0, Bz ) diretto
come l’asse z, allora il momento magnetico MLz misurato lungo quella direzione può assumere solo i
valori discreti
e
MLz = −
Lz = −µB m
(4.14)
2me
dove abbiamo introdotto la quantità µB = e~/2me = 9.27 × 10−24 J T−1 detta magnetone di Bohr.
Quando il momento magnetico ML viene immerso in un campo magnetico B = (0, 0, Bz ) acquista
una energia potenziale magnetica pari a
UB = −ML · B = µB Bz m
(4.15)
Conseguentemente, ognuno del 2l + 1 diversi stati associati ai possibili valori di m acquista una energia
differente da quella degli altri. Si dice che l’azione del campo magnetico ha risolto la degenerazione dei
livelli energetici con m = −l, −l + 1, · · · , l − 1, l. L’azione di un campo magnetico sui livelli atomici è
chiamata effetto Zeeman. La situazione è illustrata nella figura 4.5 relativamente agli stati l = 0, 1, 2.
La trattazione sviluppata per l’atomo di idrogeno si estende naturalmente a tutti gli atomi con più
elettroni, purchè si intenda che il momento angolare orbitale Ltot dell’atomo in questione altro non sia
che la somma dei diversi momenti angolari dei singoli elettroni. È facile rendersi conto che la somma
di tutti i momenti angolari orbitali degli elettroni appartenenti alla stessa shell elettronica risulta essere
nulla6 . Quindi, al momento Ltot di un atomo contribuiscono, di fatto, solo quegli elettroni (se ce ne sono)
che appartengono a shell non completamente riempite.
I risultati teorici ricavati in questo paragrafo sono pienamente verificati sperimentalmente tramite lo
studio della risoluzione della degenerazione dei livelli energetici di un qualunque atomo soggetto all’azione
di un campo magnetico. L’effetto Zeeman, dunque, rappresenta la più convincente conferma dei risultati
relativi alla quantizzazione del momento angolare.
5 Possiamo,
6 Questo
infatti, applicare il principio di equivalenza di Ampère.
risultato si ricava nell’ambito del modello vettoriale di un atomo a più elettroni.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
53
Figura 4.5: Risoluzione della degenerazione degli stati l = 1, 2, 3 per effetto di un campo magnetico
esterno.
4.3
Lo spin
Supponiamo di considerare un atomo idrogenoide “preparato” in uno stato tale per cui il momento
angolare L dell’elettrone sia nullo (l’atomo, quindi, è in uno stato s). La teoria dell’effetto Zeeman
prevede che l’azione di un campo magnetico esterno sia nulla. Nel 1924 Stern e Gerlach condussero un
esperimento esattamente in queste condizioni: l’idea era proprio quella di verificare quanto detto. Essi
misero a punto un apparato schematicamente descritto nella figura 4.6: un fascio di atomi con L = 0
veniva emesso da una sorgente S e fatto passare attraverso i poli di un magnete M che generava un
campo magnetico costante, ma non uniforme (ovvero: era presente un gradiente di campo magnetico
lungo la direzione normale al moto degli atomi). Il fascio veniva poi raccolto da un opportuno rivelatore
R. L’aspettativa di Stern e Gerlach era quella di osservare su R una sola impronta: il fascio non avrebbe
dovuto essere deflesso, in base alla meccanica quantistica di equazione (3.50). Al contrario, le evidenze
sperimentali dimostrarono che il fascio veniva separato in due componenti che risultavano deflesse in
modo simmetrico rispetto alla direzione del fascio incidente.
Questo risultato è sorprendente. Se ragioniamo in termini classici, avremmo dovuto aspettarci una
traccia continua (e non solo due impronte), corrispondente a tutte le possibili orientazioni che classicamente un momento magnetico ML può assumere rispetto alla direzione del campo. Al contrario, ragionando
in termini quantistici, avremmo dovuto aspettarci una sola impronta (infatti per L = 0 non c’è effetto
Zeeman) o, al massimo, un numero dispari di impronte qualora, per errore, avessimo “preparato” gli
atomi in uno stato con L 6= 0 e, dunque, ci fossero 2l + 1 diversi valori di m. L’esistenza di due traccie
simmetriche non può essere spiegata con la teoria fin qui sviluppata.
L’enigma fu risolto da Goudsmit e Uhlenbeck nel 1926: essi, infatti, ipotizzarono che l’elettrone
possedesse un nuovo grado di libertà a cui fosse associato un diverso momento magnetico, non nullo
anche per gli stati ad L = 0. Questo nuovo grado di libertà non ha analogo classico e venne chiamato
spin. Al fine di fornire un modello intuitivo per lo spin, si può immaginare che questo grado di libertà
sia associato al moto di rotazione dell’elettrone attorno al proprio asse. Poichè l’elettrone è carico, anche
questa rotazione assiale comporta l’esistenza di una corrente e, quindi, di un momento magnetico di spin7
definito, in analogia a quanto fatto per il momento magnetico orbitale, come:
MS = −g
e
S
2me
(4.16)
7 È doveroso osservare che questa immagine, anche se efficace, non è rigorosamente vera. In realtà, infatti, lo spin
elettronico è un effetto relativistico: solo una trattazione quantistico–relativistica, infatti, consente in modo naturale di
introdurre e giustificare pienamente questo nuovo grado di libertà.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
54
Figura 4.6: Schema dell’apparato sperimentale di Stern e Gerlach.
dove g è una costante chiamata rapporto giromagnetico dell’elettrone il cui valore è circa 2. Il nuovo
momento angolare di spin S viene trattato come un normale operatore momento angolare della meccanica
quantistica, ma con una caratteristica speciale: la sua componente Sz lungo una direzione arbitraria può
assumere sempre e solo due valori possibili
1
1
~ stati con spin up
Sz = − ~ stati con spin down
(4.17)
2
2
Questa caratteristica è facilmente giustificabile nei termini del modello intuitivo di rotazione elettronica
attorno al proprio asse: poichè tale rotazione può avvenire solo in senso orario o antiorario, possono essere
solo due i corrispondenti valori di momento angolare. In questo modo, si fornisce piena giustificazione
dell’esperimento di Stern-Gerlach: il fascio di atomi non interagisce col campo magnetico tramite i
momenti magnetici orbitali (che sono nulli perchè è stato preparato in modo che L = 0), bensı̀ tramite il
momento magnetico di spin che può assumere solo i due valori
Sz =
MSz = ±g
e 1
~
2me 2
(4.18)
L’importanza di questo risultato è fondamentale: l’elettrone dovrà d’ora in poi essere descritto da quattro
gradi di libertà: tre spaziali (r, θ, φ) e uno di spin s = ±1/2. Corrispondentemente, la sua funzione d’onda
dipenderà da quattro numeri quantici: n, l, m e s. Poichè le variabili spaziali e di spin sono separate,
secondo la procedura che abbiamo ormai adottato più volte, rappresenteremo la funzione d’onda totale
ψn,l,m,s (r, θ, φ; s) come prodotto della parte spaziale ψn,l,m (r, θ, φ) per quella di spin χs
ψn,l,m,s (r, θ, φ; s) = ψn,l,m (r, θ, φ)χs
(4.19)
dove la parte di spin ha solo il compito di definire lo stato di spin “up” o “down” dell’elettrone.
Come vedremo, l’introduzione dello spin permette di completare il quadro relativo alla struttura
elettronica degli atomi a più elettroni e di comprendere appieno la struttura del sistema periodico degli
elementi.
4.4
Atomi a più elettroni. Il principio di Pauli
Il calcolo della struttura elettronica di atomi a più elettroni richiede la soluzione di un’equazione di
Schrödinger molto più complessa che non quella per l’atomo di idrogeno. Per la sola parte spaziale,
infatti, l’operatore hamiltoniano per un atomo con N elettroni e numero atomico Z si scrive come
H=−
N
N
N
~2 X 2
1 X Ze2
1 X e2
∇i −
+
2me i=1
4π0 i=1 ri
4π0 i>j=1 rij
(4.20)
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
55
dove abbiamo indicato con ri la distanza dello i–esimo elettrone dal nucleo e con rij la distanza tra lo
i–esimo e il j–esimo elettrone. Anche in questo caso operiamo in approssimazione di massa nucleare
infinita.
Il problema matematico di equazione (4.20) è di formidabile complessità e va oltre il livello di trattazione qui sviluppato. Ciò che è necessario ricordare è solo che la parte spaziale della funzione d’onda
totale dovrà necessariamente dipendere dai gradi di libertà spaziali di tutti gli N elettroni e, quindi, da
tutti i loro numeri quantici (n, l, m).
Per poter procedere nella trattazione, dobbiamo semplificare di molto le cose: adotteremo, infatti,
il cosidetto modello di elettroni indipendenti che consiste semplicemente nel trascurare il termine di
interazione elettrone–elettrone (il terzo termine del membro di destra dell’uguaglianza) nell’hamiltoniano
di equazione (4.20). Cosı̀ facendo, le coordinate spaziali degli N elettroni diventano separabili e, come al
solito, la funzione d’onda totale sarà esprimibile come prodotto di funzioni d’onda di elettrone singolo:
Ψn1 ,l1 ,m1 ,··· ,nN ,lN ,mN (r1 , θ1 , φ1 , · · · , rN , θN , φN ) =
ψn1 ,l1 ,m1 (r1 , θ1 , φ1 ) ψn2 ,l2 ,m2 (r2 , θ2 , φ2 ) · · · ψnN ,lN ,mN (rN , θN , φN )
dove la i–esima funzione d’onda è soluzione della equazione di Schrödinger di singolo elettrone
1 Ze2
~2 2
∇ −
ψni ,li ,mi (ri , θi , φi ) = Ei ψni ,li ,mi (ri , θi , φi )
−
2me i
4π0 ri
(4.21)
(4.22)
Ei essendo l’energia dello i–esimo elettrone (indipendente).
Alla funzione d’onda (4.21) va naturalmente aggiunta la parte di spin che risulta essere il prodotto
delle funzioni di spin di singolo elettrone χi . In definitiva, quindi, la funzione d’onda totale per un sistema
di N elettroni indipendenti è:
Ψ(1, 2, · · · , N ) = ψα1 (1)ψα2 (2) · · · ψαN (N )χ1 χ2 · · · χN
(4.23)
dove abbiamo introdotto l’abbreviazione ψni ,li ,mi (ri , θi , φi ) = ψαi (i).
Nel ragionamento che ha portato alla equazione (4.23) abbiamo implicitamente assunto che gli elettroni
fossero distinguibili come in effetti è per qualunque particella classica. In altre parole, abbiamo di fatto
assunto che fosse possibile sistemare l’elettrone numero 1 nello stato a numeri quantici α = (n1 , l1 , m1 ),
l’elettrone 2 nello stato a numeri quantici β = (n2 , l2 , m2 ) e cosı̀ via. È tuttavia possibile dimostrare
che in meccanica quantistica un insieme di particelle identiche (quale, appunto, l’insieme degli elettroni
di un atomo) è un insieme di particelle indistinguibili. Non è possibile, quindi, procedere formalmente
come abbiamo fatto perchè non è consentito selezionare lo i-esimo elettrone e sistemarlo sullo stato αi =
(ni , li , mi ): poichè sono tutti uguali ed indistinguibili non sapremmo proprio come scegliere esattamente
l’elettrone i. L’espressione più corretta per la parte spaziale della Ψ(1, 2, · · · , N ) non è dunque quella
che compare in equazione (4.23), ma piuttosto quella data da una combinazione lineare di prodotti (tra
funzioni di singolo elettrone) corrispondondenti a tutte le possibili permutazioni degli N elettroni sugli N
stati quantici αi = (ni , li , mi ) possibili. Formalmente, ciò equivale a scrivere la funzione d’onda in forma
determinantale:
ψα (1) ψβ (1) · · · ψν (1) 1/2 ψα (2) ψβ (2) · · · ψν (2) 1
ψα (3) ψβ (3) · · · ψν (3) (4.24)
N!
···
·
·
·
·
·
·
·
·
·
ψα (N ) ψβ (N ) · · · ψν (N ) La funzione d’onda espressa in questo modo si chiama determinante di Slater.
È noto dall’algebra lineare che un determinante cambia segno in corrispondenza di uno scambio tra
due sue righe. Questa operazione matematica corrisponde fisicamente allo scambio di due elettroni. Ne
risulta, dunque, che la funzione d’onda totale di un insieme di N elettroni è antisimmetrica rispetto allo
scambio di due elettroni. Questo fondamentale risultato si chiama principio di Pauli. In altre parole: se
noi scambiamo l’elettrone i–esimo con il j–esimo (cioè se attribuiamo all’elettrone i i numeri quantici e la
posizione di j e viceversa), allora la funzione d’onda totale cambia di segno. Questo risultato si dimostra
valido anche quando non si adotti l’approssimazione di elettroni indipendenti.
Esiste un’altra conseguenza fisica della forma determinatale della funzione d’onda: se due stati sono
uguali (per esempio se α = β nell’equazione (4.24)) allora il determinante è nullo perchè due sue colonne
sono uguali. Quindi il determinate di Slater impone che sia nulla la funzione d’onda totale di un insieme
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
56
Figura 4.7: Struttura elettronica di stato fondamentale per i primi 10 elementi della tabella periodica.
Ciascuna riga di caselle corrisponde a una shell elettronica diversa.
di N elettroni in cui due (o più) tra essi occupino lo stesso stato. Il principio di Pauli - chiamato per
questo anche principio di esclusione - implica quindi che dato un sistema di N elettroni non è possibile
sistemarne due (o più) sullo stesso stato quantistico. Ovvero: non è mai possibile avere due (o più)
elettroni esattamente con gli stessi quattro numeri quantici (n, l, m, s). Al più, fissati i numeri (n, l, m)
sarà possibile piazzare su questo stato due soli elettroni con spin antiparallelo s = ±1/2, rispettivamente.
4.5
La tabella periodica degli elementi
Completato il quadro quanto–meccanico con l’introduzione dello spin e del principo di esclusione, possiamo analizzare i criteri che stanno alla base della costruzione del sistema periodico degli elementi.
Innanzitutto possiamo subito affermare che su uno stato quantistico definito dalla coppia di numeri
quantici (n, l), possiamo accomodare fino a 2(2l + 1) elettroni, senza violare il principio di Pauli. Infatti,
su ciascuno dei (2l + 1) valori possibili di m possiamo piazzare 2 elettroni con valori di spin diversi: spin
“up” e spin “down”.
Dovendo, quindi, sistemare N elettroni sui diversi livelli, cominceremo da n = 1, l = 0 e vi piazzeremo
fino a due elettroni con spin antiparallelo. Se abbiamo un solo elettrone, costruiremo l’atomo di idrogeno,
se ne abbiamo due, costruiremo l’atomo di elio. Proseguiremo, quindi, con lo stato n = 2, l = 0 su cui,
di nuovo, potremo accomodare fino a due nuovi elettroni “up” e “down”. L’atomo di litio è il terzo
elemento della tabella periodica: due elettroni con spin antiparallelo sono sistemati sul livello n = 1 e un
solo elettrone spaiato è accomodato sul livello n = 2, l = 0. Aggiungendo un quarto elettrone su questo
stato, ma con spin antiparallelo, costruiamo l’atomo di berillio.
Sullo stato n = 2, l = 1 possiamo invece sistemare fino a 6 nuovi elettroni. Il criterio con cui fare
ciò (ovvero: il criterio con cui occupare i tre stati con m = −1, 0, +1) è stabilito dalla regola di Hund:
lo spin risultante per lo stato elettronico fondamentale deve avere il più grande valore compatibile con il
principio di esclusione. Ne segue, quindi, che il primo tra questi sei nuovi elettroni si sistema sullo stato
n = 2, l = 1 con un certo spin: si ottiene cosı̀ l’atomo di boro. Il secondo e il terzo elettrone di questo set
si accomodano sullo stesso livello, con spin paralleli ai precedenti: si ottengono, rispettivamente, l’atomo
di carbonio e quello di azoto. Il quarto elettrone dovrà, necessariamente, assumere spin antiparallelo: ciò
corrisponde all’atomo di ossigeno. I successivi due, seguiranno questa regola portando alla formazione
dell’atomo di fluoro e di neon. La figura 4.7 riassume questo schema.
CAPITOLO 4. FISICA ATOMICA
57
Iterando questa costruzione per i livelli elettronici con n > 2 si può costruire - con qualche eccezione in
corrispondenza dei livelli con n > 4 - l’intero sistema periodico degli elementi, dando piena giustificazione
alla struttura della tabella periodica ricavata empiricamente da Mendeleev.