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Hamer
con scarnificazioni
Testo e foto
di Anna Maspero
L
’essenza dell’Africa sta nella sua sconfinata varietà …in Africa ogni grande comunità ha la sua cultura, un suo sistema di usi e di fedi, una propria lingua e i propri tabù, e tutto ciò forma un intrico incredibilmente complicato e misterioso. (Kapuscinski, Ebano)
L'Etiopia è un incredibile mosaico di razze ed etnie, un
incrocio di culture e religioni. Solo alcuni mesi fa ero rimasta affascinata dall’altopiano etiopico, una terra antica, biblica, splendida nel suo isolamento geografico e
culturale. Sono tornata in Etiopia, questa volta per andare verso est, ad Harar e Gibuti, terre musulmane do-
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ve la cultura africana si mescola a quella araba. E verso le regioni del grande e selvaggio sud lungo il corso
dell’Omo, fin dove il fiume si getta nelle acque del Lago
Turkana: sono le terre dei Borana, dei Konso, degli
Hamer, dei Galeb, dei Karo, dei Mursi, dei Bodi, culture animiste sopravvissute quasi indenni alla ‘civiltà’.
Nonostante gli scambi e le contaminazioni inevitabili
fra le varie etnie, ognuna di esse ha mantenuto un’incredibile continuità di tradizioni e costumi, anche forse
grazie alla reciproca ostilità e all’isolamento in cui hanno vissuto fino a tempi recenti. Lungo la Rift Valley e la
Valle dell’Omo i paesaggi sono incantevoli: una sequenza di laghi e colline, con la savana cespugliosa o
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aperta, punteggiata da euforbie e acacie. Il clima troppo caldo e secco, le crisi ambientali, le malattie, dalla
malaria alla febbre gialla, e la diffusione della mosca
tse tse, rendono però queste terre inospitali e causano
migrazioni e scontri fra le varie etnie per difendere pascoli e sorgenti. Sono guerrieri e pastori seminomadi,
dediti ad un’economia di sussistenza e sempre in lotta
con le tribù vicine nella ricerca di acqua e terreni fertili
per le loro mandrie. Qui, come in tanta parte di mondo,
l’acqua è ancora l’elemento che scandisce il ritmo delle
giornate. Andare al pozzo o alla pompa, spesso lontani chilometri, portare le mandrie e le greggi all’abbeverata al fiume o ai ‘pozzi cantanti’, scavare buche sem-
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ETIOPIA
Il gruppo a Chew Bahir (Lago Stefania)
lo scopo di questo lavoro da dannati di bolgia dantesca
è nutrire il bestiame che pare così produrre latte migliore ed essere più prolifico…se non è amore questo …
IL SALTO DEL TORO
pre un po’ più profonde nel letto dei fiumi stagionali e
aspettare che un po’ d’acqua torbida si raccolga sul
fondo. Il ritmo della settimana è invece scandito dalla
regolare successione dei mercati, luoghi di scambi, ma
soprattutto d’incontro, di socializzazione e di informazione. Non c’è televisione né telefono, non ci sono i
giornali né ci sono lingue scritte (mi riferisco a quelle
delle tribù), mentre quelle parlate appartengono a ceppi diversi e spesso fra loro incomprensibili. Il linguaggio
è quello dei corpi dipinti, delle acconciature sofisticate,
delle deturpazioni, dei piattelli labiali e auricolari, delle
scarificazioni, degli abiti in pelle adorni di perline e
conchiglie. La cura del corpo come quella per le mandrie, unici beni disponibili, sono assolute.
Noi ‘ferengi’, uomini bianchi, con i nostri corpi così terribilmente pallidi, grassi e vestiti, ci sentiamo inevitabilmente elementi estranei e dissonanti fra i loro corpi dalle forme perfette ed armoniche, dove la pelle scura dipinta con terra color bianco, ocra e rossa è un vestito di
bellezza assoluta e di primordiale sensualità. Anche le
deturpazioni, le cicatrici, le frustate, l’omicidio stesso
possono essere giudicati come usanze barbare e primitive, e sicuramente lo sono in base al nostro metro di
giudizio, ma per queste popolazioni significano soprattutto identità e senso di appartenenza, qualcosa che
noi, uomini della globalizzazione, abbiamo irrimediabilmente perso.
BORANA, per amore delle vacche
Mi avevano sconsigliato di andare dai Borana: “è arrivato l’acquedotto, i pozzi non cantano più…” invece a
Dublock i pozzi cantano ancora. E’ mattino, sei uomini
calati nei profondi pozzi a gradoni riempiono l’abbeveratoio di terra pressata passandosi i secchi dal fondo
alla superficie e dalla superficie al fondo, al ritmo cadenzato dei loro canti, con una sincronia da provetti
giocolieri. Poi tutto lo spazio a disposizione viene invaso dalle mandrie di zebù, le vacche con la tipica gobba
sulla schiena, che arrivano per l’abbeverata dall’arida
savana.
Da El Sod ci vuole un’ora di cammino per raggiungere
il lago nero come pece che occupa il fondo del cratere:
sembra più catrame che sale. A poco a poco avvicinandosi si fanno più distinte le esili figure di uomini nudi che, immersi nell’acqua, con lunghe pertiche staccano dal fondo ammassi di fango salato, li portano a riva
e poi li caricano sugli asini che risalgono fino al bordo
del cratere e raggiungono i villaggi. Ancora una volta
(o meglio la fuga del vitello, quando le feste non sono
organizzate dall’Ente Turismo)
Siamo in terra Hamer. Gli uomini hanno fisici atletici, si
dipingono con terre e pigmenti vegetali color ocra e
bianco e indossano elaborate acconciature, crocchie
scolpite e sormontate da penne di struzzo. Le donne sono vestite di pelli, adorne di conchiglie, pesanti collari e
bracciali, i capelli impastati d’argilla. Praticano riti di
iniziazione, fra cui il famoso salto del toro: il ragazzo
iniziato deve ‘saltare’ per quattro volte senza cadere
una decina di tori affiancati correndo sulla loro schiena.
I nostri ‘informatori’ al mercato di Dimeka ci confermano una cerimonia di iniziazione per l’indomani.
Raggiungiamo il villaggio situato sulle colline circostanti e subito veniamo quasi travolti da un gruppo di giovani donne che ballano scatenate, agitando kalashnikov al suono di trombe di latta: sono eccitatissime, hanno i corpi lucidi e sudati e le schiene sanguinanti. Con
aria provocante e spavalda porgono ai giovani uomini
dei rami lunghi e flessibili chiedendo di essere frustate:
non un lamento, non una smorfia di dolore, ma anzi la
richiesta di nuove frustate. Sono le giovani parenti dell’iniziato che gli dimostrano così il loro affetto: le cicatrici rimarranno a testimoniare il loro valore. I "maz", i
giovani già iniziati, preparano per la cerimonia e incoraggiano il ragazzo: gli sciolgono le trecce e gli fanno
un’acconciatura leonina, lo spogliano e lo coprono con
una semplice pelle di vacca. Viene liberato il vitello che
dovrà servirgli da ‘pedana’ per saltare sulla groppa dei
tori, ma entrambi, il giovane uomo e il giovane vitello,
sono emozionati e spaventati, l’animale fugge nella savana spinosa, il ragazzo corre all’inseguimento … il vitello è introvabile, la festa è sospesa, il sole cala all’orizzonte. Chissà se al nostro giovane daranno una seconda opportunità o se rimarrà un reietto della sua tribù, infatti non completare il salto del toro comporta lo
scherno per il resto della vita.
HAMER E MIRAGGI
I nostri fuoristrada corrono veloci sulla crosta piatta e
salata del Chew Bahir, l’ex Lago Stefania che solo durante la stagione della piogge si copre di uno strato leggero d’acqua. Adesso la superficie è rivestita da cristalli di sale che riflettono la luce e popolano l’orizzonte di
miraggi: laghi, isole, alberi. Poi un branco di zebre lucide e scattanti ci taglia la strada e fugge rapido, quasi
esse stesse un miraggio. Arriviamo ad un’isola di roccia, un’isola vera, dove una sorgente calda ha regalato
un po’ di vita vegetale a un luogo di bellezza lunare.
All’improvviso si materializzano dal nulla tre giovani
Hamer armati di tutto punto: ai loro piedi una gazzella
uccisa, il loro cibo. Che ci fanno qui, nel mezzo di questa distesa salata? Da giorni aspettano, aspettano nascosti che un un Borana, un ragazzo come loro ma vestito diversamente, sconfini per ammazzarlo. Il più
grande mostra con orgoglio il torace coperto di scarificazioni verticali, una per ogni nemico ucciso. I più giovani devono ancora dar prova di coraggio per divenire
uomini. Non è cambiato molto in questa regione selvaggia, se non che una volta i giovani Hamer usavano
la lancia, ora maneggiano disinvoltamente un kalashnikov e gli agguati sono diventati scontri sanguinosi.
I MURSI E LA CORDA
Cosa ci può fare un giovane Mursi con la corda di traino dei nostri fuoristrada? (definirla cavo mi sembra esagerato, era una corda di nylon di una decina di metri
che quando entrava in tensione provocava il fuggi fuggi generale nel timore che rompendosi avesse un ritorno tipo elastico…)
Immagino che ai suoi occhi fosse un tesoro prezioso.
Mai però prezioso quanto lo era per noi… Un violentissimo temporale notturno aveva trasformato i 100 km di
già difficilissima pista percorsi all’andata, in un acquitrinio dove un fango colloso e pesante si appicicava alle suole delle scarpe e alle gomme delle auto rendendo
vano qualsiasi tentativo di procedere. Fu così che mi trovai a dover riscattare per 20 birr (poco meno di tre dollari…) la nostra corda di traino! Ero così disperata che
riuscivo a trovare la cosa divertente, la classica situazione tragicomica… Ma per il giovane Mursi il furto
era normale, fa parte dei loro geni ed è una tradizione
da rispettare. Secondo un antropologo, dopo qualche
anno è probabile che una vacca torni al punto di partenza: i Mursi rubano l’animale ai Bume, i Surma ai
Mursi, i Bume ai Surma e così la vacca torna a casa. Nel
frattempo l’animale non corre grossi rischi perché le
vacche non sono allevate allo scopo di essere mangiate, sono uno status symbol come l’auto da noi e in più,
a differenza delle auto, producono latte e si riproducono. Se poi c’è proprio bisogno di bere qualcosa di più
energetico, si incide una vena del collo e si beve un po’
di sangue mescolato al latte … l’animale non ne risente
pare e in fondo i salassi erano una pratica comune anche fra gli umani.
Per raccontare la fine della nostra avventura: riscattata
la corda e confidando in un po’ di fortuna, quando
bloccati dal fango avevamo perso ogni speranza di riuscire a ripartire, è comparso un enorme truck e nel cassone una squadra di giovani muscolosi: praticamente
un fenomeno paranormale di materializzazione del
pensiero, visto che erano ore che lo sognavo. Così in
16 ore, dopo decine di impantanamenti e di duro lavoro di pala e accetta abbiamo percorso i 100 km che separano Omomursi, sperduto villaggio sull’Omo, da
Jinka, una metropoli ai nostri occhi, ma più probabilFesta Hamer del salto del toro
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ETIOPIA
mente un villaggio un po’ più grande degli altri nel sud
dell’Etiopia, da dove però la pista torna a essere transitabile.
I MERCATI
L’Etiopia è un paese in cammino. Da nord a sud, da est
a ovest si incontrano sempre persone in cammino.
Perché è sempre giorno di mercato. E’ facile capire dove, basta seguire la corrente. I mercati iniziano tardi,
verso le 11, perché la gente arriva da lontano, raramente sui cassoni dei camion, quasi sempre a piedi,
scalzi per lo più, portando tutto a braccia o in testa (il
concetto di ruota non sembra interessarli più di tanto).
Le donne -come bestie da soma- portano pesanti carichi di legna, o camminano con le ceste in perfetto equilibrio sulla testa, un bambino sulla schiena e un altro per
mano, gli uomini con l’immancabile bastone o con il
"borkota" il tradizionale sgabello-poggiatesta, e poi
asini, capre e talvolta carovane di dromedari. Il mercato: ma cosa vendono? Più o meno tutti le stesse merci,
burro conservato in ciotole di zucca decorate, cereali,
caffè (qualche volta solo le bucce), frutta, una capra,
due galline. Nessuno ha fretta, pochi fanno acquisti,
viene il dubbio che non siano lì per vendere, ma solo
per incontrarsi, per il piacere di stare insieme, di farsi
vedere.
HARAR, CITTA’ D’ORIENTE
Salam aleikum, la pace sia con voi, è il saluto che si
scambiano gli uomini; indossano l’osgunti, una specie
di sarong di cotone e masticano chat (il qat yemenita,
foglie leggermente euforizzanti). Sono ad Harar, la mitica città delle antiche cronache africane. Entro in una
casa tipica aderè e per un attimo mi sembra di essere a
Ghadames, Libia: il pavimento a vari livelli è coperto di
stuoie e cuscini, i muri sono decorati con cesti e catini
smaltati, le donne sembrano zingare, indossano abiti
coloratissimi, hanno il capo coperto da un velo e pantaloni sotto la gonna. Solo l’aroma intenso del caffè sostituisce il profumo più morbido del tè. Fuori vi è la vecchia città araba cinta di mura, la quarta città santa musulmana, per secoli interdetta agli stranieri, ‘violata’ in
incognito solo nel 1855 dall’esploratore inglese Richard
Burton. E’ un dedalo di vicoli trasformati in un grande
mercato. Conta, dicono, 99 moschee da cui ad intervalli regolari risuona l’invocazione del muezzin.
Rimbaud, il poeta maledetto, a vent’anni dimenticò la
poesia e lasciata Parigi iniziò la sua vita nomade di
mercante e qui abitò a lungo in cerca di fortuna con
commerci non sempre leciti, armi, forse schiavi. Harar
non è più la città bianca che immaginavo, un angolo di
Arabia Felix in terra d’Africa: è poverissima, sporca e
trascurata, il profumo di incenso che arde nei bracieri
delle case si mescola a quello dei rigagnoli maleodoranti delle fogne a cielo aperto, moltissimi i mendicanti che dormono su marciapiedi avvolti in teli di plastica.
E’ però ancora un luogo che seduce con una strana
magia che nasce dalla fusione della cultura araba con
quella africana, dalla mescolanza di credenze, religioni, architetture, tradizioni e caratteri somatici. E poi
Harar è l’unico posto al mondo dove gli uomini ‘addomesticano’ le iene. La sera fuori dalle mura un branco
di iene appare improvvisamente dal buio al richiamo
degli ‘iena men’ che offrono loro brandelli di carne: è
un’abitudine antica, alcuni dicono per evitare che gli
animali entrassero in città, altri per ringraziare della fine di un’epidemia.
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NESCAFE’, NO GRAZIE
CHAT
Una buona notizia per il viaggiatore: l’Etiopia è uno dei
pochi paesi dove al mattino non ti servono il nescafè!
Ma non si tratta di ricordi del passato coloniale italiano,
qui il caffè è una tradizione ben più antica. La pianta
del caffè proviene dall’Africa centrale dove cresceva la
qualità Robusta meno pregiata e proprio sulle colline di
Harar si incominciò a produrre un chicco allungato, la
qualità Arabica che dall’Africa orientale attraverso il
Mar Rosso arrivò nello Yemen al porto di Mocha per poi
diffondersi nel resto dei paesi arabi e in tutto il mondo.
Si racconta che Al-Shadhili, un eremita islamico, preparò proprio a Mocha nel 1200 la prima tazzina di caffè, mentre fino ad allora venivano solo masticati i chicchi o fatti infusi con le foglie. La cerimonia del caffè è
forse la tradizione più diffusa in un paese così frammentato in tante diverse etnie e religioni. Mi è stato servito il caffè preparato secondo il rito tradizionale sul pavimento dei bar, al nord, con alle mie spalle una trionfante vecchia Faema per l’espresso, così come in una
capanna di terra pressata e paglia nell’estremo sud, in
terra Hamer, e naturalmente nelle coloratissime case
Aderè di Harar. Addirittura in un bordello di Gibuti un
pomeriggio, prima dell’arrivo dei clienti, una donna
etiope dagli occhi dolcissimi stava preparando il caffè
secondo l’antico rito e mi ha invitato all’interno per offrirmene una tazza. Offrire un caffè è per l’etiope segno
di ospitalità e amicizia e sarebbe offensivo il rifiutarlo,
anzi la tradizione vuole che se ne accettino almeno tre
tazze; fortunatamente la seconda e la terza, fatte con
l’aggiunta di acqua allo stesso caffè, sono meno forti.
Certo, non bisogna aver fretta, la cerimonia del caffè è
praticamente l’antitesi del nostro caffè espresso e segue
un preciso rituale. Si sparge sul pavimento dell’erba
verde e fresca, in un braciere viene messo dell’incenso
profumato, in una padella su un fornelletto a carbone si
tostano i chicchi verdi, lasciando che l’aroma intenso si
diffonda nell’aria, poi si macinano in un mortaio e si
mettono in infusione nella caffettiera di argilla lucida
finché l’acqua bolle. Pare che ad Harar ci sia abitudine
di rivolgere una preghiera che recita più o meno così:
“Caffettiera dacci pace, caffettiera fa crescere i bambini, accresci la nostra ricchezza, ti preghiamo, proteggici dal male, dona a noi pioggia ed erba.”. Il chicco di
caffè ancora oggi è usato in molti riti magici diffusi fra
gli Oromo e forse è proprio per questo profondo rispetto e questa ritualità che il caffè in Etiopia viene chiamato ‘buna’, chicco, mentre in tutto il mondo il suo nome
deriva dalla parola araba qahwa.
(parlo di droga, non di informatica)
Il vecchio treno che collega Addis Abeba a Gibuti appena passato il confine si è trasformato in un mercato
viaggiante: dalle borse e da sotto le gonne delle donne
sono comparsi decine di involtini tubolari di foglie di
banano con dentro i teneri germogli di chat. Ogni fermata si trasforma in un assalto al vagone per acquistare la dose quotidiana. Fuori dalle stazioni il paesaggio
è desertico, lavico e desolato, poi l’aumento esponenziale dei sacchetti di plastica, delle carcasse d’auto e
dei rifiuti segnala l’approssimarsi di Gibuti, che già nel
XIII secolo fu definita dal grande viaggiatore Ibn Battuta
“La più sporca, sgradevole e puzzolente città del mondo”. Il treno attraversa la periferia della città: definirla
‘degradata’, aggettivo tanto abusato quando si parla di
periferie, mi sembra improprio. Non credo che qui sia
mai esistito nulla che potesse ’degradarsi’, ci sono solo
capanne di lamiera, stracci e plastica, è il regno del
provvisorio, dell’effimero. Dopo sedici ore da Dire
Dawa in un treno cargo, vagone di 3 classe, opto per
un albergo nel quartiere europeo, un po’ più tranquillo
di quello africano. Poi decido di fare un giro in città. Per
orientarmi salgo sulla terrazza di un vecchio e trascurato palazzo coloniale: davanti a me il minareto bianco e verde della moschea di Hamoudi, sotto di me il
mercato di Place Rimbaud, un trionfo di giallo: banane,
arance, i vestiti delle donne…. Improvvisamente caroselli di auto e un concerto di clacson tipo ‘la Roma ha
vinto lo scudetto’. Non capisco subito il motivo dello stato di eccitazione e frenesia collettiva che improvvisamente si impadronisce della città. Poi ricordo le scene
della mattina nelle stazioni: è appena arrivato il chat.
Ogni giorno un aereo della Gibuti Airlines (meglio conosciuta come ‘chat airlines’) decolla da Dire Dawa con
un carico di tonnellate di chat freschissimo raccolto sulle colline della vicina Harar. Se in città c’è un po’ di malumore o tensione l’aereo arriva in anticipo e talvolta ritorna addirittura una seconda volta. E’ un affare di centinaia di milioni di vecchie lire, chiaramente in regime
di monopolio. Decine di uomini si precipitano fuori da
lussuosi fuoristrada o da scalcinati taxi, agitano mazzette di denaro, si spintonano, urlano, afferrano la ‘dose’ quotidiana di chat e ripartono sgommando per ritirarsi nelle mabraz a masticarlo lentamente, per ore, alla ricerca di un’effimera euforia. Le strade si svuotano,
la città ricade nel torpore, il mercato riprende il suo ritmo tranquillo.
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Villaggio mursi
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