Capitolo 1 - Giolitti
Dopo la morte di Umberto I, il figlio Vittorio Emanuele III all'età di 31 anni venne incoronato re
d'Italia. Regnò per 46 anni, sopravvisse all'ascesa e alla caduta di Mussolini, fu testimone di due
guerre mondiali e morì in esilio in Egitto. Non fu un grande re, era afflitto da un evidente complesso
d'inferiorità a causa del suo aspetto fisico deforme. La sua più grande colpa fu quella di aver
consegnato l'Italia ai fascisti nel 1922. Il suo più grande merito fu di aver aperto un nuovo corso
politico nel 1901, rifiutando il ricorso alle leggi eccezionali e favorendo un rapido ritorno alla
legalità costituzionale. D'accordo con il ministro Giovanni Giolitti, concesse un'amnistia ai
condannati politici e ristabilì la più ampia libertà di associazione, di propaganda e perfino di
sciopero in un periodo in cui la figura dello scioperante veniva equiparata a quella di sovversivo.
Dall'inizio del secolo fino alla vigilia della grande guerra, la vita politica italiana venne dominata
dalla figura abile e spregiudicata di Giolitti. Definito un conservatore illuminato, nei suoi anni di
governo cercò la collaborazione del partito socialista per farne un sostenitore dello stato e non un
avversario. Il momento politico che l'Italia attraversava all'inizio del secolo, sembrava rendere
possibile questo progetto. Il partito socialista, infatti, con la guida di Filippo Turati, era orientato
verso una linea riformista e Giolitti riuscì a far approvare, senza troppe resistenze, una serie di leggi
che proteggevano la classe operaia, quali l'assicurazione contro gli infortuni, le pensioni a favore
dei vecchi lavoratori, il riposo festivo, la tutela delle donne e dei ragazzi impegnati nelle fabbriche,
la creazione di un Commissariato per l'emigrazione, la creazione di un Consiglio Superiore del
Lavoro. Agli inizi del secolo, le industrie stavano vivendo la seconda fase del loro sviluppo,
incrementato dai numerosi cotonifici e lanifici che riuscirono a moltiplicare la produzione tessile.
L'introduzione di nuovi macchinari facilitò il lavoro di molte aziende e fattorie agricole.
Capitolo 2 - I primi scioperi
Nel Meridione, la mancanza di industrie e un'agricoltura ancora decisamente rudimentale non
fecero che peggiorare le condizioni dei contadini costretti, per sfuggire alla miseria, ad emigrare. Il
maggior benessere raggiunto dal nord non portò, comunque, alla scomparsa delle lotte sociali;
un'ondata di scioperi dilagò per tutta la Valle Padana e, in special modo, nel Mantovano. Queste
dimostrazioni toccarono il culmine nel 1904 con il primo sciopero generale proclamato dalla
Camera del Lavoro di Milano per iniziativa di Antonio Labriola. Giolitti, garantito l'ordine
pubblico, lasciò che la protesta si spegnesse spontaneamente. Giolitti, subito dopo lo sciopero,
sciolse le Camere e proclamò nuove elezioni. Le elezioni confermarono le previsioni di Giolitti: i
socialisti videro diminuire i propri suffragi e la corrente rivoluzionaria di Arrigo Ferri fu battuta da
quella riformista e legalitaria di Filippo Turati. I problemi agitati dal socialismo convinsero Giolitti
a coinvolgere le forze progressiste per realizzare riforme utili alla società. Nel formare il nuovo
governo Giolitti non cercò solo l'appoggio dei socialisti, ma anche quello dei cattolici che già con le
elezioni del 1904 erano entrati nella vita politica italiana. Come i socialisti, anche i cattolici erano
divisi in due correnti: quella moderata e conservatrice e quella democratica e progressista che prese
il nome di Fronte Popolare e che costituì le radici della futura Democrazia Cristiana. Al fronte
popolare apparteneva un giovane sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo che si distinse in Sicilia
nell'organizzare le leghe contadine dimostrandosi sensibile ai problemi della classe lavoratrice.
Capitolo 3 - La belle époque
Con la presenza dei deputati socialisti e cattolici, Giolitti riuscì a dare alla Camera un volto che
rispecchiò più fedelmente la realtà sociale del Paese che, in quegli anni, stava mutando
profondamente. In effetti, nel primo decennio del nuovo secolo, gran parte degli Italiani avevano
migliorato le proprie condizioni economiche. Gli operai avevano ottenuto miglioramenti salariari e
una giornata lavorativa più corta; gli impiegati statali migliori retribuzioni, i braccianti delle zone
più evolute della Val Padana, riuniti in cooperative, avevano raggiunto un miglior standard di vita.
In definitiva, anche gli Italiani ebbero la loro Belle Epoque a base di divertimenti, follie, vacanze al
mare e ai monti. L'invenzione più rivoluzionaria del nuovo secolo fu indubbiamente l'automobile
destinata a trasformare radicalmente la vita dell'uomo. L'automobile incontrò anche il favore del re
che amava servirsene per compiere gite ed escursioni turistiche. All'inizio, le automobili che
circolavano in Italia erano di produzione straniera, ma con lo sviluppo della Fiat, fondata a Torino
da Giovanni Agnelli e a cui fecero seguito quello della Lancia, dell'Isotta Fraschini, dell'Alfa e poi
dell'Itala e della Bianchi, le automobili italiane si affermarono anche sui mercati stranieri. Si
cominciarono ad organizzare manifestazioni sportive ed agonistiche. Nel 1907 l'affermazione
italiana del raid Pechino Parigi confermò il valore tecnico a cui era giunta la nostra industria
automobilistica. La trasmissione di onde elettromagnetiche attraverso lunghe distanze fu realizzata
da Guglielmo Marconi che nel 1901 riuscì a lanciare da una stazione radio in Cornovaglia i primi
messaggi che oltrepassarono l'Atlantico. Nonostante fosse stata respinta in Parlamento la
nazionalizzazione dell'esercizio ferroviario, si continuò, in quegli anni, a incrementare questo
settore sino ad arrivare alla elettrificazione dell'intera rete. Il cinema, nato in Francia nel 1895, ad
opera dei fratelli Lumière, in Italia diventò in quegli anni uno spettacolo popolare con la nascita di
tre importanti case di produzione esercitando un vero predominio in campo europeo. Assunta una
struttura industriale, la produzione italiana realizzò soprattutto colossal di ambientazione storica, ma
si specializzò anche in film comici, seguendo la moda hollywoodiana.
Capitolo 4 - La guerra libica
In politica estera, l'Italia rimase legata alla Germania e all'Austria, ma contemporaneamente stese
intese con la Francia, l'Inghilterra e la Russia. Grazie a questi accordi, Francia ed Inghilterra
riconobbero all'Italia la possibilità di espandersi in Tripolitania e Cirenaica in cambio del
riconoscimento dei diritti francesi in Marocco ed inglesi in Egitto. L'Austria accolse poco
favorevolmente queste iniziative che di fatto avviarono il distacco dell'Italia dalla Triplice Alleanza.
Giolitti, nel settembre del 1911, dopo un duro ultimatum al sultano di Costantinopoli ordinò alle
truppe italiane di sbarcare sulle coste tripoline e cirenaiche che ancora dipendevano dalla Turchia.
Di fronte al primo sbarco, avvenuto a Tripoli il 5 ottobre, i Turchi si ritirarono nell'interno credendo
che le nostre forze fossero superiori. Ma, pochi giorni dopo, le truppe turche del colonnello
Enderbey coadiuvate dai beduini del deserto, passarono all'attacco e la posizione del nostro
contingente diventò estremamente critica. In Cirenaica, l'occupazione si limitò a Bengasi e a pochi
altri centri costieri, mentre l'interno restò interamente in mano ai Turchi. L'impossibilità di battere il
nemico nelle regioni interne spinse il governo italiano a portare la guerra alle porte di
Costantinopoli. La marina occupò, così, le isole del Dodecaneso e i Gardanelli, dimostrando, con
questo gesto audace, che neppure la capitale dell'Impero Ottomano poteva considerarsi al sicuro.
L'esaltazione colonialista travolse la borghesia e gli intellettuali come D'Annunzio e Marinetti che,
nel suo Manifesto Futurista, definì la guerra come la sola igiene del mondo, la sola morale
educatrice. Irriducibilmente ostile alla guerra furono i socialisti, mentre si mostrarono favorevoli i
nazionalisti, i cattolici e le popolazioni del Mezzogiorno che guardavano alle nuove colonie come
alla terra che avrebbe potuto accogliere migliaia di braccianti. Con un trattato di pace, l'11 ottobre
del 1912, la Turchia riconobbe all'Italia la sovranità sulle terre occupate che presero il nome di
Libia. L'impresa di Libia fece assumere alla sinistra del partito socialista, capeggiata da Benito
Mussolini, direttore dell'Avanti, posizioni sempre più ostili al Parlamento e contribuì a determinare
la crisi del sistema giolittiano
Capitolo 5 - La caduta di Giolitti
Giolitti, dopo aver inutilmente tentato di inserire nel suo governo l'opposizione di sinistra, cercò un
accordo con i cattolici che s'impegnarono a votare per i candidati liberali. Le elezioni del 1913 si
rivelarono per Giolitti un grande successo. Queste elezioni segnarono una pietra miliare nella storia
degli italiani, perchè per la prima volta, dall'unità, vennero ammessi al voto tutti i cittadini di sesso
maschile, anche se analfabeti, purchè avessero raggiunto i trenta anni d'età. Era la legge elettorale
emanata nel 1912 sul suffragio universale; rappresentava una delle riforme più importanti volute da
Giolitti e per molti anni caldeggiata dai socialisti. Il successo di queste elezioni fu di breve durata.
La guerra di Libia gli aveva provocato una rottura insanabile con i socialisti, mentre la concessione
del suffragio universale gli aveva definitivamente alienato l'appoggio dei nazionalisti e dei
conservatori. Giolitti rimase isolato da sinistra e da destra e un mese prima della guerra mondiale
divampò, improvvisa, inseguito alla proclamazione dello sciopero generale, una sollevazione
popolare che parve inarrestabile. Alla testa dello sciopero si posero il repubblicano Nenni,
l'anarchico Malatesta e il socialista Mussolini. I tre, però, si rivelarono incapaci di assumerne le
direttive e di incanalarlo verso obiettivi politici. Intanto a Giolitti, nel marzo del 1914, era successo
il liberale Antonio Salandra che affrontò questa prima grave prova in modo energico inviando nelle
regioni dove più forte fomentava la protesta un vero e proprio esercito di 100 mila uomini con
l'intenzione di reprimere ogni velleità di rivolta. Era questa la situazione interna italiana quando
arrivò la notizia dell'attentato di Sarajevo.
Capitolo 6 - Preludio alla grande guerra
Il 28 giugno del 1914 l'arciduca Francesco Ferdinando e la moglie vennero uccisi da uno studente
serbo Gavrilo Princip immediatamente arrestato e condannato a 25 anni di carcere. Mentre si
cominciava a sperare che anche questa volta si sarebbe salvata la pace, giunse la notizia che
l'Austria, spalleggiata dalla Germania, aveva inviato un duro ultimatum alla Serbia. La convinzione
di poter liquidare la Serbia senza scatenare un conflitto mondiale si rivelò ben presto errata e la
guerra coinvolse quasi tutti i Paesi europei. Il 1° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia e il
3 alla Francia, accanto alla quale si pose l'Inghilterra. Il giorno prima Salandra aveva annunciato la
decisione che l'Italia sarebbe rimasta neutrale. L'Europa si divise, quindi, in due blocchi
contrapposti, da un lato Austria e Germania, dall'altro Russia, Francia ed Inghilterra .
Capitolo 7 - L'Italia entra in guerra
Malgrado la dichiarazione di neutralità, nell'aprile del 1915, il Ministro degli esteri Sidney Sonnino
stipulava a Londra, all'insaputa del Parlamento un patto con le potenze dell'Intesa. L'Italia si
impegnava ad entrare in guerra entro trenta giorni e gli alleati le avrebbero riconosciuta a vittoria
avvenuta: il Trentino, l'Istria e la Dalmazia con l'esclusione di Fiume.Il 24 Maggio 1915 l'Italia
dichiarò guerra all'Austria. Quando venne data notizia del patto segreto scoppiarono tumulti alla
Camera e nel Paese tra neutralisti ed interventisti, ma alla fine il Parlamento, piegandosi alla
volontà del re e dell'opinione pubblica più turbolenta, finì per concedere poteri straordinari al
governo. All'inizio delle ostilità la preparazione militare dell'Italia era totalmente inefficiente. Le
forze armate difettavano di cannoni, mitragliatrici, camion, persino gli ufficiali. L'entrata in guerra
era stata dettata esclusivamente dalla convinzione che il conflitto stesse già volgendo al termine. Un
errore di valutazione dei responsabili politici italiani che, come vedremo, si riproporrà nella stessa
misura all'inizio del secondo conflitto mondiale. Non solo gli Italiani difettarono di materiali ed
equipaggiamento, ma anche i loro comandanti e in special modo il comandante in capo, Cadorna, si
rivelarono inadeguati e del tutto incapaci di pensare in termini di guerra offensiva. Lo stesso
Cadorna non aveva mai esercitato, prima d'allora, un comando strategico; la sua sola benevolenza
consisteva nel fatto che suo padre aveva liberato Roma nel 1870. Era un buono organizzatore, ma
mancava assolutamente di ingegno, di inventiva strategica ed oltretutto non teneva in nessuna
considerazione il benessere e quindi il morale delle sue truppe. Quando l'Italia si gettò nel conflitto
era in atto la rottura del fronte russo in Galizia. Gli Austriaci allora poterono distogliere rilevanti
truppe dal fronte orientale e dirigerle su quello occidentale - italiano. Aveva così inizio, nell'inverno
del 1915, una lunga ed estenuante guerra di posizione. Lo sforzo militare italiano fu concentrato
soprattutto lungo l'Isonzo e sul Carso, ma il terreno accidentato e la mancanza di munizioni, resero
particolarmente difficile il compito delle truppe italiane. Gli Austriaci vennero sottoposti ad
incessanti attacchi che però comportarono un grande sacrificio di uomini e sostanzialmente non
modificarono le posizioni tenute all'inizio della guerra.
Capitolo 8 - La controffensiva austriaca
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Capitolo 9 - Gli U.S.A. e la Russia
Agli inizi del 1917, l'affondamento di otto navi mercantili americane, provocato dai sommergibili
tedeschi, spinse gli Stati Uniti a schierarsi al fianco dell'Inghilterra e della Francia e ad entrare in
guerra. "La guerra sottomarina, scatenata dalla Germania, contro il commercio, è una guerra contro
l'umanità e contro tutte le nazioni e noi combatteremo per i valori che sono sempre stati i più cari ai
nostri cuori: la democrazia, i diritti e le libertà delle piccole nazioni", così dichiarò il Presidente
Wilson al Congresso americano. Anche nei confronti del popolo tedesco, Wilson volle apparire più
come un liberatore che come un nemico, dichiarando di battersi per la sua stessa liberazione e
contro la casta che lo dirigeva. Per chiarire le sue intenzioni, Wilson formulò i famosi 14 punti che
costituirono la base ideologica sulla quale avrebbe dovuto fondarsi la pace e che si riassumono
nell'autodecisione dei popoli e nel principio di nazionalità. Alle motivazioni umanitarie e politiche
che spinsero gli Stati Uniti a scendere in guerra vanno, però, aggiunte quelle di natura economica.
Infatti, i fortissimi prestiti elargiti ai Paesi in guerra contro Austria e Germania non permettevano
all'America di potersi disinteressare delle sorti del conflitto. L'ingresso degli Stati Uniti in guerra, il
6 Aprile del 1917, cambiò profondamente l'equilibrio delle forze e fu determinante per l'esito finale.
Capitolo 10 - Caporetto
Sul fronte italiano, si andavano, intanto accentuando le condizioni di stress a cui ormai, da due anni,
erano sottoposti i soldati nelle trincee. I rifornimenti ed i vari servizi operati da una mastodontica
burocrazia erano lenti ed assolutamente inadeguati. L'accordo tra industria e militari dava origine ad
enormi frodi sulle forniture: dalle scarpe di cartone alle maschere antigas che arrivavano ai reparti
già inutilizzabili o gravemente difettose. Il fronte italiano era oggettivamente uno dei più difficili,
infatti, si estendeva per 700 chilometri, dai Massicci Dolomitici alla foce dell'Isonzo. Le trincee
erano scavate nelle pietraie del Carso e quando i soldati riuscivano a conquistare una vetta,
improvvisavano ripari in mezzo alle rocce. Sottoposti a queste prove terribili, i soldati cercarono, a
volte, di esprimere la loro disperazione con ammutinamenti e diserzioni a cui, però, fecero seguito
puntualmente condanne a morte ed esecuzioni sommarie in aperto contrasto con l'affettuosa
solidarietà espressa da Vittorio Emanuele III quando andava a far visita, al fronte, alle truppe. Il
crollo del fronte russo consentì agli Austriaci di concentrare tutte le loro truppe sul fronte italiano;
questa volta la superiorità numerica era a favore delle truppe austriache. Nel corso della primavera e
dell'estate del 1917, la seconda e la terza armata italiana portarono a termine una serie di
sanguinosissime offensive sull'Isonzo, in direzione dell'altopiano di Bainsizza e sul Carso. Poi la
lotta subì una lunga sosta. Nell'ottobre del 1917, gli Austriaci condussero un'improvvisa e potente
controffensiva spezzando il fronte a Caporetto, sull'Isonzo, nella zona della seconda armata. La
sorpresa, gli errori dei capi militari, la disgregazione generale del morale delle truppe agevolarono il
successo austriaco che, in breve tempo, riuscì ad occupare tutto il Friuli ed il Veneto. Fu l'episodio
più drammatico ed angoscioso della nostra guerra, poichè la rottura del fronte, si tramutò in una
fuga disperata. Alle ingentissime perdite, 700.000 uomini, tra morti, feriti e prigionieri, si aggiunse
l'esodo dei profughi civili costretti ad abbandonare le loro case per non sottomettersi al nemico. In
un comunicato vergognoso, Cadorna addossò la colpa della disfatta alla viltà della seconda armata.
In realtà, la sconfitta fu dovuta, fondamentalmente, alla mediocrità di stratega dello stesso Cadorna.
Le conseguenze psicologiche di questa ritirata furono enormi, il re accennò persino ad una sua
abdicazione. Per la prima volta nella sua storia, il popolo italiano si unì e prese coscienza della
propria collettività nazionale. La disfatta provocò la caduta del governo. A Boselli successe Vittorio
Emanuele Orlando e il generale Cadorna fu sostituito finalmente dal generale Armando Diaz.
Durante la drammatica ritirata, la terza e la quarta armata erano riuscite a ripiegare ordinatamente,
attestandosi sul Piave e sul Monte Grappa, creando così un fronte unico con la prima armata che
fronteggiava il nemico nel Trentino.