INCHANTO Jessica Attene Se amate il progressive folk vi consiglio di volgere il vostro sguardo e le vostre orecchie verso le verdi colline della Val D’Orcia. Gli InChanto amano questa definizione ma in realtà si spingono ben oltre con un’opera, “Le stanze di Ambra”, la loro quarta fatica in studio, che abbraccia l’arte attraverso diverse forme d’espressione, la musica, il teatro, le belle illustrazioni a corredo del CD, la letteratura, in un insieme molto articolato ed affascinante, dai riflessi antichi ma dal taglio moderno. Non voglio anticiparvi altro perché in questa bella chiacchierata ci sono tutti gli ingredienti per invitarvi all’ascolto di questa bella realtà del nostro panorama musicale italiano, a dire il vero molto meglio conosciuta all’estero… ma questa non è una novità per parecchi artisti validi del nostro paese. Il vostro è un gruppo con una lunga attività alle spalle e quattro album in studio all’attivo: volete fare una breve presentazione per i nostri lettori? In particolare come è nata la vostra passione per la musica antica e come siete riusciti a riunire diverse persone con la stessa visione artistica? Cesare Guasconi: Partiamo dal… secolo scorso: il gruppo nasce come trio con il nome Pavane a metà degli anni ’90, nel momento in cui ci siamo resi conto che alcuni nostri brani composti anni prima (si parla degli anni ’80) continuavano a suscitare interesse tra una cerchia di appassionati; infatti proprio in quegli anni avevamo iniziato (giovanissimi) un’esperienza simile all’attuale dove già, accanto a brani di musica tradizionale inglese e irlandese, proponevamo brani originali di nostra composizione e in cui avevamo provato a coniugare musica, danza e immagini. Michela Scarpini: Del trio iniziale facevamo parte io al canto, Cesare alle tastiere e ai flauti Raffaele Giannetti che ha scritto la maggior parte dei testi del’ultimo CD. Raffaele condivideva con noi la passione per la musica antica ed il suo apporto iniziale nel gruppo è stato importante soprattutto riguardo ai testi: l’introduzione del latino in particolare ha impresso un carattere distintivo alle musiche di Cesare. Successivamente si è aggiunto Marco Del Bigo alle chitarre e con lui siamo diventati InChanto. Dopo vari cambi di organico siamo arrivati alla formazione strumentale attuale nel 2000, anno che ha visto l’uscita del primo lavoro “Muliermala” (per la Ethnoworld di Milano) dove era presente, in veste di ospite, Franco Barbucci al violino che di lì a poco si sarebbe aggiunto stabilmente al gruppo. Con il secondo CD “Amors” (sempre per la Ethnoworld) ha fatto il suo ingresso nel gruppo, al posto di Raffaele, Daniele Belloni ai flauti che è rimasto con noi sino al 2007, quando gli è subentrato Giampiero Allegro. Giampiero ha chiuso il cerchio, in quanto proveniente da precedenti esperienze in ensemble di musica barocca. Tutti i musicisti che negli anni hanno collaborato con noi hanno portato, con il loro variegato bagaglio di esperienze, un arricchimento al progetto InChanto. Il vostro precedente album era del 2006, immagino che l’elaborazione di questo nuovo lavoro abbia assorbito tantissimo tempo. Come mai questa gestazione così lunga? C. G.: Abbiamo iniziato a lavorare ai brani all’inizio del 2007. In realtà la scrittura della maggior parte del materiale musicale è stata abbastanza rapida, avendo sin dall’inizio creato uno “schema di lavoro” ispirato dallo svolgimento della storia. Le difficoltà maggiori sono state con i testi. Le prime stesure (approntate per l’imminenza dello spettacolo di Poggio a Caiano con Pamela Villoresi) non ci soddisfacevano: non volevamo operare una semplicistica descrizione della storia ma cercavamo una chiave di lettura diversa e più accattivante. Problemi extramusicali hanno poi rallentato per qualche tempo l’attività del gruppo: questa pausa ci ha permesso di focalizzare meglio alcune idee da cui ripartire per il completamento del lavoro. M. S.: I testi, che per la prima volta abbiamo scritto in italiano, si sono comunque dimostrati una vera sfida, non essendo il nostro un genere “cantautorale” e soprattutto volendo compiere un lavoro in cui parole e musica si completassero a vicenda. Cosa che del resto abbiamo sempre cercato di fare anche nei precedenti lavori pur componendo i testi delle canzoni in lingue diverse (latino, provenzale, spagnolo, maltese, còrso …). Rispetto alle opere precedenti “Le stanze di Ambra” si presenta più ricco e maturo, volete spiegarci come è avvenuta questa crescita e le differenze principali con le opere precedenti? M.S.: In cinque anni siamo “diventati adulti”. A parte gli scherzi, nei primi due lavori la maggior parte dei brani erano stati scritti già da tempo, nell’arco di diversi anni, riuniti solo successivamente con un “filo conduttore”, cosa che probabilmente li fa risultare più frammentari. Il terzo Cd “Città sottili” ha rappresentato da questo punto di vista un passo in avanti, grazie anche al passaggio alla nuova etichetta Radici Music. Con essa abbiamo trovato un’unità di intenti e per la prima volta il disco non è stato più soltanto una “raccolta di canzoni” ma un vero e proprio progetto discografico, dove ogni aspetto doveva essere curato, non ultimo quello grafico (e qui la professionalità di Aldo Coppola Neri della Radici e la mia passione per il disegno hanno trovato il loro giusto spazio). Il tema multiculturale del lavoro ha permesso infine di sperimentare nuovi linguaggi grazie alla ricerca sui testi fatta da Marco Del Bigo. C.G.: Con “Le stanze di Ambra” abbiamo cercato di andare ancora oltre: esso è stato composto integralmente a partire da un progetto che sin dall’inizio ha delineato tutti gli aspetti del lavoro da fare, dal tipo di brani che si sarebbero dovuti comporre, alla loro concatenazione, sino alla grafica. Sono stati quindi individuati alcuni punti salienti del racconto che avrebbero costituito i momenti “descrittivi” dell’opera (le “canzoni” vere e proprie): tra queste abbiamo stabilito di inserire degli episodi che possiamo definire più “emozionali” (forse quelli maggiormente progressive). Questi richiami musicali sono stati veri elementi di raccordo che hanno evidenziato il carattere di suite che sin dall’inizio volevamo esprimere. Va anche detto che siamo stati più determinati che in passato a non accettare soluzioni di cui non eravamo pienamente convinti: e questo, insieme a quanto detto sopra, pensiamo abbia portato ad un risultato di maggior omogeneità che speriamo sia percepito anche dall’ascoltatore. Certamente in questo momento alcune cose le rifaremmo in un altro modo e tra un mese in un altro ancora, in quanto nel tempo la percezione è destinata a cambiare. Del resto questo è normale nel nostro modo di lavorare: ad ogni disco cerchiamo sempre di dare un carattere che lo differenzi dal precedente, pur nel rispetto di quello che ormai consideriamo il “nostro stile”. “Le stanze di Ambra” si ispira a una leggenda toscana che permette tra l’altro di creare un legame fra musica, rinascimento e tradizione locale che, secondo me, sintetizza in maniera fantastica la vostra poetica. Come è nato l’interesse per questo racconto e in che modo lo avete trasposto in musica? C.G.: Abbiamo sempre cercato ispirazione, essendo la nostra una musica molto “descrittiva”, sia nella letteratura antica che nelle novelle popolari. Da tempo cercavamo un soggetto veramente “Toscano” su cui lavorare: molte novelle riportate in raccolte di fiabe toscane in realtà si ritrovano in tutta Italia con connotazioni leggermente diverse, oppure hanno una struttura troppo semplice (in quanto ricavate dalla tradizione orale) per il tipo di lavoro che volevamo sviluppare. La leggenda di Ambra e Ombrone si prestava perfettamente per svariati motivi: la sua ambientazione in luoghi a noi davvero molto vicini, sia nella versione popolare che in quella “colta” del Magnifico, il suo impianto mitologico derivato dalle Metamorfosi di Ovidio, gli svariati spunti che sembrava riuscire ad offrirci. M.S.: Insieme a Raffaele Giannetti (che come abbiamo accennato prima ha scritto la maggior parte dei testi del CD) abbiamo compiuto una lettura che si è sviluppata su più livelli e che ci ha guidato nell’ultima stesura dei testi e dei disegni che illustrano la storia: infatti Ambra è sì la ninfa del fiume, ma anche la villa preferita di Lorenzo de’ Medici e le “stanze” sono sì quelle della villa ma anche i “versi” che il Magnifico le ha dedicato nel suo poemetto, nonché i “luoghi” dell’anima di Ambra. Ed ecco che giocando su questi “doppi sensi” abbiamo cercato di condurre l’ascoltatore in un viaggio reale (attraverso le sale della Villa Ambra) e in un percorso immaginario, vissuto attraverso la suggestione della musica, del racconto offerto dai testi cantati e recitati, nonché dei disegni che come “affreschi” costituiscono una sorta di didascalica ma anche onirica rappresentazione della storia. La vostra opera non si limita soltanto alla musica ma è un tutt’uno con le illustrazioni e con la rappresentazione teatrale, mi riferisco ovviamente alle parti recitate sul disco ma anche all’uso di attori sul palco in diversi spettacoli che ho visto elencati nella vostra biografia. Immagino che siano rappresentazioni abbastanza complesse da portare in scena. Come è nata l’idea di questo tipo di spettacoli? Quali sono le esperienze più significative in questo senso? State preparando qualcosa per il prossimo futuro? M.S.: In effetti si tratta di spettacoli abbastanza impegnativi dato che ci occupiamo di tutti gli aspetti, non solo di quelli musicali. Per “Le stanze di Ambra”, poi, ogni rappresentazione è diversa dalle altre perché di volta in volta viene adattata al luogo di esibizione, ponendo la massima cura nel valorizzare gli aspetti architettonici o paesaggistici che lo contraddistinguono. Così ad esempio le due scalinate e il balcone del grande terrazzo della villa di Poggio a Caiano, come i resti archeologici e le antiche vasche del Parco dei Mulini a Bagno Vignoni ed ancora il colonnato dell’antica pieve di Badia a Isola a Monteriggioni o il parco di Villa Milesi a Lovere, hanno costituito una quinta speciale e dei percorsi privilegiati per la nostra esibizione soprattutto per quella delle attrici, della ballerina e degli “angeli” del Silence. La collaborazione con gli attori del Silence Teatro di Bergamo è nata in occasione della prima rappresentazione de “Le stanze di Ambra”, quella di Poggio a Caiano, con Pamela Villoresi: fu un’idea della pro-loco e da allora abbiamo coinvolto questi bravissimi artisti ogni qual volta se ne è presentata l’occasione. C.G.: Per quanto riguarda il futuro nuove idee ne avremmo: purtroppo stiamo attraversando un periodo di crisi economica tale che è molto difficile anche solo proporre determinati tipi di spettacolo proprio perché abbastanza onerosi. Tuttavia, pur con tutte le difficoltà del caso, continuiamo ad andare avanti con il nostro progetto, impegnandoci anche in altre direzioni come nella realizzazione di colonne sonore e a livello didattico con lezioni-concerto nelle scuole. La vostra musica è ricca di riferimenti di ogni genere e pesca da tradizioni musicali molto disparate temporalmente e geograficamente. Questo approccio è molto tipico del folk-prog, come mai lo preferite ad una ricostruzione storica più accurata? C.G.: Semplicemente perché sin dagli inizi il nostro obbiettivo è stato quello di scrivere musica originale piuttosto che riproporre una lettura filologica già fatta da altri, probabilmente con risultati migliori di quanto avremmo potuto ottenere noi. E proprio questo aspetto è stato apprezzato da tutti i musicisti che hanno collaborato con noi. Per me in particolare l’inizio dello studio del pianoforte ha coinciso con l’iniziare a scrivere musica. E nel corso degli anni, sia con InChanto che con altre formazioni, l’obbiettivo principale è rimasto sempre quello della scrittura. A proposito dell’etichetta folk-prog, ho visto che la avete utilizzata anche voi per descrivere la vostra musica e devo dire che purtroppo al giorno d’oggi molti artisti tendono invece a scartare la parola Progressive, come se portasse sfortuna… cosa ne pensate? C.G.: Le etichette non riescono mai a descrivere in modo completo un dato genere musicale. Quello del Progressive, in particolare, è stato un fenomeno talmente importante e variegato comprendendo rock, folk, jazz, musica classica che non può essere liquidato in poche parole né messo ai margini della storia della musica "moderna" (come alcuni vorrebbero fare). Certamente riproporlo oggi con le stesse modalità degli anni Settanta avrebbe poco senso (se non in un contesto di puro revival). Ma se l'intenzione è quella di coniugare generi diversi tra loro e andare oltre a quella che è la "forma" canzone con una scrittura composita e arrangiamenti più ricercati, non si può prescindere da esso. La nostra musica ha influenze folk e medievaleggianti ma non è solo musica folk o medievale, pone molta attenzione ai testi ma non è solo "musica d'autore", usa strumenti della tradizione irlandese, occitana od orientale ma non è solo musica celtica o world: quindi il termine "folk-progressive" è forse, in questo momento, è quello che riesce a descriverci meglio. Aiutateci ad individuare meglio alcuni dei riferimenti sparsi nella vostra musica: potete farci qualche nome preciso fra autori antichi e moderni? C.G.: Premetto che qualunque tipo di musica può rappresentare per noi uno stimolo. Nella musica antica abbiamo trovato spunti in Guillaume de Machault, nei Carmina Burana (in quello che rimane degli originali, non nella trascrizione di Orff), nelle Cantigas de Sancta Maria senza dimenticare Bach e Vivaldi. Tra i riferimenti moderni sicuramente ci sono i Chieftains, la musica bretone (Alan Stivell in testa), il folk anni “70 (Amazing Blondel, Lyonnesse, Pentangle, ecc..) per arrivare ai Jethro Tull, King Crimson, Gentle Giant e, perché no, i Led Zeppelin del loro terzo lavoro: un vero e proprio disco di folk rock. In particolare mi colpisce l’innesto della tradizione irlandese o di quella indiana, grazie soprattutto all’uso di strumenti come Uillean pipe, bodhran o tabla, come vi è venuta questa idea e come siete riusciti a fondere elementi così diversi per creare uno stile che invece è abbastanza unitario? M.S.: L’idea di coniugare strumenti diversi (sia come collocazione temporale che come latitudini) fa parte del “progetto InChanto” così come il riferimento a generi musicali diversi. Molti dei nostri brani nascono “intorno” ad un determinato strumento: le sonorità particolari di una ghironda o di un dulcimer (pur con i loro limiti) possono portare verso sviluppi completamente diversi da quello che può fare un pianoforte od una chitarra. Avendo a disposizione un grande numero di strumenti si moltiplicano le possibilità timbriche in nostro possesso tra cui scegliere la più funzionale. Se siamo riusciti nell’intento il merito è dello spirito critico con cui verifichiamo le soluzioni adottate, ma soprattutto del coinvolgimento di musicisti eccezionali che sono riusciti ad integrarsi benissimo con le poche indicazioni che gli abbiamo dato: ci tengo a sottolineare “musicisti”, in quanto la tecnica da sola spesso non basta se manca la “sensibilità” e l’umiltà di mettersi “al servizio” della musica. Il vostro sound è prevalentemente acustico, è una scelta precisa? Quanto è importante la scelta degli strumenti musicali nella creazione del vostro sound? C.G.: Nella nostra “evoluzione” abbiamo seguito un percorso opposto a molti musicisti operanti nel campo folk che partiti da un suono prettamente acustico, si sono indirizzati in seguito ad un suono più rock: basti pensare ad esempi illustri come Clannad o Loreena Mc Kennitt o gli stessi Chieftains all’estero o Lou Dalfin in Italia. Noi siamo partiti in trio con un uso molto esteso di tastiere e suoni campionati, uso che abbiamo ridotto nel tempo, introducendo strumenti che hanno assunto un ruolo sempre più da protagonisti. Questa rinuncia ha reso più “cameristico” il nostro sound, ma ci ha anche obbligato a curare con ancora maggiore attenzione gli accostamenti timbrici e gli arrangiamenti. E poi quella di sperimentare nuove sonorità e soluzioni non ortodosse con strumenti tradizionali è diventata una vera e propria sfida: gli effetti che si sentono nel CD (ad esempio l’acqua o il “sitar”) sono prodotti con strumenti acustici opportunamente processati mediante flanger, delay, vocoder e sono suoni che spesso ricreiamo anche dal vivo. Nel vostro curriculum ho visto diversi riconoscimenti all’estero, secondo voi perché il pubblico italiano non è colpito alla stessa maniera? M.S.: Il problema maggiore è la differenza di “educazione musicale”. In realtà anche il pubblico italiano resta molto colpito dalla nostra musica, da sonorità e strumenti con cui non viene spesso in contatto, ma la conoscenza e l’apertura mentale verso tutti i generi musicali è decisamente minore: troppo spesso la musica viene “usata” come sottofondo ad altre attività, non fruita con la dovuta attenzione come si fa con un libro o con un’opera d’arte. C.G.: All’estero abbiamo suonato in festival tenuti in cittadine di 50.000 abitanti con decine di concerti di ogni genere musicale che si svolgevano quasi in contemporanea in più punti della città. Il pubblico poteva ascoltare gruppi provenienti da ogni parte del mondo passando con disinvoltura dalla musica classica, al jazz, al folk. Da noi è difficile trovare situazioni del genere: si lesinano fondi che si disperdono in inutili lacci burocratici, si opera a compartimenti stagni ghettizzando i generi cosiddetti “di nicchia”, premiando quindi non tanto la proposta diversa, ma piuttosto quella più omologata. Una situazione di “diseducazione musicale” di cui si sono resi responsabili major discografiche, organizzatori, istituzioni e dove anche la scuola non assolve al suo ruolo educativo. Una conseguenza per noi grottesca è che troviamo grosse difficoltà per descrivere ciò che facciamo a chi è deputato a “gestire” gli eventi: dobbiamo cercare sempre delle etichette adeguate, ma se queste sono “troppo adeguate” rischiamo di confondere ancora più le idee. Nel vostro album sono intervenuti diversi ospiti, volete parlarci di come sono nate queste collaborazioni? M.S.:Con Ettore (Bonafè) ci siamo conosciuti alcuni anni fa in occasione della manifestazione Sentieri Acustici organizzata da Riccardo Tesi sull’Appennino pistoiese, invitandolo di lì a poco a suonare in alcune tracce di ”Città sottili”. In seguito ha suonato con noi dal vivo in alcuni spettacoli tra cui alcune rappresentazioni di “Le stanze di Ambra”, per cui è venuto naturale che partecipasse anche alla registrazione del CD. C.G.: Quella con Franco Fabbrini è un’amicizia di lunga data: abbiamo suonato insieme in una band di rock progressive (guarda caso) dove proponevamo brani nostri. In seguito abbiamo seguito strade diverse, pur ritrovandoci saltuariamente in progetti particolari, senza riuscire a conciliare i nostri reciproci impegni: finalmente in questa occasione ne siamo stati capaci. Con Paola Lambardi abbiamo ormai acquisito una grande intesa, frutto di numerose collaborazioni che abbiamo avuto nell’arco di circa quindici anni: rispetto allo spettacolo dal vivo, dove la parte recitativa è più estesa pur interagendo con la musica, sul disco abbiamo usato la recitazione in modo più sperimentale. M.S.: Con Massimo Giuntini ci conoscevamo (è proprio il caso dirlo) solo di vista, essendoci via via incrociati durante alcune manifestazioni musicali. Avendo individuato due brani dove la cornamusa (in particolare quella irlandese) sarebbe stata molto adatta per la sonorità che avevamo in mente, lo abbiamo contattato: si è dimostrato subito disponibile e speriamo di poter fare qualcosa insieme anche in concerto. Infine Michele Sanchini è un giovane violoncellista di estrazione prettamente classica, l’ultimo ad entrare nel novero dei nostri collaboratori. Cosa avete in programma per promuovere il vostro album, ma soprattutto state già pensando ad un nuovo lavoro? C.G.: Per promuovere l’album (oltre a internet, radio, stampa specializzata e quanto altro) vogliamo principalmente suonare dal vivo, in quanto quella live è la dimensione in cui ci sentiamo veramente realizzati. Per quanto riguarda lavori futuri, abbiamo diverse idee per le quali stiamo già mettendo da parte del materiale da elaborare. Un tema che ci affascina particolarmente, a cui stiamo pensando da tempo, è quello sui Tarocchi. Prima, tuttavia, vogliamo trovare la chiave di lettura giusta per iniziare a comporre in modo più organico, come avvenuto per “Le stanze di Ambra”, con l’intento di realizzare un lavoro ancora diverso da quanto fatto finora. Sempre, però, nel segno della continuità, con lo stile degli InChanto. Italian English